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La poesia di Kim Addonizio

Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella

Biografia

Kim Addonizio, nata il 31 luglio 1954 a Washington, D.C., ha conseguito la laurea e il master presso la San Francisco State University. Ha pubblicato numerose raccolte di poesie, tra cui “Exit Opera” (2024), “Now We’re Getting Somewhere” (2021) e “Tell Me” (2000), finalista al National Book Award. Tra le sue opere in prosa ci sono il memoir  “Bukowski in a Sundress” (2016), due romanzi e diverse guide alla scrittura.

Addonizio ha ricevuto borse di studio dal National Endowment for the Arts e dalla Guggenheim Foundation, oltre a numerosi Pushcart Prizes. Insegna corsi di poesia online e vive a Oakland, California.

 

 
New Year’s Day

The rain this morning falls
on the last of the snow

and will wash it away. I can smell
the grass again, and the torn leaves

being eased down into the mud.
The few loves I’ve been allowed

to keep are still sleeping
on the West Coast. Here in Virginia

I walk across the fields with only
a few young cows for company.

Big-boned and shy,
they are like girls I remember

from junior high, who never
spoke, who kept their heads

lowered and their arms crossed against
their new breasts. Those girls

are nearly forty now. Like me,
they must sometimes stand

at a window late at night, looking out
on a silent backyard, at one

rusting lawn chair and the sheer walls
of other people’s houses.

They must lie down some afternoons
and cry hard for whoever used

to make them happiest,
and wonder how their lives

have carried them
this far without ever once

explaining anything. I don’t know
why I’m walking out here

with my coat darkening
and my boots sinking in, coming up

 

with a mild sucking sound
I like to hear. I don’t care

where those girls are now.
Whatever they’ve made of it

they can have. Today I want
to resolve nothing.

I only want to walk
a little longer in the cold

blessing of the rain,
and lift my face to it.

 

 

Il Giorno di Capodanno

La pioggia questa mattina cade
sulla poltiglia della neve

e la spazzerà via. Riesco a sentire
l’odore dell’erba di nuovo, e le foglie logore
venir inghiottite dal fango.
I pochi amori che mi è stato concesso
di mantenere stanno ancora dormendo
sulla West Coast. Qui in Virginia

cammino attraverso i campi con soltanto
un paio di giovani mucche per compagnia.
Dall’ossatura robusta e timide,
sono come le ragazze che ricordo
dalla scuola media, che non
parlavano mai, che tenevano le teste

chine e le braccia conserte sui
loro nuovi seni. Quelle ragazze

hanno quasi quarant’anni oggi. Come me,
devono affacciarsi qualche volta

ad una finestra a notte inoltrata, di fronte
ad un giardino silenzioso, ad una

sedia a sdraio arrugginita e alle pareti diafane
delle case delle altre persone.
Devono distendersi qualche pomeriggio
e piangere a dirotto per coloro
che le resero felici,
e domandarsi come le loro vite
le abbiano portate
fino a quel punto senza mai
dare alcuna spiegazione. Non so
perché io stia camminando qui fuori

con il cappotto che si annerisce
e gli stivali che affondano, riemergendo

con un morbido suono da suzione
che mi piace ascoltare. Non mi importa

dove queste ragazze siano adesso.
Qualsiasi cosa abbiano fatto delle loro vite

possono tenersela. Oggi non voglio
risolvere niente.
Voglio solo camminare
un po’ più a lungo nella fredda

benedizione della pioggia,
e alzare il viso in su.

The Singing

There’s a bird crying outside, or maybe calling, anyway it goes on
and on
without stopping, so I begin to think it’s my bird, my insistent
I, I, I that today is so trapped by some nameless but still relentless
longing
that I can’t get any further than this, one note clicking
metronomically
in the afternoon silence, measuring out some possible melody
I can’t begin to learn. I could say it’s the bird of my loneliness
asking, as usual, for love, for more anyway than I have; I could as
easily call it
grief, ambition, knot of self that won’t untangle, fear of my own
heart. All
I can do is listen to the way it keeps on, as if it’s enough just to
launch a voice
against stillness, even a voice that says so little, that no one is
likely to answer
with anything but sorrow, and their own confusion. I, I, I, isn’t it
the sweetest
sound, the beautiful, arrogant ego refusing to disappear? I don’t
know
what I want, only that I’m desperate for it, that I can’t stop asking.
That when
the bird finally quiets I need to say it doesn’t, that all afternoon
I hear it, and into the evening; that even now, in the darkness, it
goes on.

