Alice Notley è nata a Bisbee, in Arizona, nel 1945 e cresciuta a Needles, in California, nel deserto del Mojave. Ha conseguito la laurea in lettere al Barnard College e il master in scrittura creativa presso l’Iowa Writers’ Workshop, partecipando attivamente alla scena poetica di New York negli anni Sessanta e Settanta. Ha pubblicato il suo primo libro nel 1971 e, ad oggi, ha scritto oltre quaranta libri, tra cui “How Spring Comes” (1981), “The Descent of Alette” (1996), “Mysteries of Small Houses” (1998), “Disobedience” (2001), “Grave of Light: New and Selected Poems” (2006), “Culture of One” (2011) e “Certain Magical Acts” (2016). Sebbene Notley sia spesso associata alla seconda generazione della New York School, preferisce dichiararsi indipendente da qualsiasi classificazione. Notley si è trasferita a Parigi nel 1992, dove vive ancora oggi. La sua poesia è narrativa, meditativa, epica e femminista, nota per la sua esplorazione dello stile e della forma. Ha ricevuto il Los Angeles Times Book Award, il Griffin Prize, il Lenore Marshall Prize dell’Academy of American Poets e il Ruth Lilly Prize della Poetry Foundation. Il suo libro più recente, “For the Ride”, è stato pubblicato nel 2020 da Penguin.
This Fire
No one loves you more … more … more …
There were sincere lies everywhere placed directly before
the next step. Does everyone pretend, part of alive
I am proposing words — All structures have crumbled
in earliest death. I’m crossing the yellow sands
It’s so hard to know without relating it, to you
shaping a heart, take hold of me and someone says
I don’t get it! You don’t have to have love,
or you do, which? I don’t think you do; before
the explosion? I was here without it and have been in
many places loveless. I don’t want you
to know what I’m really thinking or do I, before
creation when there might be no “I knew”
Everything one’s ever said not quite true. He or she be-
trays you; why you want to hurt me … bad
Want to, or just do? Treason was provoked
everywhere even here, by knowing one was one and
I was alone, a pale hue. The sky of death
is milky green today, like a poison pool near a
desert mine. Picked prickly pear fruit and I
tasted it, then we drove on, maybe to Yarnell.
These outposts where I grew up; I didn’t do that
I have no … identity, and the love is an object
to kick as you walk on the blazing bare ground, where …
sentimental, when what I love, I … don’t have that one
word. This fire all there is … to find … I find it
You have to find it. It isn’t love, it’s what?
Questo Fuoco
Nessuno ti ama di più … di più … di più … di più …
C’erano bugie sincere disposte ovunque direttamente prima
del prossimo passo. Fingono tutti, parte del vivere
Propongo parole – Tutte le strutture sono crollate
nella primissima morte. Sto attraversando le sabbie gialle
ed è così difficile sapere senza associarlo, a te
che forgi un cuore, impadronisciti di me e qualcuno dice
non capisco! Non c’è bisogno di essere amati,
oppure sì, quale? Non penso ci sia; prima
dell’esplosione? Ero qui senza di esso e sono stata in
molti posti senza amore. Non voglio che tu
sappia ciò che penso realmente, oppure sì, prima
della creazione, quando potrebbe non esserci stato un “io sapevo”
Tutto ciò che ognuno abbia mai detto non è totalmente vero. Lui o lei
ti tradisce; perché vuoi farmi male … così male
Vuoi, o lo fai e basta? La slealtà venne provocata
dappertutto persino qui, sapendo che ognuno fosse ognuno e
che io ero sola, una pallida sfumatura. Il cielo della morte
è di un verde lattiginoso oggi, come una vasca di veleno vicino ad
una miniera deserta. Raccolsi il frutto del fico d’India e lo
assaggiai, poi proseguimmo guidando, forse fino a Yarnell.
Questi avamposti dove sono cresciuta; non fui io
Non ho alcuna … identità, e l’amore è un oggetto
da prendere a calci mentre cammini sul terreno nudo e ardente, dove …
sentimentale, quando ciò che amo, io … non ho quella precisa
parola. Questo fuoco, tutto quel che c’è … da trovare … lo trovo
Tu lo devi trovare. Non è amore, cos’è?
Stalker
The light so thick nothing’s visible, cognoscenti
I knew them, stupid apes. Real apes know more
Before we said apes. I know how to be you bet-
ter — a stupid voice. You must find a mind
to respect — why? There was someone with ear
buds, speaking gibberish who wouldn’t
stop walking beside me; freckle-spattered. I
had to ask the métro attendant for help;
she extricated him from me … I respect his chaotic
speech, mild adhesive force because it makes no sense.
I am back on the alley, discovering adults are un-
trustworthy: someone’s lying … about a
fight between a teenage girl and boy — he pushed
her hard — first she badly scratched him, she’s worse, his
mother says. I’m back at pre-beginning, I don’t
want to go through that again. There is no
sexuality in chaos, there’s no style, nor
hope. I want style — apes have style, people
have machines. Show me something to respect
This bleuet growing out of a wall on rue d’Hauteville.
I picked it and pressed it in a diary. Every once
in a while I respect a moment. I am back at
pre-beginning: I don’t want to care beyond
this … sudden hue in the sand, yellow or spotted with an
hallucinated iridescence. The one who is
stalking me … there has often been someone stalk-
ing me. My destiny. He’s gone, stay here
in this, I can’t be harmed if I’m the only one who’s
thought of being here. Aren’t you lonely? I don’t know.
Stalker
La luce così fitta che nulla è visibile, conoscitori
Le conoscevo, stupide scimmie. Le vere scimmie conoscono di più
da prima che noi dicessimo scimmie. So come essere te, ma me-
glio – una stupida voce. Devi trovare una mente
da rispettare – perché? C’era qualcuno con degli auricolari
che parlava incomprensibilmente e che non
smetteva di camminare affianco a me; cosparso di lentiggini.
Dovetti chiedere aiuto all’addetta della metro;
lei lo districò da me … Rispetto il suo linguaggio
caotico, tenue forza adesiva perché non ha senso.
Sono di nuovo nel vicolo, scoprendo che gli adulti sono in-
affidabili,: qualcuno sta mentendo riguardo ad un
litigio tra due adolescenti – lui la spinse
con forza – inizialmente lei lo ferì con un graffio, lei è peggio,
dice la madre di lui. Sono di nuovo al pre-inizio, non
voglio affrontarlo ancora. Non c’è
sessualità nel caos, non c’è alcun stile, né
speranza. Io voglio lo stile – le scimmie hanno stile, le persone
hanno le macchine. Mostrami qualcosa da rispettare
Questo fiordaliso che cresce da un muro sulla rue d’Hauteville.
Lo raccolsi e lo pressai in un diario. Di tanto
in tanto rispetto un momento. Sono di nuovo al
pre-inizio: non voglio interessarmi più di
così … improvvisa sfumatura nella sabbia, gialla o maculata con un’
iridescenza allucinata. Colui che mi
pedina … c’è spesso stato qualcuno che mi pe-
dinava. Il mio destino. Se n’è andato, resta qui
dentro, nessuno può ferirmi se sono l’unica ad
aver pensato di essere qui. Non ti senti sola? Non lo so. Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella
Kim Addonizio, nata il 31 luglio 1954 a Washington, D.C., ha conseguito la laurea e il master presso la San Francisco State University. Ha pubblicato numerose raccolte di poesie, tra cui “Exit Opera” (2024), “Now We’re Getting Somewhere” (2021) e “Tell Me” (2000), finalista al National Book Award. Tra le sue opere in prosa ci sono il memoir “Bukowski in a Sundress” (2016), due romanzi e diverse guide alla scrittura.
