L’intenso saggio di Gabriele Morelli, Neruda[1], appena edito da Salerno Editrice, nella collana Sestante, permette di guardare alla vibrante e vertiginosa consegna della poesia nerudiana, attraverso uno studio che si mette al servizio dei suoi transiti elementari, custodendone la forza e l’abbandono.
La materia di Neruda è un solco primigenio di ombre lucenti. La danza della pioggia australe di Temuco condensa i suoi petali oscuri, il tempio selvaggio della natura, i mantelli dei compagni ferrovieri del padre, l’immagina india di Gabriela Mistral, il legno della casa, la calura estiva e il mare come un universo d’acqua,
«alberi, insetti e oggetti di uso comune, come le scarpe consunte, i vestiti logori e bagnati, immagini che restituiscono contatto e calore umano nella solitudine del vasto e desolato panorama della selva australe. Colpisce e sgomenta il piccolo Neftalì il rumore delle tavole scosse dal vento e il sibilo lontano del treno condotto dal padre, che corre sbuffando lungo le radure del bosco».[2]
È il suo pianeta di terra e di notti oceaniche dove regna il vento, di albe solitarie sui frutteti verdi come un lungo fondo di chiarità e stupore. E poi la rincorsa dello pseudonimo, trovato per caso su una rivista, che parlava del poeta praghese Jan Neruda, che diventa la destinazione del suo sangue. Il ragazzo iperestesico scrive il suo Crepusculario di infanzie perdute come fragranze di sogni che tremolano sotto il cielo di seta e il vento, il mare, «i fiammeggianti crepuscoli sono immagini che aprono il primo spazio biografico del giovane Neruda, già cosciente dell’importanza del linguaggio creativo, ma anche preoccupato per un futuro senza speranza[3]», e l’amore infinito per Albertina Rosa Azócar (Marisombra), Terra Vàsquez (Terusa), Marìa Parodi, Laura Arruè, una terra straniera che fa terminare l’infanzia e la forma dell’adolescenza, mostra il senso del limite e la solitudine, il diario dei crepuscoli, la prima luce dell’alba e l’idillio della provincia incantata, che segnano la scrittura dell’anima come una coltre di lettere: «Oh amore / dalla prima luce dell’alba, / del rovente mezzogiorno / e delle sue lance, / amore con tutto il cielo / goccia a goccia / quando la notte passa / per il mondo / con il suo intero naviglio, / oh amore / di solitudine / adolescente».
Nel libro Veinte poemas de amor, Neruda confonde soggetto e oggetto in una fatidica alternanza[4], e, dunque, la poesia diventa la rivelazione di una pienezza oppositiva che combatte il dolore, l’angoscia, la penuria.
È l’inizio del suo simbolismo maturo che diventa rarefazione di immagine. Marina, soprattutto, ma anche immagine di donna plasmata dalla natura, che diviene equorea e madreperlacea, lunare e ricolma di attese vigili, come l’azzurro delle notti che mescolano tessuto urbano e estuari di sogno, oceani e grida. È la dilatazione vergine dello spazio, proteso alla sensualità, al nostos, alla tensione creazionista, ai colori come vertigini iconiche.
Il silenzio dell’amore è un anello di stelle, gli occhi volano via, la voce è assente, un bacio che chiude la bocca, un respiro di sorrisi lontani:
«Mi piaci quando taci perché sei come assente, / e mi senti da lontano, e la mia voce non ti tocca. / Sembra che gli occhi siano volati via / e sembra che un bacio ti abbia chiuso la bocca. / […] Lascia che ti parli anche con il tuo silenzio / chiaro come una lampada, semplice come un anello. / sei come la notte, silenziosa e piena di stelle. / Il tuo silenzio è di stella, così lontano e semplice. / Mi piaci quando taci perché sei come assente. / Distante e dolorosa come se fossi morta. / Una parola allora, un sorriso bastano. / E sono felice, felice che non sia vero».
Il corpo della donna amata è il corpo del mondo. Ed ecco che l’io. lacerato e contuso, raggiunge la bellezza o-scena dell’essere, l’inappagamento straziato dell’inafferrabilità e il ricordo lontano e naufrago, come i falò pallidi che si agitano ai bordi delle notti.
L’Oriente di Neruda, poi, è l’abisso smagato e lucido, l’epifania fragrante della realtà, la gemma vivente e sola: «E salpai per i mari ai porti. / Il mondo fra le gru / e le cantine della sordida riva / mostrò nelle sue crepe ciurme e mendicanti, / gruppi di spettrali affamati / sulle fiancate delle navi».
Oriente è anche Borges[5], vicino e distante, allo stesso tempo, l’Europa di Madrid e Guillermo de Torre, Parigi e la nudità incaica della parola di Cesar Vallejo, la comunione e la libertà con Federico García Lorca come un lampo, e il duro bacio selvaggio del suono della femminilità.
In Residencia en la tierra, la lunga enumerazione della realtà, il caos archetipico, l’intuizione percettiva del mondo, gli oggetti senza risposta testimoniano la cifra di un viaggio oscuro in una vastità che incombe, sgretolando, in un mistero che è frattura di pienezza e di intimità. È un punto di crisi tra la cosa e la parola che sfugge, tra l’io e le sue relazioni, tra il corpo e la sua consistenza nel reale. Il suo dolore ancestrale è un pianto sgranato che reca stanchezza e scarto come un tango vedovo: «Per questo il giorno il lunedì arde come il petrolio / quando mi vede arrivare con la mia faccia da carcerato, / e ulula nel suo corso come una ruota ferita, / e muove passi di sangue caldo verso la notte».
