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Clemente Rebora. il grido e la tensione

Clemente Rebora. Il grido e la tensione

di Andrea Galgano                                         11 settembre 2013

Clemente Rebora. Il grido e la tensione

Poesia Contemporanea

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«Qualunque cosa tu dica o faccia / c’è un grido dentro: / non è per questo, non è per questo!».

In Clemente Rebora (1885–1957), non esiste evento o circostanza o scheggia di dettaglio, ricolmo di gioia o doloroso, che non sia assedio della realtà, che non sia soggetto a provocazione o destinazione ultima, dove la natura non prenda coscienza di sé. È, quindi, nell’uomo che si innerva la caducità, la contingenza delle cose, tra il tentativo di aggrapparsi al possesso precario, agli idoli, e l’esigenza di compimento che porta in grembo il suo grido, con una segreta domanda.

Tutta la scrittura nasce da questo avvertimento e da questa urgenza, come annota Emilio Cecchi: «far l’elogio di questa posizione spirituale autenticarlo col raffronto di tanta viltà e scioccheria nella nostra letteratura odierna, equivarrebbe a offendere lo scrittore».

«Rebora», aggiunge Elio Gioanola, «è colui che più di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e moralità, disperazione e speranza, rifiuto dell’esistente e ansia di assoluto, fino a costruire il più autentico monumento di poetica espressionistica della nostra letteratura primonovecentesca».

La totale esattezza spericolata, unita a una dissonante, quasi sfrangiata, musicalità si impongono in una «fonte viva; qui c’è un’anima e un uomo», come scrisse Giovanni Boine.

Sergio Pautasso, analizzando il rapporto di Rebora con i contemporanei, afferma: «La presenza di Rebora nel Novecento risulta sconvolgente perché spariglia le carte degli ormai consolidati schemi della storiografia letteraria; non solo, ma con la sua poesia egli ha rimesso nematicamente e linguisticamente in discussione il rapporto con le poetiche novecentesche, dimostrando che con esse aveva poco a che fare perché, in effetti, mirava ad un diverso risultato. Di qui deriva, e si spiega, l’inadattabilità dei versi reboriani alle regole della lettura critica della poesia novecentesca. Il che non significa che la critica non si sia occupata di lui, anzi. Ma si vuole dire che la lettura reboriana è stata, diciamo, più difficoltosa, per reali ragioni oggettive».

Egli stesso, il 13 ottobre 1956, sostando, per così dire, sull’essenza del classico, annotò: « Ogni vero poeta (e pochissimi sono) […] ha in proprio il suo non comunicabile genio personale innestato nell’elemento unanime e perenne della cultura e della civiltà del suo tempo; per cui, questo elemento universale – e quanto più è purificato d’ogni ingombro contingente – lo fa diventare un classico».

Il racconto e la sorpresa della lievità degli istanti, quando corrono «per l’aria immagini di bene / con riso di speranza», si accompagna allo sgomento «del sogno disperso / dell’orgia senza piacere / dell’ebbra fantasia», all’incanto del pieno respiro, alle stelle-ragazze che danno «bàttiti di ciglia / divini».

Rebora canta lo spazio della «realtà segreta», la tensione sulla positività ultima della realtà, quando una illogica allegria investe un indizio di ringraziamento: «e quasi sento un caldo àlito umano / sul viso e dietro il collo un far di baci / e tra’capelli morbida la mano / d’amante donna in carezze fugaci» o inseguimento con balzo fulgido dietro all’ «amor che nel nostro cammino accende / l’inconsapevol brama triste o lieta», per godere delle cose così come sono: «quando si nutre il cuore / un nulla è riso pieno, / quando si accende il cuore / un nulla è ciel sereno: / quando s’eleva il cuore / all’amoroso dono, / non più s’inventan gli uomini, ma sono».

