di Andrea Galgano
3 ottobre 2023
Le rune di George Mackay Brown
Tra le voci più potenti e originali del secondo Novecento, il poeta scozzese George Mackay Brown (1921-1996) di Orkney, patria e territorio della sua poesia, concentra il tumulto remoto e selvaggio della terra, con l’alternarsi di luce e ombra, in un tempo di scissione e vicinanza, di moto e silenzio. E poi di liturgia quotidiana e di luce perpetua che sembrano giungere da un solco antico, come dalle freschezze di Hopkins, dai moti vertiginosi di Dylan Thomas e dalle ispessite malinconie di Yeats[1]: «Avere inciso sulle giornate della nostra vanità / Un sole / Una nave / Una stella / Una spiga / Anche qualche segno / da un tempo antico, scordato / che un bimbo possa leggere / Che non lontano dalla pietra / un pozzo / si possa aprire per i viandanti / Ecco un lavoro per i poeti – / incidere le rune / poi accettare il silenzio».
Grazie alla casa editrice Interno Poesia, una selezione delle migliori liriche di Brown, dal titolo Incidere le rune[2], curato da Giorgia Sensi, con la prefazione di Kathleen Jamie, già responsabile dell’edizione inglese del 2021 e tradotta per la prima volta in italiano.
Il lavoro dei pescatori e dei contadini, il mondo primordiale di Stromness, la vaga indeterminatezza e originalità simbolica[3], il senso di limite, le stagioni e la tensione metafisica verso l’ultimità lontana trasformano «ogni cosa facendola passare attraverso la cruna d’ago delle Orcadi», come scrive Seamus Heaney.
Kathleen Jamie afferma:
«Il suo orecchio per la lingua era apparso evidente fin dall’inizio, ma nel corso degli anni impiegò e padroneggiò nuove forme poetiche, e approfondì i propri contenuti. La sua voce di scrittore è calda, ricca e drammatica. Non impiegò una ‘voce speciale’ per la poesia; lo stesso tessuto di suono è presente in tutto ciò che scrisse: romanzi, lettere, testi teatrali. Quanto alla poesia, scrisse ballate (amava le ballate scozzesi, le loro storie veloci, feudali, determinate dal fato); sonetti, come ‘Hamnavoe Market’. Aveva un orecchio perfetto per il ritmo del verso libero, eppure era capace di ideare i propri complessi schemi rimici. […] ‘Cantare’ è una parola che Brown usa spesso, ma ‘danzare’ potrebbe meglio descrivere il modo in cui utilizzava la lingua. Il suo ricco mondo lirico è una danza a più mani, nella quale è coinvolta un’intera comunità sonora; le sue poesie sono come danze popolari scozzesi o ‘ strathpeys’, dove nessuno è escluso».[4]
L’accessibilità essenziale non toglie l’acume metafisico della sua opera, laddove la poesia ha il compito di fare i conti con il Destino e il Tempo, il Caso e la Mortalità, che si intessono del dramma quotidiano, della brevità umbratile dell’essere e della costruzione del tempo.
La poesia di Brown è ricolma di un inseguimento di scena: guardare al tempio del reale, a chi semina, alle stelle e ai fuochi che scintillano. Nel suo drappo, la pagina si popola di temi e immagini che diventano universali, la cui traccia orcadica diviene come un sacramento di sogno ed eternità, lontananza ombrosa: «Non si mormori invano qui. / Tra quelle grosse scogliere rosse, / sotto quel grande cielo mite / resta l’ultimo incantesimo di Orkney, / segreta valle di luce. / Dolcezza che scende dalle nuvole, / canti dal mare impetuoso. / campi sconfinati, pescatori con aratri / e vecchi eroi, che dormono per sempre / nelle benevoli colline di Rackwick».
La sua enunciazione spazio-temporale, la penombra descrittiva, il ricordo, le pause di sentenza onirica raccontano il grido vagabondo e tellurico del cuore, che si concede come un bordo, un’esclamazione di prosa e un segno vivace e doloroso di silenzio: «Sotto l’ultima lampada spenta, / rientrati tutti i danzatori e le maschere, / il suo sguardo freddo / ha ripreso il suo vero compito, / interrogare il silenzio».
