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Riccardo Gramantieri, Post 11 settembre. Letteratura e trauma, Bologna, Persiani Edizioni, 2016

di Giuseppe Panella 28 novembre 2016

leggi in pdf Riccardo Gramantieri Post 11 settembre

14163903_1098282886885744_1268067472_o-211x300L’11 settembre 2001 due aerei americani furono dirottati dal loro consueto percorso di viaggio e si schiantarono sulle pareti di vetro e cemento delle Twin Towers, le Torri Gemelle, orgoglio del centro commerciale di Manhattan. Il suolo aereo americano venica violato pubblicamente per la prima volta. L’impatto sull’immaginario mondiale (e non solo americano) è stato talmente imponente da mutarne radicalmente le coordinate e le implicazioni socio-soggettive. Si tratta di una pagina di psicologia storico-sociale ancora tutta da scrivere e da verificare sotto il profilo scientifico ma le sue conseguenze non potevano non influenzare prepotentemente le arti più popolari (e non soltanto quelle più esposte dal punto di vista mediatico). Se la letteratura ha una funzione di risarcimento o di cicatrizzazione dell’Io ferito – come sostiene la maggior parte degli studiosi dei rapporti tra immaginario e processi di soggettivazione, dalla Melanie Klein a Heinz Kohut a Alain de Mijolla – è indubitabile la funzione riparatrice svolta dalla narrativa di anticipazione nel caso degli eventi dell’11 settembre. Questo ottimo libro di Gramantieri, di conseguenza, ha il merito di ricostruire i processi di funzionamento di tale processo risarcitorio e di verificarne l’attuazione a livello fantasmatico e narrativo. Nel caso dell’11 settembre, la letteratura anglosassone si è concentrata in una maniera che si potrebbe definire maniacale sui fatti avvenuti in quel giorno particolare e li ha trasformati in una data che facesse da turning point alla soggettività epocale della cultura del mondo occidentale. Non è un caso, infatti, che la maggior parte della produzione più popolare (e, come si diceva prima, non solo quella) abbia come quasi esclusivo oggetto dei propri plot narrativi e dei propri sviluppi fantapolitici gli eventi relativi al crollo delle Torri Gemelle. Tutto ciò è evidente negli esempi di letteratura portati come testimonianza  nel libro di Gramantieri:

«La scelta del mondo editoriale e della critica letteraria di denominare un genere letterario come “post-11 settembre” (o post 9/11), se da una parte potrebbe sembrare l’ennesimo esempio della pratica di etichettare un’opera e confinarla in un genere al fine di poterla classificare e disporla sugli scaffali delle biblioteche e delle librerie, dall’altra è indicativa della grandezza dell’evento storico. Dopo la caduta delle torri, Ground Zero non è più il luogo in cui scoppia la bomba atomica (già evento epocale di suo) ma il luogo in cui sorgeva il World Trade Center; dopo la caduta delle torri nasce un genere letterario che descrive l’attacco al centro nevralgico degli Stati Uniti (Banks, McInerney, DeLillo), i suoi antefatti (Updike) e le sue conseguenze (Aldiss, Steyn); ma anche tutte le suggestioni che una catastrofe comporta, e da qui le storie apocalittiche (McCarthy, Crace, Aldiss, MacLeod), ucroniche (Roth), sperimentali (Julavits, Foer) e quelle di fantasmi (Shepard, King, Bradford, Oates, Schwartz). Ognuna delle opere prodotte può servire da esemplificazione di un diverso tipo di meccanismo mentale di risposta all’evento, tutti comunque riconducibili al trauma. Più che una semplice descrizione dei fatti, questa letteratura è capace di rendere visibili  quei processi psichici che avvengono a seguito di un evento spaventoso e angosciante» (p. 131).

Gli autori citati da Gramantieri sono tutti nomi “pesanti” nel panorama culturale e letterario americano – autori mainstream importanti come Philip Roth, Updike e Cormac McCarthy hanno dato il loro contributo a illuminare di luce radente un panorama devastato come quello che appariva agli occhi di tutto il mondo dopo la tragedia del crollo delle Twin Towers. Ma come hanno fatto scrittori quali Joyce Carol Oates o Jonathan Safran Foer o Don DeLillo, allo stesso modo, autori meno culturalmente riconosciuti si sono cimentati nella descrizioe di ciò che restava della mente occidentale e dell’American way of life  dopo lo schianto degli aerei sulle strutture high-tech delle Torri di Manhattan. Soprattutto chi non ne ha scritto direttamente ma solo obliquamente o allusivamente, ha colto la natura catastrofica degli eventi di quel giorno –  ha individuato cioè la sua natura di punto di non-ritorno nell’ambito delle soggettività in gioco in questa partita apparentemente finale e definitiva. Qualcosa è cambiato, qualcosa si è spezzato e non sarà più possibile tornare al passato idilliaco di un’America intatta e incontaminata. La ferita è ormai permanente (come quella di Amfortas, il Re Pescatore). La “terra delle opportunità” è diventata una Terra Desolata di morte, di violenza e di impossibilità fino ad allora mai sperimentate.

Per risarcire questo quadro psicologicamente devastato, di questo momento traumatico assoluto, è necessario trovare un rimedio plausibile ed efficace nel ricorso al fantastico. Scrive, infatti, Gramantieri a proposito del trauma del “ritorno degli oggetti cattivi”:

«Il processo psicologico che Fairbarn chiama il ritorno degli “oggetti cattivi”, cioè la riproposizione nella memoria di ricordi del passato che richiamano immagini paurose e angoscianti che si vorrebbe dimenticare, è individuabile sotto forma di finzione narrativa in alcuni testi letterari, sia mainstream sia, soprattutto, di genere fantastico, il solo capace di rendere metaforicamente rappresentabili i fatti psichici. […] La letteratura fantastica è forse in grado di rendere più compiutamente del mainstream il meccanismo psichico del ritorno degli oggetti cattivi. Essa, nelle sue varie espressioni allegoriche, è risultata particolarmente efficace nell’esemplificare il ritorno del rimosso provato negli americani dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Tralasciando le similitudini con le paranoie da Guerra Fredda o le storie di invasione, il sottogenere più capace di esprimere il perturbamento della borghesia americana di Manhattan, e contemporaneamente costituire sotto forma letteraria il processo dell’oggetto perduto e ritrovato, è quello del racconto di fantasmi. Diversamente dai romanzi, che per la loro ampia struttura permettono una visione più estesa della realtà che vogliono rappresentare, i racconti fantastici riescono a concentrarsi su singoli aspetti, e quello del ritorno del rimosso è particolarmente sentito da diversi autori di science fiction» (pp. 99-100).

