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La poesia di Kim Addonizio

Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella

Biografia

Kim Addonizio, nata il 31 luglio 1954 a Washington, D.C., ha conseguito la laurea e il master presso la San Francisco State University. Ha pubblicato numerose raccolte di poesie, tra cui “Exit Opera” (2024), “Now We’re Getting Somewhere” (2021) e “Tell Me” (2000), finalista al National Book Award. Tra le sue opere in prosa ci sono il memoir  “Bukowski in a Sundress” (2016), due romanzi e diverse guide alla scrittura.

Addonizio ha ricevuto borse di studio dal National Endowment for the Arts e dalla Guggenheim Foundation, oltre a numerosi Pushcart Prizes. Insegna corsi di poesia online e vive a Oakland, California.

 

 
New Year’s Day

The rain this morning falls
on the last of the snow

and will wash it away. I can smell
the grass again, and the torn leaves

being eased down into the mud.
The few loves I’ve been allowed

to keep are still sleeping
on the West Coast. Here in Virginia

I walk across the fields with only
a few young cows for company.

Big-boned and shy,
they are like girls I remember

from junior high, who never
spoke, who kept their heads

lowered and their arms crossed against
their new breasts. Those girls

are nearly forty now. Like me,
they must sometimes stand

at a window late at night, looking out
on a silent backyard, at one

rusting lawn chair and the sheer walls
of other people’s houses.

They must lie down some afternoons
and cry hard for whoever used

to make them happiest,
and wonder how their lives

have carried them
this far without ever once

explaining anything. I don’t know
why I’m walking out here

with my coat darkening
and my boots sinking in, coming up

 

with a mild sucking sound
I like to hear. I don’t care

where those girls are now.
Whatever they’ve made of it

they can have. Today I want
to resolve nothing.

I only want to walk
a little longer in the cold

blessing of the rain,
and lift my face to it.

 

 

Il Giorno di Capodanno

La pioggia questa mattina cade
sulla poltiglia della neve

e la spazzerà via. Riesco a sentire
l’odore dell’erba di nuovo, e le foglie logore
venir inghiottite dal fango.
I pochi amori che mi è stato concesso
di mantenere stanno ancora dormendo
sulla West Coast. Qui in Virginia

cammino attraverso i campi con soltanto
un paio di giovani mucche per compagnia.
Dall’ossatura robusta e timide,
sono come le ragazze che ricordo
dalla scuola media, che non
parlavano mai, che tenevano le teste

chine e le braccia conserte sui
loro nuovi seni. Quelle ragazze

hanno quasi quarant’anni oggi. Come me,
devono affacciarsi qualche volta

ad una finestra a notte inoltrata, di fronte
ad un giardino silenzioso, ad una

sedia a sdraio arrugginita e alle pareti diafane
delle case delle altre persone.
Devono distendersi qualche pomeriggio
e piangere a dirotto per coloro
che le resero felici,
e domandarsi come le loro vite
le abbiano portate
fino a quel punto senza mai
dare alcuna spiegazione. Non so
perché io stia camminando qui fuori

con il cappotto che si annerisce
e gli stivali che affondano, riemergendo

con un morbido suono da suzione
che mi piace ascoltare. Non mi importa

dove queste ragazze siano adesso.
Qualsiasi cosa abbiano fatto delle loro vite

possono tenersela. Oggi non voglio
risolvere niente.
Voglio solo camminare
un po’ più a lungo nella fredda

benedizione della pioggia,
e alzare il viso in su.

The Singing

There’s a bird crying outside, or maybe calling, anyway it goes on
and on
without stopping, so I begin to think it’s my bird, my insistent
I, I, I that today is so trapped by some nameless but still relentless
longing
that I can’t get any further than this, one note clicking
metronomically
in the afternoon silence, measuring out some possible melody
I can’t begin to learn. I could say it’s the bird of my loneliness
asking, as usual, for love, for more anyway than I have; I could as
easily call it
grief, ambition, knot of self that won’t untangle, fear of my own
heart. All
I can do is listen to the way it keeps on, as if it’s enough just to
launch a voice
against stillness, even a voice that says so little, that no one is
likely to answer
with anything but sorrow, and their own confusion. I, I, I, isn’t it
the sweetest
sound, the beautiful, arrogant ego refusing to disappear? I don’t
know
what I want, only that I’m desperate for it, that I can’t stop asking.
That when
the bird finally quiets I need to say it doesn’t, that all afternoon
I hear it, and into the evening; that even now, in the darkness, it
goes on.

 

 

Il canto

C’è un uccello che piange fuori, o forse grida, in ogni caso continua
incessante,
senza fermarsi, così inizio a pensare che sia il mio uccello, il mio insistente
io, io, io che oggi è talmente intrappolato da qualche desiderio senza nome
ma pur sempre irrefrenabile
che non riesco ad andare più avanti di così, una nota che ticchetta
in maniera metronomica
nel silenzio del pomeriggio, scandendo qualche possibile melodia
che non potrei mai imparare. Potrei dire che è l’uccello della mia solitudine
che chiede, come al solito, amore, o comunque più di quanto io ne abbia; Potrei
con altrettanta semplicità chiamarlo
dolore, ambizione, un nodo del sé che non si vuole sciogliere,  paura del mio
cuore. Tutto ciò
che posso fare è ascoltare il modo in cui persiste, come se bastasse
scagliare una voce
contro la quiete, anche solo una voce così flebile, a cui probabilmente
nessuno risponderà
con nient’altro che dolore e confusione. io, io, io, non è il
suono
più dolce, il bellissimo, arrogante ego che si rifiuta di scomparire? Non
so
cosa voglio, so solo che ne ho un bisogno disperato, e non riesco a smettere di chiederlo.
Che quando
l’uccello finalmente tace, devo convincermi che non sia vero, che per tutto il pomeriggio
io lo sento, e fino a sera; e anche adesso, nel buio,
persevera.

 

Blue Door

Today I passed the house
we rented last summer.
It was only a glimpse
as I drove by-
blue door,
adobe arch painted with flowers.
In memory
your dusty van is parked on the gravel
and you’re standing at the stove
while I curl
on the couch with a book,
pretending to read,
but secretly
watching you, loving
how you look-
intent on our meal,
on getting it right.
How clearly
I can see everything:
cars passing
on the road outside,
you, shirtless, leaning over
a cast-iron pot,
me holding a few useless
words in my hands.
Nothing I’ll say
will make you stay with me,
nothing erase how you’ll turn
toward me, offering the wooden spoon
so that I get up,
and come to you, and taste
that salt on my tongue.

 

Porta Blu

Oggi sono passata davanti alla casa
che affittammo la scorsa estate.
È stata solo un’occhiata
mentre guidavo –
porta blu,
arco d’argilla dipinto di fiori.
In ricordo
il tuo van impolverato è parcheggiato sulla ghiaia
e tu sei in piedi davanti al fornello
mentre io mi rannicchio
sul divano con un libro,
fingendo di leggere,
ma di nascosto
guardandoti, amo
il modo in cui sei
concentrato sul nostro pasto,
sul prepararlo bene.
Quanto chiaramente
riesco a vedere tutto:
le macchine che passano
sulla strada fuori,
tu, a petto nudo, chino su
una pentola in ghisa,
io che tengo qualche parola
inutile nelle mie mani.
Nulla di ciò che dirò
ti convincerà a restare con me,
nulla cancellerà il modo in cui ti volterai
verso di me, offrendomi il mestolo di legno
così che io mi alzi,
e venga da te, e assaggi
quel sale sulla mia lingua.

Near Heron Lake

During the night, horses passed close
to our parked van. Inside I woke cold
under the sleeping bag, hearing their heavy sway,
the gravel harsh under their hooves as they moved off
down the bank to the river. You slept on,
though maybe in your dream you felt them enter
our life just long enough to cause that slight
stirring, a small spasm in your limbs and then
a sigh so quiet, so close to being nothing
but the next breath, I could believe you never guessed
how those huge animals broke out of the dark and came
toward us. Or how afraid I was before I understood
what they were–only horses, not anything
that would hurt us. The next morning
I watched you at the edge of the river
washing your face, your bare chest beaded with bright water,
and knew how much we needed this,
the day ahead with its calm lake
we would swim in, naked, able to touch again.
You were so beautiful. And I thought
the marriage might never end.