Addonizio ha ricevuto borse di studio dal National Endowment for the Arts e dalla Guggenheim Foundation, oltre a numerosi Pushcart Prizes. Insegna corsi di poesia online e vive a Oakland, California.
New Year’s Day
The rain this morning falls
on the last of the snow
and will wash it away. I can smell
the grass again, and the torn leaves
being eased down into the mud.
The few loves I’ve been allowed
to keep are still sleeping
on the West Coast. Here in Virginia
I walk across the fields with only
a few young cows for company.
Big-boned and shy,
they are like girls I remember
from junior high, who never
spoke, who kept their heads
lowered and their arms crossed against
their new breasts. Those girls
are nearly forty now. Like me,
they must sometimes stand
at a window late at night, looking out
on a silent backyard, at one
rusting lawn chair and the sheer walls
of other people’s houses.
They must lie down some afternoons
and cry hard for whoever used
to make them happiest,
and wonder how their lives
have carried them
this far without ever once
explaining anything. I don’t know
why I’m walking out here
with my coat darkening
and my boots sinking in, coming up
with a mild sucking sound
I like to hear. I don’t care
where those girls are now.
Whatever they’ve made of it
they can have. Today I want
to resolve nothing.
I only want to walk
a little longer in the cold
blessing of the rain,
and lift my face to it.
Il Giorno di Capodanno
La pioggia questa mattina cade
sulla poltiglia della neve
e la spazzerà via. Riesco a sentire
l’odore dell’erba di nuovo, e le foglie logore
venir inghiottite dal fango.
I pochi amori che mi è stato concesso
di mantenere stanno ancora dormendo
sulla West Coast. Qui in Virginia
cammino attraverso i campi con soltanto
un paio di giovani mucche per compagnia.
Dall’ossatura robusta e timide,
sono come le ragazze che ricordo
dalla scuola media, che non
parlavano mai, che tenevano le teste
chine e le braccia conserte sui
loro nuovi seni. Quelle ragazze
hanno quasi quarant’anni oggi. Come me,
devono affacciarsi qualche volta
ad una finestra a notte inoltrata, di fronte
ad un giardino silenzioso, ad una
sedia a sdraio arrugginita e alle pareti diafane
delle case delle altre persone.
Devono distendersi qualche pomeriggio
e piangere a dirotto per coloro
che le resero felici,
e domandarsi come le loro vite
le abbiano portate
fino a quel punto senza mai
dare alcuna spiegazione. Non so
perché io stia camminando qui fuori
con il cappotto che si annerisce
e gli stivali che affondano, riemergendo
con un morbido suono da suzione
che mi piace ascoltare. Non mi importa
dove queste ragazze siano adesso.
Qualsiasi cosa abbiano fatto delle loro vite
possono tenersela. Oggi non voglio
risolvere niente.
Voglio solo camminare
un po’ più a lungo nella fredda
benedizione della pioggia,
e alzare il viso in su.
The Singing
There’s a bird crying outside, or maybe calling, anyway it goes on
and on
without stopping, so I begin to think it’s my bird, my insistent I, I, I that today is so trapped by some nameless but still relentless
longing
that I can’t get any further than this, one note clicking
metronomically
in the afternoon silence, measuring out some possible melody
I can’t begin to learn. I could say it’s the bird of my loneliness
asking, as usual, for love, for more anyway than I have; I could as
easily call it
grief, ambition, knot of self that won’t untangle, fear of my own
heart. All
I can do is listen to the way it keeps on, as if it’s enough just to
launch a voice
against stillness, even a voice that says so little, that no one is
likely to answer
with anything but sorrow, and their own confusion. I, I, I, isn’t it
the sweetest
sound, the beautiful, arrogant ego refusing to disappear? I don’t
know
what I want, only that I’m desperate for it, that I can’t stop asking.
That when
the bird finally quiets I need to say it doesn’t, that all afternoon
I hear it, and into the evening; that even now, in the darkness, it
goes on.
Il canto
C’è un uccello che piange fuori, o forse grida, in ogni caso continua
incessante,
senza fermarsi, così inizio a pensare che sia il mio uccello, il mio insistente io, io, io che oggi è talmente intrappolato da qualche desiderio senza nome
ma pur sempre irrefrenabile
che non riesco ad andare più avanti di così, una nota che ticchetta
in maniera metronomica
nel silenzio del pomeriggio, scandendo qualche possibile melodia
che non potrei mai imparare. Potrei dire che è l’uccello della mia solitudine
che chiede, come al solito, amore, o comunque più di quanto io ne abbia; Potrei
con altrettanta semplicità chiamarlo
dolore, ambizione, un nodo del sé che non si vuole sciogliere, paura del mio
cuore. Tutto ciò
che posso fare è ascoltare il modo in cui persiste, come se bastasse
scagliare una voce
contro la quiete, anche solo una voce così flebile, a cui probabilmente
nessuno risponderà
con nient’altro che dolore e confusione. io, io, io, non è il
suono
più dolce, il bellissimo, arrogante ego che si rifiuta di scomparire? Non
so
cosa voglio, so solo che ne ho un bisogno disperato, e non riesco a smettere di chiederlo.
Che quando
l’uccello finalmente tace, devo convincermi che non sia vero, che per tutto il pomeriggio
io lo sento, e fino a sera; e anche adesso, nel buio,
persevera.
Blue Door
Today I passed the house
we rented last summer.
It was only a glimpse
as I drove by-
blue door,
adobe arch painted with flowers.
In memory
your dusty van is parked on the gravel
and you’re standing at the stove
while I curl
on the couch with a book,
pretending to read,
but secretly
watching you, loving
how you look-
intent on our meal,
on getting it right.
How clearly
I can see everything:
cars passing
on the road outside,
you, shirtless, leaning over
a cast-iron pot,
me holding a few useless
words in my hands.
Nothing I’ll say
will make you stay with me,
nothing erase how you’ll turn
toward me, offering the wooden spoon
so that I get up,
and come to you, and taste
that salt on my tongue.
Porta Blu
Oggi sono passata davanti alla casa
che affittammo la scorsa estate.
È stata solo un’occhiata
mentre guidavo –
porta blu,
arco d’argilla dipinto di fiori.
In ricordo
il tuo van impolverato è parcheggiato sulla ghiaia
e tu sei in piedi davanti al fornello
mentre io mi rannicchio
sul divano con un libro,
fingendo di leggere,
ma di nascosto
guardandoti, amo
il modo in cui sei
concentrato sul nostro pasto,
sul prepararlo bene.
Quanto chiaramente
riesco a vedere tutto:
le macchine che passano
sulla strada fuori,
tu, a petto nudo, chino su
una pentola in ghisa,
io che tengo qualche parola
inutile nelle mie mani.
Nulla di ciò che dirò
ti convincerà a restare con me,
nulla cancellerà il modo in cui ti volterai
verso di me, offrendomi il mestolo di legno
così che io mi alzi,
e venga da te, e assaggi
quel sale sulla mia lingua.
Near Heron Lake
During the night, horses passed close
to our parked van. Inside I woke cold
under the sleeping bag, hearing their heavy sway,
the gravel harsh under their hooves as they moved off
down the bank to the river. You slept on,
though maybe in your dream you felt them enter
our life just long enough to cause that slight
stirring, a small spasm in your limbs and then
a sigh so quiet, so close to being nothing
but the next breath, I could believe you never guessed
how those huge animals broke out of the dark and came
toward us. Or how afraid I was before I understood
what they were–only horses, not anything
that would hurt us. The next morning
I watched you at the edge of the river
washing your face, your bare chest beaded with bright water,
and knew how much we needed this,
the day ahead with its calm lake
we would swim in, naked, able to touch again.
You were so beautiful. And I thought
the marriage might never end.
