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Lo spasmo di Alexandr Blok

di Andrea Galgano                                         26 settembre 2013

Poesia Contemporanea

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«Aleksàndr Aleksàandrovič Blok è la figura più cospicua di quella generazione di simbolisti russi che percepirono in modo spasmodico il rombo sotterraneo degli avvenimenti, la crisi della cultura borghese, l’approssimarsi della tempesta. Maturati sul limitare di due epoche, con tutta l’irrequietezza di chi vive sul limitare di due epoche, con tutta l’irrequietezza di chi vive su un’incerta striscia di confine, i giovani simbolisti respinsero il positivismo, le formule naturalistiche, i vezzi dei decadenti in nome di concezioni messianiche, di teorie religiose che appagassero la loro brama di grandi rivolgimenti» (Angelo M. Ripellino).

La poesia di Alexandr Blok (1880-1921) è uno spasmo sottile di confine, come un sisma che si impossessa dell’aura mistica e della profezia. La smania che condensa gli anni febbrili di San Pietroburgo attesta, sin da subito, la sua fascinazione, come avverrà ne i Ricordi di Alexandr Blok, scritti da Andrèj Bèlyj, altro grande emarginato della letteratura di quel tempo.

C’è una sorta di veggenza viandante e rivelatrice nella sua persona, un abbaglio di coltre che promana dalla sua vertigine, come annota Massimo Barili, in un articolo tratto dalla rivista «Il Club degli Autori» del febbraio 2012: «La stessa opera di Aleksandr Blok rappresenta, in fin dei conti, una sorta di diario lirico che diventa specchio fedele delle sue visioni, delle sofferte e tumultuose metamorfosi, dei suoi mutamenti esistenziali e del dramma interiore dopo l’accertamento del crollo della figura della mistica amante, della donna che poi aveva sposato, e della successiva presa d’atto dell’assenza della Bellissima Dama, che aveva ispirato le sue prime poesie, sostituendola con l’immagine terrena e tremendamente mondana della figura di una donna “sconosciuta”, che si aggira nei locali tra gli ubriachi, pronta a offrire anche lei una “rivelazione mistica-estatica” ma di tutt’altro genere. E, poi, nell’ultima stagione della sua vita, anche la figura della “sconosciuta” verrà sostituita con l’amore per la propria Terra, per la Madre Russia, che vivrà il periodo drammatico e sanguinoso della rivoluzione».

L’inizio patriarcale e sereno delle sue prime liriche, raccolte in Ante lucem (1898-1900), afferma la potenza dell’infanzia trascorsa a San Pietroburgo e tra i tigli e le iridi di Ŝachmatovo, dove l’inizio di quella visione nel cielo di geroglifici, intagliava brume, profilava scenari boreali, languiva nei paesaggi, come scrive Pasternak:

«[…] E quando in questo regno dell’artificiosità ormai solidamente affermata, ma di cui nessuno più si accorge, qualcuno apre la bocca non per inclinazione alle belle lettere, ma perché sa e vuole dire qualcosa, questo fatto produce l’impressione di un mutamento improvviso, come se i portoni si spalancassero di colpo e irrompesse il frastuono della vita che si svolge di fuori, come se non fosse un uomo a dar notizia di ciò che avviene nella città, ma la città stessa parlasse di sé per bocca di un uomo. Così, per Blok, tale fu la sua parola, solitaria, pura, come di fanciullo, tale la forza della sua creazione. Sembrava che la novità stessa, spontaneamente, da sé si fosse disposta sul foglio stampato, e che i versi non fossero stati scritti e composti da nessuno. Sembrava che la pagina non fosse rigata dai versi sul vento e sulle pozzanghere, sui fanali e sulle stelle, ma che fanali e pozzanghere fossero loro a increspare, come bava di vento, la superficie della rivista e solcarla di umide, possenti tracce».

La membrana dell’orizzonte impalpabile compone la distesa sonnolenta e fluttuante del paesaggio, un fruscio di fronde mitiche, una burla inseminata di terra: «Penso che, se la voce si tacesse, / mi sarebbe difficile il respiro, / e il cavallo, sbuffando, crollerebbe / sulla strada, e non potrei arrivare! / Pigre e pesanti nuotano le nuvole, / e la foresta languida mi attornia. / Il mio cammino è lungo, faticoso, / ma la canzone amica mi accompagna».