Vicino a Heron Lake

Durante la notte, dei cavalli passarono vicino
al nostro van parcheggiato. Dentro mi svegliai infreddolita
sotto il sacco a pelo, sentendo la loro movenza pesante,
la ghiaia ruvida sotto i loro zoccoli mentre si spostano
lungo la sponda fino al fiume. Tu continuasti a dormire,
sebbene, forse, nel tuo sogno li sentisti irrompere nella
nostra vita giusto il tempo di provocare quella leggera
agitazione, un piccolo spasmo nei tuoi arti e poi
un sospiro così silenzioso, così vicino all’essere nient’
altro che il prossimo respiro, che credevo non avresti mai immaginato
come quegli enormi animali emersero dal buio e vennero
verso di noi. O quanto spaventata io fossi prima di capire
cosa fossero – soltanto dei cavalli, niente
che potesse ferirci. La mattina seguente
ti guardai alla riva del fiume
mentre ti lavavi il viso, il tuo petto nudo imperlato d’acqua lucente,
e capii quanto avevamo bisogno di tutto ciò,
il giorno dinanzi a noi, con il suo lago calmo
in cui avremmo nuotato, nudi, in grado di toccarci di nuovo.
Eri così bello. E pensai che il matrimonio non sarebbe mai finito.

 

 

La poesia di Aracelis Girmay

Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella

Aracelis Girmay Traduzioni

Aracelis Girmay Biografia

Aracelis Girmay è nata e cresciuta a Santa Ana, in California. Si è laureata al Connecticut College nel 1999 e ha poi conseguito un Master in scrittura creativa, specializzandosi in poesia alla New York University.
Girmay è autrice di Black Maria (BOA Editions, 2016), per il quale è stata finalista al Neustadt International Prize for Literature; Kingdom Animalia (BOA Editions, 2011), vincitore dell’Isabella Poetry Award e finalista al National Books Critics Circle Award; e Teeth (Curbstone Press, 2007), vincitore del GLCA New Writers Award.  Nel 2015 Girmay ha ricevuto un Whiting Award.
Girmay è anche l’autrice e la disegnatrice del libro illustrato, “changing, changing”(George Braziller, 2005). Con la sorella ha collaborato al libro illustrato “What Do You Know?” (Enchanted Lion, 2021). Ha ricevuto premi e borse di studio da Cave Canem, Civitella Ranieri, American Academy of Arts and Letters e National Endowment for the Arts. Attualmente è curatrice di Blessing the Boats Selections di BOA Editions e fa parte del comitato editoriale dell’African Poetry Book Fund. Girmay vive a New York.

 

 Kingdom Animalia

When I get the call about my brother,

I’m on a stopped train leaving town

& the news packs into me—freight—

though it’s him on the other end

now, saying finefine

 

Forfeit my eyes, I want to turn away

from the hair on the floor of his house

& how it got there Monday,

but my one heart falls

like a sad, fat persimmon

dropped by the hand of the Turczyn’s old tree.

 

I want to sleep. I do not want to sleep. See,

 

one day, not today, not now, we will be gone

from this earth where we know the gladiolas.

My brother, this noise,

some love [you] I loved

with all my brain, & breath,

will be gone; I’ve been told, today, to consider this

as I ride the long tracks out & dream so good

 

I see a plant in the window of the house

my brother shares with his love, their shoes. & there

he is, asleep in bed

with this same woman whose long skin

covers all of her bones, in a city called Oakland,

& their dreams hang above them

a little like a chandelier, & their teeth

flash in the night, oh, body.

 

Oh, body, be held now by whom you love.

Whole years will be spent, underneath these impossible stars,

when dirt’s the only animal who will sleep with you

& touch you with

its mouth.

 

 

 

Kingdom Animalia

Quando ricevo la chiamata su mio fratello,
sono su un treno fermo che sta lasciando la città
& la notizia mi ingombra –fardello–
sebbene ci sia lui all’altro capo del telefono
adesso, a dirmi sto bene sto bene

Rinuncio ai miei occhi, voglio voltarmi
dai capelli sul pavimento di casa sua
& da come siano arrivati lì lunedì,
ma il mio unico cuore cede
come un caco, triste e pieno
caduto dalla mano del vecchio albero dei Turczyn.

Voglio dormire. Non voglio dormire. Vedi,

un giorno, non oggi, non ora, scompariremo da questa terra
in cui conosciamo i gladioli.
Fratello mio, questo rumore,
qualche amore [tu] che amai
con tutto il mio cervello, & respiro,
scomparirà; mi è stato detto, oggi, di tenerlo in considerazione
mentre percorro i lunghi binari & sogno così bene.

vedo una pianta sulla finestra della casa
che mio fratello condivide con il suo amore, le loro scarpe. & eccolo
lì, addormentato nel letto
con questa stessa donna la cui lunga pelle
copre tutte le ossa, in una città chiamata Oakland,
& i loro sogni pendono su di loro
un po’ come una lumiera, & i loro denti
balenano nella notte, oh, corpo.

Oh, corpo, fatti stringere adesso da chi ami.
Anni interi passeranno, sotto queste
stelle impossibili,

quando la terra sarà l’unico animale che dormirà con te
& ti toccherà con
la sua bocca.

 

I Am Not Ready To Die Yet
aftrer Joy Harjo

I am not ready to die yet: magnolia tree
going wild outside my kitchen window
& the dog needs a house, &, by the way,
I just met you, my sisters & I
have things to do, & I need
to talk on the phone with my brother. Plant a tree.
& all the things I said I’d get better at.
In other words, I am not ready to die yet
because didn’t we say we’d have a picnic
the first hot day, I mean,
the first really, really hot day?
Taqueria. & swim, kin,
& mussel & friend, don’t you go, go, no.
Today we saw the dead bird, & stopped for it.
& the airplanes glided above us. & the wind
lifted the dead bird’s feathers.
I am not ready to die yet.
I want to live longer knowing that wind
still moves a dead bird’s feathers.
Wind doesn’t move over & say That thing
can’t fly. Don’t go there. It’s dead.
No, it just blows & blows lifting
what it can. I am not ready
to die yet. No.
I want to live longer.
I want to love you longer, say it again,
I want to love you longer
& sing that song
again. & get pummeled by the sea
& come up breathing & hot sun
& those walks & those kids
& hard laugh, clap your hands.
I am not ready to die yet.
Give me more dreams. To taste the fig.
To hear the coyote, closer.
I am not ready to die yet.
But when I go, I’ll go knowing
there will be a next time. I want
to be like the cactus fields
I drove through in Arizona.
If I am a cactus, be the cactus
I grow next to, arms up,
every day, let me face you,
every day of my cactus life.
& when I go or you go,
let me see you again somewhere,
or you see me.

Isn’t that you, old friend, my love?
you might say, while swimming in some ocean
to the small fish at your ankle.
Or, Weren’t you my sister once?
I might say to the sad, brown dog who follows me down
the street. Or to the small boy
or old woman or horse eye
or to the tree. I know I knew I know you, too.
I’m saying, could this be what makes me stop
in front of that dogwood, train whistle, those curtains
blowing in that window. See now,
there go some eyes you knew once
riding the legs of another animal,
wearing its blue sky, magnolia,
wearing its bear or fine
or wolf-wolf suit, see,
somewhere in the night a mouth is singing
You remind me You remind me
& the heart flips over in the dusky sea of its chest
like a fish signaling Yes, yes it was me!
& yes, it was, & you were there, & are here now,
yes, honey, yes hive, yes I will, Jack,
see you again, even if it’s a lie, don’t
let me know, not yet, not ever, I need to think
I’ll see you, oh,
see you
again.

 

Non Sono Ancora Pronta Per Morire
da Joy Harjo

Non sono ancora pronta per morire: albero di magnolia
si infervora fuori dalla finestra della mia cucina
& al cane serve una casa, &, comunque,
ti ho appena incontrato, le mie sorelle & io
abbiamo cose da fare, & devo parlare al telefono con mio fratello. Piantare un albero.
& tutte le  cose in cui ho detto che sarei migliorata.