Vicino a Heron Lake
Durante la notte, dei cavalli passarono vicino
al nostro van parcheggiato. Dentro mi svegliai infreddolita
sotto il sacco a pelo, sentendo la loro movenza pesante,
la ghiaia ruvida sotto i loro zoccoli mentre si spostano
lungo la sponda fino al fiume. Tu continuasti a dormire,
sebbene, forse, nel tuo sogno li sentisti irrompere nella
nostra vita giusto il tempo di provocare quella leggera
agitazione, un piccolo spasmo nei tuoi arti e poi
un sospiro così silenzioso, così vicino all’essere nient’
altro che il prossimo respiro, che credevo non avresti mai immaginato
come quegli enormi animali emersero dal buio e vennero
verso di noi. O quanto spaventata io fossi prima di capire
cosa fossero – soltanto dei cavalli, niente
che potesse ferirci. La mattina seguente
ti guardai alla riva del fiume
mentre ti lavavi il viso, il tuo petto nudo imperlato d’acqua lucente,
e capii quanto avevamo bisogno di tutto ciò,
il giorno dinanzi a noi, con il suo lago calmo
in cui avremmo nuotato, nudi, in grado di toccarci di nuovo.
Eri così bello. E pensai che il matrimonio non sarebbe mai finito.
La poesia[1] di Pablo Picasso è amore per la cosalità ossia per la materia vivente. Il senso materico che appartiene al gesto come respiro dell’esistente, l’espressione come forma dell’umano che sconvolge le regole della pittura e della verità figurativa, come scrive Trillat: «Rapida e diseguale, disseminata di cadute, rotta, dolorosa, triste e ispirata, questa scrittura che avanza attraverso la sofferenza, il sangue, la violenza, la dolcezza, l’amore, la tenerezza e la collera improvvisa, coi suoi forti contrasti e i suoi uncini che ti agganciano e ti trattengono, fa pensare a una marcia lenta e perseverante in una foresta di liane[2]».
E Valerio Gaio Pedini afferma:
«Picasso, da pittore, non ha pregiudizi verso l’immagine, anzi, lui vede il linguaggio poetico come una funzione dell’immagine. Per il pittore spagnolo la metafora è ragguagliata alla immagine, ed entrambe sono impiegate come «fotogrammi» degli «oggetti», alla stregua di una macchina da presa che inquadra gli oggetti e li duplica nel fotogramma; la poesia è vista da Picasso come uno scorrimento di fotogrammi nel montaggio. È una procedura poetica che mette al centro la rappresentazione, la sovrapposizione, il montaggio delle immagini[3]».
Non esiste residuo. Si afferma una fantasia mai astratta che nasce e si radica nella ferita dell’essere, nella realtà della realtà, e potremmo dire, in una parola, nella sua essenza. L’opera si fa presente e vive nel presente[4], mantenendo «la gioia della scoperta, il piacere dell’inaspettato[5]», lavora il tempo e avverte il mutamento della composizione, sentendo l’osservazione, e, infine, raggiungendo una sorta di «somma delle distruzioni. Prima faccio un quadro poi lo distruggo. Ma alla fine nulla è andato perduto, il rosso che ho tolto da un posto si troverà da qualche altra parte[6]».
La riproducibilità degli oggetti e la disponibilità segnica diventano una carta di contrasto, uno schizzo ossimorico che lascia le cose sulla tela come sulla pagina e scopre il tempo, lo ricandida a una formulazione nuova che sconvolge le regole, fino a sopprimere la forma e lasciare il dettaglio come disposizione di segno-appunto: «Le ore cadono nel pozzo / e s’addormentano per sempre / ogni orologio che batte la sua campana / sa già cioè che è / e non si fa illusioni».
È un’immagine ferita. Una visione della realtà in cui lo sguardo sugli oggetti, i volti, le linee, i cambi cromatici, le prospettive vengono schizzate in una linea quasi onirica e disposti come descrizione figurativa: «Ho visto uscire / stasera / dal concerto / della Salle Gaveau / l’ultima / persona / poi sono andato un po’ più lontano / nella stessa strada / del tabaccaio / a comprarmi i fiammiferi».
Nei Cahiers d’Art, tratti dal saggio di André Breton[7], il mondo poetico picassiano si svolge in una silloge interiore, attraverso la validità obiettiva del reale[8] e la linea dell’immagine è un contrasto in movimento, dove i personaggi sulla scena ristabiliscono, come scrive Paul éluard, «il contatto tra l’oggetto e colui che lo vede e, di conseguenza, lo pensa, ci ha ridato nel modo più audace, più sublime, le prove inseparabili dell’esistenza dell’uomo e del mondo[9]».
Mario De Micheli commenta: «Questo dato positivo dell’esistenza del mondo non è dunque per Picasso un dato statico. Picasso cioè non vede il mondo come realtà immobile e immutabile, egli ne ha al contrario una visione di movimento, di mutamento continuo. Si è persino tentati di dire che la sua visione del mondo nasce da una rudimentale concezione dialettica della natura, a cui si mescolano altre primitive intuizioni, talvolta persino di sapore magico o stregonesco[10]».
La visione precisa dell’immagine è la sua naturalezza, che è l’indizio del poeta che si addentra nella realtà metamorfica e nel suo linguaggio che è, allo stesso tempo, preciso. Picasso sintetizza violentemente e gioiosamente la realtà, attraverso un impeto decisivo e definitivo e un metodo surrealista di automatismo.
Il suo fitto fondo è una condensata nominazione sorgiva: «Il miracolo che il torero frigge / nella piazza del peperone / la precisione del volo attraverso la nuvola / che il cristallo infrange / con la sua cappa» (Il miracolo).
O ancora le pennellate dettagliate di pienezza dell’estate o del vestito del torero: «Passa l’estate / fetta di melone che la cicala accende / e trascina nella sua ferita / la cappa dell’espada» (Estate), «Al torero / con l’ago più sottile che la nebbia inventò / cuce un vestito di lampade elettriche / il toro» (Il vestito del torero).
L’osservazione è già l’indice della scrittura. Il ritaglio del reale si collega alla dimensione della ragione in atto («La persiana sbattuta dal vento / uccide i cardellini in volo / i colpi macchiano di sangue / la spalla della stanza / ascolta passare il candore / la morte porta in bocca aroma d’armonium / e la sua ala tira la corda al pozzo»), tocca il mondo e può farlo attraverso il ricordo, l’associazione («un fiume nel bianco vuoto / nell’ombra azzurro chiaro dei colori di lillà / una mano sull’orlo dell’ombra fa ombra alla mano / una cavalletta molto color di rosa / una radice alza la testa / un chiodo il nero degli alberi senza niente / un pesce un nido il calore in piena luce»), il sogno, la normalità dell’assurdo, lo sforzo creativo come l’urlo della partoriente associato ai vetrai, il corpo del risveglio, l’approdo isolato («I cardellini sono l’aroma / battente con la sua ala il caffè / che riflette la persiana nel fondo del pozzo / e ascolta l’aria passare / nel silenzio della candida tazza»), o come avviene in Il tabacco, in cui la poesia, come spiega De Micheli, riportando Breton, «è nata dall’osservazione di una sigaretta accesa lasciata in un portacenere, e probabilmente un portacenere a testa di cavallo[11]»: «Il tabacco avvolto nel suo sudario / vicino a due banderilla rosa / spira i suoi disegni modernisti / sul cadavere del cavallo / e al fuoco del suo occhio / scrive sulla cenere / l’ultima sua volontà».