Il “ritorno del rimosso” (in questo caso il trauma della distruzione di un habitat familiare e consolidato come il paesaggio urbano di Manhattan) permette alla scrittura di risarcire la perdita attraverso quel processo di “fantasticheria organizzata” che Freud ha ricostruito (brillantemente ma forse un po’ troppo cursoriamente) nel suo Il poeta e la fantasia del 1909. L’ipotesi di William R. D. Fairnbarn sul “ritorno degli oggetti cattivi” (costruita a partire dalle riflessioni precedenti di Melanie Klein sul tema delle relazioni oggettuali e sviluppata a livello generale) serve a Gramantieri per analizzare le conseguenze di un trauma collettivo che ha influenzato l’immaginario collettivo dell’intero pianeta, nel bene e nel male.

Merito del saggio, allora, non è soltanto quello di ricostruire proficuamente quindici anni di letteratura di genere nel mondo anglosassone (anni in cui sono stati prodotti capolavori come La strada di Cormac McCarthy o grandi romanzi ucronici come Il complotto contro l’America di Philip Roth che alludono alla catastrofe avvenuta l’11 settembre) quanto di avanzare delle ipotesi terapeutiche per la riparazione possibile del danno psicologico arrecato.

Un libro tra psicologia e letteratura, dunque, dove l’uso diretto della letteratura si coniuga con quello indiretto dell’analisi psicologica – un tentativo di frontiera, dunque, per utilizzare proficuamente uno strumento, quello estetico-letterario, che le pratiche paramedicali di tipo comportamentistico-gestaltico rischia di appannare e di declassare in nome di una sostenuta scientificità assoluta nello studio della psiche. Il caso del trauma post 11 settembre e della letteratura che ha sostenuto e che sorregge tuttora, invece, dimostra come scrutare nel buio della psiche sia compito comune di scrittori e psicoterapeuti (come avventurosamente già aveva sostenuto tante volte Sigmund Freud nei suoi scritti sull’argomento in questione).

 

È l’amore uno strano uccello…(un oiseau rebelle)

A proposito di Vera Slepoj, La psicologia dell’amore, Milano, Mondadori, 2015

di Giuseppe Panella 15 giugno 2016

leggi in pdf Giuseppe Panella – è l’amore uno strano uccello… (on oiseau rebelle)

2962915Amor, ch’a nullo amato amar perdona / mi prese del costui piacer sì forte / che, come vedi, ancor non m’abbandona. // […] Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore. //  Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice. // Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto. // Per più fïate li occhi ci sospinse /
quella lettura, e scolorocci il viso; /  ma solo un punto fu quel che ci vinse. //  Quando leggemmo il disïato riso /  esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, // la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: /quel giorno più non vi leggemmo avante
– sono forse i versi più celebri dell’Inferno dantesco (pari soltanto per risonanzae potenza a quelli del canto di Ulisse)… Quella di Dante è una fenomenologia del desiderio amoroso e contemporaneamente la sua analisi (psicologica) più fine perché individua in un terzo elemento (il libro che racconta la vicenda tragica di Lancialotto e Ginevra e del loro amore impossibile) la dimensione più profonda del suo emergere: il desiderio amoroso, infatti, come spiega splendidamente René Girard nel suo Menzogna romantica e verità romanzesca, è triangolare e prevede un riferimento ad un Altro che costituisce il suo punto di riferimento. Come accade, ad esempio, nella Nouvelle Héloïse di Jean-Jacques Rousseau dove alla vicenda di Julie d’Étanges e Saint-Preux, precettore dei suoi figli, si sovrappone il ricordo e l’imitazione “virtuosa” delle celebri vicende di Eloisa e Pietro Abelardo, la storia d’amore per eccellenza della cultura francese.

Dunque, l’amore è un percorso nella storia dell’umanità che ogni coppia di qualsiasi tendenza sia in realtà ricapitola nel corso della propria evoluzione emotiva e culturale.

Il testo letterario che forse è riuscito a ricapitolare in poche pagine la storia dei sentimenti amorosi in terra d’Europa è stato quel libro bellissimo (quanto sfortunato all’epoca sua) che è il De l’amour di Stendhal, vera e propria epitome delle modalità in cui l’innamoramento nasce, si rafforza e diventa amore come rapporto pro-duttivo e costitutivo della vita di una coppia (ovviamente, il saggio di Stendhal va molto al di là della pura e semplice psicologia dell’innamoramento come dimostreranno le sue “applicazioni” ai romanzi successivi del grande scrittore di Grenoble, Il rosso e il nero e La Certosa di Parma). Allo stesso modo, nel suo saggio più riuscito di sociologia dell’amore, Amore come passione del 1987, il mio vecchio maestro Niklas Luhmann è stato capace di riannodare le fila del discorso amoroso in chiave sistemica e ritrovare in determinati autori fondamentali al riguardo (primo tra tutti Rousseau) lo snodo fodamentale, il momento di svolta nella costruzione di un progetto di soggettività primario legato alla vicenda amorosa nella Modernità. Analogo obiettivo è quello di La psicologia dell’amore.

Il libro di Vera Slepoj parte, infatti, come una sorta di ricapitolazione della vicenda dell’Amore in Occidente (il celebre libro del 1939 di Denis de Rougemont) e attraversa prima la cultura greca con la sua celebre tripartizione tra eros (l’amore sensuale come attrazione reciproca), filía (come affetto e appartenenza reciproca tra membri della stessa famiglia o soprattutto tra amici) e agape (la condivisione del banchetto come forma di aiuto tra simili, un concetto poi ripreso dalla culltura cristiana per il tramite di San Paolo di Tarso), poi quella cristiana con la santificazione dell’accoppiamento tramite il sacramento del matrimonio e infine l’amor cortese e la tradizione troubadorica. Nel corso di una trattazione sintetica ma esauriente, la psicanalista milanese esamina con attenzione i diversi snodi storici della concezione dell’amore – dall’amour-passion dei Romantici (esemplari le pagine su Enrichetta Di Lorenzo, la compagna dell’eroe risorgimentale Carlo Pisacane e i rapidi accenni a colonne portanti della letteratura amorosa come I Dolori del giovane Werther di Goethe o Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo) all’evoluzione della concezione di questo sentimento dalla sua “sacralizzazione” all’attuale verifica delle sue potenzialità conoscitive-ermeneutiche nel percorso della psicoanalisi da Freud a Donald W.Winnicott e  Melanie Klein passando attraverso Jung e la sua teoria della libido fino ai suoi ultimi sviluppi sistematici.