In altre parole, non sono ancora pronta per morire
perché non avevamo detto che avremmo fatto un picnic
il primo giorno di caldo, cioè,
il primo giorno, veramente, veramente caldo?
Taqueria. & nuotare, famiglia,
& cozza & amico, non andartene, vai, no.

Oggi abbiamo visto l’uccello morto, & ci siamo fermati.
& gli aeroplani planavano sopra di noi. & il vento
levava le piume dell’uccello morto.

Non sono ancora pronta per morire.
Voglio vivere più a lungo sapendo che il vento
muova ancora le piume di un uccello morto.
Il vento non si scosta & dice Quella cosa
non può volare. Non andare là. È morta
.
No, soffia e basta & soffia sollevando
ciò che può. Non sono ancora pronta
per morire. No.

Voglio vivere più a lungo.
Voglio amarti più a lungo, dirlo di nuovo,
Voglio amarti più a lungo
& cantare quella canzone
di nuovo. & essere scossa dal mare
& riemergere respirando & sole caldo
& quelle passeggiate, & quei ragazzini
& risata forte, batti le mani.
Non sono ancora pronta per morire.

Dammi più sogni. Per assaporare il fico.
Per sentire il coiote, più vicino.
Non sono ancora pronta per morire.
Ma quando me ne andrò, me andrò sapendo
che ci sarà una prossima volta. Voglio

essere come le distese di cactus
attraverso le quali guidavo in Arizona.
Se sono un cactus, sii il cactus
che mi cresce accanto, a braccia in su,
ogni giorno, lasciati guardare,
ogni giorno della mia vita da cactus.

& quando me ne vado o te ne vai,
lascia che io ti veda di nuovo da qualche parte,
o che tu veda me.

 

Non sei tu, vecchio amico, amore mio?
potresti dire, mentre nuoti in qualche oceano
al pesciolino alla tua caviglia.
Oppure, non eri mia sorella una volta?
potrei dire al cane marrone e triste che mi segue
lungo la strada.  O al bambino
o alla donna anziana o all’occhio del cavallo
o all’albero. So che sapevo di conoscerti, anch’io.
Voglio dire, potrebbe essere questo che mi fa fermare
di fronte a quella sanguinella, a quel fischio del treno, a quelle tende
che svolazzano in quella finestra. Guarda adesso,
ecco alcuni occhi che conoscevi un tempo
cavalcano le gambe  di un altro animale,
vestendo il suo cielo blu, magnolia,
indossando il suo abito da orso
o da lupo o elegante, vedi,
da qualche parte nella notte una bocca sta cantando
Tu mi ricordi di Tu mi ricordi di
& il cuore fa un salto mortale nel mare oscuro del suo petto
come un pesce che segnala Sì, sì ero io!
& sì, eri tu, & tu eri lì, & ora sei qui,
sì, tesoro, un covo di sì, sì Jack,
ti vedrò di nuovo, anche se fosse una bugia, non
dirmelo, non ancora, né mai, devo pensare
che ti rivedrò, oh,
ti vedrò
ancora.

 

[When I come home they rush to me, the flies]

When I come home they rush to me, the flies, & would take me, they would take me in their small arms if I were smaller, so fly this way, that way in joy, they welcome me. They kiss my face one two, they say, Come in, come in. Sit at this table. Sit. They hold one hand inside the other & say, Eat. They share the food, sit close to me, sit. As I chew they touch my hair, they touch their hands to my crumbs, joining me. The rim of my cup on which they perch. The milky lake above which. They ask for a story: How does it begin? Before, I was a child, & so on. My story goes on too long. I only want to look into their faces. The old one sits still, I sit with it, but the others busy themselves now with work & after the hour which maybe to them is a week, a month, I sleep in the room between the open window & the kitchen, dreaming though I were the Sierra, though I were their long lost sister, they understand that when I wake I will have to go. One helps me with my coat, another rides my shoulder to the train. Come with me, come, I say. No, no, it says, & waits with me there the rest whistling, touching my hair, though maybe these are its last seconds on earth in the light in the air is this love, though it is little, my errand, & for so little I left my house again.

[Quando rincaso si avventano su di me, le mosche]

Quando rincaso si avventano su di me, le mosche, &  mi prenderebbero, mi prenderebbero tra le loro piccole braccia se fossi più piccola, dunque volano di qua, di là con gioia, mi accolgono. Mi baciano in viso una due, dicono, Accomodati, accomodati. Siediti a questo tavolo. Siediti. Tengono una mano nell’altra & dicono, Mangia. Condividono il cibo, siedono vicino a me, siedono.  Mentre mastico mi toccano i capelli, toccano con le  mani le mie briciole, unendosi a me . Il bordo della mia tazza su cui si posano. Il lago lattescente sul quale. Chiedono una storia: Come inizia? Prima, ero una bambina, & così via. La mia storia va avanti troppo a lungo. Voglio solo guardarle in faccia. Quella anziana siede inerte, io siedo con lei, ma le altre adesso si dedicano al lavoro & dopo l’ora che forse per loro è una settimana, un mese, dormo nella stanza tra la finestra aperta & la cucina, sognando di essere la Sierra, di essere la loro sorella perduta da tempo, capiscono che quando mi sveglio dovrò andare via. Una mi aiuta con il cappotto, un’ altra poggia sulla mia spalla fino al treno. Vieni con me, vieni, io dico. No, no, dice, & aspetta lì con me le altre fischiettando, toccandomi i capelli, anche se forse questi sono i suoi ultimi secondi sulla terra nella luce nell’aria è forse questo amore, sebbene piccolo, il mio incarico, & per così poco sono uscita di casa di nuovo.
 

Il viaggio inciso di Charles Wright

di Andrea Galgano                                         5 febbraio 2014

poesia contemporanea Il viaggio inciso di Charles Wright

charles-wright

La poesia di Charles Wright (1935), è una immersione nell’esperienza totale. Nato nel Tennessee, dopo aver studiato nell’Iowa e insegnato nella California, oggi insegna a Charlottesville, in Virginia. Vincitore di premi prestigiosi, come il Ruth Lily Poetry Prize o nel 1998 del Premio Pulitzer per la poesia nel 1998, è anche noto traduttore di Montale e Campana e inseguitore dei crocevia danteschi.

Nella visionarietà torrenziale ed ulteriore si trova la traccia potente e dolce del suo slargo, in cui alla solida poesia statunitense di Whitman, Dickinson, Wallace Stevens o Pound, si accompagna una sua peculiare intensità epifanica, fradicia di talento e immagine: «le nostre preghiere – come vestiti, come scaglie di cenere – che prendono il volo senza di noi / in un sempiterno, / che continua senza di noi, / azzurro dentro azzurro dentro azzurro – / le nostre preghiere, come schegge di vetro esauste d’acqua, / vorticanti nella risacca, levigate e indistruttibili e lucenti, / le nostre vite un graffio nel cielo, indolori, impossibili da rievocare» (Vita negativa).

Commenta padre Antonio Spadaro: «Poeta di epifania spirituale, Wright è poeta legato, sia per immagini sia per atteggiamenti interiori, ai paesaggi rurali o comunque connessi alla natura selvaggia. Sembra così accostare implicitamente le foreste indiane alla selva oscura dantesca con echi e rimandi di grande intensità alla ricerca di una via».

La via aurale e concepita scommette invocazioni, apre schemi essenziali come scrittoi stellati e insolubili: «Inizio di novembre nell’anima, / Pioggia forte e oro scuro / dagli alberi, luce obliqua / del pomeriggio inoltrato e greve peso sul cuore. / Come sempre svigorito e spento. / Sessantaduenne, voce incolta, incline alla notte, / sono in piedi e tranquillo sul vialetto vuoto. / Sblocca il mio habitat, luce stellare, fammi insolubile».