Il dinamismo picassiano tocca allusioni e lingue di fuoco, profondità, istinto, amore, sesso portato all’estremità carnale e voluttuosa, al possesso e alla repulsione, all’avidità e al suo tormento, minuziosità di interni, freschezza e fragranza aggressiva di un’etnia (si pensi ai richiami del sangue e del torero) e non, per ultimo, il colore disteso e tiranno in un richiamo di chiasmi, in un desiderio scintillante e incendiato («I quadri sono donne pazze / appuntati sul cuore / delle bolle scintillanti / per gli occhi stretti alla gola / dal colpo di frusta carambolesco / che agita le ali / intorno al quadrato del suo desiderio»):
«Ascolta nella tua infanzia / l’ora che bianco nel ricordo azzurro / bianco orla nei suoi azzurrissimi occhi / e pezzo d’indaco di cielo d’argento / gli sguardi bianco attraversano il cobalto / il bianco foglio che l’inchiostro blu strappa / bluastro il suo oltremare scende / e bianco gode del riposo azzurro / agitato nel verde cupo / muro verde che scrive il suo piacere / pioggia verde chiaro / che nuota verde giallo nell’occhio chiaro / sull’orlo del suo piede verde / la sabbia terra canzone / sabbia della terra / pomeriggio sabbia terra».
La fuga crudele della bellezza, il tempo del colore maturato, la forma in equilibrio, i simboli della sofferenza, dell’amore, la vita che mostra confini di energia creativa e dolore, la figura solitaria delle destinazioni rappresentano il suo colore di argilla, la preziosità immaginabile e lacerata di un panorama di respiro che cerca l’acrobazia del vivere, l’unione dei particolari e degli scorci innominabili, i vuoti e i disegni del corpo, l’essenza femminile trasportata nella sproporzione dello slancio invisibile, cui anche il teatro mostra la sua riverenza e la sua pienezza di sorgente.
Picasso P., Scritti, a cura di Mario De Micheli, SE, Milano 1998.
Éluard P., Donner à voir, Se, Milano 1988.
Trillat R., étude graphologiquede Picasso, in “Labyrinthe”, Genève, 15 novembre 1945.
La poesia di Pablo Picasso. La questione della metafora nell’interpretazione di Valerio Gaio pedini con una scelta di poesia di Pablo Picasso (https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/06/03/la-poesia-di-picasso-e-la-metafora-visiva-nellinterpretazione-di-valerio-gaio-pedini-con-una-scelta-di-poesie-di-pablo-picasso/), 3 giugno 2015.
[1] Picasso P., Scritti, a cura di Mario De Micheli, SE, Milano 1998.
[2]Trillat R., étude graphologiquede Picasso, in “Labyrinthe”, Genève, 15 novembre 1945.
[3]La poesia di Pablo Picasso. La questione della metafora nell’interpretazione di Valerio Gaio pedini con una scelta di poesia di Pablo Picasso (https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/06/03/la-poesia-di-picasso-e-la-metafora-visiva-nellinterpretazione-di-valerio-gaio-pedini-con-una-scelta-di-poesie-di-pablo-picasso/), 3 giugno 2015.
di Ezio Benelli e Alberto Di Matteo 29 luglio 2015
Lettura curata dal Dott. Ezio Benelli e dal Dott. Alberto Di Matteo alla presentazione del libro di Andrea Galgano, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido, Aracne, Roma 2014, Prato, Polo Psicodinamiche, 23 gennaio 2015.
Non sempre si può pensare che vi sia un’esatta e meccanica corrispondenza fra la vita, da una parte, e le opere, i contenuti, le idee, le immagini e le metafore di un artista, dall’altra.
E non sempre si può pensare che un figlio sia il risultato esatto e preciso di un ambiente familiare, della personalità dei genitori e dell’educazione ricevuta.
Insomma: non vi può essere un rigido determinismo causa-effetto fra ciò che un individuo ha ricevuto dagli affetti, dall’epoca e dal luogo in cui è cresciuto, e ciò che lo stesso individuo esprime, lascia, matura lungo la propria personale esistenza.
Evidentemente ognuno di noi non è soltanto la famiglia da dove viene, le esperienze che ha attraversato da bambino, ognuno di noi non sta solo nelle assenze, nelle carenze che ha dovuto soffrire, nelle malattie che ha accusato, nelle ingiustizie che ha subito, nella buona o cattiva educazione che ha ricevuto.
Sarebbe come negare “il libero arbitrio”, direbbero i teologi. Sarebbe come negare la possibilità di emancipazione, di crescita, di maturazione, di presa di coscienza, di cambiamento che tutti gli esseri umani hanno diritto ad avere.
Su questo concetto ci viene in aiuto l’epigenetica, definita come “la branca della biologia che studia le interazioni causali fra i geni e il loro prodotto e pone in essere il fenotipo” L’epigenetica si è fatta strada per spiegare il divario fra natura ed educazione. Nel ventunesimo secolo viene perlopiù definita come “lo studio delle modifiche ereditabili nella funzione del genoma che si verificano senza cambiamenti della sequenza di DNA”1.
Non vi è, dunque, un rigido determinismo causa-effetto fra la biografia e l’opera, si diceva, ma, d’altra parte, si possono stabilire collegamenti, parallelismi, sintonie, consonanze, risonanze e dissonanze fra la vita, da un lato, e le espressioni, i pensieri e le opere, dall’altro. Ma non solo: si può tentare di immaginare e raccontare divergenze e convergenze, differenze e similarità fra due vicende biografiche, fra due vite lontane fra loro per epoca e ambiente.
E, a nostro avviso, anche in questo sta il valore e la forza del saggio scritto da Andrea Galgano che oggi qui presentiamo: in esso si stabilisce come un dialogo a distanza fra due grandi espressioni, certo, ma anche fra due vicende esistenziali che sembrano richiamarsi l’una con l’altra.
Nella vita di un uomo, di qualsiasi uomo, e anche in quella di un artista ci sono fatti, vicende, dinamiche, storie, situazioni di vita che sembrano parlare da sole, non hanno bisogno di interpretazioni, si impongono per la loro evidenza, sembrano esse stesse opere d’arte, sembrano storie inventate, frutto dell’ingegno e della fantasia, sono esse stesse poesia, e, come fa la vera grande assoluta poesia ci emoziona, ci fa pensare e ci dà il brivido del mistero della vita.
In questo senso, allora, risulta difficile, se non impossibile e inutile, distinguere fra la vita e l’arte di certi grandi artisti. Perché gli eventi biografici e storici della loro vita sembrano intessuti da un destino e da un sentimento tragico, che è analogo a quello che ritroviamo nelle loro migliori espressioni.
Ci sembra che Leopardi e Pascoli siano grandi poeti anche per questa ragione profonda: indipendentemente dalla loro reali volontà, e un’artista è tale se va oltre la sua terrena volontà, mi sembra che entrambi abbiano raggiunto una certa qual identificazione fra vita e poesia, perché i versi e i pensieri dei due poeti raccontano le loro esistenze reali anche quando parlano d’altro e, viceversa, le loro vicende biografiche ci appaiono di una poesia evidente e assoluta.
Ecco, a distanza di anni e di secoli, nonostante le antipatie maturate sui banchi di scuola, a mio avviso, Leopardi e Pascoli continuano a parlarci e a emozionarci, come fanno i grandi classici, proprio perché ripercorrere le loro vite è come leggere una poesia, e, viceversa, leggere le loro poesie è come ripercorrere le vite eccezionali di tanti esseri umani.
E anche per un’altra ragione: perché, al di là delle loro esistenze storiche piene di sofferenza, dolore, malattie, e privazioni, sembrano indicarci una via, una strada. Ed è proprio la loro grande poesia che ci indica tale strada: la poesia, l’arte, la creatività intesa come conforto e rifugio, ma anche e soprattutto come visione altra del reale, un modo differente di penetrare l’infinito mistero del mondo.
E dunque non un rigido determinismo causa-effetto, ma a volte, a tratti, in certi particolari momenti risonanze, punti di contatto, identificazioni fra le vicende storiche e la creatività, fra la Storia e il Pensiero dell’uomo, fra il cosiddetto mondo reale e quella che è chiamato coscienza.