Con la vittoria di Franco ha inizio la grande diaspora degli esuli repubblicani che sono costretti a fuggire dalla Spagna alla ricerca di rifugio nell’America del Sud. La Spagna è, per il poeta, la genesi delle sue radici. Lo sarà anche il suo impegno politico, la ricerca della primordialità umana, la vertigine tellurica ed elementare e il soffio divino, e la linea di un amore: Delia del Carril: «Delia fra tante foglie / dell’albero della vita, / la tua presenza / nel fuoco, / la tua virtù / di rugiada: / nel vento iracondo / una colomba».
La residuata vitalità di Neruda è una vibrazione di accumulo, di detrito e trasfusione immaginativa[6], dove il quotidiano e il suo sconvolgimento semantico affermano lacerazioni e luci, vastità di oceano e amorose, percezioni di senso estremo e impulso, sinfonia di suono e derive di inconscio.
Poi la furia e la pena, la disperazione della Terceira Residencia, dove la denudazione istintuale, il ricordo dell’amore selvaggio, l’oblio, i margini e il dispendio isolato del mondo, i lillà. La sua materia è il vivente, ciò che si libera e ciò che è sente il limite e anche il suo calore, la sua sperduta forma ostinata, gli oggetti e le superfici di un coro di sangue e terra di umide viole.
Gabriele Morelli afferma: «Il processo immaginativo di Pablo Neruda è ancestrale e cosmico, guarda al caos primigenio del mondo e all’atto della trasformazione della materia, teso a oggettivare il flusso dell’io lirico mediante una profonda indagine metafisica[7]».
Il Canto general (1950) nasce nella difficoltà della fuga, dopo l’ordine emanato dal presidente Gabriel Videla, di arresto e prigione. Fuggiasco, braccato come la primigenia e cosmogonica natura dell’America, il tempo della storia e la sua epica. Un deposito mitico che restituisce un territorio arcaico e oracolare, un passato popolato e scandito dalla coltre autentica dei passaggi. È una domanda sofferta che ama il fondo della terra, che lotta contro le ingiustizie e i soprusi, che narra lo spazio australe della nominazione, la forza elementare della realtà e della creazione, come ciò che forma l’oscurità spezzata e il baluginio di ciò che vive, si nutre, palpa pietre notturne, diventa tremula voce di frontiera, la tenue ombra di donna e la sua luce d’universo.
Il discusso premio Stalin del 1953, la sua vicinanza al dittatore, testimoniata nell’ode di commiato dopo la sua morte (salvo poi riconoscere i sui tremendi crimini), e l’adesione al comunismo, come sostiene Alfonso Berardinelli, coinvolgono
«tanto il problema sociale latino-americano che quello del rapporto tra poesia moderna e pubblico. Neruda non aveva ragioni per temere personalmente “il terrore staliniano; quello che ha fatto, lo ha fatto volontariamente”. Non aveva neppure bisogno di opportunismo, perché la sua carriera diplomatica sarebbe stata facile e promettente. In realtà, diventare comunista gli avrebbe complicato la vita. Non era neppure un uomo portato alla fede. Ma alle spalle aveva società latino-americane impoverite, strapiene di diseredati e in cui la democrazia liberale era solo fatta di parole».[8]
Las uvas y el viento misurano il turgore attraverso lo spasmo del tempo, le mani, i contrafforti lunari e Matilde. Il fiore e la bellezza, il mito e la purezza elementare.
Le Odas elementales (1954) rivelano oggetti a riposo, superfici consumate, impurità umane confuse, atti sconci di veglie e sguardi, tersità di azzurri e cortine primordiali[9]: «Odi / di tutti / i colori e grandezze, / serafiche, azzurre / o violente, / per mangiare, / per ballare, / per seguire le impronte sulla sabbia, / per essere e non essere». La semplicità di Neruda è il suo cosmo battuto dalla essenzialità trasparente e dalla inquietudine.
È il suo vocabolario e inventario di sogno vegetale e animale, il dialogo del tempo, simbolico e allegorico, il corpo a corpo con gli elementi, il cibo, le conchiglie. Neruda attraverso la sua profondità elementare coinvolge l’intimità percettiva, la concretezza corposa e luminosa dell’essere, la sontuosità di linee e colori, il colloquio, la lotta.
Extravagario (1958) indica un «ripiegamento, non certo una rinuncia ma uno spazio più attento alla vita, dettato dalla nuova vicenda sentimentale» (p.226) e «registra anche numerosi momenti di dubbio provenienti da lacerazioni che si coagulano in continue domande. Il poeta risponde assumendo su di sé, sull’altra parte inesplorata dell’io, il segno di un comportamento ambivalente, frutto della duplice personalità[10]». Matilde è la cerimonia piovosa dell’argilla e il cuore festoso delle regioni dure, le delizie rosate, il suo corpo dei suoi petali oscuri che costruiscono l’anima. Il poeta vuole il silenzio mentre le cose si risolvono e il suo navigante stravagario che vive nella fragile precarietà, che solleva canti di gesta (da Fidel Castro al guerrillero Che Guevara) e frumento nero quando gli occhi misurano la prateria e cercano l’oscurità, aprendo al mare le porte rotte.