La contemplazione del divino scardina nuove sorprese, in cui l’architettura intensa e perfetta dei versi forgia le sue forme in una coincidenza ultima, in una estremità di viaggio peregrino, teso alla redenzione, come un diagramma che si estende fino all’anima: «E qui, dove il cigno mugola nel suo incavo, dove la sanguinaria / e la belladonna insistono a confortarci […] come una goccia di limpido olio il Guaritore ruota nel vento della notte».

Pertanto già nei suoi primi testi, come Bloodlines (1975) e China Trace (1977), come afferma Antonella Francini, «si trovano già definiti gli inconfondibili tratti della sua scrittura dal taglio fortemente autobiografico (aneddotico, appunto), affidata ad una lingua icastica, netta, che sembra incidere la pagina. Vi si trovano già la struttura del viaggio, la figura di un alter ego in cammino verso un’elusiva e improbabile spiritualità, cosciente dei propri limiti conoscitivi; il tema dei morti chiamati in causa come ispirazione e monito per chi vive, metafora estrema dell’inconoscibile, presenza eterna nella continua rigenerazione del mondo di cui tutta la poesia di Wright è un altissimo canto; la percezione di un io inquieto che continua a interrogarsi sul suo viaggiare («E dove ci porta, pellegrino, / questo andare avanti e indietro sulla terra, sapendo / che niente cambia, o tutto; / e, per raccontarlo,  solo questi tristi segni, / frasi analizzate a metà, ellissi e fregi sul terreno?»); il ruolo fondamentale del paesaggio che freme di invisibili presenze metafisiche epifanie; la struttura geometrica, infine, a chiudere il tutto».

I suoi lampi di memoria costeggiano la dimensione terrena, inseguendo redenzioni e impronte salve, rigenerando la superficie del mondo, in una geometrica compiutezza che richiama patrie e risurrezioni («Se noi, come siamo, siamo polvere, e la polvere, com’è certo, risorge» o ancora «allora risorgeremo, e ci raduneremo / nel vento, nella nuvola, e saremo il loro effluvio, / una cascata di cose nella cascata del mondo, e scivoleremo / fra i rami puntuti e le giunture schiantate dei sempreverdi»): «Le foglie mi cadono dalle dita. / Fiori di mais si spargono sui campi come stelle, / come stelle di fumo, / presso i binari del treno, le foglie turbinano / sotto le nuvole lente / e i nove gradini ai cieli, / la luce cade a grandi lenzuoli fra gli alberi, / lenzuoli quasi veri. / Penso che la trasfigurazione comincerà così, / fiato mozzato, / lama veloce tra gli alberi, / qualcosa di rosso che mi cade dalle mani, / l’aria che si raffredda … / E allora / uscirò da questo corpo stanco, un nodo sanguigno di luce, / pronto ad accogliere in me il buio. / – O per l’arrivo del vento / che, osso dopo osso, mi trasporterà per il cielo, / la sua ostia un’ustione sulla mia lingua, / il suo vino oblio profondo».

Le presenze invisibili abitano il presente nel loro sipario mitico, il ricordo effonde il suo richiamo di spazi fragili e potenti, si assiste, persino, all’interrogazione sul destino ultimo dei cieli, alla popolosa partecipazione dell’essere («Che c’entri tu, anima mia, col Paradiso?») e alla domanda di folgore che incanta e poi scompare, per scrivere poesia «su Dio o sull’uomo – e credo che esistano poche altre categorie – il solco da lui tracciato ci precede. Non ci resta altro che seguirlo».

«Wright», ha scritto sul “Corriere della Sera”, Sergio Perosa il 19 luglio 2001, «gioca superbamente con ciò che resta e non resta, ci elude e ci afferra, ci incanta e scompare; è un metafisico del cuore e del quotidiano, con voce cristallina»: «Lentamente una foglia si sgancia da un ramo. / Lentamente le mani velate dei morti svolazzano dai loro antri. / Una fiammella rosata è estinta nella mia bocca».

L’ombra che si staglia e affossa ritardi, pregna di immagini care, estremità correlata, nascosta realtà trascendente che sistema le presenze e le assenze in un messaggio partecipe e invisibile. Non si allontana mai dal vissuto la sua frequentazione di dolore e gioia, come una persistente iconografica che disegna viaggi nel mondo, raggiunge l’indaco sidereo delle costellazioni, si dissolve nelle tappe dell’io proteso all’infinito: «Come sempre il silenzio avrà l’ultima parola, / e Venezia s’adagerà come seta / sul bordo del mare e del cielo notturno, / albeggiante di luna. / Si vive tutti la stessa vita / se si vive abbastanza».

Ma c’è sempre un andirivieni di alterità non toccate, nei lividi verdi, nelle promesse alle finestre, nelle sopravvivenze ripetute per sempre: «Ho parlato d’una una cosa sola per trent’anni, / l’ho detta e ripetuta, / vento come grossi pali fra gli alberi – / voglio dire il piccolo punto immobile nel punto dove tutte le cose si incontrano; / voglio dire la forma che muove il  sole e le altre stelle».

Nelle sue trilogie, il passo del tempo è una sfaldatura di suono, una scatola che contiene punti nascosti ed emersi che percorre la volta delle cose in una viva e sperata estremità: «L’Orsa Maggiore mi ha seguito ogni giorno della mia vita. / Sotto le sue stelle di latta ilo mio passato è arrivato e partito. / Stanotte, nello smalto d’aprile / e negli intagli eburnei del cielo, / mi benedice ancora una volta / con la sua acqua nera, e mi spinge avanti».

Venezia, Verona, il Tennessee o gli Appalachi impongono percorse immersioni attonite, dialogo serrato con i trapassi, respinti dai limiti, ma uniscono distanze reali e ideali «verso un’agognata quanto elusiva epifania spirituale dell’autobiografico protagonista e narratore che instancabilmente rivisita i luoghi che sente legati a intense emozioni e rivelazioni, e pertanto, a lui “sacri”».

Il paesaggio, la lingua, l’idea del divino coordinano il suo azzardo imprevedibile, la frontiera delle cose perdute e ritrovate, come le pietre nere e rare degli episodi, della mitologia e dei segreti.

Il paesaggio, «risurrezione della parola», raccoglie il ciclo delle stagioni, il vetro segreto degli anni, le rive altre dei fiumi che amano giocare nelle foglie quando il crepuscolo raggruma di ombre l’aria e l’argenteo alfabeto del mare: «è di legami che sto parlando, / di armonie e strutture / e di tutte le cose che serrano i nostri polsi al passato. / Qualcosa d’infinito appare oltre ogni cosa, / e poi scompare. / è solo questione di come / si restringono le superfici. / è solo questione del nostro posto nel cielo».

La natura si accende, proclama i suoi chiarori lunari, tinteggia i meriggi e scoperchia le notti assorte, per raggiungere il remoto avamposto dell’io, immerso in un lembo remoto: «Immagino sempre una bocca / dentro di me che comincia a aprire / le sue labbra blu, un braccio / che s’incurva triste su una finestra aperta / la sera, e rospi che balzano nell’erba umida. / Di nuovo il silenzio dei fiori. / Di nuovo le flebili note di musica di piano là nei boschi / Come riempie facilmente la stanza l’estate».

La comparsa e disparizione delle cose non concedono un terrificante progetto di nulla, ma conoscono il chiaroscuro delle autobiografie, in cui il paesaggio non è cornice, ma bagliore innamorato, solco di vento, segno di lingua addosso che si appropria di blues, contry, jazz e gospel: «Tutto è più essenziale nella luce del nord, cavalli / distesi sul prato secco, / nuvole in fila come carri di pionieri / sul bordo sinistro dell’orizzonte, / forbici di rondini si tuffano ad angelo, / bip d’api e cantilena di mosche, Dio con l’orecchio buono / al suolo. / Tutto è più intenso, il vento / ristagna quasi invisibile tra i larici, / linfa dorata sull’ombrello del pino, / un mosaico bizantino / dentro la cupola del giorno, / caratteri cuneiformi sfumati sul fondo della foresta. / Tutto sembra immediato, / come schegge del divino / d’improvviso screziate sulla punta delle nostre dita, / conoscenza proibita dell’oltre ciò che possiamo appena / decifrare, / fili d’erba inclini ad abbagliare e piegarsi, / acque mnemoniche, picchi, uccelli del crepuscolo».

