La poesia di Robert Frost (1874-1963) raccoglie a piene mani nella perdita e in essa trova, come scrive Massimo Bacigalupo «il risanamento», il «fare punto momentaneo contro lo smarrimento».
È il cuore, la vetrata centrale della sua poesia. Il rapporto diretto tra poesia e memoria solleva il piano della smaccata atemporalità, del dettato bucolico che non conosce perfezione edenica, ma si riscopre vellutato nella rottura profonda, nella lacerazione e nella follia.
Quando T.S. Eliot lo definì «il più eminente e il più distinto poeta anglo-americano vivente» univa la sedimentazione della cultura anglosassone alla materia rurale e ancestrale della poesia, che unisce il monologo al dialogo, l’inflessione alla creazione fertile dei personaggi.
Nato in California, dove rimase per 11 anni, si trasferì, dopo la morte del padre, con la madre e la sorella nel Massachusetts, dopo essersi iscritto al Dartmouth College e poi successivamente ad Harvard. Non raggiunse mai la regolarità negli studi, lavorando come insegnante, calzolaio e perfino editore dell’opera di D.H. Lawrence.
Il matrimonio con Elinor Miriam White rappresentò la vertigine del suo discorso amoroso, con lei si trasferì definitivamente in Inghilterra nel 1912, dopo gravi dissesti finanziari e psicologici.
All’estero Frost incontrò Pound, che apprezzò e lo aiutò nel pubblicare i suoi testi. La vicinanza e l’influenza di poeti come Edward Thomas, Rupert Brooke o Robert Graves, fu decisiva. Di ritorno negli Stati Uniti, la sua fama divenne conclamata, arrivando a vincere ben quattro premi Pulitzer.
Il New England rappresentò per lui il mistero e la calibrata ancestralità di un movimento espressivo che per guardare il reale, incanala nel discorso, nelle inflessioni colloquiali e nel linguaggio, la tensione metrica che, se per temi si avvicina a Hardy, Browning e Yeats, di contro, sviluppa una peculiare e profonda espressività, unita alla lirica breve, musicale, lontana da ogni unisono vocale, come annunciava egli stesso nel 1913: «Io solo fra gli scrittori inglesi mi sono consciamente proposto di ricavare musica da quello che potrei chiamare il suono del senso».
Quel suono del senso è l’esito di un rinnovamento che inventa una ruralità bucolica e invita chi legge a decifrarne i segreti, le sineddoche, l’ambiguità di un “tranello”: «Bello è il bosco, buio e profondo, / Ma io ho promesse da non tradire, / Miglia da fare prima di dormire, / Miglia da fare prima di dormire».
Il respiro del bosco, ossia di una condizione vivente e vitale, si accompagna al peso della vita e alla tappa ultima del riposo eterno. Esiste sempre un doppio piano nella radice di uno sguardo: da una parte l’elemento naturale che si pone come spartiacque per una condizione successiva, per aprire il tempo poetico alla riflessione del dialogo. La bellezza e la pace hanno sempre una sinistra condizione, in cui l’oscurità dei boschi raccoglie il suo tremore, la sua paura o tragedia, in un originale contrasto. Il suono del senso accompagna il senso del suono, come tensione vitalistica a una suggestione mai dolciastra, a una struttura che pone l’accento sulla condizione umana nelle sue varianti, solo apparentemente, leggere.
Per Frost il senso è un accordo musicale che precede l’esistenza delle stesse parole, in questa vicinanza avviene la vitalità del linguaggio.
In una lezione del 1915, tenuta alla Browne and Nichols Schools afferma: «Quando ascoltate qualcuno che parla, sentite delle parole, certo, ma sentite anche dei toni. Il problema è quello di riportarli, di ri-immaginarli, e di metterli per iscritto […] E il grande problema è questo: come metti su carta questi toni? Come esponi il tono?». E poi successivamente nel 1918 si rapporta a Yeats, intravedendo un possibile accenno di risposta:
«William Butler Yeats dice che tutte le nostre parole, frasi ed espressioni per avere efficacia devono conservare il carattere della lingua parlata. Dobbiamo scendere al linguaggio di ogni giorno, prima di tutto – alla dura parola quotidiana della strada, degli affari, dei commerci, del lavoro estivo – prima di tutto; ma abbiamo anche un obbligo, quello di elevare le parole di ogni giorno, di dare loro un’impronta di metaforicità».