Soprattutto su Winnicott la Slepoj ha intuizioni particolarmente rilevanti, in particolare riguardo al rapporto tra solitudine come costruzione di angoscia e l’”essere solo” come condizione di maturità esistenziale:

«La capacità di essere solo, che si basa su cure materne sufficientemente buone, è “uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo emotivo”. Questa capacità di essere soli è l’elemento fondante che, in una situazione di relazione amorosa, permette una valida strutturazione della relazione stessa, una relazione, cioè, in cui il legame d’amore non sia costituito dalla necessità di una ricerca angosciante (e spesso inconsapevole) di felicità e protezione da parte del partner. Spesso, onde evitare un’insostenibile solitudine, vengono fatte scelte azzqardate di partner distruttivi, o si costruiscono situazioni illusorie da “Mulino Bianco”, o, ancora, si trasforma la propria vita in una costante azione frenetica al fine di evitare “il silenzio della solitudine” o la paura di restare soli» (p. 125).

Questa paura della solitudine come pure il timore di non avere un rapporto fisso e stabile che sia rassicurante per se stessi, incide in misura assai rilevante nello svolgimento di un rapporto amoroso compiutamente gratificante. Questa stessa paura accade nelle storie d’amore che nascono su Internet e i suoi social network dove la virtualità dell’esperienza facilita i rapporti ma, nello stesso tempo, potrebbe renderne più difficile la realizzazione più felice e concreta: il “fantasma nella macchina” colpisce anche in questo caso rendendo più facile i contatti ma contemporaneamente più incerto il risultato duraturo di essi.

Opera volutamente complessiva e intesa alla sintesi, il libro di Vera Slepoj individua nell’amore la cerniera passionale e sentimentale dei rapporti umani e cerca di concretizzarne storia e sviluppi in maniera tale da evitare la tentazione accademica (molto forte in questi casi!) e giungere ad analisi di vicende esemplari (anche se non estreme o destabilizzanti).

Un libro, dunque, intenso – come deve e può essere solo una grande passione d’amore…

 

 

 

 

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Il sapore della realtà, il colore del giorno che passa, la memoria del presente. Andrea Galgano, Di là delle siepi

di Giuseppe Panella 11 gennaio 2015

leggi in pdf Il sapore della realtà, il colore del giorno che passa, la memoria del presente. Andrea Galgano, Di là delle siepi

7787 copertina - Copia - CopiaLodando l’impianto non esclusivamente accademico e di pura ricerca e curiosità bibliografica che presenzia alla ricerca di Andrea Galgano (doti quest’ultime presenti nel libro ma che non lo soffocano né gli impediscono di comunicare le proprie novità ermeneutiche), Davide Rondoni scrive con efficacia nella sua prefazione al libro:

«Qui no, spira invece un’aria di partecipazione e di fame, non ho altra parola, che somiglia a quella con cui bevendo qualcosa si ascolta con attenzione e ci si interessa alla vita di un amico, ai suoi casi e alle sue testimonianze. Il lungo approfondimento sul tema della memoria, oltre a fornire una chiave lungo la quale leggere evoluzioni e cesure in una ideale storia della poesia, ci mostra come e quanto questa indagine sia mossa dalla volontà di entrare in un mistero, e la sua fragranza che trapela nelle opere in esame. Ma senza quella fame di amicizia, tale indagine sarebbe stata più mesta e fredda, più distaccata e non per questo più obiettiva. C’è un metodo affettivo che guida l’autore, libero di prender suggerimenti da precedenti lettori molto diversi e quasi antagonisti tra loro»1 .

La dimensione di “amicizia” che pervade lo scritto di Galgano gli permette di affrontare con vigore e rigore due autori studiatissimi sui quali si potrebbero consultare intere biblioteche senza esaurirne la lezione e la concezione del mondo dei due poeti analizzati nel suo volume (Leopardi è l’autore più studiato della letteratura italiana dopo Dante; su Pascoli la ricerca accademica e non è stata finora caricata robustissimamente). Essere “amico” di un poeta significa – per Galgano – partecipare della sua vita interiore e comprenderne la mente e soprattutto l’anima scendendo in profondità al loro interno. Significa, in effetti, capire che cosa ha significato per essi l’incontro, durato tutta la vita, con la poesia. Vuol dire entrare, intus et in cute, con gli strumenti della critica letteraria e dell’analisi psicoanalitica, nel loro laboratorio segreto, nella fucina delle loro immagini verbali e della loro espressività verbale. E’ quello che deliberatamente rivela Irene Battaglini nel suo bel Preludio poetico all’opera di Galgano, individuando le ragioni della sua riuscita:

«La struttura del saggio è autoesplicativa: non si parla di vita e opera, ma di opera e vita, non si parla per dualismi, ma per correspondances, in un gioco di intersoggettività alla stregua di goethiane affinità del cuore e della mente. Questa trama di linguaggi e memorie, di fatto, ricorda la rivoluzionaria lezione di Lurjia, quando respinge la tradizionale teoria delle funzioni cerebrali localizzate e ci apre alla visione delle interconnessioni. La conoscenza attraverso la poesia è quindi, in parte, implicita»2.

Di conseguenza, l’analisi ricostruttiva di Galgano non si concentra tanto sulla dimensione filologica dei testi e la loro affidabilità quanto sul senso globale che essi assumono all’interno dell’opera poetica cui appartengono. Per lo studioso potentino, la capacità poetica fa tutt’uno con la sua espressività emozionale e la potenzialità del suo sguardo si esprime come rapporto di relazione tra la figura del poeta e la sua estroflessione verbale come capacità di cogliere nella parola la densità del suo rapporto-scontro-annullamento nel mondo.