 

 

Il canto

C’è un uccello che piange fuori, o forse grida, in ogni caso continua
incessante,
senza fermarsi, così inizio a pensare che sia il mio uccello, il mio insistente
io, io, io che oggi è talmente intrappolato da qualche desiderio senza nome
ma pur sempre irrefrenabile
che non riesco ad andare più avanti di così, una nota che ticchetta
in maniera metronomica
nel silenzio del pomeriggio, scandendo qualche possibile melodia
che non potrei mai imparare. Potrei dire che è l’uccello della mia solitudine
che chiede, come al solito, amore, o comunque più di quanto io ne abbia; Potrei
con altrettanta semplicità chiamarlo
dolore, ambizione, un nodo del sé che non si vuole sciogliere,  paura del mio
cuore. Tutto ciò
che posso fare è ascoltare il modo in cui persiste, come se bastasse
scagliare una voce
contro la quiete, anche solo una voce così flebile, a cui probabilmente
nessuno risponderà
con nient’altro che dolore e confusione. io, io, io, non è il
suono
più dolce, il bellissimo, arrogante ego che si rifiuta di scomparire? Non
so
cosa voglio, so solo che ne ho un bisogno disperato, e non riesco a smettere di chiederlo.
Che quando
l’uccello finalmente tace, devo convincermi che non sia vero, che per tutto il pomeriggio
io lo sento, e fino a sera; e anche adesso, nel buio,
persevera.

 

Blue Door

Today I passed the house
we rented last summer.
It was only a glimpse
as I drove by-
blue door,
adobe arch painted with flowers.
In memory
your dusty van is parked on the gravel
and you’re standing at the stove
while I curl
on the couch with a book,
pretending to read,
but secretly
watching you, loving
how you look-
intent on our meal,
on getting it right.
How clearly
I can see everything:
cars passing
on the road outside,
you, shirtless, leaning over
a cast-iron pot,
me holding a few useless
words in my hands.
Nothing I’ll say
will make you stay with me,
nothing erase how you’ll turn
toward me, offering the wooden spoon
so that I get up,
and come to you, and taste
that salt on my tongue.

 

Porta Blu

Oggi sono passata davanti alla casa
che affittammo la scorsa estate.
È stata solo un’occhiata
mentre guidavo –
porta blu,
arco d’argilla dipinto di fiori.
In ricordo
il tuo van impolverato è parcheggiato sulla ghiaia
e tu sei in piedi davanti al fornello
mentre io mi rannicchio
sul divano con un libro,
fingendo di leggere,
ma di nascosto
guardandoti, amo
il modo in cui sei
concentrato sul nostro pasto,
sul prepararlo bene.
Quanto chiaramente
riesco a vedere tutto:
le macchine che passano
sulla strada fuori,
tu, a petto nudo, chino su
una pentola in ghisa,
io che tengo qualche parola
inutile nelle mie mani.
Nulla di ciò che dirò
ti convincerà a restare con me,
nulla cancellerà il modo in cui ti volterai
verso di me, offrendomi il mestolo di legno
così che io mi alzi,
e venga da te, e assaggi
quel sale sulla mia lingua.

Near Heron Lake

During the night, horses passed close
to our parked van. Inside I woke cold
under the sleeping bag, hearing their heavy sway,
the gravel harsh under their hooves as they moved off
down the bank to the river. You slept on,
though maybe in your dream you felt them enter
our life just long enough to cause that slight
stirring, a small spasm in your limbs and then
a sigh so quiet, so close to being nothing
but the next breath, I could believe you never guessed
how those huge animals broke out of the dark and came
toward us. Or how afraid I was before I understood
what they were–only horses, not anything
that would hurt us. The next morning
I watched you at the edge of the river
washing your face, your bare chest beaded with bright water,
and knew how much we needed this,
the day ahead with its calm lake
we would swim in, naked, able to touch again.
You were so beautiful. And I thought
the marriage might never end.

Vicino a Heron Lake

Durante la notte, dei cavalli passarono vicino
al nostro van parcheggiato. Dentro mi svegliai infreddolita
sotto il sacco a pelo, sentendo la loro movenza pesante,
la ghiaia ruvida sotto i loro zoccoli mentre si spostano
lungo la sponda fino al fiume. Tu continuasti a dormire,
sebbene, forse, nel tuo sogno li sentisti irrompere nella
nostra vita giusto il tempo di provocare quella leggera
agitazione, un piccolo spasmo nei tuoi arti e poi
un sospiro così silenzioso, così vicino all’essere nient’
altro che il prossimo respiro, che credevo non avresti mai immaginato
come quegli enormi animali emersero dal buio e vennero
verso di noi. O quanto spaventata io fossi prima di capire
cosa fossero – soltanto dei cavalli, niente
che potesse ferirci. La mattina seguente
ti guardai alla riva del fiume
mentre ti lavavi il viso, il tuo petto nudo imperlato d’acqua lucente,
e capii quanto avevamo bisogno di tutto ciò,
il giorno dinanzi a noi, con il suo lago calmo
in cui avremmo nuotato, nudi, in grado di toccarci di nuovo.
Eri così bello. E pensai che il matrimonio non sarebbe mai finito.