Annota Gianni Mussini: «In Rebora, anche nel primo Rebora, non esiste una vera “autonomia del significante”. Per lui la poesia è invece sempre eteronoma: non vale in sé, ma in quanto espressione di un altro e di un oltre. Cioè, di una verità che sempre la supera: una verità prima angosciosamente cercata e, quindi, forse altrettanto angosciosamente trovata. In fondo, la poesia reboriana non è che la trascrizione fedele di questa ricerca: essa rappresenta tutta un’esperienza, tutta una vita».

La poesia che non sovrascrive la vita, ma è più necessaria della vita stessa ha il gemito di un’urgenza, in cui il battito dell’ora e del tempo crescono, innestandosi nell’eterno: «Vorrei palesasse il mio cuore / Nel suo ritmo l’umano destino».

I Frammenti lirici del 1913, pubblicati dalla Libreria della Voce, sono «la grande avventura di un giovane che vuole misurarsi con il mondo delle idee, delle parole, dei suoni e tutto fondere a tentare una verità percepibile ma non sempre rivelabile» (Gianni Mussini).

Umberto Muratore annota che nella dedica del testo, egli «esprimeva il desiderio, definito poi meglio nei Canti anonimi, di non trovarsi a cantare il proprio io, bensì l’io comune, di farsi interprete delle ansie e delle aspirazioni comuni del tempo», nell’ «accettazione spontanea, mistica, del proprio dolore e della propria nullità, purchè da tale stato di svuotamento individuale nascano semi di vita per gli altri».

La frammentazione di un’epoca, la vicinanza (nel titolo), petrarchesca, propongono un bivio: distruggersi nello strazio della guerra (definita «tremendo festino di Moloc, stanza dell’ammazzatoio di Barbableu» dove tutto è «mari di fango e bora freddissima» ed egli si sente «fatto aguzzino carnefice»), nella sconfitta frustrata di un «forsennato voler che a libertà / si lancia e ricade […] e fatica e rimorso e vano intendere: / e rigirio sul luogo come cane» e nell’annientamento totale, oppure invocare una segreta domanda, rischiando l’immagine salvifica intravista e sfuggente: «il mio volto s’alza a chiedere / la verità alla vita, / che l’attimo contrasta / e il dolor solo accoglie», ma «il dolore non basta / e l’amore non viene».

«La poesia di Rebora», sostiene Elio Gioanola, «appare lacerata da un’inquietudine profonda, dal senso di un’inadeguatezza radicale rispetto al mondo com’è agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere».

La sproporzione evolve la martellatura dell’istante in domanda di totalità, come egli stesso ricorderà nel Curriculum vitae: «Un lutto orlava ogni mio gioire: / l’infinito anelando, udivo intorno / nel traffico e nel chiasso, un dire furbo: / quando c’è la salute c’è tutto, / e intendevan le guance paffute, / nel girotondo di questo mondo».

Al cuore non basta l’effervescenza dello spirito, il lievito del buon senso. Tutto deve richiamare a una Salvezza ricercata e presente, a un Senso ultimo che passi dalla datità concreta e rechi in grembo una domanda elementare: «Tutto ascendeva, / congiunto, discosto, / i monti e la sera, / presenza del cuore nascosto, / lontananza del fior sullo stelo. / Al varco dell’ombra e del cielo / Scoprivo lo spazio alle cime, / che hanno confine/ ov’è l’inizio più vero» (Ca’ delle sorgenti).

Mancava questo al giovane Rebora, «ammiccando l’enigma del finito sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno scugnizzo, dentro gemevo, senza Cristo».

Commenta Pautasso: «In lui agiva una tendenza alla religiosità, ma che non coincideva ancora con una scelta, benché inconsciamente la sua scelta egli l’avesse già fatta, almeno con la poesia».

L’oscillazione tra eterno e transitorio ama la piena dell’indicibile, nata dal dissidio interiore di una contraddizione non risolta che possa germinare di vividezza: «vorrei, maturar da radice / La mia linfa nel vivido tutto».