Ciò appare evidente in Pascoli e nel suo rapporto con l’evento centrale della sua vita: l’uccisione di suo padre Ruggero il 10 agosto 1867 che influenzerà pesantemente la sua concezione del mondo e della poesia e lo renderà consapevole dell’esistenza del proprio “sguardo vedovo”:

«La comunanza degli esseri umani non trova risposta alla domanda di significato del reale. Tutta la poesia di Pascoli si muove quindi verso uno “sguardo vedovo”, in un impianto assiologico che diviene principio costitutivo fondamentale dell’esistere, in una crisi radicale del significato e della presenza dell’io. Il passato diviene pre-sente come un incessante vivere per la morte in un destino violento, privato, infranto nella sua purezza e nella sua religio domestica.Questa traccia segue il percorso di questo studio, volto a concepire da un lato come in Pascoli vita e poesia siano forme insanabili e ossimoriche e dall’altro ad indicare l’innocenza del “fanciullino” dinanzi alla inesplicabilità dei processi naturali. La densità dell’attimo poetico è vissuta nell’intuizione originaria inconscia, nella sostanza sensibile che risulta porta di accesso al microcosmo e al macrocosmo del reale .L’itinerario poetico si nutre di memoria, che dal dato occasionale si solleva alla scoperta di una impressione, di una corrispondenza simultanea di autobiografismo e di trasfigurazione simbolica divenuta psicologia crepuscolare e potenza in atto di luoghi e di precarietà»3.

Ma il nucleo centrale del saggio di Galgano è nell’accostamento di poetica tra Leopardi e Pascoli dove l’accento è maggiormente posto sulla concezione della poesia come forma espressiva privilegiata e più significativa della soggettività umana (rispetto alla prosa del romanzo o del teatro, ad esempio, anche se questo in entrambi non accade sempre nelle espressioni saggistiche) e non sui risultati, peraltro spesso molto diversi, della loro opera realizzata.
Nella parte del volume dedicata al tema della rimembranza e della siepe “che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”, il poeta di Recanati viene letto in chiave di confronto-scontro con Petrarca e con la sua idea dei ”segni di memoria” quale permanenza dell’eterno in un ambito di assoluta transitorietà4. Galgano sembra postulare, quindi, per seguire la linea critica direttrice dell’”angoscia dell’influenza” che contraddistingue il modello psicoanalitico di Harold Bloom5 , la presenza di un agon, un conflitto silenzioso fatto di ammirazione e di sogno, tra il poeta di Recanati e l’autore del Canzoniere. Ma se il modello di riferimento da superare è proprio Petrarca, questo non vuol dire che Leopardi si limiti a cercare di andare oltre la sua prospettiva del ricordare. La sua riarticolazione del concetto poetico di memoria (poi suddivisa e ricompressa in quelli di ricordanza e di rimembranza – così come egli stesso fa nello Zibaldone il 24 luglio 1820) è particolarmente significativa e urgente:

«Petrarca ha avvertito il dramma vivente dell’oblio. Le rovine che si trasformano, i frammenti di un’antica unità che ci inseguono, si fanno carne, divengono l’irrecuperabile stoffa del desiderio. L’immedesimazione umana, psicologica e letteraria di Petrarca in Leopardi si attesta nel riuso dei modelli antichi, nel dramma peculiare petrarchesco e nella sua specificità memoriale che diviene assente percezione dinamica del mondo. Leopardi, tuttavia, non è tanto interessato alla psicologia del ricordo, quanto al rapporto tra la memoria e la storia, collettiva e individuale, tra l’ossessione del ricordo e l’innocenza di felici età trapassate, irrimediabilmente perdute. La rimembranza per il poeta non è semplice rimando nostalgico e neppure una credenza illusoria nella possibilità che il passato si ripeta, non essendoci in Leopardi una convinta adesione alla teoria dell’eterno ritorno. Essa soprattutto consente di rivivere dall’interno la condizione psicologica dell’età adolescenziale, reimmergendo l’io nella situazione di attesa fervida per il futuro, che è il vero elemento animatore dell’esistenza umana»6.

Allo stesso modo – ed è, in fondo, questo l’obiettivo che Galgano vorrebbe raggiungere nella sua ricerca – tra la poesia di Pascoli e quella di Leopardi esiste un sotterraneo fil rouge che costituisce un tentativo di integrazione e di conciliazione suprema da parte del poeta di San Mauro di Romagna, di ritrovamento di un’armonia interiore che esalti l’innocenza originaria della soggettività umana e la riconduca alle sue scaturigini profonde:

«Sul piano tematico il punto nodale di contrapposizione tra i due sistemi ideologici di Pascoli e Leopardi è raggiunto in Passeri a sera, considerato una risposta indiretta a Leopardi, negatore di ogni intervento provvidenzialistico, sebbene intriso di senso religioso. L’ottica delle formiche, a cui gli uomini sembrano enormi e il tenue tratto ironico affine dei passeri ricorda il Dialogo d’un folletto e d’uno gnomo, soprattutto la polemica anti-antropocentrica che si rifà al desiderio di felicitò della Natura nell’omonimo dialogo con l’Islandese. E diversamente dal suo predecessore, l’ansia di significato pascoliana non esclude nel suo grido, a volte lacerato, a volte cosmico, l’Intelligenza superiore che riesce a ricavare dal male il bene, seppur attraverso una lucida rassegnazione»7.