 

 

La sorgente della Nuova poesia americana

di Andrea Galgano  8 dicembre 2020

leggi in pdf 181.NUOVA POESIA AMERICANA VOL.2

Il secondo volume della Nuova poesia americana[1], edito da Black Coffee, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, restituisce l’abbandono, il giaciglio solitario del tempo, la forza del mistero, il grido roco e lucente del contatto e del desiderio e, come afferma Alberto Fraccacreta:

«un corpo solido, un’efflorescenza timbrica così chiara e stentorea che la si può riconoscere immediatamente anche da pochi grafemi, simboli, figure retoriche […], anafore, ripetizioni tratte dal blues e dalla tradizione folk, mistura di linguaggio alto e locuzioni non soltanto pop ma persino punk, tono colloquiale, tendenza a far prevalere frasi gnomiche e a effetto per colpire il lettore, scardinamento metrico, utilizzo di slang giovanile che riflette una visione cinica e disillusa del mondo, risemantizzazione di espressioni idiomatiche e volgarismi».[2]

Efflorescenza, scardinamento e risemantizzazione, dunque, che plasmano l’io in modo minuzioso e isolato, per così dire, come afferma John Freeman nell’introduzione, ma che riesce a strappare e consegnare la creativa giacenza del desiderio, della rabbia e del dolore attraverso la rapidità dell’epifania, l’affilamento contratto della lingua, e l’orlo dei paesaggi con la loro brutalità lucente.

Partendo da Kim Addonizio, originaria di Washington D.C. ma che vive a San Francisco, la cadenza del battito sanguigno, l’estremità del corpo («Quando lo trovo, staccherò quell’indumento / dall’omino come stessi scegliendo un corpo / che mi porti in questo mondo, attraverso / le grida del parto e anche le grida dell’amore, / e lo indosserò come fosse ossa, come pelle, / e sarà lo stramaledetto vestito / in cui mi seppelliranno»), lanciato come limite, il cuore della carne è un incastro di memoria e dolore stupefatto (come la forte Generazioni, che unisce immigrazione oblio), fino alla tensione di istinto e desiderio, femminilità strappata e umbratile, durezza sofferta, blues violento, instabile e redento e, infine, amore che si squaderna, fino alla mappa stropicciata degli inferi («Per te mi spoglio fino alla guaina dei nervi. / Tolgo i gioielli e li appoggio al comodino. / Sgancio le costole, stendo i polmoni su una sedia. / Mi sciolgo come un farmaco nell’acqua, nel vino. / Sgoccio senza macchiare, me ne vado senza smuovere l’aria. / Lo faccio per amore. Per amore, io scompaio»):

«Mi piace toccare i tuoi tatuaggi nella più assoluta / oscurità, quando non posso vederli. So per / certo dove stanno, so a memoria la minuta linea del lampo che pulsa appena sopra / il capezzolo, so trovare, come d’istinto, le spire / azzurre d’acqua sulla tua pelle dove un serpente / s’attorce, affronta un drago. Quando ti tiro / a me, prendendoti fino a quando non resta niente / di noi silenziosi sui lenzuoli, adoro baciare / le figure nella tua pelle. Dureranno finché non verrai bruciato a cenere; qualsiasi cosa potrà durare / o mutarsi in dolore tra noi, loro saranno in te / ancora. Il pensiero di tale permanenza è spaventoso. / Così li tocco al buio; ma li tocco, ci provo».

Le correnti di Garrett Hongo, poeta delle Hawaii, sono un’ondulata e vibrata solitudine che ingloba il destino, il senso del tempo e dello spazio come un blues a bocca chiusa (si pensi a La leggenda), la storia e i suoi crogioli, il territorio dell’infanzia e delle figure care, le carte espatriate e l’esilio («La terra di lava fiammeggia di primule e bacche di rovo, / fuochi fragranti di rosa e azzurro / che sfrecciano nell’intrico del sottobosco. / Io sono fuori che do da mangiare ai polli, / spargendo rimasugli di semi e bucce di melone / sulle pietre sbeccate e il legno marcio del sentiero nella foresta»), il suo mosaico di cadmio e rimpianto, come splendore e rovina: «In California, a nord del Golden Gate, / il rampicante cresce quasi dappertutto, / erompe nei pascoli, / dall’ombra degli eucalipti / lungo la strada / sommergendo stamberghe fantasma e steccati in rovina / che si sbriciolano nel marciume / imbevuti dalle piogge recenti».

È un solco di paradiso perduto, l’istante cesellato dal nutrimento della terra, dove l’elegia solitaria vive di voci di soglie e di cielo, dell’immagine di Neruda, in un nome di lode e di litania, di polpe bagnate e felicità di aria tropicale.

