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L’eternità imprendibile di Dario Bellezza

di Andrea Galgano 17 marzo 2015

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11054360_1587600471483713_4618579255528510578_nLa recente pubblicazione che raccoglie tutta l’opera poetica di Dario Bellezza (1944-1996), a cura di Roberto Deidier, scandaglia la poderosa e verbosa poesia di un poeta che ha abitato con estremità la scena letteraria romana degli anni 50-90, arrischiando l’ipotesi, come scrisse Silvio Ramat su «Poesia» del maggio 1996, poco tempo dopo la morte del poeta a causa dell’AIDS «[…] che in Dario Bellezza s’incarnasse, con un orgoglio più forte del turbamento e degli sbandamenti, la figura del Poeta, al quale, ieri come oggi, le Istituzioni concedono poco o nulla; mentre appunto lui solo, il Poeta, persegue implacabilmente una sua verità, un ideale di cui la sua natura vorrebbe far dono a tutti […]».
Ma il dono di Dario Bellezza è la fuga dal proscenio dell’io lirico attraverso la rottura (o meglio il sipario franto), la trasgressione e la passione amletica, come scrive Roberto Deidier:

«Da qualsiasi punto la osserviamo, la poesia di Bellezza appare in fuga, o meglio si costruisce e si atteggia come una fuga. Come un tentativo di fuga, a vedere bene, se una certa pesantezza della struttura impedisce movimenti troppo verticali, sollevamenti repentini del senso, scarti ritmici, almeno fino agli ultimi due libri, L’avversario e Proclama sul fascino. Eppure, nonostante il suo movimento più autentico sembri essere quello del nascondimento orizzontale piuttosto che quello dello scandaglio, in un’incessante altalena di simulazione e dissimulazione, nessuna prospettiva è in grado di incorniciarla e comprenderla, e inevitabilmente qualcosa si sottrarrà, come alla visuale in procinto di una curva, di una svolta inattesa e in ogni caso sorprendente, quanto una voluta barocca. Tale tortuosità non è un limite, ma è semmai la forza, la materia più autentica di questo poeta. […] Così Bellezza è rimasto prigioniero dello stesso cortocircuito che ha provocato: l’Amleto che cerca di corrodere dall’interno, con la sua sola ma rumorosa presenza, la sonnolenta borghesia romana, è in realtà l’effigie della stessa dissoluzione in atto di quest’ultima. Ciò che il poeta vuole rappresentare nel vissuto e nella poesia, in una coazione al presente, ad agire nell’attualità del presente, è già avvenuto. La strada dell’eversione, che passa anzitutto attraverso l’affermazione dell’alterità sessuale, è percorsa già fuori tempo massimo, mentre l’onda d’urto della contestazione inizia a perdere il suo potere corrosivo e la scena nazionale è occupata da più tragiche tensioni».

Pertanto, lo scandaglio e lo smalto del suo disarmo fa i conti, all’inizio della sua rappresentazione, con la straripante ombra di Pasolini, come vocazione, come grigia e indiscussa tendenza non solo alla morte nel presente, ma al morire, come annota Davide Rondoni su “Avvenire” del 5 marzo 2015:

«Intendo la sua durissima temperie, o anima o meglio fissa idea, o forse ancor meglio dire smalto – chè d’anima no, non si parla se non per negarla e vituperarla, in nome di lui, del corpo o meglio del sesso, che demone borghesissimo ricorre nel disarmato Bellezza, tra le case di poetesse e di letterati molto impegnati. Voglio dire che la verbosa ossessione della morte nel geniale poeta romano indica quale fosse la lastra grigia, gelida, la cardarelliana tinta di quella comunità letteraria – preda di maggiori o minori esaurimenti di energie e di fobie, sublimate in alcuni casi nel potere, o nella sicurezza data dal salotto o dal partito o da entrambi (partito / salotto dei migliori). Una carnale, potente, fiorentissima paura della morte. Un barocco senza fede».