Se Brewer affermava che Frost «appartiene a una tradizione che deriva dall’insoddisfazione con la melodia “tennysoniana”, e si pone con Yeats, Pound ed Eliot tra i grandi rinnovatori della voce parlante nella poesia moderna», è pur vero che l’interesse metafisico di Frost gioca il suo ruolo decisivo in una doppiezza ironica e tragica, in cui la sottigliezza si accompagna all’eloquenza radicata e ordinata.
La più americana delle questioni poetiche, ossia il rapporto tra la poesia e il parlato, che da noi solo nel Novecento ha visto in alcuni autori un campo profondo di indagine, da Montale, a Giudici fino a Sereni, gioca la sua partita su questo rapporto. Persino William Carlos Williams ricostituirà la tessitura musicale della poesia-prosa, in cui suono e significato corrispondono perfettamente, come equilibrio ragionato tra lingua e parlante.
La stessa rusticità di campagna si allontana dal dettato straniante della vita sociale e l’intonazione omogeneizzante del verso frostiano recupera una tendenza e un avvicinamento all’uso metrico virgiliano, come ha esaminato Brodskij «Frost e Virgilio hanno in comune la tendenza a nascondere il vero tema dei loro dialoghi sotto lo splendore opaco e monotono rispettivamente dei pentametri e degli esametri». L’altezza sonora afferma il flusso della rarità del ritmo.
In un saggio del 1931, Educazione attraverso la poesia, Frost afferma:
«L’educazione attraverso la poesia è educazione attraverso la metafora […] La poesia comincia con metafore superficiali, graziose, decorative, e giunge al pensiero più profondo che conosciamo. La poesia offre il solo modo ammissibile di dire una cosa e intenderne un’altra. Chiedono: “Perché non dici quel che pensi?” Non lo facciamo mai, d’accordo, perché siamo tutti troppo poeti. Ci piace parlare in parabole e accenni indiretti, vuoi per diffidenza vuoi per qualche altro istinto […] Scrivere è tutta questione di avere idee. Imparare a scrivere è imparare a avere idee».
Le labbra socchiuse della verità obliqua di Emily Dickinson, trovano in Frost un alleato complice, come comunicazione tra sé e sé in un linguaggio mai soggiogato e netto, mai povero ma profondamente segnico.
L’originaria trasposizione comunicativa destina la indecidibilità verso la doppiezza dell’espressione, verso il gioco continuativo e arduo dell’esperienza poetica. È la sua forza, il suo non celebrato specchio: «The land was ours before we were the land’s».
Scrive acutamente Massimo Bacigalupo che:
«Frost vive ben diversamente il mondo o il mondo morale (per lui sono tutt’uno), un mondo che non ha facili soluzioni, in cui le persone offrono le loro versioni parziali senza che ne venga indicata una definitiva. L’universo è caratterizzato dalla problematicità, dall’indecidibilità, non in maniera amletica e capziosa, ma a livello immediato di percezione. La moralità in Frost è sensazione, per parafrasare la lode che di John donne fece Eliot: è poesia. L’idillio coi boschi non produce certezze o consolazione, ma rimanda sempre al principio della verità assente».
Il bagliore del concetto e della figura, che egli racimola dall’esperienza elisabettiana di Shakespeare e dal concettismo del Seicento, trova uno stridore tra chi abita i campi e la joi de vivre, tra il contrasto silente tra bianco e chiaro, intento e forma e disegno e assenza.
L’isolamento, l’estinzione e i limiti umani insuperabili, messi in evidenza da Randall Jarrell non chiudono la semplificazione ironica e vertiginosa della sua scrittura, ma aprono a una questione insoluta.
La natura del New England porge il suo barbaglio di comunione con la condizione umana. Un muro con il filo spinato occlude la vista di due persone, dall’altra parte ci sono una cerva e un cervo, da questa, due individui guidati da amore e dimenticanza: «Quasi la terra per un imprevisto favore / Li avesse assicurati che ad essi ricambiava / il loro amore».