Le visioni cerulee condensano lo sguardo in una sorta di erotismo mistico, una speranza messianica che incontra l’Eterno femminino, in una gracile attesa di sogno veemente, in una vivezza di invocazione e richiamo.

La bianca foresta dei simboli è il bagliore dell’arte che «vede l’incendio rovinoso della vita», come un argonauta di chimere lontane e voce sparsa nel vento dell’inverno o nel crepuscolo delle primavere, nell’alba che «spilla come un rosso fantasma».

Il baluginio della Bellissima Dama che scintilla di rosse lampade diviene il soggetto di una litania densa e stratificata. Assomiglia alle nebbie fugaci e perenni di una ingemmata fiaba antica che indizia il suo avvento, scrive l’amore nei diari, fa esplodere le sue fiamme.

Scrive ancora Barile: «Blok si muove, all’inizio del suo cammino, come a ricercare l’estasi rivelatrice in un mondo irrisolto, in una vita che può essere oscura e pericolosa, in una dimensione nella quale immergersi e avvertire l’approssimarsi della tempesta. Nel flusso della realtà, cosparsa di mistero e tragicità, si può aprire una porta invisibile che conduce alla sostanza stessa dell’esistere, cercando di possederla attraverso una mistica visione, grazie ad un incanto metafisico. Il vortice dell’esistenza vede dissolvere la patina superficiale che vela ogni cosa e tutto ciò permette, come fosse iniziazione dei misteri, di penetrare nelle zone più segrete ed inconoscibili. L’illuminazione lirica, nella sua forma estatica, elimina la banalità della superficialità quotidiana e introduce alla radice dell’esistenza pura, come a vivere l’ebbrezza suprema».

L’ineffabile percezione dell’esperienza, la vaghezza e indefinitezza dei passaggi, trova in Blok, la fiamma dell’ornato indefinibile, del folclore, della linea che ripercorre le strade, i boschi, le chiese, i campi.

L’accenno preciso del colore, fa risultare, pertanto, «un universo largo e ipnotico, una creazione contrattile e senza contorni, che palpita in ogni sua fibra per la spasmodica attesa di impossibili eventi» (Angelo M. Ripellino).

L’anima atemporale di Ljuba-femminino è un vortice di austerità patriarcale, un nastro che compone l’universo e si fa incontro impenetrabile. Ma gli occhi randagi di Blok hanno già solcato lo sperdimento della città, gli umiliati e offesi che la abitano, la notte nei buchi e le tenebre di luce. La lacerazione e la frattura iniziano a propagare nell’anima.

Blok frequenta i salotti letterari, da quello di Zinaida Gippius fino a quello di Ivànov e Gorodeckij descrive il poeta prima della declamazione: «Nella sua lunga prefettizia, con la morbida cravatta annodata in maniera raffinatamente negligente, con l’aureola dei capelli oro cinerino, egli era romanticamente bello allora, nell’anno 1906-07. Si avvicinava lentamente al tavolino con le candele, sfiorava tutti con occhi di pietra ed egli stesso si faceva di pietra, finché il silenzio non diventava assoluto. E si metteva a recitare, tenendo la strofa tormentosamente bene e rallentando appena il tempo nelle rime. Egli incantava con la sua lettura e quando terminava la poesia, senza cambiare voce, improvvisamente, sembrava sempre che il godimento fosse terminato troppo presto e fosse necessario ascoltare ancora».

Il travaglio di un’epoca, l’illusoria liberazione nei fumi dell’alcool, sostengono lo spaesamento di una congiunzione di esilio.

La nuova figura femminile che compare all’orizzonte ha tratti netti ed è tempesta di giorni febbrili. Dal suo occhio, radicato e suburbano, Blok delinea nuovi contorni:

 «Si è dunque compiuto: il mio mondo magico è diventato l’arena delle mie azioni personali, il mio “teatro anatomico” o teatro dei burattini, dove io stesso svolgo un ruolo insieme alle mie mirabili marionette (ecce homo!). La spada d’oro si è spenta, i mondi color lilla mi hanno irrorato il cuore. Il mio cuore è un oceano, tutto in esso è ugualmente magico: non distinguo la vita, il sogno e la morte, questo mondo e gli altri mondi (attimo, fermati!). […] La vita è diventata arte, ho fatto gli esorcismi e dinnanzi a me è sorto infine ciò che io (personalmente) chiamo la “Sconosciuta”: una bellezza-marionetta, uno spettro azzurro, un prodigio terrestre. Questo è il coronamento dell’antitesi. E dura a lungo la leggiadra,  alata meraviglia dinnanzi alla mia creazione. I violini la glorificano nel loro linguaggio. La Sconosciuta. Non è affatto semplicemente una dama in una veste nera con piume di struzzo sul cappello. È una lega diabolica di molti mondi, principalmente azzurri e lilla. […] È una creazione dell’arte. Per me è un fatto compiuto. Sto dinnanzi alla creazione della mia arte e non so cosa fare. Detto diversamente, cosa fare con questi mondi, cosa fare della propria vita, che d’ora in poi è diventata arte, perché accanto a me vive la mia creazione – né viva, né mor-ta, uno spettro azzurro. Vedo chiaramente “il lampo fra le sopracciglia delle nubi” di Bacco (“Eros” di VjaC. Ivanov), chiaramente distinguo la madreperla delle ali (Vrubel’ — “Il demone”, “La principessa-cigno”) o sento il fruscio delle sete (“La sconosciuta”). Ma tutto è uno spettro».

È il solco inguainato di azzurro, una voragine di tempi lontani. Inizia persino a comparire l’’immagine paludosa, principio di colore viola, letargo di guerrieri e fiammelle palustri.

Il sogno-grido dell’azzurro è violino sbandato di una stella caduta. La Sconosciuta diviene il ponte di un abbaglio che inclina e oscilla.

Commenta Angelo M. Ripellino: «la Violetta Notturna è la Bellissima Dama, non più miraggio di teologali lontananze, ma fantasma ipnotico che germina dalle paludi; il giovane scaldo, irrigidito in una torpida adorazione, è un sosia, un riflesso del poeta ingolfato in un culto sterile e ozioso; e i guerrieri del seguito arieggiano agli “Argonauti”».

Il pianto e il grido addosso, cullati nel vento dell’alba, dei tripudi dell’esilio confuso e impalpabile, intuisce un doppio mondo che evoca e adombra specchiamenti e riflessi.

L’altrove lontano e negato risuona il suo fondo catturato. Da ora in poi la coltre cittadina di Blok è rappresentata dai postriboli, dalle bettole, dallo spolvero delle nebbie, dove le prostitute raccontano l’aura della loro parabola.

Pietroburgo è rossastra, striata di sangue e vermiglia: «La nostra realtà trascorre in un rosso chiarore. I giorni son sempre più rumorosi di gridi, di rosse bandiere sventolanti; a sera la città, assopitasi un attimo, è insanguinata dal crepuscolo. Di notte il rosso canta sugli abiti, sulle guance, sulle labbra delle donne da conio. Solo la pallida mattina scaccia l’ultima tinta dai volti emaciati» (Tempi calamitosi, 1906).

I rossi crepuscoli sfuggono nelle notti bianche, nelle raffiche inondate della Nevà, come atmosfera palustre, singhiozzo di alberi e goccia sui contorni.

Anche l’impegno nel teatro (La baracca dei saltimbanchi, I dodici) testimonia uno sguardo che accarezza i precipizi, nel racconto di un drappello di dodici guardie rosse che pattugliano la città, prima dell’arrivo di Cristo.

La durezza della rivoluzione raccoglie una voragine di giostre che sfarina voli,colora veleni e distrugge: «Striscia da me come serpe strisciante, / assordami nella sorda mezzanotte, / con le labbra languide tormentami, / soffocami con la treccia nera».

Scrive Ripellino: «L’umor nero di Blok non è una propensione letteraria, un abito esteriore, ma il basso continuo, la fosca filigrana della sua vita, giorni e notti, giorni e notti. Incalzato dall’ansia di ramingare, di perdersi negli angoli abietti e remoti della periferia cittadina, egli va alla ventura, girando per le squallide strade fiancheggiate da lerci abituri, alla luce di lampioni che vacillano nella nebbia».

La luce è raminga come lo spasmo. Una metafisica del non essere che racchiude un universo oscuro senza fanali, in cui lo sguardo scorre nel mondo terribile e randagio, come il vischio di una genesi rifiutata. Rende spazio al gioiello scuro di una creaturalità dolente, sconsolata e magmatica, in cui il singhiozzo del tempo si addensa, laddove il deserto rapina la sua figura malferma.

È nella linea malferma che egli scova il fondale dell’esistere, la caligine nel vuoto, il velo evaso della nebbia che termina nel tormento.

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