La caccia e l’inseguimento a Dio che compie Charles Wright è un abbaglio scomparso che ogni volta, prepotentemente, torna a galla per accarezzare il limite e attendere trasmutazioni «dalla prospettiva di un monaco nella sua cella»: «Cammino nel freddo della notte d’autunno pieno / come Orfeo, / pensando il mio canto, ansioso di voltarmi, / la mia vita svanita un ornamento, una / nuvola alla deriva dietro di me, / dolce trascendenza di cenere / sepolta e risorta una volta, e poi ancora / e ancora …».

Antonella Francini scrive che: « […] Il paesaggio e la lingua sono il negativo del trascendente, come il passato lo è del presente. La poesia metafisica di Wright lavora nello scarto minimo tra il visibile e il buio, in una zona di crepuscolo che prelude all’inevitabile sconfitta della luce e del poeta affinchè un nuovo viaggio inizi e la mappa dell’anima continui ad estendersi entro le sue geometriche strutture come, secondo un’immagine cara a Wright, una ragnatela sempre più ampia concentrica alla sua origine»: «Sotto i peschi, gli ideogrammi che le foglie gettano / sull’erba acconciata dal sole dicono / purgatio, illuminatio, contemplatio, / parole còlte in una luce dolce e duratura, / al contrario di quella dove conducono, / la cui vista ci fa colare a picco e incolti come campi abbandonati».

Il suono scrive e cerca la sua redenzione, come quando risuona il fiume «E siamo ancora qui fuori immobili a guardare lassù, a guardare lassù i cieli pensando» (Sky Diving). Il paesaggio è lì, tramato nelle percezioni memoriali, negli sconquassi dei fatti minimi, nei confini di vetro istoriato che affresca il suo tempo mitico, in una traccia visibile che sfiora l’invisibile tempo «nel punto in cui tutte le cose s’incontrano»: «La raffica di pioggia si è bloccata di schianto, / ciondolano seducenti le fronde della palma. / La vita, come si dice, è bella».

L’estensione dell’io, come la sua contrazione e la sua sfrangiatura, accerchia la sua domanda elementare, spinta verso l’alto e indomita nei suoi chiari abissi di vertice ascendente: «Cosa c’è per noi d’imperturbabile nelle stelle? / Quale impulso, quale bassa marea / ci attrae lassù come vertigine / quale / inversione di quota ci spinge verso i loro abissi chiari? […] Chi dirà che il respiro d’un angelo non m’ha sfiorato l’orecchio?».

La sua «dolce trascendenza di cenere» ammanta i suoi punti inafferrabili ma toccabili, come ricami in filigrana, sospesi tra le stelle e i loro vortici. Il tempo è inviolato, la coltre è una luce accesa: «C’è un’ultima solitudine dove non sono ancora giunto, / la stanchezza come polvere in gola. / Ma fremo dentro il suo contorno, / e mi sento al sicuro, mentre le stelle traboccano, per una notte ancora / come un viandante medievale affrescato con in mano il suo poema, / intorno sempre i cieli. / E come lui, qualcosa di rosso e inviolato sotto i miei piedi».

 

Wright C., Crepuscolo americano e altre poesie (1980-2000), Jaca Book, Milano 2001.

Id., Breve storia dell’ombra, Crocetti, Milano 2006.

Spadaro A., Nuova poesia degli Stati Uniti, in «La Civiltà Cattolica», II, 3767, 2007, ora in Id., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013. 

Walt Whitman e la fecondità dell’essere

di Andrea Galgano                                         20 novembre 2013

Poesia moderna Walt Whitman e la fecondità dell’essere

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H.D. Thoreau scrisse che Walt Whitman (1819-1892) «con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni», e in questa visionaria tessitura si può scorgere come Whitman, con il suo Foglie d’erba, rappresenti il crinale estremo di un canone che racchiude un popolo in un poema, lo accarezza nelle linee storiche e, infine, lo pronuncia: «Gli americani, di tutti i popoli che sono mai apparsi su questa terra, possiedono forse la natura poetica più piena. Gli Stati Uniti in sé, nella loro essenza, sono il più grande dei poemi. […] Qui finalmente troviamo nell’umano operare qualcosa che risponde all’operare maestoso del giorno e della notte».

La voce di Whitman non si nasconde nella prosopopea retorica, bensì, nelle sfumature profonde, insegue la sua freschezza vitale, come «i poeti del cosmo» che «avanzano attraverso tutte le interferenze, gli occultamenti, i turbamenti e gli stratagemmi verso i primi principi».

La celebrazione scolpita, come forza e abbandono, della materia vivente, l’aspetto numinoso della realtà e la sospensione rappresentano il suo territorio unico, laddove «qualunque possa essere stato nel passato, il vero uso della immaginazione nei tempi moderni è quello che vivifica i fatti, la scienza e la vita comune, dotandoli di quello splendore, quella gloria e quella fama che appartengono a ogni cosa reale, soltanto alle cose reali. Senza questa definitiva vivificazione – che solo il poeta o l’artista può mettere in atto – la realtà sembrerebbe incompleta,e la scienza, la democrazia, la vita stessa alla fine, cosa vana».

Se il suo canto si sofferma sull’abbandono alle forme di «cameratismo», «allegria», «soddisfazione», «speranza», la furiosa scultura del vivente e la calura del suo magma introducono, come scrive Giuseppe Conte: «la pulsante istantaneità della vita nella poesia e nel verso. Il vivo del Tempo, l’immanenza, ciò che di misterioso e palpabile lega l’io all’universo. Se esiste una poesia inafferrabile, del puro presente, quella di Whitman è la migliore del genere».

Nato in un villaggio di Long Island nel 1819, tipografo, carpentiere, giornalista, Whitman ha assaggiato le grandi masse democratiche dell’America, come un grande fiume che trascina forze commiste, nei giorni in cui stava diventando una grande Nazione, da New Orleans a Chicago, fino a New York, passando per il Mississippi, i Grandi Laghi e il fiume Hudson, in un’estatica virulenza fiduciosa, nelle forze dell’uomo, nel canto-bardo universale, come «Adamo nel primo mattino, che usciva di sotto il riparo di fronde, ristorato dal sonno» (Figli d’Adamo).

La felice brillantezza del mattino dell’umano impone la sua purezza senza peccato, racchiude il gemito e l’ardimento di una imprescindibilità valoriale, assoluta e primigenia: «Io dico che l’intera terra e le stelle universe nel cielo esistono per la religione. / Dico che nessun uomo è mai stato abbastanza devoto, neppure la metà del necessario».

È la religione che permette l’unione inclusiva e fulgida dello sforzo umano, nell’ Amore e nella Democrazia: «Noi non consideriamo divine le bibbie e le religioni – e io non dico che non siano divine, / Ma dico che sono nate da voi, e da voi altre volte possono nascere ancora».

La lettura del Vecchio e del Nuovo Testamento, come analizzato acutamente da G.W. Allen, di Shakespeare, di Omero, di Eschilo, del Canto dei Nibelunghi, hanno innalzato il pinnacolo della poesia stuporosa e ampia dell’uomo e del suo definitivo istante, come afferma David Herbert Lawrence: «Senza principio né fine, senza né base né frontone, continua a passar vicino superbamente, come un vento che trascorre senza posa né si può incatenare. Whitman in realtà guardava al prima e al dopo: ma non sospirava per ciò che non è. La chiave di tutto il suo segreto espressivo sta nella stima del momento istantaneo e nient’altro, della vita che si gonfia essa medesima in espressione alla sua reale sorgente».

La feconda prosodia partecipa alla elencazione scandita del mondo. Le novità della scrittura rinomina il mondo in un nuovo parto di energia originaria, come ritmo e pazienza di splendore.  

La poesia è l’Evento del destino, in cui la complicanza, grezza ed entusiasta del suo ritmo panteistico e democratico, apre la sua recitazione.