Memorial de Isla Negra (1963) è un abisso germinativo di conoscenza del mondo e di se stessi: il grano che ondeggia sul pendio, l’odore di legname, il rumore della pioggia, l’odore dei boschi, l’infanzia. Vi sono amori che passano e sorgenti di lune, gli anni della lotta politica, il peso dell’aroma. È la sua luce errante come lucciola nella notte e luna oscura di eclisse. La memoria è la grazia, la terra.
La rosa nuda della domanda, i limiti della parola che si riversano nella totalità. L’amore che innalza, il cielo inquieto della natura, lo spazio edenico, la sua fabula di fascino e destino che è in esplorazione, dolore, simmetria luminosa delle direzioni divine, nascita e domanda: «la domanda nerudiana non vuole essere l’incarnazione pura, sovrumana del senso dell’universo, ma l’esperienza esistente del suo incessante movimento. Anela ad essere l’onda che partecipa all’inquietudine dell’oceano[11]».
È la sua fluttuazione, il senso della fine, la vertigine infruttuosa di ogni geografia, perché la poesia possa essere oltre-misura, dono ontico al mondo e vita che si espone e si porge come amore finale e corposo.
[1] Morelli G., Neruda, Salerno Editrice, Roma 2019.
[4]Neruda entre modernidad y postmodernidad, in Los Premios Nobel de Literatura Hispanoaméricanos, ed. de L.Íñigo Madrigal, Genève, Fundación Patiño, 1994, pp.35-36, pp.40-41.
[5] Barrientos J.J., Borges y Neruda, in «Revista de la universidad de México», 2011.
[6] Alonso A., Poesía y estilo de Pablo Neruda, Sudamericana, Buenos Aires 1966.
[8] Berardinelli A., Il fallimento di Pablo Neruda, poeta che riuscì a mutilarsi con le proprie mani, in “Il Foglio”, 23 maggio 2019.
[9] Loyola H., Loyola H., Los textos: algunas observaciones dans (Notas Estravagario), De «Odas elementales» a «Memorial de Isla Negra» 1954-1964, (Obras completas, Tomo II), Edición de Hernán Loyola, Galaxia Gutemberg, Barcelona 1999, p.1352.
[11] Sicard A., Lo breve y lo interminable (A propósito del ‘Libro de la preguntas’ de Pablo Neruda), in « Nerudiana », 1 1995, p.153.
Morelli., Neruda, Salerno Editrice, Roma 2019, pp.315, Euro 21.
Alonso A., Poesía y estilo de Pablo Neruda, Sudamericana, Buenos Aires 1966.
Barrientos J.J., Borges y Neruda, in «Revista de la universidad de México», 2011.
Rodríguez Monegal E., Neruda: el viajero immóvil, Monte Aviles, Caracas 1976.
Berardinelli A., Il fallimento di Pablo Neruda, poeta che riuscì a mutilarsi con le proprie mani, in “Il Foglio”, 23 maggio 2019.
Cortázar J., Neruda entre nosotros, in «Plural», 30 1974.
Favale E., Neruda raccontato da Gabriele Morelli (www.linkiesta.it/it/blog-post/2019/05/18/neruda-raccontato-da-gabriele-morelli-intervista/28029/?fbclid=IwAR1025cw-tzN7mEKP9vulFgjvra12e7qdHgCx_B7J7A18dnODOu_AJNT7eQ), 18 maggio 2019.
Loyola H., Los textos: algunas observaciones dans (Notas Estravagario), De «Odas elementales» a «Memorial de Isla Negra» 1954-1964, (Obras completas, Tomo II), Edición de Hernán Loyola, Galaxia Gutemberg, Barcelona 1999.
El joven Neruda (1904-1935), Lumen, Santiago de Chile 2014.
Neruda entre modernidad y postmodernidad, in Los Premios Nobel de Literatura Hispanoaméricanos, ed. de L.Íñigo Madrigal, Genève, Fundación Patiño, 1994, pp.35-36, pp.40-41.
Sicard A., Lo breve y lo interminable (A propósito del ‘Libro de la preguntas’ de Pablo Neruda), in « Nerudiana », 1 1995.
La poesia di Miguel Hernández[1] (1910-1942) rastrema il fondo della naturalezza più insolita, si appropria, attraverso un linguaggio annunciato e tellurico[2], del fondale raffermo dell’essere, cadenzando in un battito luminoso, la frequenza di una spezzatura ferita e di un gemito indomito. Affermare la potenza e l’abbandono di questa lucentezza in disparte, contadina e popolare, significa siglare un quaderno di guerriglia e superficie che ritorna all’origine incantata di un’appartenenza.
Se, dapprima, la centralità lessicale si dirige attraverso un ripristino agreste e materico di gioventù e ardore frammentato, successivamente il gesto poetico finisce per levitare «a favore di una riflessione che assume i caratteri soffusi di un accadimento interiore, dove s’impongono le presenze familiari della moglie e del figlio, uniche note positive di conforto e speranza. Il richiamo ossessivo di Josefina, come pure l’evocazione gioiosa del figlio, uniche note positive di conforto e speranza[3]».