Il nucleo centrale della poetica di Pascoli – come è ben noto – è quella dell’interiorità poetica aurorale del canto lirico, la dimensione del “fanciullino”.
E’ questo uno degli snodi della ricerca di una poesia non tradizionalisticamente atteggiata ad ode (quale si poteva rintracciare a tutto il primo Novecento nel maestro bolognese Giosue Carducci) o a espressione linguisticamente e abulicamente modulata. Scartando la dimensione del vate (come era accaduto nel Carducci meno avvertito e/o significativo espressivamente e come sarà poi nel D’Annunzio meno innovativo a livello linguistico), il poeta regredisce produttivamente allo stadio “infantile” dell’osservatore dell’evento (sia naturale che storico) e lo riproduce mimeticamente.
Così argomenta Galgano, trovando una serie di possibili fonti pascoliane in importanti autori anglosassoni (Wordsworth, il Carlyle della conferenza su Odino nel Culto degli eroi, tanto per citarne un paio) e soprattutto nella relazione con la rimembranza leopardiana:

«Per citare solo alcuni dei raffronti possibili, tale tematica è già presente in Wordsworth, in particolar modo nel Nature’s Priest; in Carlyle, in cui la visione della creazione poetica si accompagna alla purezza della parola che incontra l’intima essenza della bellezza, in Ruskin, dove viene sviluppato il tema della elezione del “vero” in tutte le sue forme, come traduzione in opera della meraviglia del mondo e del gran mare delle cose visibili, ed è evidente in Leopardi stesso, in cui l’io, motore vitale della poetica idillica, rappresenta, da un lato, la scoperta negli antichi del “fanciullesco”, ossia della piena armonia tra uomo e natura (in tal senso essi costituiscono una sorta di rivelazione dell’uomo a se stesso) e, dall’altro, il ritrovamento di una coscienza autentica del vivere, attraverso la possibilità di ricondurre la poesia alla natura»8.

La “malinconia” di Leopardi di cui il “sedendo e mirando” dell’ Infinito è sintomatica espressione9 si trasforma in pre-“contemplazione della morte” a mano a mano che l’innocenza dell’infanzia si allontana e subentrano le ansie e le “impurità” dell’età matura (in particolare, la tentazione della sessualità come in poesie quali Digitale purpurea contenuta in Primi poemetti del 1904).
L’estetica del “fanciullino”, allora, ha la funzione di esorcizzare la decadenza della progressiva maturazione dell’anima e del corpo e riportare la poesia alla sua funzione primigenia di “rinnovellamento”, di rinnovamento totale, cioè, dei sentimenti più puri degli uomini.
Il privilegiamento di ciò che è il “piccolo” (del microcosmo) significa proprio questo:

«Il problema della perdita e della vita come perdita è il tema portante della regressiva struttura poetica, in cui la vertigine nell’infinitamente piccolo, diventa dimensione precisa dell’esistenza. L’avvenimento di questa visione è un tentativo di ricercare e di ricreare uno spazio aperto alla contemplazione, in un simbolismo caricato di oggetti, denso di profondità e di significato»10.

Nella ricca trattazione critica di Galgano, la ricerca poetica di Leopardi e Pascoli è così giustamente rinnovata nel senso positivo del ritrovamento di nessi e di contesti nascosti che altrimenti avrebbero rischiato di andare perduti in una ricostruzione che fosse rimasta puramente a livello storico-storicistico.

Andrea Galgano, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido, prefazione di Davide Rondoni, preludio di Irene Battaglini, Roma, Aracne, 2014, euro 18.

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1 D. RONDONI Prefazione ad A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido, prefazione di Davide Rondoni, preludio di Irene Battaglini, Roma, Aracne, 2014, p. 14.

2 I. BATTAGLINI, Preludio ad A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. , p. 19.

3 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. , pp. 21-22.

4 Cfr. A. TORRE, Petrarcheschi segni di memoria. Spie, postille, metafore, Pisa, Edizioni della Scuola Normale, 2008.

5 Cfr. H. BLOOM, L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, trad. it. di M. Diacono, Milano, Feltrinelli, 1983.

6 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. , p. 49.

7 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. , p. 342.

8 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. , p. 155.

9 Almeno quanto argomenta Elio Gioanola in Leopardi, la malinconia, Milano, Jaca Book, 1995.

10 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. , pp. 181-182.

Le immagini di Giuseppe Panella

di Andrea Galgano 8 ottobre 2014

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9788884102027Scrive Andrej Tarkovskij:

«L’immagine artistica è un’immagine che assicura a se stessa il proprio sviluppo, la propria prospettiva storica. È un seme, un organismo vivente in evoluzione. È il simbolo della vita, ma è diversa dalla vita stessa. La vita include in sé la morte. L’immagine della vita o la esclude oppure la considera come l’unica possibilità di affermare la vita. L’immagine artistica è di per sé espressione della speranza, grido della fede, e ciò è vero indipendentemente da cosa essa esprima, foss’anche la perdizione dell’uomo. L’atto creativo è già di per sé una negazione della morte. Ne consegue che esso è intrinsecamente ottimista, anche se in ultima analisi l’artista è una figura tragica. Per questo non possono esserci artisti ottimisti e artisti pessimisti. Possono esserci solo il talento e la mediocrità» (da Martirologio-Diari 1970-1986).