Qui di seguito alcune parole-chiave per ripercorrere brevemente alcuni passaggi importanti della vita dei due poeti, guardati con gli occhi della psicologia dinamica:
Vediamo se proprio la psicologia dinamica può venirci in aiuto, cerchiamo delle tracce nell’infanzia, nella famiglia, nell’ambivalenza degli affetti, nei temi distacco e del ritorno, nelle amicizie e gli amori, e negli “ultimi messaggi”.
L’infanzia, ovvero lo sviluppo psicologico del Bambino, con le difficoltà che possono intervenire, visto da diverse prospettive.
Sia per Leopardi e sia per Pascoli la prima infanzia è ricordata come una età felice, come una età dell’oro, forse l’unico periodo veramente felice della loro vita: un periodo di giochi e di spensieratezza.
Ovviamente ciò non vuol dire che l’infanzia dei due poeti sia stata realmente e fino in fondo così. Per Pascoli quell’isola felice dell’infanzia sarà bruscamente cancellata dalla traumatica uccisione del padre, avvenuta quando il poeta aveva 12 anni.
Per Leopardi la fine della prima infanzia sarà segnata dall’inizio di quel periodo di studio “matto e disperatissimo”, come lui lo definirà, che sarà anche l’inizio dell’isolamento, della sofferenza, delle malattie che lo accompagneranno per tutta la vita.
In ogni caso, è importante sottolineare che per entrambi la prima infanzia è vissuta come una perdita…
E si può osservare che il ricordo dell’età infantile e la stessa immagine della natura associata al ricordo, appare in Leopardi più distesa, riflessiva e meditativa; per Pascoli, invece, appare più visionaria, ossessiva e traumatica, frutto della sensibilità di fine Ottocento, certo, ma anche evidentemente dei drammi vissuti in giovane età: la perdita del padre, della sorella Margherita, e subito dopo della madre, e pochi anni dopo del fratello Luigi e dell’altro fratello Giacomo, il maggiore, definito dal poeta “il piccolo padre”.
La famiglia, ovvero il padre, la madre, ma anche la felicità, lo stress, il benessere; e i disagi psicologici.
Ambedue le famiglie dei due grandi poeti furono famiglie numerose: Giacomo era il primo di dieci figli, Giovanni il quarto di altrettanti. Per i tempi le famiglie numerose non erano certo una eccezione, ma mi preme sottolineare due aspetti di entrambi i nuclei familiari.
Il primo è il legame con la terra, cioè con un modello di famiglia rurale e contadina, anche se i genitori dei due poeti non erano effettivamente contadini: quelli di Leopardi erano una coppia di nobili feudali, proprietari terrieri, ma che non si occupavano direttamente della terra; il padre di Pascoli era amministratore delle terre della famiglia nobile dei Torlonia, e dunque non certo un coltivatore diretto; la madre di Giovanni sembra che provenisse da una famiglia nobile.
Entrambe le famiglie, dunque, sono costruite sul modello della famiglia numerosa, che abbisogna di braccia, soprattutto maschili, per lavorare la terra e per governare il patrimonio. Quella di Leopardi ha anche un altro significativo carattere delle famiglie di modello rurale dell’epoca: la consanguineità dei genitori, Monaldo e Adelaide erano infatti parenti e con questo si possono spiegare le malattie e la debolezza costitutiva di alcuni dei loro figli, ma soprattutto è il simbolo di una famiglia che non esce, non si sviluppa, non si mescola con ciò che è diverso.
Entrambe le famiglie trovano la loro matrice in un tipo di nobiltà terriera, di provenienza feudale, che i tempi nuovi, il progresso industriale, la crescita delle città cominciano a mettere pericolosamente e irrimediabilmente in crisi nelle epoche in cui vissero i nostri due artisti.
E il secondo aspetto è che sia nel nucleo familiare dei Leopardi che in quello dei Pascoli è presenza continua la morte, la malattia, i morti come figure che accompagnano la vita dei vivi: esempio è il fratello di Leopardi, Luigi, scomparso prematuramente a 24 anni (ma due fratelli di Giacomo erano morti precedentemente appena nati) e che segna il ritorno del poeta a Recanati, sia pure per un breve periodo, per non parlare della impressionante serie di lutti che colpisce la famiglia pascoliana e la continua presenza dei morti nell’arte e nell’esistenza del poeta…
Normalmente il padre di Leopardi, il conte Monaldo, ci viene raccontato come un uomo autoritario, reazionario, nemico del nuovo, caparbio, succube della moglie. Il conte Monaldo, amava definirsi “l’ultimo spadifero d’Italia”, nell’epoca in cui i repubblicani avevano proibito l’uso della spada, si può definirlo anche capace a volte di entusiasmo, di generosità, aperto, perfino incerto, indeciso, dubbioso… Insomma: un uomo e il suo opposto contrario! Si potrebbe ipotizzare una personalità bipolare per Monaldo, se avessimo qualche dato in più a disposizione. Certo è che Giacomo Leopardi per tutta la sua vita passò da improvvisi entusiasmi ad altrettanto repentine depressioni e viceversa, e vi è chi ha ipotizzato per lui, Giacomo, il disturbo bipolare.
Secondo alcuni2 si può tracciare un parallelo interessante fra il rapporto padre-figlio Monaldo-Giacomo e un altro celebre rapporto filiale, quello fra Franz Kafka e suo padre Hermann, come è ben raccontato nella Lettera al padre:
… il mondo si divideva per me in tre parti, e nella prima io, lo schiavo, vivevo sottoposto a leggi concepite solo per me e alle quali, senza saperne il motivo, non riuscivo del tutto ad adeguarmi, poi c’era un secondo mondo infinitamente lontano dal mio in cui vivevi tu, occupato a dirigerlo, a impartire gli ordini e ad arrabbiarti se non venivano eseguiti, e infine un terzo, dove il resto dell’umanità viveva felice e libera da ordini e da obbedienze. […].
Io vivevo comunque e sempre nella vergogna, provavo vergogna se mi attenevo ai tuoi ordini, dato che valevano solo per me; provavo vergogna se mi mostravo recalcitrante, perché lo ero nei tuoi confronti, oppure non ero in grado di adeguarmi perché non avevo ne’ la tua forza, né il tuo appetito, né la tua agilità, cose che tu pretendevi da me considerandole ovvie; e questa era la vergogna più bruciante 3.
Un padre che ordina, comanda, umilia il figlio, limita la sua libertà, spegne ogni suo slancio vitale, un padre che non si comporta da giusto, che non ragiona, che appare come un’autorità irraggiungibile e incomprensibile nei suoi voleri…
E che dire della madre di Giacomo, la marchesa Adelaide Antici? Ci è descritta come una donna fredda, anaffettiva, energica, ossessionata da una religiosità tutta formale e dal senso del peccato, vera padrona della casa, vero capofamiglia perché è lei che amministra il patrimonio, una specie di maschio con la gonna, anch’essa, a suo modo, un genitore irraggiungibile. Si può stabilire un suggestivo rimando fra l’anaffettività della madre di Leopardi e la sua celebre concezione pessimistica della natura come “matrigna” per il genere umano.
I genitori di Pascoli, invece, ci rimandano un’immagine di presenza-assenza, soprattutto il padre: genitori troppo presto perduti, che continuano a rivivere in quel continuo tentativo di Giovanni di ritornare alla famiglia originaria, di ricostituire il nido familiare, un vuoto che non produce maturazione, individuazione, differenziazione, crescita, ma che genera regressione, ambiguità di ruoli e morbosità. Qui ci sono di sostegno le immagini di casa Pascoli a Castelvecchio di Barga, nella lucchesia: i luoghi e le atmosfere del tempo, a rendere ragione di un modello educativo che allora aveva una sua realtà costitutiva, sociale, territoriale.