La dilatazione dell’esistenza si afferma in una dizione autobiografica affamata ed intensa che attraverso la fatica, la desperanza, il lavoro e il sudore, pedinano lo scranno del futuro, del sangue destinato e della vita in attesa.
Giovanni Darconza, infatti, scrive:
Due le battaglie combattute da Hernández nel corso della sua vita. La prima contro le truppe franchiste e, più tardi, contro la prima fase della dittatura. In questa prima battaglia Hernández soldato è stato sconfitto e imprigionato. Ma anche rinchiuso fra solide sbarre troverà il coraggio di ripetere incessantemente: «Ata duro a ese hombre: no le atarás el alma». Sconfitto nel corpo ma mai nell’anima, nonostante le disgrazie e le sofferenze patite, lo spirito eroico del poeta di Orihuela conserverà fino all’ultimo la speranza di un futuro migliore se non per lui, almeno per il figlio nato all’inizio della contesa, e che Hernández riuscirà a vedere solo in poche occasioni. La seconda battaglia combattuta da Hernández fu molto più dura e insidiosa. Una battaglia più universale, che richiama alle armi tutti gli uomini di ogni nazione e fazione, e non è ristretta unicamente ad un preciso ambito geografico (la Spagna) né ad un determinato contesto storico (la guerra civile). Una battaglia combattuta contro nemici molto più infidi e pericolosi di Franco: il tempo e l’oblio. In questa seconda guerra Hernández è uscito alla fine vincitore[4].
La declinazione dell’assenza, celebrata nell’autobiografia intima[5] e quotidiana di Cancionero y romancero de ausencias[6], vive in un doppio eccesso: vita nella morte e morte[7], come limite e dolore ascensionale, nella vita, sviluppando l’estremità lessicale attraverso una ellittica e occulta trasposizione semantica che muove l’individualità nella storia collettiva[8] del mondo.
La singolarità è l’accesso dell’umano all’universale. L’animata traslazione lessicale, che tocca ogni spostamento metrico ed espressivo, nutre la sua poesia dionisiaca che spinge alla conversione della forza cosmica in passione “installata” nella punta del destino, come sostiene José Antonio Serrano Segura[9].
La verticalità dell’assenza, pertanto, coinvolge anche la cromatura sensuale della creaturalità femminile, vissuta attraverso lo spostamento metaforico dell’impossibile e dell’ inconcepibile[10]. È la ripetizione di una stanza che ricorda lo struggimento e la distanza degli occhi, della voce, del fiato, del corpo, della bocca e del raggio fragile e fatale che non termina, come qualcosa che tutto assomma e ingloba nel suo bene perduto e nel suo tatto in esilio[11].
Esiste un lungo posto di respiri scheggiati dalla mancanza ripetuta e della violenta rigenerazione: «Assenza ovunque vedo: / i tuoi occhi la riflettono / Assenza ovunque ascolto: / la tua voce suona a tempo. / Assenza ovunque aspiro: / il tuo fiato odora d’erba. / Assenza ovunque tocco: / il tuo corpo si svuota. / Assenza ovunque provo: / la tua bocca mi esilia. / Assenza ovunque sento: / assenza, assenza, assenza».
Laddove la fumosa condensazione del presente e del futuro eleva ogni minaccia funerea, Hernández ripone la sorgente del cuore dell’altro nel ventre[12], riconducendo, come afferma Gabriele Morelli, «il sesso alla sua centralità, secondo una concezione sacra e primitiva appresa dalla natura durante la sua esperienza di pastore[13]».
La musica sensoriale si concreta in una gravitazione percezione soffusa, nel porto confortato del presente, contro ogni lontana e indistinta confusione di fugacità, contro ogni oscurità che affiora dalle profondità rare e vane, per attestarsi nella salvazione amorosa e nello svelamento erotico: «Meno il tuo ventre, / tutto è confuso. / Meno il tuo ventre, / tutto è futuro, / vano, passato / sterile, oscuro. / Meno il tuo ventre, / tutto è insicuro, / tutto è ultimo, / polvere e nulla. / Meno il tuo ventre / tutto è oscuro. / Meno il tuo ventre / chiaro e profondo».
La densa costellazione gravida della distanza fa raccogliere all’universo la promanata storia di dense risonanze e gravitazioni, come commenta María Ortega Máñez:
Le parole si affilano come per cogliere la lacerazione del sentimento: da una parte il disamore, espresso con violenza dal giovane poeta, da un’altra parte l’amore, che muove sempre in Hernández da una realtà concreta, quella fisica. Le liriche amorose posteriori a El rayo que no cesa, ispirate quasi tutte dalla moglie Josefina Manresa[14], esprimono la gioia dell’unione con la disperazione della lontananza. Presente o assente, il corpo c’è, emanando una sensualità naturale, predicando l’essenziale materialità di ogni cosa […] Il corpo è infatti talmente integrato nell’amore e nella vita, che certe volte viene esaltato, facendogli assumere una dimensione mistica. In Io non voglio altra luce che il tuo corpo davanti al mio il corpo della donna irradia la luce che illumina il mondo e dà senso all’esistenza del poeta. Corpo e anima, desiderio e trascendenza fanno un tutto senza fessure, cosmico[15].