Il grido rivelatorio di Lawrence Joseph, nato a Detroit ma ora a New York dove insegna legge alla St. John’s University School of Law, è una fusione dei dettagli e degli affreschi della temperie operaia e genesi libanese e americana. Queste luci rifratte di New York rappresenta la potenza dell’evento, la decifrazione delle cose sui taccuini e la ruvidezza delle distanze trasfigurate: «Prima dell’alba, di nuovo sulla strada, / sotto un cielo che mi inonda di ghiaccio, fumo e metallo. / Non voglio pensare / che il proiettile mi ha perforato la spalla, / che i denti marci del tossico / hanno sorriso, i capelli gialli gli si sono gelati. / […] Non sono io che urlo contro nessuno / a Cadillac Square: è Dio / che ruggisce dentro di me, con la paura / di essere solo».

La californiana Kay Ryan, cresciuta nella valle di San Joaquin e nel Mojiave, premio Pulitzer e National Humanities Medal, esplora il ritmo combinatorio delle rime interne, attraverso la morbida e scarna nudità di una infinita creaturalità, dalla teatrale bellezza dei fenicotteri, alla lieve pazienza della tartaruga, ai corvi sghembi, fino alla catarsi della rugiada e delle sue perline e alle oasi-miraggio.

È una epifania nascosta, il germoglio e lo scrutinio delle cose («Debolezza e dubbio / sono simbionti / celebri in tutti / gli ordini fungini»), gli orli del tempo e le nuove stanze: «La mente deve / riadattarsi / ovunque va / e sarebbe / comodissimo / imporre le sue / vecchie stanze – basterebbe / picchettarle / come una tenda / interiore. Oh, ma / i nuovi fori / non stanno dove / prima c’erano le finestre».

Aracelis Girmay, di Sant’Ana in California, che ora vive a New York e insegna all’Hampshire College, vincitrice del Whiting Award per la Poesia, consegna il dono vivido dell’intimità come purezza e dialogo, scheggia dolorosa di storia (si pensi a coloro che attraversarono il mare dal Nord Africa all’Europa, molti eritrei come i suoi avi), agone di vita che pulsa («Cantiamo così, per giorni & giorni, / allineate in file & file & file, rivolte al mare»), la vita e il dolore come in The Black Maria e il tocco, come conoscenza ultima e percettiva. Il suo ritmo è un soggiorno di grazia e purezza:

«Che fare con la consapevolezza / che il nostro vivere non è garantito? / Forse un giorno toccherai il giocane ramo / di qualcosa di splendido. & crescerà & crescerà / nonostante i tuoi compleanni & il certificato di morte, / & un giorno darà ombra alle teste di qualcosa di splendido / o renderà se stesso utile al nido. Esci / da casa tua, dunque, credendoci. / Niente altro importa. / Ovunque sopra di noi è il toccarsi / di estranei & parrocchetti. / alcuni tra loro umani, / alcuni tra loro non umani. / Dammi retta. Ti dico / una cosa vera. Questo è l’unico regno. / Il regno del toccare; / i tocchi del disapparire, delle cose che scompaiono».

Chiude l’antologia Kevin Young, originario di Lincoln, Nebraska, ma che vive in New Jersey, Chancellor of the Academy of American Poets, canta la danza estatica della realtà, come avviene in Lettere dalla Stella Polare: «Cara, le luci qui non chiedono / niente, il bianco cade / attorno alle mie lettere muto, / inarrestabile. Ti scrivo / dalla pancia vuota del sonno / dove niente tranne il freddo / si chiede dove vai; / nessuno qui scuoia teste aspre / e da poco come limoni, e solo / l’auto canta AM tutta / notte. In città / ho visto bimbi mezzo- / morsi dal vento. Perfino i treni / arrivano senza un’anima / che li accolga; le cose qui / non hanno bisogno di me, questo mondo / balla da solo».

Il blues racconta di volti e fantasmi, come quelli di Langston Hughes o Lucille Clifton, l’evenienza dell’evento, le serenate delle stelle lacere e del fulgore in frantumi e la cara oscurità: «Essere scomparsi, presi, / è quello che vuol dire paradiso – // È pieno di – ali – // Musica di ciò / che manca».

Aa.Vv., Nuova poesia americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020, pp. 192, Euro 13.

Aa.Vv., Nuova Poesia Americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020.

Fraccacreta A., D’avanguardia e feconda: la poesia americana oggi, in “Avvenire”, 8 dicembre 2020.

[1] Aa.Vv., Nuova Poesia Americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020.

[2] Fraccacreta A., D’avanguardia e feconda: la poesia americana oggi, in “Avvenire”, 8 dicembre 2020.