L’ambivalenza, ovvero l’amore e la sua variante “fredda”, l’ambiguità.
In entrambe le vite, quella di Leopardi e di Pascoli, c’è qualcosa che allo stesso tempo è fonte di soddisfazione e di dipendenza, sofferenza, dolore. Il piacere e le passioni non sono quasi mai positive e basta, contengono quasi sempre un’ombra di disagio e di malattia: è il caso della passione per lo studio di Leopardi, che diventa sacrificio e gli procurerà tutti quei malanni che lo accompagneranno fino alla fine.
E ambivalenza si può trovare nel rapporto fra Giovanni Pascoli e le sorelle Ida e Maria, detta Mariù: un rapporto di amore-odio, si direbbe, fatto di affetto ma anche di dipendenza, con connotati morbosi, infantili, perfino incestuosi, come ha ipotizzato Vittorino Andreoli, nel suo saggio I segreti di casa Pascoli. È stato scritto che quando, nel 1885, Giovanni cerca di ricostituire il nido familiare chiamando a sé le sorelle, lo fa per prendere il posto del padre morto prematuramente e attribuendo alle sorelle il ruolo di madri, mogli e compagne. E’ un’idea condivisibile. Ma tutto questo Giovanni lo fa anche da figlio-bambino insieme alle sorelle figlie-bambine anch’esse, e cioè con il sentimento profondo di chi non si sente intimamente adulto, maturo, né compiuto fino in fondo. E’ questa ambiguità e confusione di ruoli fra padre-figlio e madri-figlie che colpisce nell’affettività della famiglia Pascoli, un’affettività destinata a generare nevrosi, disagio, malattia.
Il distacco e il ritorno, ovvero i meccanismo di difesa dell’IO
Nei percorsi e nei movimenti della vita dei due poeti c’è una sorta di opposizione: Leopardi che tenta faticosamente di allontanarsi per sempre da Recanati e dalla famiglia e ci riuscirà solo a partire dagli ultimi anni della sua vita, stabilendosi a Napoli; Pascoli che girovaga per l’Italia a causa degli studi e dei suoi incarichi da insegnante, ma che tenta di ricostruire l’originario “nido” familiare, convivendo con le due sorelle; in Pascoli il “nido” non si identifica con un luogo preciso, come è Recanati per Leopardi, anche perché, chissà, per Giovanni tornare a San Mauro in Romagna, il luogo dove la famiglia si era drammaticamente disgregata, sarebbe stato di certo un trauma; per Pascoli ritornare al luogo originario significa ricostituire quelle condizioni di protezione, di rifugio, di mondo separato, e soprattutto di minorità dell’infanzia.
Così l’uno, Leopardi, cerca di separarsi, di allontanarsi, di staccarsi dalle origini, l’altro, Pascoli, cerca di tornare, di recuperare, di ricostruire l’unità perduta: guardando le due vicende biografiche nel loro insieme si può dire che entrambi i tentativi riescono fino a un certo punto e a prezzo di sofferenza e nevrosi.
E si può osservare che entrambi i nostri protagonisti, per natura e a causa delle loro vite, tendono all’isolamento e alla solitudine. Ma Leopardi nei suoi spostamenti sceglie la socialità e la vita moderna delle città: Roma (che lo delude), Firenze, Pisa, Milano, Bologna, Napoli.
Pascoli, al contrario, sembra cercare affannosamente rifugio nelle atmosfere raccolte della campagna, a contatto con la natura, e da ultimo si stabilisce a Castelvecchio di Barga in Garfagnana. E’ quasi inutile dire che la scelta di Leopardi di vivere in città non lo mette al riparo dall’isolamento: Giacomo si sentirà quasi sempre un pesce fuor d’acqua negli ambienti intellettuali delle città italiane dell’epoca, la sua voglia di socialità segnala un bisogno non realizzato, nella realtà Leopardi non sembra fatto per la comunità e per il gruppo, si trova più a suo agio nel rapporto a due, siano essi amici, confidenti, maestri, consiglieri o le donne di cui si invaghisce…
Di Giovanni Pascoli, inoltre, colpisce che il suo tentativo di ritorno al “nido” avviene dopo che egli ha fatto esperienza del mondo: gira l’Italia in lungo e in largo per studiare e insegnare, nel periodo universitario abbraccia l’impegno politico e le idee socialiste e anarchiche, finisce addirittura in carcere per le sue convinzioni, studia lingue straniere, conosce Carducci e altre grandi personalità dell’epoca, viene a contatto con il nuovo e la modernità della seconda metà dell’Ottocento… fino a un certo punto sembra una vita tutta in crescere, alla conquista del mondo. Poi però il cammino si interrompe, subentrano, o forse c’erano sempre state, sfiducia nel progresso, disillusione nei confronti della modernità, rottura del fidanzamento, rifiuto del matrimonio e di una normalità adulta, e il rinchiudersi per timore nel ricostituito nido familiare con le sorelle. C’è chi ha osservato che la famosa teoria del Fanciullino non è solo una opzione poetica dell’artista, ma rappresenta anche e soprattutto una risposta nevrotica di difesa dell’uomo nei confronti della realtà storica, della vita reale, “una regressione nel nido dell’infanzia sotto l’egida protettiva e rassicurante dei morti” (Angelo Marchese).
L’amicizia, gli amori, gli affetti, ovvero la condivisione ricorrente di cose, emozioni, sentimenti, idee.
La “condivisione” ha sempre caratterizzato la vita dell’uomo, ha permesso d’individuare un’intelligenza specifica di un fenomeno che è originariamente sociale e psicologico.
Leggendo le lettere, le testimonianze e nel caso di Leopardi il suo Zibaldone, sembra emergere un dato comune nell’affettività di Giacomo e Giovanni. E cioè quello di vivere l’amicizia, ma anche l’amore e gli affetti in generale, senza mezze misure, o tutto o nulla, un’affettività che in un attimo può passare da un opposto all’altro.
Leopardi, più che costruire amicizie, con Pietro Giordani prima e Antonio Ranieri poi, sembra aggrapparsi agli amici, come se fossero l’unica sua via d’uscita. Nelle lettere Leopardi più che confidarsi con gli amici, si apre completamente a loro, li investe, li travolge con la sua emotività, arrivando a confessare anche i pensieri più intimi, anche le sensazioni più minute. Non ci sono vie di mezzo, non ci sono filtri e mediazioni. Leopardi nell’ultima parte della sua vita si aggrappa totalmente all’amico Ranieri perché teme di rimanere senza sostegno economico e di dover tornare in seno alla famiglia d’origine a Recanati.
Una emotività che può essere messa in relazione con l’amore-odio, con i sentimenti forti, senza mezze misure che traspaiono dalle lettere di Pascoli, quando parla, per esempio, del prossimo matrimonio della sorella Ida, che così lascerà il nido: ci appare come lo sfogo disperato e furioso di un innamorato tradito…
L’affettività di Pascoli, così come emerge nel suo privato, rispetto a quella di Leopardi, ha una coloritura in più: un tono infantile, un doppiofondo bambinesco, una vena bambina e piccola che ci dice molto sul suo percorso di crescita di uomo-bambino.
Entrambe le affettività, a nostro avviso, sono il segno di un amore sconfinato nei confronti dei rispettivi genitori, soprattutto verso le madri, ma anche di una deprivazione affettiva subita da bambini, un complesso edipico, certo, a cui si è reagito con il deserto dei sentimenti, con l’assenza di affettività.
In questo caso possiamo parlare di un meccanismo di difesa “lo spostamento” lo spostamento è un processo operato dal Super Io il cui scopo è quello di modificare il contesto reale di un ricordo rimosso (eventualmente con modificazioni radicali) per ridurne l’impatto negativo con la coscienza.