Il troncamento del tempo ha lampi nel petto che percorrono la nera prospettiva del viaggio, la mutilazione scura e spezzata che entra addosso nella vita recisa in guerra e nella sospensione infranta: «Ogni volta più presente. / Come se un lampo veloce / ti portasse nel mio petto. / Come un lento, lento / lampo. / Ogni volta più assente. / Come se un treno lontano / percorresse il mio corpo. / Come se una nave nera, / nera».
Scrive Giuseppe Conte:
Miguel Hernández compose versi che sono abitati dal senso dell’assenza ma anche da amore, grazia, innocenza, e da immagini che saldano la condizione privata del poeta a quella delle forze della natura e del cosmo. Se la storia è il regno dell’orrore, il poeta, anche quando compie scelte militanti, vive in un regno antagonista, dove hanno voce il canto di un popolo e il canto del mondo, le visioni, i sogni, il balenare delle immagini più ardite[16].
Spesso la mutilazione si esprime attraverso una disorganica posizione di dettagli che uniscono grido e ferita, morte e ferita, strada e cuore cinereo. L’isotopia del poeta di Alicante è una gradazione di terra riarsa e desertica, come se fosse un urlo di bocca in disparte.
Nel territorio straniero che appartiene ai cani, il cuore resiste ancora in tutta la sua fertile lucentezza e dolcezza, come fulmine fecondo. È l’esito di una astralità sofferta che si espone e, allo stesso tempo, ritrae un mondo dialettico e complesso: «Bocche di rabbia. / Occhi in agguato. / Cani ululanti. / Cani e poi cani. / Tutto deserto. / Tutto riarso. / I corpi e i campi, / i corpi e i corpi. / Che brutta strada, / che cinereo / il tuo cuore, / fertile e dolce!».
La forma dell’assenza diviene suono ferito e specchio disabitato. Come se la voce fosse cinta da un grido speciale di camere solitarie e di foto aride nel vento, ancora una volta, cinereo: «Un vento cinereo / grida nella stanza / dove lei gridava / cingendo la mia voce. / Camera solitaria, / con il suono ferito / del vento cinereo / che grida tutt’intorno. / Specchio disabitato / Intimorita panca / contro l’arida foto, / letto senza calore».
La tragedia che compone il dramma delle terra è una appartenenza e una condanna, al tempo stesso. Concepire la segregata e irrigata Alicante, il lavoro contadino, il combattimento ultimo significa proporre la gemma di un dissotterramento che si espone alla luce, destinare l’inesorabilità alla maternità del principio e della fine alla soglia partoriente, così come alla penetrazione materiale che genera e rigenera il suo eterno ritorno e il suo sangue remoto[17].
Hernández avverte in modo inesauribile e preponderante il dolore della ferita sconvolta. In questo destino di dramma, di fame e di mancanza, la paternità e la dinamica affettiva esprimono una gioia tragica, come scrive ancora María Ortega Máñez:
Il sangue figura questa volontà di vita, è animo per chi combatte; ma allo stesso tempo, si tratta di sangue solamente quando lo si perde, quando si è prossimi alla morte, per le ferite o per la malattia. […] Sembrerebbe quasi che il sangue tracci questo vincolo fra vita e lotta di cui si nutre il tragico. E come il tragico, il sangue a volte si rovescia in gioia: l’immagine del sangue che sgorga si associa al germogliare dei fiori, alla primavera[18].
La disperata vitalità, espressa nei versi in cella, in cui egli legge la lettera della moglie che gli racconta di mangiare pane e cipolla e che il figlioletto inizia a mostrare i primi denti, determina la lacerazione disperata e splendente di una tensione luminosa. Un gorgo di parallele escoriazioni e veglie amorose. La cipolla è la fame, «il ridere è libertà, che «mette le ali», mentre i denti sono un’arma, «cinque minute ferocie». Il bimbo ride, sazio ed ignaro della triste circostanza: ecco la gioia tragica che vince l’abbattimento[19]»:
Nella culla della fame / il mio bimbo stava. / Con sangue di cipolla / lui si allattava. / Ma il tuo sangue, / brina di zucchero, / cipolla e fame. / Una donna bruna, / dissolta in luna, / si versa filo a filo / sopra la culla. / Ridi, bambino, / che ti porterò la luna / quando ne avrai bisogno. / Allodola della casa, / ridi molto. / Il riso nei tuoi occhi / è la luce del mondo. / Ridi tanto, / che la mia anima udendoti / vinca lo spazio. / Il tuo riso mi libera, / mi mette le ali. / Solitudine mi toglie, / carcere mi strappa. / Bocca che vola, / cuore che sulle tue labbra / manda scintille. / Il tuo riso è la spada / più vittoriosa. / Vincitore dei fiori e delle allodole. / Rivale del sole, / futuro delle mie ossa / e del mio amore[20].
O come l’immagine della guerra che tronca e uccide il campo dell’esistere, il grido-tremore delle madri, sollevando la fiamma dell’odio, chiudendo le porte all’amore, nelle bocche giunte come pugni, negli occhi spumati nel nero, per scomparire nell’ansia dilatata di un inganno di frontiere: «Il sangue percorre il mondo, / imprigionato, deluso. / I fiori si dissolvono / divorati dall’erba. / Ansia d’uccidere invade / la profondità dei gigli. / Ogni corpo desidera / di congiungersi ai metalli, / accoppiarsi, possedersi / in un modo terribile. / Scomparire: regna l’ansia / generale, dilatata. / Un fantasma di stendardi, / una chimerica bandiera, / un mito di patrie: un grave, / inganno di frontiere».