G.K. Chesterton, soffermandosi sulla «materia per poetare misticamente» che valorizza l’umano in Whitman, in L’umanesimo è una religione? scrive: «Ciò che apprezzavo era quella proposta di una nuova eguaglianza, che non consisteva in uno squallido livellamento, ma in un entusiastico guardare in alto; un grido di gioia sul semplice fatto che gli uomini erano uomini. […] ognuno di essi possedeva quella maestà e quella mistica propria degli dei, pur essendo nello stesso tempo franco e confortante amico», e continuando afferma che «La gloria apparteneva agli uomini in quanto tali; il culto comune andava cercato nell’amicizia e anche la persona meno importante deve poter far parte di questa fratellanza; un negro gobbo mezzo scemo, orbo da un occhio e con tendenze omicide, deve anche lui avere la sua aureola dorata e illuminata».

La poesia che abbraccia, esonda, diviene coraggiosa, che guarda alla gente comune, all’interezza di un popolo, fatta di falegnami, boscaioli, calzolai, diviene immagini di un grido barbarico fresco e spontaneo: «Io canto il sé, la semplice singola persona, / E tuttavia pronuncio la parola Democratico, la parola En masse».

Commenta Giuseppe Conte: «C’è un che di fluido, organico, tempestoso, innocente, progettante, esclamativo in lui, un’enfasi, una volontà predicatoria, un pioneristico respiro vitale, una corporeità selvatica che fonda una saldissima, idealistica fede nella democrazia, una visione attiva del mondo e del linguaggio, […] la poesia di Whitman si pone da un lato come forza eversiva, energia che libera energie, pratica che scardina il conformismo di ogni ordine, dall’altro come canto che celebra, glorifica il presente, la realtà nei suoi aspetti ora minimi, un filo d’erba che nasce, ora solenni, un eroe che cade».

È nel popolo che la Musa trova dimora, il luogo oltre tempo dove esaltare la presentificazione del reale e radicarla in esso, parlando a chiunque: «Ecco, io ti presento, qui oggi, o Musa, / Le occupazioni tutte, i doveri grandi e modesti, / Il lavoro, il sano lavoro e il sudore infiniti, incessanti».

La semplicità gioiosa si affaccia allo spirito del Paese, per «esprimersi letterariamente con la perfetta rettitudine e insouciance dei movimenti degli animali e l’incontestabilità del sentimento degli alberi nei boschi e dell’erba ai margini delle strade».

Ecco la vastità dell’io che tocca il mondo, la sua avventura, la sua dilatazione ricettiva: «Dentro me le latitudini si ampliano, le longitudini si allungano», per essere «Una snella nave che gonfia le vele, piena di ricche parole, piena di gioie» e dove inalare, aspirare con avidità «lunghi sorsi di spazio, / l’est e l’ovest sono miei e il nord e il sud sono miei, / Più grande, migliore son io di quello che pensassi, / Io non sapevo di avere in me tanta bontà. / Tutto mi sembra bello».

La fulgida corrispondenza tra corpo e io, nazione a terra, compone il suo gemito: «Fate che possa contenere tutti i suoni (io grido come un folle) / Riempitemi di tutte le voci dell’universo, / datemi i loro palpiti, anche quelli della Natura, / E le tempeste, le acque, i venti, le opere e i cori, le marce e le danze, / Cantateli, versateli in me, perché io tutto vorrei contenere».

Commenta padre Antonio Spadaro: «Le visioni whitmaniane mai si fermano ad una tensione visiva astratta o vagamente fantasiosa perché il poeta si fa subito veggente del concreto e del reale. Dunque lo appassionano non solo la natura, i suoi campi aperti, le tempeste, le montagne e il mare, ma anche «l’opera dell’uomo» che ”è egualmente grande nell’artificiale – in questa profusione di brulicante umanità – in queste prove di ingegnosità, strade, merci, case, navi – queste frettolose, febbrili, elettriche, masse d’uomini”».

L’ebrietudine della pienezza soffia sulle strade, sulle linee compiute e infinite, sui lacci che sfiorano gli spazi: «Su, anima, non scorgi tu subito lo scopo di Dio? / Che la terra è percorsa e congiunta da reti di strade e di ferro, / Le razze, i vicini sono congiunti perché si sposino e siano sposati, / Gli oceani sono attraversati per avvicinare chi è distante, / E per cucire insieme le terre». La maestà della vita e la maestà del reale in un unico vertice di vertigini esplose.

La pulsazione, la potenza, la passione congiungono la loro visione metaforica, finendo per cogliere il «filo che connette le stelle, gli uteri e il seme paterno» e, come commenta ancora Conte, «per questa visione, tutto è divino, il poeta è divino dentro e fuori di sé, e così santifica tutto ciò che tocca, ed è santificato da ciò che lo tocca».

Il respiro di Whitman cerca la inaugurale vibrazione, la vorace estasi, l’incarnazione della cosa pensata, come barbarico battito dispiegato che insegue la chiarezza materica, la fragranza che sboccia, per giungere, come commenta Spadaro, «alla natura vera delle cose, per vedere le cose con occhi vergini»: «Tutte le verità attendono in tutte le cose, / Esse né affrettano la propria liberazione, né resistono, / Non richiedono il forcipe dell’ostetrico: / L’insignificante è così grande per me, come ogni altra cosa».

Scrive Harold Bloom: «Whitman divideva se stesso (o riconosceva se stesso come diviso) in «my self», «my soul», e «real Me» non è per nulla un Es. […] Questo «Me myself» non è esattamente «bramoso, grezzo, mistico, nudo» e nemmeno «turbolento, carnale, sensuale, che mangia, che beve e procrea». Aggraziato e in disparte, assolutamente equilibrato, affascinante oltre misura, questo strano «real Me» è maschile e femminile, molto americano per quanto non rude, stimolante e in accordo con se stesso. Qualunque cosa sia l’anima di Whitman, questo «Me myself» non può evidentemente avere con essa alcuna relazione egualitaria». Quando l’ «Io» di Whitman si rivolge all’anima, sentiamo un avvertimento».

La sua catalogazione è la declamazione dell’essere, pensato, ricreato, innovato, persino guardato con sfrontatezza, come un cosmo dilatato che si presenta. La maschera del suo io ideale che fronteggia il suo io reale e vero. È in se stesso che ogni uomo è tutto: «Walt Whitman, americano, uno dei duri, un kosmos / turbolento, fatto di carne e ossa», perché ciò che costituisce la sua idealità «non costituisce il mio Io. Ciò che io sono in disparte sta da quanto mi attira e trascina, / Se ne sta divertito, compiacente, compassionevole, inattivo, in se conchiuso, / Guarda dall’alto in basso, eretto, o piega il braccio su un punto di impalpabile quiete, / Guarda col capo reclinato, curioso di ciò che accadrà, / Partecipe e fuori del gioco, osserva e stupisce».

Lo stupore conosce. Cosicchè «Deluso, respinto, piegato a terra / Oppresso da me stesso, che ho osato aprir bocca, / Conscio ora che tra tante vane parole, i cui echi ricadono su me, non ho mai avuto la minima idea di chi o che cosa io sia, / Ma che di fronte a tutte le mie arroganti poesie il mio vero Io resta intatto, inespresso, tuttora inattinto, / e, ritiratosi lontano, mi irride con beffarde congratulazioni e inchini, / Con scrosci di lontane risate ironiche per ogni parola che ho scritto, / in silenzio indicando questi canti, e poi la sabbia che m’è sotto i piedi, / m’avvedo che non ho mai nulla capito, neppure una cosa, e che nessuno vi riesce, / La natura, qui, in vista del mare, approfittando di me per scagliarsi su me e ferirmi, / Perché ho avuto l’audacia d’aprir bocca e cantare».

Il prodigioso vortice dell’essere si attesta in una radicale novità originaria che esalta l’individuo, il singolo, ma anche la massa e l’eguaglianza, per essere una istintiva e ubertosa libertà, farsi natura, concepire la vitalità come prodromo di desiderio, allegoria sognante di abbagli, larga e piena di moltitudini.

L’esperienza della guerra civile rappresenta la trama ferita di una stagione che apre il sentiero della fatalità e del mistero inesplicabili, ma che scoperchia anche una pietà intensa, visiva, sofferente, persino scolpita, come avviene nella cristica morte di un giovane.