L’eros compone il suo teatro, lo condensa, lo proclama, ne dirama la sua coltre inespressa, nella fissità mobile delle notti romane, con le esili disperazioni e degradazioni. E nell’amore orfano, sviato e disilluso, Bellezza compie il suo rito di coazione e sacrificio, che lo conduce fino a Penna, ma ne priva la portata innocente, comprimendo il margine, la sessualità precaria e maledetta che si dilata fino all’incontrastabile regno della morte, esibita in una nitida delazione di mente e corpo, per non giungere mai «al compimento di un proposito e formula reprimende sul suo stato, formula di un desiderio assoluto e in parte inespresso, dove proprio amore e morte coincidono come fine di qualcosa che non è mai stato posseduto del tutto» (Alessandro Moscè): «Ma quale sesso ha la morte? / È ragazzo. È ragazza. Spaventosamente / materna mi abbraccia al limitare del sonno, / quando l’alba affretta la sua agonia / e il giorno calza i suoi occhi di malinconia…», o ancora «Ho paura. Lo ripeto a me stesso / invano. Questa non è poesia né testamento. / Ho paura di morire. Di fronte a questo / che vale cercare le parole per dirlo / meglio. La paura resta, lo stesso. / Ho paura. Paura di morire. Paura / di non scriverlo perché dopo, il dopo / è più orrendo e instabile del resto. / Dover prendere atto di questo: / che si è un corpo e si muore».
«La bestia che è in me e latra» condensa la parola poetica in una agonizzante corpo a corpo, come un io abbandonato e intossicato che discende «nelle regioni della creaturalità, di un universo offeso dalla Storia» (Roberto Deidier), come un amante estatico o un osceno trasgressore di forma e figura. Ecco che il provocatore-cantore di una rovinosa visione che declina e apre la sua fisicità in una performance che la conduce nell’abisso di un consunto lamento elegiaco, descrive il mondo in un epicedio: «Se un poeta, io, regalo al cupo silenzio / della notte metà del tempo che m’incalza / ostinato inquisitore di un corpo / sbalordito dall’abitudine, decomposto, / in ansia perpetua di non lasciare traccia / di sé nei corpi altrui o stampo caldo / nelle fresche leggere menti adolescenti / né la Storia, l’ordalia infernale / dei tiranni assetati di sangue e morte / non considero, ne viene anzi, rabbia, / sgomento, urlo lontano nella gola secca, / pianto sommesso o gridato, abbiate pietà!».
Scrive Maeba Sciutti:

«Dario Bellezza sa di essere il proprio avversario, di portarlo nel corpo come un male inguaribile. Impossibile ipotizzare un dramma più grande e infatti il poeta tracima, sviene, si rialza, barcolla ma resta sempre sull’orlo pericoloso della dissolvenza. Anche quando grida la rabbia verso «altri moribondi normali», contro le «segrete immense rivalse della invidia poetica», quando dice l’indicibile per l’uomo civilizzato e “contabile” che ha ancora qualcosa da perdere e cerca nella mediazione la sua salvezza personale, paradossalmente il lettore sente che Dario Bellezza può farlo perché non ha nessun futuro da barattare, perché ha raggiunto il culmine della sincerità nel culmine della disperazione (e forse il lettore-uomo medio non eroico pensa, con intima indignazione, che effettivamente il culmine della sincerità può esserci solo nel culmine della disperazione quando questa è intesa nel suo modo più pieno, più concreto e fatale: assoluta mancanza di speranza, assoluta assenza, certezza del non futuro)».

Il sangue dell’assenza, la consunzione, la pronuncia antagonista della voce proclama una tentazione smisurata e fanciullesca che comprime l’io, che si spegne in un tramonto assorto di speranze, «cercando la vita smarrita, il sole funesto / e sporco di un pomeriggio invernale: / la luce negli occhi di un Dio che è sparito»: «Dura legge sapere che niente / potrà consolare il niente assoluto».

E il mondo sguaiato e lucente, da cui proviene Bellezza, è una «vecchiaia recente» che si rivela nello smarrimento e nella mancanza, nell’insonnia illusa e nella ferita ingrigita, come scrisse Pasolini nel risvolto di copertina di Invettive e licenze (1971), «che una nuova prospettiva schiaccia contro la vecchiaia vecchia e antica. […] Quindi si è messo a descrivere le forme e gli oggetti delle sue angosce (che ogni buon collega e semplice lettore non può che considerare abominevoli) come se fossero forme e oggetti dell’assoluto: come le bottiglie e i vasi di Morandi. Nessun compromesso, nessuna complicità, nessuna facilitazione, nessuna concessione, nessuna deroga: nemmeno il sollievo di un sottotitolo gradevole, di una nuda citazione».