Il poderoso saggio di Giuseppe Panella, docente di Estetica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, edito dalla fiorentina Clinamen, indaga, in nome dell’immagine, descritta o reale o mentale, lo stretto rapporto tra le discipline volte alla formulazione del discorso, alle imagines memoriae, al legame tra visualizzazione e composizione.
La reale incompatibilità tra parole e immagini, partite dall’analisi di Foucault, punta all’origine della comunicazione, alla sua versatilità, e all’atto linguistico: «La poesia è, dunque», scrive lo studioso, «lo spazio in cui è possibile collegare immagini e parole, in cui si esalta e si definisce l’esperienza dell’identità coniugata attraverso le differenze dei suoi segni (o viceversa), il luogo in cui le similitudini nascoste all’interno dello strato roccioso dell’oblio emergono grazie all’azione corrosiva di succhi poetici sotterraneamente distillati e operanti in segreto» (p.16).
In un saggio, dal titolo L’arte della memoria, Francis Yates, soffermandosi sull’atavica e sostanziale uguaglianza tra poesia e pittura, confluita nella formula oraziana ut pictura poësis, così sintetizzava: «La teoria dell’equazione poesia-pittura poggia anch’essa sulla supremazia del senso della vista: il poeta e il pittore pensano entrambi per immagini, che l’uno esprime poetando, l’altro dipingendo. Le sottili e sfuggenti relazioni con le altre arti che percorrono tutta la storia dell’arte della memoria sono così già presenti nella fonte leggendaria, nei racconti attorno a Simonide, che vide poesia, pittura e mnemonica in termini di intensa visualizzazione».
La stuporosa fascinazione di Walt Whitman, che inaugura i prodromi della modernità, apre il catalogo del mondo alla sua composizione e le immagini «di cui il mondo esterno è composto si incontrano e si scontrano con le idee interiorizzate e introiettate in profondità nella mente del poeta, fino a realizzare un cortocircuito lirico continuo e travolgente che produce alla fine l’emergenza della poesia. […] Il poeta non può fare a meno del contatto con la materia della sua scrittura e con la concretezza dell’esperienza di vita che ne è il sostrato imprescindibile».
L’immagine illuminata di Whitman si staglia ed emerge come trionfo visibile e come elemento dinamico, con cui la poesia si appropria della pienezza delle immagini per compiersi e addentrarsi nel magma della realtà.
Laddove Hopkins fa ondeggiare la fresca profondità del reale con l’imperiosa potenza delle sue epifanie, «il gradiente sonoro delle parole utilizzate si fonde così con la descrizione dell’evento facendo emergere dallo sfondo indistinto della natura la forma privilegiata del canto libero» (p.26).
La raccolta delle immagini dà corpo alla sua campitura, al moto composito che si esprime ed emerge nella sua fosforescenza.
Il saggio percorre le linee di un mosaico che diventa preludio. Se D’Annunzio ha espresso la carnalità umbratile della parola e il suo fuoco, la totalizzazione (e tragicità) dell’io, l’incoscienza dello stile: è la dischiusura delle immagini a far nascere la germinazione poetica, Joyce percorre la selezione e collezione epifanica, come coniugazioni del Sublime «con l’idea catartica (e , quindi, aristotelica) della scrittura come espressione di “momenti di essere” che solo la loro (apparente) riuscita e perfezione potranno redimere dall’oblio e salvarli dall’essere confinati nella stanza buia della dimenticanza» (p.35).
Lo spostamento dell’imagismo di Pound, nato dagli stimoli teorici di Thomas E.Hulme, tocca il culmine breve dell’esattezza e della densità nuova del linguaggio dell’immagine («ciò che presenta un complesso intellettuale ed emotivo in un istante di tempo»), che sovrappone i livelli simbolici e letterali, inventando un verticale superamento visuale, un’ appropriazione del flusso metamorfico dell’esistente, e in questa ricerca «di valorizzazione della parola come “forma naturale” dell’immagine, il poeta americano cercava di liberarsi dal carico “filologistico” che aveva caratterizzato talune sue prime prove […] e di produrre un soffio rivitalizzante […]» (p.43).
Con Apollinaire la poesia inizia a farsi allusione ed espansione, condensa la sua lampante manifestazione in una scena visiva che «proprio per questo motivo e proprio perché accetta l’idea della fine della comunicazione artistica come evento esclusivamente verbale, rappresenta una forma ulteriore dell’utilizzazione delle immagini come parole e al posto delle parole».
Nei suoi successivi passaggi il saggio si snoda in tre direttive, che mettono a fuoco le analisi delle immagini all’interno del dispositivo di scrittura e di interpretazione critica.
L’istanza fenomenologica di Bachelard, analizzata nel volume, fa luce sullo spazio immaginato e sullo spazio in figura dell’immagine. Le fascinazioni (rêveries) elementari approdano al superamento della realtà che, se da un lato, sconfinano nell’esperienza onirica, dall’altro, diventano fenomenologia cosciente.
Bachelard, pertanto, come scrive Giuseppe Panella, «cerca di riscontrare (e di ritrovare di conseguenza) nell’azione dell’inconscio i segni più significativi ancora accessibili del loro processo di trasformazione in registro consapevole delle intuizioni e delle sospensioni di immagini che popolano la pagina scritta. Le immagini si fanno realtà nel momento in cui vengono riconosciute come tali» (p.62).
L’Arte come perfetta sintesi di “intuizione”ed “espressione”, come prospettato da Benedetto Croce, si richiama alla vichiana logica poetica, saldamente ancorata all’autonomia e alla fantasia dei suoi lumi sparsi.
Croce fa coincidere l’Arte con la conoscenza intuitiva, l’Armonia come suo segno distintivo, e conseguentemente, «ciò che è libero dai condizionamenti (concettuali e/o concreti) della pratica artistica perché è essa stessa una delle forme “autentiche”della pratica […] Certamente, la poesia non è solo espressione lirica e non è soltanto arte o letteratura, non è pura forma né grossolano contenuto, non è oggetto dell’attività singola di un singolo staccato dal proprio contesto storico, non è eternità congelata nell’atto dell’ispirazione come una sorta di folgorazione in decrittabile e/o ineffabile, non è solo tecnica o poiesis […], non è rilettura “in pensieri” del proprio Zeitgeist né anticipazione dello stesso, non è attività concettuale né pura e semplice espansione dell’Io in forme prescritte dalla tradizione o dalla convenzione letteraria o dal gusto o dal mercato delle lettere» (p.76).
L’indagine sulla traccia filologica di Contini prima, e Muscetta, poi, si sofferma sul rapporto della filologia come lettura, riscoperta e trasmissione di segni e studio di strutture.
Lo «scandaglio genetico» dell’opera, come nel caso della riscoperta dei Sonetti di Belli, mira a ricostruire il fulcro dei suoi passaggi e delle sue peculiarità espressive, attraverso l’impegno storiografico, e la sua forza antipopolare.
Il rapporto tra immagini e parole, nei diversi momenti della storia letteraria tra fine Ottocento e Novecento e nelle ipostasi delle avanguardie, analizza il lavoro scavato (direbbe Heaney) della parola poetica, come un limite sovrabbondante, che in esso trova forza e abbandono, capace di presentare la provocazione della realtà, la sua meraviglia e il suo assurdo.
Persino il silenzio diventa, come nel caso di Rimbaud, compiutezza e conclusione: «La poesia realizzata in termini di pura rappresentazione trova proprio nelle sue immagini la sua ultima metamorfosi in un diverso progetto di vita: dalla poesia si passa all’amministrazione coloniale e senza soluzione di continuità. Dalla lirica come rappresentazione “colorata “ del mondo (è il caso “pittorico” di Voyelles) non si può che giungere al mondo come caleidoscopio di colori, quale scomposta asimmetria di frammenti poetici che non si possono afferrare se non per un attimo» (p.131).
Il sogno e l’epifania poetica della città, poi, condensano il teatro di una totalizzante e suprema arsi immaginale, in cui rapportarsi al proprio inconscio (Aragon), all’inventario della sua topografi (Benjamin), al suo moderno teatro (Schnitzler), alla non località inestesa dei suoi passaggi e paesaggi e infine ai simulacri forgiati dalla sua identità (il dandy).
Il volume studia tutti gli scenari e i sentieri possibili: dal paradosso come costruzione della soggettività fino al suo rovesciamento nel feticismo che pertiene alle fondamenta della prospettiva borghese.
Paul Klee scrisse che il compito dell’arte non è riprodurre il visibile ma rendere visibile l’invisibile. Ciò che noi vediamo materialmente, non è detto che sia ciò che è oggetto di attrattiva, come testimonia l’incompiutezza della Pietà Rondanini, che esprime questo doppio movimento: usa il visibile come porta d’accesso all’invisibile e così realizza il Bello.
Il libro di Giuseppe Panella condensa nella sua pienezza d’insieme, non soltanto il rapporto segreto della parola con l’immagine, ma permette di vivere appieno il fascino della relazione e dell’ermeneutica, che sono traccia, ineludibile, di un canto mai svanito.
PANELLA G., Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, Clinamen, Firenze 2014, Euro 49,00.