L’evento che tocca le due persone annota e glossa la loro affezione, porgendo la specularità di un amore ricambiato tra il loro essere e la terra che guardano.
In Frost non esiste il bozzetto melodrammatico o l’edenica percezione di uno spazio, nonostante la vicinanza con Wordsworth e con la tradizione classica, ma il limite umano rivela la sua intensa precarietà, come ad esempio il vaneggiamento di alcuni personaggi, la scoperta di un adulterio, la lunga incertezza mentale.
La sua pantomima lirica acquista la dimensione del dramma, in cui la fattoria afferma il suo centro propulsivo e fragrante del mondo.
Il mondo di Frost concede inenarrabili effetti di quinta, in cui l’umano abita frequentemente e assiduamente l’angolo convesso di un trapasso, come da una landa felice al nido delle api nelel pareti, come dal dramma domestico alla teatralità dell’idillio (come accade in All revelation), per «destarsi all’esperienza, raccogliere i semi gettati prendendo in mano ogni tondo frutto, assopirsi stanchi e soddisfatti prima ancora di aver spogliato tutto il frutteto».
La conoscenza della notte è un viaggio inesauribile nella perdita, nel sonno, nella distanza cinica e virulenta, con una capacità ironica e spregiudicata che non si nutre di ansia o di inquietudine soffusa e solo nell’agone sconvolge la «satisfaction of superior speech», per convogliare in un terrore ironico di molte voci: dalla metafisico-ironica alla drammatico-teatrale, fino alla satirico-discorsiva, che meditano sulla realtà fattuale, soggettiva e poi universale, ordinata e coordinata in solchi, come testimonia Mietitura:
«Non si sentiva oltre al bosco altro suono che uno, / la mia lunga falce che frusciava al suolo. / Che cosa sussurrava? Non lo sapevo io stesso; / era forse qualcosa sul calore del sole, / qualcosa, forse, sull’assenza di suono – / Per questo sussurrava e non parlava. Non era sogno del dono d’ore vuote, / o facile oro profuso da fata o da elfo: / qualunque cosa in più della verità sarebbe apparsa / debole al fermo amore che ordinò il prato in solchi, / non senza delicate lanceole di fiori / (orchidee pallide), e un fulgido verde serpente fugò. / Il fatto è il sogno più dolce che la fatica conosca. / La mia lunga falce frusciava, lasciava il fieno ammucchiarsi».
Il «New York Times» nel dedicare a Frost un editoriale in occasione del suo ottantesimo compleanno mise in rilievo la sua intensità peculiarmente americana:
«Poeta intensamente americano, Frost ha toccato quegli aspetti della vita degli Stati Uniti che, pur dopo un secolo di sviluppo urbanistico, ancora costituiscono il nostro comune substrato. Il nostro concetto delle relazioni tra gli uomini, il nostro modo di intendere il lato tragico dell’esistenza e la nostra nozione della speranza restano intimamente legati alle case coloniche ed ai campi appena arati. Frost scrive su un mondo vero di gente vera, riuscendo ad introdurre in esso il lettore che ne ricava il senso di una viva esperienza e momenti di autentica rivelazione».
Il lavoro del poeta abbraccia l’infrangersi del tempo, il suo smarrimento e nascondimento, il ritrovamento di luce, come l’abbandono di un tratturo e il ritrovamento di un calice nascosto e originario in Directive, in essi trova luce e sospetto di ombra.
Frost R., Conoscenza della notte e altre poesie, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Giovanni Giudici, Mondadori, Milano 1999.
Brodsky J., On Grief and Reason, Farrar Straus & Giroux, New York 1995.
Brower R.A., The poetry of Robert Frost: constellations of intention, Oxford University Press, Oxford 1963.
Gardini N., Com’è fatta una poesia, Sironi, Milano 2007.
Jarrell R., Poetry and the Age, Knopf, New York 1953.
Penn Warren R., The themes of Robert Frost, University of Michigan 1947.