Lo strenuo combattimento con il cielo disanimato, l’aiuto contro il vuoto, il corpo ferito e insanguinato divengono la terra di corpi, soli e aurore da desiderare, un frammento d’ombra, un soffio sulla fronte spessa, un ventre di archi, dove ricercare il canzoniere del ventre remoto che possa offrire alla rarefatta, trasparente ed immediata coltre umana l’accensione dell’inciampo tra le nubi e la remota consistenza delle soglie.
In un germoglio abraso che cerca di rinvigorire, attraverso il suo appello, l’anima costernata delle disgrazie e delle passioni, l’incanto del corpo è luce sopravvivente, il pozzo, la palma ascendono ogni sradicamento e ogni congedo[21].
«Il pozzo e l’alta palma / affondano nel tuo corpo / abitato da ascendenze», scrive nel suo lungo romanzo di sperdute folate e ferite, rischiando la materialità per farsi primitivo vortice e anima affacciata sul corpo: «Non affacciarti / alla finestra, / che non c’è nulla in questa casa. / Affacciati alla mia anima. / Non affacciarti / al cimitero, / che non c’è nulla tra queste ossa. / Affacciati al mio corpo».
Lo sguardo della contemplazione unisce poli opposti, condensando il bacio in un angolo di corone e terra da inseguire fino allo zenit di ogni sguardo calato e vissuto. In essa si compie il silenzio delle distanze, l’accensione del ricordo, l’ombra solare, il silenzio delle fiamme e il freddo vestito dove arde il sangue e l’immagine rotta: «Di quell’amore mio, / che resta nell’aria? / Solo un freddo vestito / dove arse il sangue».
La primordialità tragica di Hernández trabocca in tutta il suo luminoso offuscamento, in tutta la sua lacerazione e smania fisica. Torna a baciare l’oggetto amato come uno schianto di precipizi ed eredità sprofondate, vissute in solitudine[22]: «Io tornerò a baciarti, / tornerò, cado, sprofondo, / mentre scendono i secoli / nei precipizi profondi / come ardente nevicata / di baci e innamorati. / Bocca che hai dissotterrato / con la tua lingua il mattino / più lucente. Tre parole, / tre fuochi hai ereditato: / vita, morte, amore. Sono là / sulle tue labbra impressi».
È l’esagerata e provvida sfrontatezza amorosa che spazza l’abisso e lo abita, gemendo nella materia controluce. La sfiorata trasparenza perfetta dell’alba del corpo che annuncia la vetta e il ponente dei fantasmi, sulla fronte, sulla bocca dell’elegia disperata e trasognata e, allo stesso tempo, feconda di lontananze dorate e neri sorsi di erbe scure: «Corpo chiaro, bruno di colore fecondante. / Erba nera l’origine; / erba nera le tempie. / Nero sorso sono gli occhi, lo sguardo lontano. / Giorno azzurro. Notte chiara. Ombra chiara che giungi. / Non voglio altra luce che la tua ombra dorata, / là dove germogliano anelli di un’erba scura. / Nel mio sangue, dal tuo corpo fedelmente acceso, / per sempre è la notte: per sempre è il giorno».
La rivelazione inedita del mondo sfiora e concentra la sostanza essenziale dell’essere e adunano, come afferma María Ortega Máñez:
questa realtà materiale – questa senziente carne aleteante –, catturano poderosamente tutta la vita intorno. Hernández mira al suolo che calpestano gli uomini, alla terra che solca l’aratro, allo scenario reale della vita e della morte, e questa realtà essenziale, fatta di «braccianti», «sudore», «cipolla», «bacio», «sangue», «fiato», impone le sue leggi. Forse è la ricerca di questa autenticità che rende la sua poesia così necessaria. […] La lingua di Hernández è tessuta con questo rude amore per la materia, travagliata da un’attrazione spasmodica per le cose[23].
Ecco cosa avviene in Il pesce più vecchio del fiume:
Il pesce più vecchio del fiume, / avendo egli accumulato / tanta saggezza, viveva / brillantemente oscuro. / E l’acqua gli sorrideva. / E tanto oscuro diventò / (per nulla l’acqua lo svaga) / che, dopo tanto pensare, / prese la strada del mare, / che poi è quella della morte. / Tu hai riso presso il fiume, / bimbo solare. E quel giorno, / il pesce più vecchio del fiume / si tolse il cupo sembiante. / E l’acqua ti sorrideva[24].
Lo sperpero di amore e disamore scandaglia presenze e assenze in una interruzione spasmodica[25]. La smisuratezza del dolore e del taglio umano, la demarcazione compagna dell’anima, il sentiero tacito delle viscere sdoppiano gli ampi gesti della vita e della morte, delle parti scure e fiammeggianti, del sorriso arrogante di fronte la pena e, infine, di tutto il ciglio della vita trascorsa.