L’inconscio della scrittura. Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013

L’inconscio della scrittura. Andrea Galgano ­– Irene Battaglini, Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013 

recensione di Giuseppe Panella

Frontiera di Pagine5 ottobre 2013

Fin dalle sue origini, la psicoanalisi si è cimentata con la letteratura e con l’arte, provandosi a dare una serie di risposte agli stessi interrogativi che la critica letteraria si pone da sempre.

Una lunga serie di analisi freudiane al riguardo costituiscono un corpus impressionante di tentativi di spiegare, attraverso l’interrogazione dell’inconscio, del perché un’opera d’arte sia nata così e abbia assunto proprio l’assetto formale che ad essa risulta necessario e consapevolmente più adeguato ad esprimere le esigenze dell’artista che l’ha realizzata.

Il caso rappresentato dal saggio di Freud sul Mosè di Michelangelo del 1914 (ma anonimo e poi riconosciuto solo nel 1924) è al riguardo esemplare: l’atteggiamento e la postura del profeta biblico sono la spia, la traccia manifesta della volontà di Michelangelo di spiegarne il comportamento successivo e l’atteggiamento umano di collera che lo contraddistinguono.

La raccolta degli scritti di Irene Battaglini e di Andrea Galgano, simbolicamente intitolata Frontiera di pagine, vuole disporsi teoricamente sul discrimine esistente tra critica d’arte ed esercizio psicoanalitico e cercare di utilizzare entrambe per raggiungere il risultato voluto: la ricostruzione del percorso di un’artista importante e significativo e lo svelamento del segreto contenuto nelle sue opere in modo tale da far esplodere tutta la potenza dell’inconscio che in esse si dispiega.

Nell’Introduzione, firmata da entrambi gli autori, si può conoscere esaurientemente lo scopo che essi si sono prefissi con questa loro raccolta:

<<La scrittura impone l’esperienza di un viaggio e di un possibile approdo che richiedono la speranza come messa alla prova, scuotimento, tocco, abbandono e dono delle responsabilità. E’ il gesto della beatitudine e della ferita che ogni volta si annunciano e si impongono a cogliere il nome che plasma la realtà, e che sconvolge misure strette, destando il suono di un’attenzione. La parola che “squadri da ogni lato l’animo nostro informe”, direbbe Montale, ha un limite sfarzoso e doloroso: toccare il sigillo rinnovato delle cose e non riuscire a sagomare tutta la realtà. E’ il limite passionale e fragile della condizione umana, la luce che si incide in solchi di tela e strappi di fogli, nei chiaroscuri dove non si esiliano le ombre[1]>>.

 L’esperienza della letteratura rappresenta <<abitare l’inizio delle cose>> – affermano i due autori citando uno splendido saggio della scrittrice statunitense Flannery O’ Connor (Natura e scopo della narrativa, contenuto in Nel territorio del diavolo. Sul mistero dello scrivere) -, scrivere significa agire sui sensi del lettore, motivarli e permettergli di andare al fondo del reale, nella sua concreta reviviscenza effettuale, nel suo esplicito definire il mondo e dargli un nuovo perimetro, una nuova sagomatura. Scrivere significa rifare la realtà attraverso una ri-forma dell’apparato percettivo sia di chi scrive sia di chi legge, sia dell’autore che del “suo” lettore (esplicito ma anche “implicito” – se si deve prestar fede alle analisi semiologiche di Umberto Eco).

L’interesse principale di Irene Battaglini è rivolto alla pittura, in primo luogo a quegli scienziati come Eric R. Kandel, Premio Nobel per la medicina nel 2000 per i suoi studi sulla conservazione della memoria, che ha dedicato a pittori della Grande Vienna di inizio Novecento (Gustave Klimt, Oscar Kokoschka, Egon Schiele) ed anche a pensatori e scrittori come Freud, Arthur Schnitzler o Friedrich Nietzsche, un saggio di grande rilevanza teorica in cui cerca di ritrovare nei meandri ancora oscuri della mente il senso profondo della loro luminosità.

Ma, dopo il neurologo Kandel, fanno la loro apparizione il grande pittore pugliese De Nittis e le sue rappresentazioni della Roma postunitaria, Giorgio Morandi e il senso inesprimibile delle sue “bottiglie” e dei suoi cortili, le notti ebraico-orientali di Marc Chagall, il velo impalpabile dei quadri di Gaetano Previati, il movimento “panico”di Henri Matisse con la danza primigenia dei suoi semidei “impaludati nella natura” (p. 57), i colli eleganti e invalicabili delle donne di Amedeo Modigliani, il mondo notturno e falsamente realistico bensì stilizzato ed erratico di Edward Hopper (si pensi al suo quadro più noto, Nighthawk oppure a Morning Sun che la Battaglini analizza con grande finezza), il “mare di nebbia” di David Caspar Friedrich e il suo Viandante, icona vivente del Sublime, per finire con Il Calvario di Pieter Bruegel il Vecchio, la materia tormentata della spiritualità religiosa di William Congdon, i colori aspri e sanguigni di Renato Guttuso e i disegni dechirichiani ed inquietanti dello scrittore Dino Buzzati.