L’avviluppo del proprio io sente il peso della colpa e della mancata libertà, del vizio (e dello scandalo) della morte, in cui «il derelitto produttore di parole» segue un destino precipitato nella lacerazione, disprezzando, come avviene in Morte segreta (1976) i valori di una società costituita, finendo per celebrare la dismissione e l’acuto segreto del proprio essere, della propria intima finitudine.
Scrive Roberto Deidier: «Nei suoi versi la fisicità assume le denotazioni più disparate, fino a recitare il ruolo antagonistico più volte evocato e infine temuto, quello di richiamo di malattia e di morte. Ma prima di quest’ultimo, fatale intreccio, in una sorta di carpe diem che riporta la temporalità di questo poeta negli angusti confini di un eterno presente che non vuole e non sa guardare al futuro, né costruirlo, il corpo e la scena primaria di felicità fugaci ed effimere e ben più reali tripudi. Quella stessa fisicità non tarda infatti a mostrarsi nei caratteri alterni, e ovviamente ossessivi, della ricerca e dell’incontro, del distacco e dell’assenza».

La fragilità iconica e oggettuale non si concentra su una figuratività scrupolosa e animata, bensì fonda un limbo indeterminato, congiunge il processo creativo a un annuncio di colloquio estremo e scisso che condiziona la mitologia e la fisiologia di ogni incontro con la realtà, con il corpo/amante, con la amletica figuratività fisica: «Dentro / il cuore si agita invano la parola chiave, morte, / morte terrena, morte eterna, ed è il corpo trionfante / bestia che si accalda a dimostrarlo in attesa / di diventare freddo come un marmo. / Questo corpo che vesto e nutro e lavo / e accordo ai separati corpi altrui, costringo ad amare, / manometto, chiedo il perdono della sua putrefazione / perenne in una erezione instabile e impotente, sterile, / senza figli severi e solari per confortare vecchiaia».
La straziante scena della sua anima ciba la visione temporale degli eventi accaduti di un antagonismo che concede sdoppiamenti e figurazioni sbilenche, in cui la scrittura del Corpo assurge a parola lirica, a ferita, a passione che risorge.
In Libro d’amore (1982), il disincanto della vocazione si spinge verso una rifiutata dolenza, verso un amore sbiancato che diventa, come si legge nella quarta di copertina, «non-acquisto e non-conoscenza, perdita totale, senza compensi, di sé e dell’altro, recupero cruento e fatale del buio originario».
L’unione degli opposti e la loro sregolatezza scenica, se da un lato richiama alla scissione del sentimento sospingendolo fino all’estremità e all’affanno, dall’altro invoca dolcezze e fisionomie care ed accennate che diano respiro alla corporalità e alla creaturalità sfiorata e sfiorita, depredata dalla ferocia della Morte («Ascoltavo la morte nel mio sogno / di pazzo dirmi all’orecchio soave: «Ti trascuro. Non verrò mai da te». / Allora mi ricordai di te e mi svegliai. / La morte mi era a lato. La notte / riempiva la stanza di silenzio. / alla finestra la luce della luna. E / nel mio cuore un presentimento»), in un amore che si opponga, non come pasoliniana disperata vitalità ma come concreta oltre-rappresentazione di una colma felicità.
Il labirinto segreto del suo essere si confronta con la contorsione di una commedia tragica, in cui la sua voce scoperta addita piazze, luoghi, strade e luci stagionali, dove la folla spiata si afferma nella disillusione e nella consumazione: « Forse mi prende malinconia a letto / se ripenso alla mia vita di tempesta e di / mattina alzandomi s’involano i vani / sogni e davanti alla zuppa di latte / annego i miei casi disperati. / Gli orli senza miele della tazza / screpolata ai quali mi attacco a bere / e nella gola scivola piano il mio / dolore che s’abbandona alle / immagini di ieri, quando tu c’eri. / Che peccato questa solitudine, questo / scrivere versi ascoltando il peccatore / cuore sempre nella stessa stanza / con due grandi finestre / un tavolo / e un lettino di scapolo in miseria. / E se l’orecchio poso al rumore solo / delle scale battute dal rimorso / sento la tua discesa corrosa / dalla speranza».
La guarigione del mondo passa attraverso il passaggio dentro questo ampio gesto di esistenza, in cui «L’umile stato diseguale del poeta», aggredito, assediato, temuto, celebra il suo segreto singhiozzo, il suo monologo precipitante, il profondo canto della sua raucedine: «”Il mondo non è più quello di una volta”. / Risuona il vecchio mondo di suoni nuovi / ma la novità non porta che terrore / e silenzio. / Laggiù nel nuovo mondo che io guardo / c’è poca speranza, molta violenza / ma guardando si risale il tempo / e gli anni si volatilizzano: / e tutto può dalla sua cenere risorgere / meno la nostra voglia di vivere / che intoccabile resterà intoccata».
La soglia senza salti che fa convergere assenza e presenza ha l’odore agrodolce di una rivolta perduta e persa, del retroscena derivato che esibisce la sua tragedia attraverso la lotta con il Nulla, che proietta il baluginìo del Dio-distante-occulto in un caleidoscopio scisso di disamore.