Quasi un vagito che cambia prospettiva: «Dovrò dunque mutare i miei canti trionfali? Mi chiesi, / dovrò imparare a cantare le fredde nenie dei vinti? / e i cupi inni degli sconfitti?».

Oppure geme nella preghiera sofferta di affidamento e di bacio, come tempio di anima navigante che percepisce il nome delle onde lontane: «Prossima è la mia fine, / le nubi già si serrano su me, / il viaggio è contrastato, dubbio, smarrito il corso, / i miei vascelli ecco li affido a Te. / Le mani, le mie membra son divenute inerti, / Il mio cervello, sotto le torture si smarrisce, / si sfasci pure la vecchia mia carcassa, io non mi sfascio, / Mi stringo stretto a Te, mio Dio, mi colpiscano pure le onde, / Te, Te almeno so».

Una foglia d’erba non è meno di un giorno di lavoro di tutte le stelle.

 

whitman W., Foglie d’erba, a cura di Giuseppe Conte, Mondadori, Milano 1991.  

allen G.W., «Biblical Echoes in Whitman’sWorks», in American Literature, VI, 1934.

Id., A reader’s guide to Walt Whitman, University Press, Syracuse (Ny) 1997.

Lawrence d.h., Studies in Classic American Literature, University Press, Cambridge 2003.

Manicardi L.,Walt Whitman e la poesia, Tip. Degli Artigiani, Reggio Emilia 1895.

Mathiessen F.O., Rinascimento americano. Arte ed espressione nell’età di Emerson e Whitman,

Enaudi, Torino 1954.

Pavese c., La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1951.

Pisanti T., Poesia dell’Ottocento americano, Guida, Napoli 1984.

Spadaro A., «Le verità attendono in tutte le cose». La poesia di Walt Whitman, in «La Civiltà Cattolica», II, 526.

Id., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013.

I destini di Edgar Lee Masters

di Andrea Galgano                                                                                          Prato, 25 maggio 2013

POESIA CONTEMPORANEA

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pdf: 87 25 05 2013 I DESTINI DI EDGAR LEE MASTERS

imastee001p1L’Antologia di Spoon River del poeta statunitense Edgar Lee Masters (1868-1950), con le sue oltre sessanta edizioni in italiano, è il libro che ha avuto più lettori di qualsiasi altro libro della poesia contemporanea. Ne sono stati tratti dischi, come, ad esempio, Non al denaro non all’amore né al cielo (1971) di Fabrizio De Andrè, che ha liberamente tradotto e trasformato nove poesie della raccolta.

Fernanda Pivano, in una serie di articoli del «Corriere d’informazione», ha rievocato la genesi della prima edizione del 9 marzo 1943:

«Ero una ragazzina quando vidi per la prima volta l’Antologia di Spoon River: me l’aveva portata Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la letteratura americana e quella inglese. Si era tanto divertito alla mia domanda; si era passato la pipa dall’altra parte della bocca per nascondere un sorriso e non mi aveva risposto. Naturalmente c’ero rimasta malissimo; e quando mi diede i primi libri “americani” li guardai con grande sospetto. Ma l’Antologia di Spoon River la aprii proprio alla metà, e trovai una poesia che finiva così: «mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, l’anima d’improvviso mi fuggì». Chissà perché questi versi mi mozzarono il fiato: è così difficile spiegare le reazioni degli adolescenti. Forse mi ricordavano un epigramma di Platone che avevo trovato nell’Antologia Palatina […]; o forse mi piaceva che un poeta ricominciasse a preoccuparsi di quello che succede quando un uomo bacia una ragazza; chi lo sa»

All’uscita della raccolta, Edgar Lee Masters venne paragonato a Dante, Eschilo, Zola o lo stesso Omero, che viene evocato in Blind Jack, ossia Jack il cieco. Oltre agli apprezzamenti per la musica dei versi e la vitalità accesa, arrivarono anche le accuse di realismo sordido e uno strano gusto per la rozzezza e la corruzione.

In Italia, Pavese convinse l’editore Einaudi a pubblicarlo, perché si trattò di «un bellissimo libro che non è poi di liriche, ma di personaggi; un libro che, a detta degli Americani stessi, contiene tutta l’America attuale», avendolo conosciuto grazie ad Antonio Chiuminatto, un amico italo-americano che gli spediva libri introvabili.

Annota Oreste Macrì: «Masters resta un maestro nell’aver scoperto la sorgente poetica del suo popolo, il singolare accento terrestre e familiare dell’essere comune, il piedistallo degli ultimi simboli celati nei duri e allucinati pezzi del reale».

Quando uscì il testo, Masters, pur nascendo con la passione letteraria, era un avvocato di successo che svolgeva il suo lavoro senza entusiasmo. Fu il padre a costringerlo a seguire la sua professione e, durante l’infanzia trascorsa a Petersburg e poi a Lewistown, ricordò di aver provato gli «spasimi per qualcosa che sembrava lontano nella vita, per quando sarei divenuto maturo; ma quel qualcosa era sempre più distante – è distante adesso, e lo sarà sempre».

L’inquietudine febbrile che lo spinse alla lettura di Goethe e a lavorare come strillone, tipografo e portatore di carbone per comprarsi da leggere, più tardi dirà, lo renderà affamato di poesia: «Scrivevo poesie a casa, all’ufficio, dappertutto, sulle liste della trattoria, sulle buste delle lettere».

Jorge Louis Borges, nella sua biografia sintetica di Masters riporta alla luce quel periodo: «trascorse… un’infanzia di acqua e di alberi e di passeggiate a cavallo o in carrozza. E anche di libri, perché nella casa dei Masters vi era uno Shakespeare dolorosamente illustrato, un esemplare delle avventure di Tom Sawyer e uno dei racconti di Grimm».

Dopo aver studiato allo Knox Village, si trasferì a Chicago per ribellione, finendo per lavorare in un ufficio legale.L’idea buona, da tempo coltivata, di scrivere la storia del suo villaggio, gli venne su un suggerimento del direttore di un giornale di St. Louis, il Reedy’s Mirror, che gli consigliò di leggere dei testi dell’Antologia Palatina, una raccolta di epigrammi e epitaffi di più di trecento poeti, a partire dal IV sec. a. C. fino alla tarda età bizantina.

Sotto lo pseudonimo di Webster Ford, iniziò a inviare i primi testi a William M. Reedy che glieli pubblicò, fino a raggiungere i 244, nell’edizione definitiva nel 1916. Nove anni dopo, nel 1924, pubblicò la raccolta The New Spoon River, nel contesto dello sviluppo della vita industriale, ma il successo non fu identico.

Masters visse della rendita dei diritti d’autore, abbandonando l’avvocatura, e continuando, finchè potè, a scrivere numerosi sonetti, lavori teatrali e poemetti storici, ma tutti sfortunati e di scarso successo. Nonostante le interessanti biografie, prime fra tutte quelle di Twain e Whitman e un’autobiografia, morì in disgrazia, per una polmonite, all’età di ottantun anni in Pennsylvania e sepolto a Petersburg.

Il suo epitaffio, To-morrow is My Birthday, tratto da Toward the Gulf, recita: «Buoni amici, andiamo ai campi… / Dopo una piccola passeggiata e vicino al tuo perdono, / Penso dormirò, non c’è cosa più dolce. / Nessun destino è più dolce di quello di dormire. Sono un sogno di un riposo benedetto, / Camminiamo, e ascoltiamo l’allodola».

L’ «autore di un solo libro», come scrisse Mario Praz, racconta la vita ordinaria degli abitanti di Petersburg, cittadina dell’Illinois, bagnata dal Sangamon, dove fisse fino agli 11 anni e di Lewistown, sempre nell’Illinois, bagnata dal fiume Spoon, dove egli rimase fino all’età di 22 anni.