Scrive Gianfranco Lauretano: «La poesia di Rebora imita invece non tanto la vita materiale, ma il movimento interiore, l’anima che, comprendendo se stessa e il mondo, avanza sbattendo in contraddizioni, complessità, mistero».

L’infinita densità del tutto è l’incisione di una affinità che non conosce esclusione di dettaglio o innesti una grande aspirazione «mar che ti volgi è riva e chiami, / cuor che ti muovi ovunque è pena e l’ami».

La commistione dell’umana tensione con la percezione del limite, come se germogliasse dalla sconfitta un’attesa, forte più di ogni calcolo, impone una vigile veglia «solida e coerente» (Gianfranco Contini), come testimoniano i passaggi del Frammento V, che Luigi Giussani commenta così: «Quanto più mi sento nella morsa delle cose che mi impediscono di identificarmi coi sogni, coi desideri, tanto più vorrei che questa morsa che stringe mi facesse ardente nella dedizione della mia energia. Bellissimo paragone della barca a vela, del fermaglio e della scotta; quanto più si stringe tanto più il vento che vi soffia dentro fa volare la barca […] è talmente forte il senso della positività ultima del mistero che l’alienazione e il limite non diventano, o non restano, obiezione, ma diventano addirittura l’opposto, un urto che più spinge a dare. Si tratta di una lotta, di una partecipazione nella lotta dentro la storia, per il mondo concreto».

Questa drammatica dinamica agonistica trova la sua espressività in un componimento Il pioppo, scritta dal suo letto di dolore, dove visse la sua malattia e dove davanti alla finestra vide «il pioppo severo»: «Vibra nel vento con tutte le sue foglie / il pioppo severo; spasima l’aria in tutte le sue doglie / nell’ansia del pensiero: dal tronco in rami per fronde si esprime / tutte al ciel tese con raccolte cime: fermo rimane il tronco del mistero, e il tronco s’inabissa ov’è più vero».

Tutta la realtà proclama un oltre, lo afferma, e chiede all’uomo di tendere verso questa nuova incommensurabile scena, o meglio di attenderla nella sua domanda elementare. Egli fatto per il cielo, ma concatenato alla terra, come tanti suoi simili legati alla sua condizione, come scrive Roberto Filippetti: «Questa «domanda di vita» attraversa da un capo all’altro l’opera prima: frammenti gremiti di una domanda di totalità».

Nei Canti anonimi, secondo libro di Rebora, «si accentua la sua tendenza a scomparire come io per farsi voce, anonima appunto, di una situazione comune, quella della pena nella città moderna sempre più priva di umanità, e dell’ansia amorosa per qualcosa di diverso e più alto» (E.Gioanola). L’acme poetico di Rebora si respira nella vibrante Dall’immagine tesa, definita come una delle più alte espressioni poetiche e, allo stesso tempo, religiose del nostro tempo, di «un fatto che venga a dare un senso all’attesa e alla tensione», come commenta Romano Luperini.

L’angoscia della prima guerra mondiale è il senso del vuoto, di non scorgere e affermare nulla sotto di sé. Eugenio Borgna, all’incontro «Clemente Rebora: l’ardore il limite, l’eterno. La vita come tensione», organizzato dal Centro Culturale di Milano, ha analizzato e descritto questo sentimento in Rebora: «Il filo rosso di questa mia prima sequenza è dunque l’angoscia come esperienza umana  (sebbene possa essere anche un’esperienza psicotica, ma io ne parlo  come esperienza umana) che però è anche una esperienza creatrice […]. L’angoscia della morte diventa sul piano lirico angoscia creatrice. I Canti anonimi, pubblicati nel 1922 ma incominciati nel 1900, hanno come leit motiv il Mistero o l’attesa. In queste poesie si spegne la fiamma divorante dell’angoscia: la guerra è finita e Rebora entra in una vita normale, almeno apparentemente».

L’angoscia come portatrice di significati per creare, scrivere, raccontare la crudeltà e la durezza di quel «corpo in poltiglia / Con crespe di faccia, affiorante / Sul lezzo dell’aria sbranata».