Gli ultimi messaggi
Brillantemente Andrea Galgano, nel suo saggio, ci dice che l’ultimo, estremo messaggio contenuto nell’arte di Leopardi e di Pascoli va oltre le loro traiettorie di vita, così intrise di pessimismo, di sofferenze e di dolore. È la prerogativa dei classici, a distanza di anni e di secoli, quella di parlare agli uomini di tutte le epoche e dunque anche a noi contemporanei: lo diceva Calvino… È la prerogativa, diciamo, dei grandi artisti quella di immaginare il futuro. Lo stesso Galgano descrive nel suo lavoro in cosa consiste questo estremo sbocco dell’esperienza poetica dei due. Ci limitiamo ad accennare ad alcune suggestioni in senso psicodinamico.
Per Leopardi sembra importante questo valore di demistificazione che dà alla poesia nelle sue ultime opere, pensiamo, per esempio a La Ginestra: solo la poesia può smascherare gli inganni e le menzogne della natura e delle ideologie, solo la poesia può farci vedere e accettare la realtà per quello che è, con il suo carico di sofferenza. E solo se eroicamente accettiamo la realtà per quello che è, possiamo costruire un nuovo patto di fratellanza e di solidarietà fra gli uomini. Per un solitario, un isolato quale era Leopardi l’ultima frontiera è dunque un’apertura verso l’altro, verso una comunità di eguali, verso gli altri uomini.
Si parla di Pascoli come di un simbolista. In ogni caso i suoi simboli hanno una precisa base e origine realistica, sensoriale, impressionistica; le descrizioni della natura in Pascoli sono minute, precise, dettagliate, frammentate in una miriade di sensazioni. Ma proprio tutto questo paradossalmente rende la realtà piena di simboli, difficile da leggere, quasi indecifrabile. E solo la poesia, intesa come intuizione quasi mistica, come sguardo altro, visione emotiva, sentimentale verso le cose può andare oltre il fenomeno e consentirci di partecipare al simbolo, a ciò che vi è di più profondo in noi e nel mondo: una visione non più e non solo razionale, che dà finalmente diritto di cittadinanza anche all’irrazionale e all’inspiegabile, un modo di guardare scientificamente, con esattezza il reale, che però sia anche capace di coglierne i simboli e di andare oltre, in profondità, a tentare di stabilire un nuovo legame fra noi stessi e il mondo, una visione allo stesso tempo esatta ed emotiva, fatta con il cuore e con l’anima.
In questo suo ultimo approdo Pascoli sembra quasi prefigurare il future: l’invenzione che stava elaborando, proprio in quegli stessi anni, un medico viennese di nome Sigmund Freud, e cioè la fondazione della psicoanalisi e la scoperta dell’inconscio.
1 http://www.psicoanalisi.it/scienze_biologiche/1881. Cfr. anche F. BOTTACCIOLI, Epigenetica e psiconeuroimmunoendocrinologia: una rivoluzione che integra psicologia e medicina. Psicoterapia e Scienze Umane, 4, 2014, Volume XLVIII, pp. 597-620.
2 Cfr.: A. MARCHESE et al., Letteratura italiana intertestuale. Storia e antologia, vol. 4 e 5, D’Anna, Firenze 1999.
3 F. KAFKA (1919), Lettera al padre, Feltrinelli: Milano 2002, p. 20 (titolo originale Brief an den Vater, pubblicato postumo nel 1952).
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Mosaico (Aracne, 2014, p. 600)non nasce dallo spirito di una collezione di tessere giustapposte, ma dall’idea della composizione che da antico reliquiario di idee trascorse – come quelle degli autori che vi si sono interfacciati per grazie della felice e colta penna di Andrea Galgano – si trasforma in una gestalt che è propria della rappresentazione pittorica nella concezione psicologia più avanzata come quella sostenuta dallo stesso Ernst Gombrich in “Arte e Illusione”.
In questa occasione dovrei parlare di Mosaico e di come è composto, dei tanti scrittori e pittori che il critico d’arte – oramai affermato protagonista del proprio destino di letterato – in qualche modo “affronta”, in questa sorta di “corpo a corpo” con la materia letteraria, per dirla con Giovanni Testori.
Tuttavia vorrei invece fare un’operazione completamente diversa per presentare questo saggio così ricco ed importante che abbiamo l’onore di ospitare in questa giovane e prestigiosa collana. Vorrei portare l’attenzione proprio sulla facoltà del Mosaico di produrre un’illusione di immagine lasciando che questa si costelli nell’immaginazione dello spettatore, che per fuggire allo spaesamento della mente, si aggrappa alla sola certezza della percezione che va a definire un tutto più netto e più coeso che prende il nome di figura. Tutto questo è generato da un autoinganno che nell’arte si chiama illusione, e che gli junghiani chiamano Anima. Alla fine della mia riflessione su Mosaico, vorrei arrivare a dimostrare che se l’Illusione è un processo cognitivo a-specifico proprio di Anima, la percezione complessiva che deriva da questa illusione è governata dal più grave archetipo di Estia, dea Vergine dell’architettura, la più alta e la più composita, e di come questa più vasta operazione psichica della definizione dell’immagine nel mosaico attraverso l’accostamento di elementi più piccoli sia in effetti un’operazione propria della congiunzione di due poli opposti dell’archetipo (femminile), nella fattispecie Anima ed Estia, e che è questo il motivo per il quale questo libro prende il nome di Mosaico.
Mosaico non già base e prodotto della pazienza del conservatore di tesserine isolate (che nel sistemarle ha già dentro di sé un’immagine preconcetta: questo sarebbe se il titolo fosse stato scelto prima, se fosse stato studiato due anni prima a tavolino come un volgare edificio di ragionamento, quale il prodotto di un progetto editoriale e commerciale che si consuma con la mera vendita, e per questo sarebbe non già sotto Anima, ma sotto il glaciale saturno vestito da imprenditore dalle belle vesti di Anima dai grandi occhi di acquatici e penetranti, dal disegno preciso), ma Mosaico complessa dimensione percettiva e compositiva all’interno della vasta babele letteraria del mondo, quale creatura per sua natura frammentaria eppure armonica, emblema di una sintassi che volge alla perfezione seduttiva della paratassi degli elementi, che se messi tutti sullo stesso piano divengono qualche altra cosa, una struttura dotata di un comportamento emergente, per dirla con Humberto Maturana, eppure declinata nei volti delle tre Muse, che sono dotate si di pariteticità, ma ciò nonostante sempre capace di una triplice mutevolezza gerarchica, con la precipua competenza di valutare senza conflitto la posizione subalterna di una a favore della necessaria dominanza dell’altra.