Lo spazio che Andrea Galgano si ritaglia è molto ampio ed è, quindi, impossibile ripercorrerlo tutto nello spazio di una nota di recensione: il critico letterario parte di “profumi della trasparenza” di Saffo per passare attraverso Catullo e l’amore impossibile per Lesbia, l’elegia tormentata di Tibullo e Properzio, i Tristia di Ovidio, la vertiginosa archeologia del poema dedicato a Beowulf, la saga sanguinosa e poetica dei Nibelunghi, Perceval le Gaulois di Chretien de Troyes e la sua innocente ricerca dell’innocenza perduta tramite la cerca del Santo Graal, Maria di Francia e i suoi Lais, Geoffrey Chaucer e i suoi Canterbury Tales di ispirazione boccacciana, la sequenza di vita e morte del Ragno Amore di John Donne, il Dolce Stil Novo di Guido Cavalcanti, Luis de Camões e i viaggi di scoperta di Vasco da Gama, il teatro sacro (e profano) di Jean Racine, la Notte oscura Juan de la Cruz e il suo tormento spirituale, la squillante ritmicità dei poemi di Fjodor Tjutčev (che furono straordinariamente tradotti un tempo da Tommaso Landolfi), la narrativa inquietante e “inesauribile” di Charles Dickens…

E ancora, scivolando sempre più verso il Novecento, la “camera chiusa” di Emily Dickinson, la poesia “barbara” e l’amore passionale (e segreto) di Giosuè Carducci, il mondo del “sottosuolo” dell’anima di Renè de Chateaubriand, la di speranza ricerca di certezze di Heinrich von Kleist e la sua crisi kantiana culminata nell’amore di Penthesilea per Achille, la teratomorfa poetica angoscia di Isidore Ducasse (falso) conte di Lautrèamont e le sue creazioni allucinate e perverse, e poi ancora The tempest di William Shakespeare (chiunque egli sia stato) e il mondo provvidenzialistico di Alessandro Manzoni fino alla lirica narratività di Thomas Hardy, al “canto fioco” di Marceline Desbordes-Valmore per culminare nella poesia (e nella vita) errante di Arthur Rimbaud.

Il percorso di Galgano attraversa tutta la grande cultura letteraria del Novecento, quella che egli definisce giustamente Il fuoco della contemporaneità dall’appena scomparso Àlvaro Mutis a Thonas Stearns Eliot, da Joseph Conrad a Flannery O’ Connor, da Harold Pinter a Guillaume Apollinaire, dal Premio Nobel Tomas Tranströmer, da John Cheever a Sherwood Anderson per dedicare poi un nutrito paragrafo all’amata Flannery O’ Connor.

Le analisi di Galgano sono brevi ma preziose nella loro minuta ed esauriente concisività: poche frasi, qualche citazione e una manciata di giudizi critici che bastano a definire l’essenza profonda della poesia o della narrativa di autori studiati a profusione e sui quali sono stati spesi tempo e versati fiumi d’inchiostro in maniera straordinaria (e talvolta fin troppo dispersiva).

Galgano riassume il loro mondo con brevi tratti di penna e ne mette in progressione “ritratti in piedi” suggestivi e calzanti, puntando su particolari significativi piuttosto che cercare una compiutezza che sarebbe impossibile, se non nociva per la comprensione del personaggio studiato.

Nel testo dedicato a Flannery O’ Connor, Galgano ha accenti di forte pathos (ma criticamente motivato e fondato sulla natura delle opere realizzate dalla scrittrice americana):

<<E’ sempre un mondo in continua creazione, ricolmo di promesse, un abisso di ombra – basti pensare a La schiena di Parker -, in cui spesso la visio Dei è piena, soggiace non già ad un’intuizione spirituale ma a un dato di realtà, raccolto in modo anagogico. Lo spirituale anzi diventa materia, il tragico cristiano si evidenzia appieno, come strumento conoscitivo e lente della realtà. Solo nella Grazia si scopre il destino. In essa si ritrova quella salvezza, che dall’esterno interviene con dirompente misericordia a rendere più uomo l’uomo (Un brav’uomo è difficile da trovare) e rende la fede un atto ragionevole di apertura libera. Il campo di Flannery O’ Connor è la pagina umana, vista nel suo effimero e nella sua debolezza, ma è anticamera concreta e terribile appoggiata al cielo>>.[2]

 Con accenti certamente diversi ma con la stessa passione di ricerca Irene Battaglini aveva scritto di Edward Hopper e della sua ricerca pittorica:

<<Il realismo di Hopper è di fatto “o-sceno”: il grande artista americano intendeva far parlare quella fenomenologia della parola che si rappresenta nel suo silenzio, e che si dà a volte all’uomo anche contro la sua volontà. Un sogno, una chiamata, un insight. Ogni esperienza di certezza è preclusa a coloro che indagano la realtà in rapporto alla sua rappresentazione. Occorre abbandonare i manuali, le scale quantitative, le misure di falsificazione e quell’orgoglioso ricorso al regno delle cose probabili, quando si tenta di dirimere la controversia tra possibile e impossibile, tra vero e falso. Nel divario tra le due ali di una farfalla non si registra alcuna probabilità, piuttosto si osserva il movimento preciso: la serena accettazione dell’ala di avere una compagna gemella e irraggiungibile, speculare e vitale. Edward Hopper ha fatto esperienza di sé e viaggio iniziatici nella dimensione conoscitiva della luce che invade lo spazio, indagando con coerenza sperimentalista il piano dei piccoli infiniti che si affastellano sulla tela>>.[3]

 Per entrambi, dunque, l’analisi critica non è disgiunta dalla ricerca letteraria e la volontà di usare la parola non soltanto per spiegare o analizzare ma soprattutto per dire una verità che solo arte e letteratura sono in grado di far comprendere appieno e di utilizzare in tutta la sua interezza ermeneutica.



[1] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Introduzione a Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013, p. 17.

[2] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine cit., p. 264.

[3] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine cit., p. 71.