Il vissuto è una riemersione di albe e tinte compiute che rappresentano l’inesausta ripetizione, la sofferta antitesi e la pronuncia chiusa di ciò che sbalestra l’intimo («Naufragi percorsero, / più profondi ogni volta / nei corpi, nelle braccia. / Inseguiti, sommersi / da un’enorme distesa / di ricordi e di lune, / di novembre e di marzo, / sbattuti si videro / come polvere lieve: / sbattuti si videro, / però sempre abbracciati») o come l’aia, conforto che accoglie il bacio dopo lo sparo sul monte.
In Figlio della luce e dell’ombra, l’intreccio primordiale dell’amore ha acme trascendente e visionarietà primitiva. L’immagine della donna amata trasfigura la forgiata ombra del potere lunare e femminile, e nella notte che getta la sua ansia avida di potere ed incanto, ella appare in tutto il chiarore notturno, nella vetta dei mattini e dei tramonti.
È il sordo incendio di scontri che abitano le palpitazioni dell’ombra, l’anima vagante, il nido chiuso che spinge verso la luce nascente, l’abbraccio e i baci-lampi, le bocche addosso e il letargo della terra commossa, fino al figlio che nasce dalle oscurità lucenti come semina di astri. Tutto culmina nella nascita dello zenit siderale, un abbraccio nuziale dentro il tempo che accomuna dolore e rigenerazione per tenere la vita in un abbandono di tenerezza, «vita, che grazie alla forza dell’amore, si eleva a trascendenza della carne liberata dal peso e dall’involucro di origine animale. In questa intensa rappresentazione della nascita, di concezione panica e lucreziana, è riflessa l’esperienza giovanile di Hernández vissuta nella conduzione del gregge familiare[26]»:
Vuole che ci gettiamo tu ed io sulle lenzuola, / tu ed io sulla luna, tu ed io sulla vita. / Vuole che noi bruciamo fondendo nella gola, / con tutto il firmamento, la terra commossa. / Il figlio è nell’ombra che accumula stelle, / amore e midollo, luna e lucenti oscurità. / Germoglia dalle sue indolenze e dalle sue cavità, / e dalle solitarie e spente città. / Il figlio è nell’ombra: dall’ombra è sorto, / e al suo nascere infondono gli astri una semina, / un succo latteo, un flusso di caldi battiti, / che spingerà le sue ossa al sogno e alla donna. / L’ombra sta muovendo le sue forze siderali, / distende l’ombra le sue tenebre stellate, / e investe le coppie e le rende nuziali. / Tu sei la notte, sposa. Io sono il mezzogiorno[27].
La donna poi si avvolge nell’albore di un mattino cosmico. L’alba e il sole pronti a incontrarsi in una penombra socchiusa. Il corpo, ancora una volta, è il territorio dell’anima vibrata al centro della luce, la notte sembra addensarsi e scomparire in questa ora solenne, dove esplodono gli orologi e dove il ventre sta per annunciare la vita nel suo trono luminoso di panni e ombre.
Il cuore affiora nel respiro della nascita imminente, tacendo l’amore nel fiato di ciò che è addormentato e desto: «Non t’amo in te sola: t’amo nella tua gente / e in ciò che dal tuo ventre discenderà domani. / Poiché l’umana specie ho avuto in retaggio, / la famiglia del figlio sarà la specie umana. / Con l’amore sopra, addormentati e desti, / continueremo a baciarci nel figlio profondo. / e nel nostro bacio si baciano i nostri morti, / si baciano i più antichi abitanti del mondo».
La sposa e il figlio rappresentano la gemmazione vibrata di un tempo cosmico che rigenera e ridesta il tessuto sottile del mondo. Il miracolo dell’esistere e del vivente aggiungono la fragilità dolce della tenerezza alla epifania corporea e femminile della donna e all’impeto umbratile e ricolmo della venuta del figlio.
Tutto il tempo poetico concorre a un inseguimento di concretezza e nascita, per cui il tempo del rigoglio diventa alveare di latte e spuma, dolcezza di sangue, fecondità femminile in cui “seppellirsi” e diventare frammento indissolubile[28].
Afferma Gabriele Morelli:
Hernández canta ed esalta il corpo della donna che ha generato, descrive i seni materni come sorgenti che «lottano e si incalzano con bianche effusioni»; sente correre nelle sue vene «un rumore di latte, di piena, di nozze accanto a te, percorsa da flutti sonori». Teso sul suo corpo, ausculta il mistero della vita che nasce, ne descrive le profonde e riposte manifestazioni. I versi, ricchi di simboli e aromi della natura mediterranea, celebrano la sposa ed ancor più il corpo della madre che, dopo l’impeto d’amore, si apre al figlio[29].
Nelle prigioni, nei trasferimenti, nell’occlusione del mondo, nella malattia drammatica che lo conduce alla morte come un’ombra precipitata, il poeta avverte il potere della luce sepolta e di un’ombra senza fine: non esiste cielo o stelle, nemmeno stelle o corpi tangibili, l’aria non ha volo, ma solo la sommità di un lungo lutto di segni violacei e denti assetati di colore.