Le vite degli abitanti del Midwest vengono condensate in pochi versi, come epitaffi sulle loro tombe. Annota Antonio Spadaro:

«Di fronte alla morte non c’è schermo che resista, e così gli epitaffi si rivelano come brucianti confessioni che ora manifestano storie segrete, ora stati di coscienza, ora verità innominabili. Non c’è più velo o barriera: le infedeltà coniugali sono svelate, gli interessi segreti sono dichiarati, le astuzie smontate e le falsità annullate. Ogni esistenza è un microcosmo individuale, che però si innalza a descrivere quel macrocosmo che è la vita umana. Spesso i singoli personaggi ne citano altri, e così è possibile leggere ogni storia da punti di vista differenti: i fili che partono da questi epitaffi si intrecciano tra loro, anche in uno scontro di destini».

La pagina-lapide che inscena dettagli, gesti, frammenti, destina figure nel significato morale delle azioni come exempli, in un linguaggio moderno e quasi monologante, rappresenta l’avvolgimento di una vita immortale.

La poesia unisce le linee misteriose della vita e della morte, identifica, ad esempio, i personaggi nel mestiere che svolgono e nel loro volo di istanti, come accade a Dippold l’ottico: «Che cosa vedete adesso? / Globi di rosso, giallo, porpora. / Un momento! E adesso? / Mio padre e mia madre e le mie sorelle. / Sì! E adesso? / Cavalieri in armi, belle donne, visi gentili. / Provate questa. / Un campo di grano – una città. / Molto bene! E ora? / Una giovane donna e angeli chini su di lei […] Provate questa lente. / abissi d’aria. / magnifico! E ora? Luce, soltanto luce, che fa di ogni cosa sottostante un mondo giocattolo. / Benissimo, faremo gli occhiali così».

Pavese scrive: «[…] vivendo noi tutti nel mondo delle cose dei fatti dei gesti, che è il mondo del tempo, il nostro sforzo inconsapevole e incessante è un tendere, fuori del tempo, all’attimo estatico che ci farà realizzare la nostra libertà. Accade perciò che le cose i fatti i gesti – il passare del tempo – ci promettano di questi attimi, li rivestano, li incarnino, ed essi divengano simboli della nostra liberata coscienza».

Il frammento dell’esistenza diviene il simbolo di un collegamento che la morte ha reso solenne e «inchiodato all’anima». La bruciante confessione, narrata nello stile confacente al personaggio, rende ragione a una commedia umana di tasselli diseguali, che non riescono a nascondere all’infinito il magma del nostro essere, lo specchio impietoso di una emersione personalissima, il gemito di una conoscenza, libera da ogni convenzione, dovere o insano bigottismo, come accade in questo ritratto dell’Editore Whedon:

«Per denaro insabbiare uno scandalo / o divulgarlo ai quattro venti per vendetta, / o per vendere il giornale / distruggendo reputazioni, o vite, se necessario / per vincere a ogni costo, salvo la pelle propria. / gloriarsi in un potere demoniaco, minare la civiltà, / come un ragazzo paranoico butta un tronco sulle rotaie / e l’espresso deraglia. / essere direttore, com’ero io. / poi, giacer mene qui – vicino al fiume / dove sbocca la fogna, / e scatole vuote e immondizie finiscono, / e si nascondono gli aborti».

Considerare la poesia di Spoon River, solo ed esclusivamente per gli aspetti libertari, anti-puritani, per rendere Edgar Lee Masters «un ben misero e trascurabile libellista», è un errore di valutazione in cui si gioca il vigore del testo, che rimane inquadrabile nel «problema del senso dell’esistenza» e «nel problema delle proprie azioni: ardore e problemi essenzialmente morali e di non lontano sapore biblico» (Cesare Pavese).

La domanda d’infinito sull’aldilà è impregnata dal senso del limite e della morte, della fine come premessa autentica di chi ha attraversato, oltrepassandola, la caduta del compimento, in un mondo avviato alla scomparsa, ma non del tutto finito.

Il passaggio di questa persona viva nella fine e anche nella mortificata esistenza quotidiana, tracciata con realismo vivido e con messaggio solenne e universale, rende una perfetta fusione di soggettivismo e oggettività, per «dare una consistenza monumentale a ciò che v’è di più labile e irripetibile nell’animo umano» (Eugenio Montale), in un «verseggiare – conclude Pavese – così sobrio e pacato, che ha semplicemente l’ufficio di segnare il pensiero».

La condizione altra dell’aldilà non conclude «il chimico flusso circolare della vita» e personaggi come Conrad Siever, si aggirano «nel suolo e nella carne dell’albero» o di Marie Bateson:

«Vedete la mano scolpita / con l’indice puntato al cielo. / è questa la direzione, non c’è dubbio. / Ma come si può seguirla? / il bene è astenersi dall’assassinio e dalla lussuria, / perdonare, beneficare gli altri, adorare Dio / senza immagini. / Ma in fondo queste non sono che cose esterne / con cui più che altro si fa del bene a se stessi. / Il nocciolo interno è liberta, / è luce, purezza… ».

L’America degli sconfitti, che promana il suo trapasso come «l’alba della vita / che è pienezza di vita» (Jeremy Carlisle), permane nell’acuta tensione vitale della tomba che è un transito di ombre e non un approdo, come avviene in George Gray:

«Molte volte ho studiato / la lapide che mi hanno scolpito: / una barca con vele ammainate, in un porto. / In realtà non rappresenta la mia destinazione / ma la mia vita. / Perché l’amore mi fu offerto e io mi ritrassi dalla sua delusione; / il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura; / l’ambizione mi chiamò, ma io temetti i rischi. / eppure avevo fame di un significato nella vita. / ora so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre a follia / ma una vita senza senso è la tortura / dell’inquietudine e del vago desiderio – / è una barca che anela al mare eppure lo teme».

La coscienza dell’esistenza socchiusa nel coro tragico cerca il compimento ultimo con «tanta sete d’amore e tanta fame di vita» (Minerva Jones) e ogni volta rinnova il suo andamento, verso l’inseguimento di una visione e di una tensione che smonta le vanità e che espone la sua vita ammaccata, eppure racchiude ironia, scacco, profondità.

L’inquietudine non rifluisce nel disincanto, ma anzi, nel vortice di un’eterna attesa promana il suo dramma sacro e di «saggezza evangelica» (Cesare Pavese).

La visione, pertanto, riesce a cogliere il segreto indecifrabile della vita, il mistero di una mistica popolare e semplice, che allorquando tocca frustrazione e durezza, non termina nella protesta, ma rinviene un’apertura ampia oltre il grigiore mortale, oltre l’ansia di una felicità perduta e distrutta:

«La terra ti suscita / vibrazioni nel cuore / e quello sei tu. / E se la gente scopre che sai suonare il violino / ecco, sei costretto a suonare, per tutta la vita. / […] Mai una volta diedi mano all’aratro, / che qualcuno non si fermasse per la strada / e mi portasse via a una danza o a un picnic. / finii con quaranta acri; / finii col violino scassato – / e una risata rotta, e mille ricordi / e nemmeno un rimpianto».

I morti dormono sulla collina, non solo legati alla terra, ma perché ciò che hanno vissuto con il loro vestito di errori, passioni, generosità, meschinità, rappresenta una continuità umana anche dall’altra parte, mentre è in gioco il senso del loro essere e del loro situarsi.

L’attesa di un’esperienza cerca e desidera il destino, nel marmo che compone l’anelito di una visione che accoglie il segreto dell’esistere, per una intima e richiamata promessa.

MASTERS LEE E., Antologia di Spoon River, Einaudi, Torino 2009.

Macrì O., «Antologia americana», in “La Gazzetta di Parma”, 27 maggio 1957.

MONTALE E., «Celebre e sconosciuto l’autore di Spoon River», in “Corriere della Sera”, 8 marzo 1950.

PAVESE C., Lettere 1924-1944, Einaudi, Torino 1966.

ID., La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1990.

PRAZ M., «Tragica arguzia di Spoon River», in “Il Tempo”, 10 marzo 1950.

SPADARO A., «”Il poeta dei destini”: E. L. Masters. “Antologia di Spoon River”», in «La Civiltà Cattolica», II, 2004, pp. 230-241.

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Andrea Galgano 25-05-2013   I destini di Edgar Lee Masters