I volti della sua terra divengono linee universali, dove i segni del tempo, del dolore e della fatica compaiono come violini luminosi, allorquando il senso del limite e della finitudine, «il vento che infuria come ala d’angelo» in un peschereccio squarciato, la febbre umana sentono il peso di una oscillazione e di uno strappo:
«Finalmente, la casa d’inverno. Trovi / sul davanzale / un prezioso arabesco di ghiaccio, un fiocco di neve. / Apri una porta buia. Sbattuta dal vento, / una falena dorata! Poi / una fiamma di candela, alta e tranquilla. / È una casa amara. Sulla soglia / gli uccelli muoiono di fame. / L’insegna sopra la porta è sbiadita e contorta. / Dentro una camera, guarda / un ramo brullo, spinoso. / Aspetta. Si schiude una gemma: una rosa bianca. / Pensiamo, nel cuore della casa / una tavola è apparecchiata / con caraffa di vino e pane spezzato».
La sua sacra trama (o meglio, forse una co-creazione), dunque, che diviene elegia brunita della realtà, canto per gli amici e per la Scozia. Nel mondo distrutto dal calvinismo, la sua lode si riempie di luce solare[5]. Una poesia-marea, verrebbe da dire, in cui il respiro vitale non si dilegua. Esso è sì tragico ma è ritmo del sangue, acqua impregnata di attese e danza ininterrotta che cerca rifugio:
«Da Equinozio a Ognissanti, l’oscurità / cade come le foglie. / L’albero del sole è spoglio. / Sul telaio dell’inverno, le ombre / si raccolgono in un ordito; poi / la spola di Santa Lucia fa / una pausa; una trama scura / riempie il telaio. / Il buio ha la solidità della pietra / che sbarra una tomba. / Nessuna luce di stella là. / Poi inizia la vera cerimonia / del sole, quando l’ultima / fugace fiamma del solstizio / è ripresa da / una candela a mezzanotte. / I bimbi cantano sotto un lampione / stradale, le loro voci come / foglie di luce».
In questo canto che abbranca l’eternità come testimoniato dal fulgido esempio di san Magnus, patrono delle Orcadi, gli orli di George Mackay Brown rilasciano la loro esattezza trasparente, come un’avanguardia di incanto e di ansito remoto.
George Mackay Brown, Incidere le rune, a cura di Giorgia Sensi, prefazione di Kathleen Jamie, Interno Poesia, pp.164, Euro 15.
Light from the Orkneys: Edwin Muir and George Mackay Brown, Rt Rev Lord Harries of Pentregarth, (Public Lecture given at Gresham College, 5 February 2009).
Bold A., George Mackay Brown, The ‘Modern Writers’ Series, Barnes & Nobles 1978.
Brown G. M., Incidere le rune, a cura di Giorgia Sensi, prefazione di Kathleen Jamie, Interno Poesia, Latiano (Br) 2023.
Fumagalli L., “Incidere le rune”: le migliori poesie di George Mackay Brown finalmente tradotte in italiano, (https://www.radiospada.org/2023/09/novita-in-libreria-incidere-le-rune-le-migliori-poesie-di-george-mackay-brown-finalmente-tradotte-in-italiano/), 24 settembre 2023.
[1] Bold A., George Mackay Brown, The ‘Modern Writers’ Series, Barnes & Nobles 1978.
[2] Brown G. M., Incidere le rune, a cura di Giorgia Sensi, prefazione di Kathleen Jamie, Interno Poesia, Latiano (Br) 2023.
[3] Fumagalli L., “Incidere le rune”: le migliori poesie di George Mackay Brown finalmente tradotte in italiano, (https://www.radiospada.org/2023/09/novita-in-libreria-incidere-le-rune-le-migliori-poesie-di-george-mackay-brown-finalmente-tradotte-in-italiano/), 24 settembre 2023.
[4] Jamie K., Prefazione, in Brown G. M., cit., p.8.
[5] In Light from the Orkneys: Edwin Muir and George Mackay Brown, Rt Rev Lord Harries of Pentregarth, (Public Lecture given at Gresham College, 5 February 2009).