Il termine autopoiesi è stato coniato nel 1972 da Humberto Maturana a partire dalla parola greca auto, ovvero se stesso, e poiesis, ovverosia creazione. Un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente se stesso ed al proprio interno si sostiene e si riproduce. Un sistema autopoietico può quindi essere rappresentato come una rete di processi di creazione, trasformazione e distruzione di componenti che, interagendo fra loro, sostengono e rigenerano in continuazione lo stesso sistema. Inoltre il sistema si autodefinisce, di fatto, ovvero il dominio di esistenza di un sistema autopoietico coincide con il dominio topologico delle sue componenti. Un mosaico è qualche cosa di diverso da un affresco, da un graffito, da un acquerello. Somiglia ad un sogno che si autodetermina con ordine, ed è per questo che distrattamente potrebbe essere considerato razionale ad apollineo. Se l’immagine quindi è netta, non è altrettanto lineare il processo che ascende a questa creazione. È un processo della mente, che ha che fare quasi con la formazione di un fiore, La rosa profunda di Jorge Luis Borges. Lui dice «Vedo la fine e vedo l’inizio, non ciò che sta nel mezzo. Questo mi viene rivelato a poco a poco, quando gli astri o il caso sono propizi. Più di una volta devo tornare indietro e ripercorrere la zona d’ombra. Cerco di intervenire il meno possibile nell’evoluzione dell’opera. Non voglio che snaturino le miei opinioni, di certo insignificanti. […] Uno scrittore, ammise Kipling, può concepire una favola, ma non penetrarne la morale. Deve essere leale con la sua immaginazione, non con le mere circostanze effimere di una supposta “realtà”. La letteratura inizia col verso e può impiegare secoli a ravvisare la possibilità della prosa. Dopo quattrocento anni, gli anglosassoni lasciarono una poesia non di rado mirabile e una prosa appena esplicita. La parola sarebbe stata all’origine un simbolo magico, che l’usura del tempo avrebbe indebolito. La missione del poeta sarebbe restituire alla parola, sia in modo parziale, il suo primitivo o oggi nascosto vigore. Due doveri avrebbe il verso: comunicare un fatto preciso e toccarci fisicamente, come la vicinanza del mare». In questo inizio a La Rosa Profunda (1975), «una raccolta di trentasei testi poetici densi di fatalismo, di un destino crudo e doloroso, dove anche i sogni diventano incubi. Dove però la poesia emerge quasi come salvezza della memoria, come costruzione migliore del sé, della vita. Del destino anche. Perché la poesia sta al di là del sé, della vita, del destino. È l’opera che non appartiene per eccellenza. Non appartiene al poeta perché dopo che l’ha scritta è altro rispetto al poeta. Non appartiene al lettore perché dopo che questi l’ha letta è altro rispetto al lettore (come necessariamente lo era anche prima della sua lettura). Ma nasce e giunge dal poeta al lettore in maniera inesorabile, altrettanto inesorabilmente siglando la propria profondissima tangenza al poeta e al lettore pur essendo a loro inappartenente. La poesia è perché non appartiene, ma proprio in virtù di questo è ancor più profondamente ciò che è».[1]
E il mosaico con la sua qualità di immagine emergente è anche metafora di una poiesi mediata da processi neurosensoriali altamente specializzati. «Hegel nella sua Estetica del 1842 diceva che l’idea derivante dal concetto ha la peculiarità di elevarsi al di sopra di ogni dato sensibile. In un’ottica neurologica tale superiorità deriva dalle innumerevoli registrazioni visive immagazzinate nel cervello: si tratta di immagini mnemoniche selezionate in modo da poter estrarre le caratteristiche essenziali degli oggetti, le loro costanti. In un quadro, allo stesso modo, l’artista può mostrare ciò che è visibile, ma anche ciò che al momento sussiste solo nella sua memoria per accumulazione; così l’arte rappresenta la cosa in sé, traendola dall’interno della mente»[2]. Tuttavia è alla psicologia della gestalt che ci dobbiamo rivolgere, per comprendere la dinamica dell’immagine emergente che è evocata dal mosaico stesso. La psicologia della forma si è occupata della composizione analitica dell’attività di percezione visiva; le percezioni derivano da un feedback sensoriale soggettivo sul modo in cui una certa costellazione di punti crea una forma. La legge dell’organizzazione visiva detta della “chiusura”, per esempio, recita che vi è una «tendenza a vedere un’unica forma definita in un insieme di punti disposti su di una scia circolare, “il destino comune”, la tendenza a ricondurre ad un’unica forma più elementi e punti moventi verso una stessa direzione e “la contiguità di particolari ravvicinati” e la preferenza delle curve, delle forme cioè senza spigoli – individuano le caratteristiche comuni di un oggetto e sono pertanto possedute da tutti gli uomini che appuntano rivelano avere una identica struttura visiva».[3]
La stretta correlazione tra isomorfismo cerebrale e processi di «raggruppamento dinamico» (Richard Gregory), ci risolleva dalla condizione di incerti viaggiatori nella sfera mitografica, ci offre mappe sofisticate, ma ci allontana dalla prospettiva iniziale, quella della nostra necessità di comprendere.
Il Mosaico di Andrea Galgano è come un mandala letterario, il cui «motivo di base è l’idea di un centro della personalità, di una sorta di punto centrale all’interno dell’anima al quale tutto sia correlato, dal quale tutto sia ordinato e il quale sia al tempo stesso fonte di energia: l’energia del punto centrale si manifesta in una coazione pressoché irresistibile, in un impulso a divenire ciò che si è; così come ogni organismo è costretto ad assumere la forma caratteristica della propria natura. Questo centro non è sentito o pensato come IO, ma – se così si può dire – come Sé» (Jung, Simbolismo del Mandala, Opere vo. IX).
Mosaico quindi come primo elemento della costellazione del Sé di questo autore giovane si, ma abitato da un’antica saggezza, una luce di terra, come direbbe Marìa Zambrano nei suoi scritti sulla pittura intitolati Dire luce (Bur, 2013), che non troviamo né in Argini né in Radici di Fiume né in Frontiera di Pagine. Nelle opere precedenti di Andrea Galgano, pubblicate in pochissimo tempo, non si intravvedono ancora quegli elementi architettonici arcaici e silenziosi che invece costruiscono Mosaico: mosaico non è sponda, non è navigazione. Mosaico è chiaritudine, è costellazione, è appunto architettura vergine propria del dominio di Estia. Scrive T.S. Eliot in Quattro Quartetti, che «la dea possiede la libertà interiore […], tuttavia è circondata da una grazia di senso, una bianca luce immobile eppure mobilissima». Estia è vergine, nel senso che è collegata ad uno stato psicologico di integrità interiore, libera dalla dipendenza emotiva e materiale. Ella è sacralizzata al punto che in antichità nessuna casa potesse considerarsi sacra se non dopo avere ad ella dedicato un fuoco. Primogenita di Crono, è il prerequisito dell’azione illuminante della ricerca interiore, dell’edificazione e della centratura, ricorda un mosaico-mandala, polarizzato ma non monadico, immobile di una bianca luce mobilissima al suo interno, come un vero e proprio sistema autopoietico.
Mosaico è libro da leggersi in silenzio. Nel silenzio della casa illuminata dal fuoco bianco della solitudine, in contatto con il proprio sacro fuoco, alla ricerca di quelle riviviscenze che si trovano sfogliando le pagine, come danzando tra le 600 pagine dell’opera tra i poeti, gli scrittori, i grandi romanzieri italiani e stranieri.
Quel che rende speciale Mosaico è di essere un caposaldo, un fortilizio in cui fare scelte personali ma al sicuro, protetti dalla Dea che da Crono ed Era porta la propria anima in porto anche dopo una lunga e tumultuosa navigazione.
Se quindi la percezione dell’immagine completa che emerge dalle infinite tessere, i 90 articoli che si dipanano tra i Opus Musivum, Xenia e Policromi (le tre sezioni di Mosaico) è inevitabilmente dentro l’illusione dell’archetipo di Anima, alimentata dai nostri desideri, dalle nostre proiezioni, dai nostri bisogni emotivi, dalle sirene di Odisseo che disperatamente cerca la forza per tornare a casa; la pienezza dell’immagine, e la sua sostanza viva che è ricca di caleidoscopiche mutazioni, sono invariabilmente sotto l’egida di Estia, la prima, la vergine, la madre ricca di luce e di ombra nella sua dimensione impersonale e introversa che si aggira nella solitudine di una casa sì ritrovata e sicura, ma qualche volta autoreferenziale. I due versanti dell’archetipo, congiungendosi nel Mosaico, offrono quella prospettiva di cammino di cui l’uomo ha bisogno, e quindi anche il lettore: la ricerca si, ma forte di alcune grandi certezze.