di Andrea Galgano
5 settembre 2023
La scrittura non svela, porta dentro il suo grembo l’attenta vertigine dell’enigma e la febbre remota dell’invito: un andirivieni, una soglia, un cielo aperto all’improvviso.
Il libro di Rosa Salvia, In questo mondo e accanto, pubblicato da Edizioni Esemble, con la prefazione di Augusto Pivanti, restituisce un doppio movimento di condizione che affiora nella cifra primigenia di un dono, come afferma Pivanti:
«Raramente si attribuisce a questa condizione un valore di generosità, essendo più portati a ritenere che un autore pubblichi per soddisfare la propria vanità: in Rosa si coglie invece la dimensione del dono, questo suo scrivere per sé ma anche per gli altri, dall’invito alla dimensione orante: “Bisogna che io impari a vivere / di nuovo, svolgendo avvolgendo / la fascia bianca della preghiera la nostra Madre eterna // per rimanere come un’età che / non ha nome: umana fra le umane / debolezze, e pur vivente di Maria / soltanto e solo in lei bambina”, alla nostalgia vissuta come elemento rassicurante e benevolente del ritrovare e del ritrovarsi: “una / foto in cornice misura del tempo / ambiguità e confini, […] dove i colori virano, punto per punto, / allegri come bambini ancora svegli / allo scoccare della mezzanotte”, ma anche come affannata confessione dell’io che si bilancia fra accoramento elegiaco e pacata riflessività.».
Tale dimensione orante sembra provenire in zone remote, in ritrovamenti e recuperi, in un frantume familiare che diviene albore elegiaco, verso cose e persone, luoghi e sé stessa. La potenza evocativa delle sue liriche si attesta così in questa erotta emersione che sovrasta, si appropria di un tempo perduto e concilia opposti e situazioni. Vicino e accanto nel mondo e del mondo: «Da uno sguardo cangiante / tentare di continuare / il proprio tempo, / al di qua dell’orizzonte, / verso il tu che ti aspetta – / e scambiare un granello di sabbia / per un seme di pienezza, / contro finestre sorde / che non odono il sangue sgorgare dal buio».
Una benedizione, una sovraincisione, come la neve, che entra nella pagina, disvelando le tracce, riprendendosi il tempo, superando ogni passaggio transitorio: «Sono la curva stanca della luna – / anno per anno, entro di me, mutai / volto e sostanza, il palmo segnato / da tutte le mie morti. / Ma la neve copre le cesoie del / tempo, il tintinnio del dubbio, / e le tracce chissà dove nel nulla. / Bisogna che io impari a vivere / di nuovo, svolgendo avvolgendo / la fascia bianca della preghiera a nostra Madre eterna / per rimanere come un’età che / non ha nome: umana fra le umane / debolezze, e pur vivente di Maria / soltanto e solo in lei bambina».
O ancora la presenza della luce vela e rivela ogni spigolo: «Anche nel rifugio dei miei spigoli / la tua voce mi raggiunge sempre, / la mia ansia placando, con i modi / invisibili del cuore, lontano dal gioco / delle parti. Che entrino sempre in noi / la notte e il giorno, l’odore della neve, / il caldo dell’aurora, qualcosa di / preciso, fatto d’acciaio o d’altro, che / abbia azzurre luci – come se / esistessimo.»
La linea lucente e nevosa richiama sia la levità e sia l’abbondanza dettagliata di ciò che non muore, orienta la strana “buità” dei bordi, richiamando qualcosa che non regredisce nella pura rievocazione ma diviene sostrato cartografico di un io alla ricerca e all’inseguimento del tempo: «In questo mondo e accanto / un ronzio incerto, ineguale, / offerto in dono dalla cenere – / la sensazione che tutto è sogno, / mentre lo sguardo si abitua alla notte – / gravita all’interno – / nel crepuscolo dei fiori, dei frutti, / si abbandona – / Come sa fare la farfalla bianca».
Ed ecco che la scrittura diviene conservazione e disegno, ricerca del centro nel grido sfumato e nel tentativo di mantenere la memoria presente del mondo, fino a percepire la paurosa vastità della fine, della ferita e dell’agnizione come un silenzio: «Sempre una ferita ricorda la vita / e ogni nascita proviene dal suo antro, / si frantuma nel mio scrivere, / compagno di ogni mio sentiero, / asta d’appoggio del mio sguardo, / con numeri e simboli che mutano / come mutano gli specchi, fra cripte, / schegge di luce e migrazioni d’uccelli, / fino a che il mio nodo di marmo si / sciolga, non con uno strappo, ma con / un silenzio, come a settembre le cicale / si quietano, fra arsure che vanno / allentandosi e la luce stessa ricade, / rotta dal proprio peso».
La memoria è inquietudine di senso, mancanza e offerta d’amore: «Il centro ora parte da me – / in quell’esatto bruciare / imparare che tutto è sentire / con l’albero, la pietra, / il grido, le parole, il primo sogno, / il tu, il noi, / e persino la morte. / Il mio centro è fatto di tronchi, / li ho tagliati io stessa / e sistemati uno sull’altro / dove tutto è in evidenza sulla neve, / in un garbuglio sospeso / tra dolore e grazia. / Il mio centro disegna i suoi nodi di presenza / sempre uguale a sé stesso e uguale mai / con il suo amore accattone, disperato, / sacro come lo strillo di un bambino».
Nei suoi orizzonti, Rosa Savia compone distanze scagliate e ombre, nel silenzio scandaglia gli elementi in lotta «nel terreno fragile di un continuo esordio», come una salvezza, un’impronta, una confessione di sillabate distanze e smottamenti, che richiedono cose in controluce, lasciate imbrunire in preghiera, senza reciderle.
Rosa Salvia, In questo mondo e accanto, Edizioni Enseble 2023.