Il senso del nulla non fa implodere la ricerca di un infinito che si presenta: redimere non è risarcire. La redenzione è il bacio che non lascia sole le labbra: «Eppure la cosa capita / non redime la cosa sofferta; / e la parola senza bacio / lascia più sole le labbra». Le parole senza presenza subiscono al condanna al vuoto, tremano come dallo sperpero di un bisogno, come da una culla. In quel bacio c’è tutta la dimensione del nostro essere.

La trepidazione dell’immagine è l’attesa di qualcosa che nell’«ombra accesa» ha imminenza di passaggio. Egli spia i suoni impercettibili di quel (sin estetico) «polline di suono» fra quattro mura dilatate di spasimo infinito, pur non aspettando immobile nessuno, ne avverte l’orlo della presenza. L’immagine tesa di Rebora è «la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae». Ma quest’Ospite arriverà improvvisamente e imprevisto (immagine già presente in Peguy), sbocciando, portando il dono della  vittoria sulla morte. Sarà un bisbiglio come la certezza di una nuova positività (il poeta si convertirà nove anni dopo) e come egli stesso scrisse a Montale: «La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto».

Il silenzio di oltre trent’anni dai Canti anonimi (1922) ai Canti dell’infermità (1955), raccoglie il seme della conversione, ma non è silenzio assoluto (se non di pubblicazione), bensì tremore e affermazione di Dio: «Se il sole splende fuor senza Te dentro, / tutto finisce, in cupa nebbia spento. / orrore disperato, Gesù mio, / trovarsi in fin d’aver cantato l’io!».

Afferma ancora Eugenio Borgna, soffermandosi sul silenzio di Rebora, molto simile all’angoscia paolina, o a quella di Teresa d’Avila, o del grido sulla croce che fa scoprire l’eterno: «L’angoscia creativa, l’angoscia umana che ritroviamo nelle poesie composte in quegli anni fatali quando non sarà più l’angoscia del campo di battaglia ma l’angoscia che la malattia fa riemergere, angoscia riscattata dalla speranza, diventa una nuova, rinnovata, misteriosa sorgente di creatività, e allora i Canti dell’infermità non si capirebbero fino in fondo se non le ricollegassimo anche al fatto che dopo venticinque anni di silenzio rinasce una esperienza creativa che sia per la concomitanza molto stretta con questa malattia devastante sia per i contenuti, seppur trasfigurati,rimanda ai componimenti nati nel periodo della guerra. Questo lungo silenzio […] permette di meglio comprendere le ultime poesie, insieme alla rinascita dell’angoscia, che pure è ormai segnata, incrinata dalla speranza».

La febbrile e micidiale fertilità degli ultimi anni, accompagnati dal cuore del pensiero rossiniano, destinano l’infermità al percorso del suo dettato esistenziale e del giovanile gemito ramingo senza Cristo, degli amori giovanili, della guerra, dell’abisso «preso dall’artiglio dell’io», del cielo dell’alba raccontato dal fievole belato della Grazia.

Bacerà la tenerezza di Dio, accadrà l’Avvenimento che consente di sfiorare e poi di toccare la dimora tenera del suo compimento di uomo, che attraverso la sofferenza partecipa alla redenzione di Cristo, centro del cosmo e della storia.

In un’umanità vissuta interamente, la realtà rivela il suo essere segno, «il grido diventa azione di fede-sveglia nel mondo, e da lì sorge la speranza», per sorprendere la possibilità, ultima e positiva, di una risposta, di un’azione di fede nel mondo e in cui le cose rappresentano il vertice di un rapporto in cui vivere e costruire:  «Nella sommersa pace il guardar mio / tenue senso di un crepolìo / D’aria che a galla su per l’acqua levi; / Cammino in nimbo, e rarefatto inclino / Sinuoso al fosforico sentiero: / Ciò che men dissi, tutto m’è vicino; / E per l’amante cuor nulla è mistero».

Clemente Rebora archivio Giovannetti/effigie 

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