Il destino del poeta è affrontare questa lotta sfumata di decisione radente e di buio paesaggio «di lingua pesta», di omosessualità dolente e di disagio: «Ma il quotidiano insiste. Ed io volo / verso il tarlo segreto della notte / per non saperne di più. Insiste così / il quotidiano, e stinge addosso la sua pece / o pace perduta, incontrando i mostri / attigui dell’eros metropolitano / che ormai costano troppo sul mercato / degli schiavi. Insiste dunque il quotidiano: / la poesia è merce o merda, voli di gabbiani / in tempesta mentre si pensa a sorella Morte, / o la Musa vagante in clinica, in crisi / di astinenza, / l’astinente essendo io / gioioso immondo testimone di un giorno / di pioggia: calamitoso e sventurato giorno / solfeggiando in mortale voragine il buio / di domani o ieri o il tempo che scorre / verso eternità imprendibili».
Scrive ancora Alessandro Moscè: «La condizione dell’inappartenente e dell’inadatto compie quella serie di vagheggiamenti che fanno il paio con l’atteggiamento che ripiega sulla stagione all’inferno, sull’amore che coinvolge e sconvolge. L’esibizione del male e l’inibizione all’amore riproducono l’idea della fallibilità che mangia l’esistenza, che distrugge l’uomo e il tempo. In Io il personaggio evita di sorprendere, di farsi attore, e l’esperienza relazionale prende il sopravvento».
L’andatura deragliata di Serpenta (1987), inscritta nelle apparizioni romane («Ormai non resta che battere / la trafficata città / in cerca di chi non c’è più. / Non c’è più nel tempo solitario / degli addii»), nelle ouverture di fuga onirica e nei suoi emblemi, rammenta il passato divorato della felicità intravista e impossibile, come ricordo e memoria, per un antico corpo amato e ora scomparso, per i sensi celebrati nella passione che ora hanno partitura ombrata, come grido ferito e lancinante («La mia religione dunque non fu / amore in questo dopo millennio di paure / scontate che di notte fanno capolino / nei sogni di un malato; / o fughe verso il nulla / nulla cenere, nullo destino / o legge primordiale del pensiero / che scateni simmetrie giuste al Paradiso / Paradiso confuso di ricordi / vissuti in mezzo al guado di Caronte»).
È la solitudine imperfetta e fracassata di un «tempo alabastrino» irreparabile, in cui persino Dio diventa l’ossessione di una voce roca e assoluta: «La tua anima bisognosa di Dio / abbiamo umiliato. Ma è Dio / che dobbiamo cercare – Dio che è in noi, / insieme, votati alla distruzione / per rinascere santi. / Siamo due in uno: separati / soffriamo; – non possiamo dividerci: / nuove attese ci aspettano -: / viaggi, legami fino allo svincolo / finale che sarà di amore e morte. / Noi siamo la morte; e dobbiamo / diventare vita. Dobbiamo farcela: / per questo ciò che è tuo è mio / e basta. Per l’eternità».
Il ritmo di Libro di poesia (1990) raccoglie un lungo smalto molecolare tradito, si appropria di una partitura irregolare dove, come annota Franco Brevini nel risvolto di copertina, «il desiderio erotico si fa contorcimento e gesticolazione. Attraverso gli inferni della devianza metropolitana, tra interni asettici e mortuari, caserme e stazioni, il poeta trascina un disperato desiderio di abbattere il muro di una solitudine che si richiude ogni volta su di lui».
Lo psicodramma messo in atto, da un lato sottende al dramma dell’io e alle sue posture, con il pronunciamento della perdita e della sua presenza d’ombra, dall’altro l’apocalissi penitente dell’amore si fa straziata invocazione ed esclusione: «Credo, morte aspettando, di rifare / il già fatto nel mondo in salvazione: / volteggiando innocuo devo la sorte / ricostruire così come la volle / nel cuore la mia favola perduta: / spavento non è fuga, o liquido / scivolare sulla perdita d’ombra». Ecco il barocco imperfetto, la dismisura che volge verso un cuore desolato e assente, la desolazione assorta e abolita, il tragico territorio di anime assiderate e in esilio, laddove la notte avvolge nel suo «inesausto regno sotterraneo» e poi «spengo in avventure e litigi infiniti / catastrofi pellegrine, l’eco di memoria / da abolirsi nella notte oscura; / buio della vita se fu un’altra, / in cerca di passato».
Il forte contrasto interno che alimenta la sua poesia, come accade in L’avversario (1994) è il tralucere della sua identità che affronta il Male corrosivo e sfiancante di un fantasma e di uno strazio incombente, fino alla sottigliezza fragile della poesia, che rappresenta il richiamo e la vertigine («[…] s’invertigina / la vita passata e ne muore») della sua testimonianza.
Estraneità (esclusione) e consapevolezza in un unico ponte di sguardo e rimpianto avventizio («Poveri, pochi anni / sono rimasti, gelidi, limitati; / li dubito e li annuso sperando / di moltiplicarli e cedo deluso / al rimpianto calunnioso»), come cuore in disuso: «Nessuno / sa che cosa sono diventato. / Spauracchio sepolto, gattone celeste / o grigio affossatore d’avventure».
Il suo unico canto rimasto è il sillabario della sorte. La sua povera irresolutezza che si imbatte nei detriti di una quotidianità franta: «Come terrore di elevarsi a cime / più alte del bisogno del creato / le sterminate strade ma finite / percorro nel mio umile stato / diseguale, chiedendo ai pochi / l’errore di sapere chi vorrà / suonare il più bel piffero / di tanta gioventù sfuggita / e perduta nel sogno di una vita!».
Commenta Alessandro Moscè:

«Ecco, allora, che la morte non funge più da ossessione onirica. I serpenti che strisciano prima del colpo che avvelena e uccide, trovano terreno fertile per riprodursi. Proprio la malattia segnerà il destino di Dario Bellezza. Un’atroce malattia, che sembra, a posteriori, anche un presagio. Ma c’è qualcosa che sembra peggiore della morte, che è estraneo perfino alla fine: è la convenzionalità dell’indifferenza comune, l’inferno quotidiano di un tempo lascivo, oltraggiato. Questo è il senso compiuto dell’opera di Bellezza, che genera crudeltà e compassione per i soggetti più deboli e indifesi. L’esilio è nel tempo, tra individualità e storia. Lo scontro sul piano ideale porta ad inquadrare un universo nero, irrecuperabile. La sconfitta dell’uomo è l’estremo sentire nella screpolatura delle cose. E con esse il singulto segna il passo dolente verso l’addio per un destino comune».

Persino il rifugio nell’innocenza animale dei gatti, come «purezza della natura vittoriosa», diventa enclave esclusiva e riparata. Bellezza diventa il passeggero di soglie e proiezioni, in cui raccontare il proprio flatus drammatico senza tracce, la sua intuizione che permane in una breve concessione e in un tradito spazio lucente: «Non si muore subito. / Si muore poco a poco / in ogni giornata, / impercettibilmente / in attesa di Lei / ci si copre la testa / per entrare nella Chiesa / in espiazione di peccati / mai commessi o tentati».
L’abisso viene sollevato dalla forza della parola poetica e dalla violenza alla propria scrittura. In esso, la corrosione e l’aggressione alla scena rappresentano l’esito di una contraddizione che aspetta nel buio con il suo verbo sincopato e il suo Sacro reso casto.
La riscossione del passato nel presente non ha più orma nel transito dell’eternità passeggera, «la fine dell’amore dopo l’amore» compone la dimensione magmatica dell’esistenza e la sua forma che, come scrive Pasolini, «Bellezza puntigliosamente cerca di distruggere anche la forma del magma, facendo del magma poltiglia. Ma ciò è messo in scacco dalla sua stessa natura di scrittore, in cui il senso della forma è invincibile. Così, apprestata la poltiglia ecco da questa poltiglia filtrare nettari e narcotici di grande qualità. Come la sete di vita – in questo clericale ingordo – è ben più forte di ogni sofisma di morte, così il senso della forma è più forte della scandalosa e insincera voglia di distruggerla».

coverDario Bellezza, Tutte le poesie, a cura di Roberto Deidier, Mondadori, Milano 2015, 767 pp., euro 20.

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