Tutto è mancante e soffocato nelle dense tenebre, senza trovare l’orma del giorno nei pugni serrati e nella lotta oscura di battiti sordi. È la lacerata promessa di un grido irradiato fino alla fine, come accade in Eterna Ombra (Eterna sombra):
Solo il fulgore dei pugni serrati, / lo splendore dei denti che scrutano. / I denti ed i pugni da tutti i lati. / Più delle mani, i monti si abbracciano. / Oscura è la lotta senza sete di domani. / E che distanza di battiti sordi! / Io sono un carcere con una finestra / su un immenso deserto di ruggiti. / Sono un’aperta finestra che ascolta, / dove vedo tenebrosa la vita. / Ma c’è un raggio di sole nella lotta / che lascia per sempre l’ombra sconfitta[30].
L’estrema lotta che si radica nella stanza interiore di Hernández si muove attraverso una duplicità di fronti, la capacità di soffrire, il presente della morte da un lato («Noi poeti siamo il vento del popolo: nasciamo per passare soffiati via attraverso i suoi pori e per condurre i suoi occhi e i suoi sentimenti verso le cime più belle. Oggi, questo oggi di passione, di vita, di morte, ci spinge in un modo imponente a te, a me, ad alcuni, verso il popolo. Il popolo attende i poeti con l’orecchio e l’anima stesi ai piedi di ogni secolo[31]»), e la carnale dilatazione della dismisura[32] dell’amore dall’altro, spaesando la memoria selvatica e segnando una feritoia di speranza che si spalanca verso una puntualità, sostiene Vicente Aleixandre,
[…] che potremmo definire del cuore: chi ne avesse avuto bisogno nel momento della sofferenza o della tristezza, lo avrebbe trovato al momento giusto. Silenziosamente, offriva la sua gentilezza e compagnia, e la sua parola veritiera, a volte una sola, creava un clima fraterno, l’atmosfera dell’intesa, su cui la mente che soffre poteva riposare, respirare. Lui, nonostante i tratti duri, aveva la delicatezza infinita di chi non è soltanto veggente, ma ha un’anima grande. La sua pianta sulla terra non era l’albero che dà ombra e frescura. Per le sue qualità umane avrebbe potuto più di tutti i suoi simili, così affascinante nella sua naturalezza[33] (traduzione inedita di Irene Battaglini).
Bibliografia
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[1] Cfr. Hernández M., Obra escogida, prólogo de Arturo del Hoyo, Aguilar, Madrid 1962; Poesias completas, edición de Agustín Sánchez, Vidal, Madrid, Aguilar 1979; Poesie, a cura di Dario Puccini, Feltrinelli, Milano 1962.
[3] Morelli G., Miguel Hernández: La vita, l’amore e la morte, in HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, a cura di Gabriele Morelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2014, p.7.
[4] Darconza G., La poetica dell’assenza nei versi di guerra di Miguel Hernández, in «Linguæ & – Rivista di lingue e culture moderne», 2, 2006, pp. 57-58.
[5] Cfr.Pérez Bazo J., Síntesis ética y estética de Miguel Hernández: Cancionero y romancero de ausencias, en Aa.Vv., Miguel Hernández. Cincuenta años después, T. II, Alicante – Elche – Orihuela, Comisión de Homenaje a Miguel Hernández 1993, pp.623-633.
[6] Hernández M., Cancionero y romancero de ausencias, edición de Josè Carlos Rovira, Lumen, Barcelona 1978, Alicante 1985; Canzoniere e romanzero di assenze, a cura di Gabriele Morelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2014.
[7] Pazos Barrera J., La poesía de Cancionero y romancero de ausencias, in Aa.Vv., Homenaje a Miguel Hernández, Embajada de España, Quito Ecuador, Ecuador 1993, p. 168.
[8] Rovira J. C., Cancionero y romancero de ausencias de Miguel Hernández: Aproximación crítica, Alicante, Instituto de Estudios Alicantinos 1976, p. 27.
[10] Rovira J. C., Léxico y creación poética en Miguel Hernández. (estudio del uso de un vocabulario), Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, Alicante 2000, p.133.
[11] Cfr. González Landa M.C., Estudio del Cancionero y romancero de ausencias de Miguel Hernández, Caja de Ahorros Provincial de Alicante, Alicante 1992.
[12] Nel suo memoriale Pablo Neruda scrive: «[Miguel] mi narrava quanto fosse impressionante poggiare il suo orecchio sul ventre delle capre addormentate. Così ascoltava il rumore del latte che giungeva alle mammelle, il rumore segreto che nessuno tranne quel poeta di capre, ha potuto ascoltare», in Neruda P., Confieso que he vivido, Einaudi, Torino, 1998, p.151.
[14] Manresa J., Recuerdos de la vida de Miguel Hernández, Colección nuestro Mundo nº 4, Serie: Arte y cultura, 2ª Edición corregida y aumentada, Ediciones de la Torre, Madrid 1981.
[20] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.147.
[21] Cfr. Zamora G., Miguel Hernández, poeta (1910-1942), El Grifón, Madrid 1955.
[22] Cfr. Zardoya C., Miguel Hernández (1910 – 1942). Vida y Obra – Bibliografía – Antología, Hispanic Institute in the United States, New York 1955, p. 76.
[27] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.101.
[28] Cfr. Recio Mir A., La última estación poética de Miguel Hernández: símbolos y sentidos, en Aa.Vv., Miguel Hernández. Cincuenta años después, T. II, Alicante – Elche – Orihuela, Comisión de Homenaje a Miguel Hernández 1993, pp. 647-653.