di Andrea Galgano 22 ottobre 2017
leggi in pdf L’ordine uncinato di Giancarlo Pontiggia
Giancarlo Pontiggia (1952), con Il moto delle cose, edito da Mondadori, calibra una indocile sapienza refertuale con il passo intessuto del magma tragico ed essenziale dell’esistenza. Nei basamenti dell’essere si imprime «l’unghia del tempo». Ed è in questi lacerti di durata che le cose iniziano a stridere, oscillare, farsi materia, versarsi nei firmamenti algidi e cadere.
Non c’è vuoto in questa distillazione di poesia, ma egli impugna il coltello opaco della finitudine e della estraneità per ricercare il bollore d’origine, il fiato, il tutto «che ripiega, a notte, nel suo eremo / – cieco, torvo – / di nube».
Lo stesso Pontiggia afferma che nel titolo:
[…] forse lucreziano, lascio che le forze della vita – tumultuose, sovrane, erratiche – si confrontino e si scontrino, in un agitìo di immagini e di pensieri, di ombre e di apparizioni, che rimbalzano da una sezione all’altra, ora quietandosi ora esplodendo rovinose e magmatiche. Ma al centro è la figura-cuore – luminosa e serena – di un’isola amata, in cui tutto pare, magicamente, rasserenarsi. Il libro si apre con tre poesie-prologo di ispirazione e di tonalità diverse, cui corrispondono in conclusione tre poesie in cui i temi cosmici ed esistenziali del libro si risolvono in forme immaginative molteplici e contrastanti: la luce abbagliante di una stella morta, che giunge a noi da chissà quale era remota; una visione – paurosa, fermentante – del “buio-non buio” delle origini; la celebre figura paestana del tuffatore, colto però un attimo prima del tuffo.[1]
La stanza interiore dell’esistente sedimenta interrogazioni inesauste, senza ripiegarsi in una insoluta ellissi. Nel respiro, nella articolata e raccolta superficie profonda, nella immaginazione tangibile, la scalfittura della parola rivolge distanze e partecipa all’infinita gamma dei depositi, delle stratificazioni e del tempo adagiato.
A tal proposito, Davide Rondoni scrive:
Pontiggia infatti sceglie – e per lui non poteva essere altrimenti – una interrogazione intesa subito come di voce comune. Il parlante parla di un “tu”, di un “uno” – a cui la voce del poeta si rivolge o la cui esperienza indaga. Il “tu” con cui vi si rivolge è distanziante e accorato al tempo stesso. Si guarda allo specchio? Certo, ma l’immagine riflessa nello specchio, restando la medesima voce, potrebbe essere quella di tantissimi. E raggiungere l’esperienza comune di interrogazione sul moto delle cose. Quest’uomo di cui si parla, così diffuso tra uomini e donne e anche giovani della nostra epoca, sente uno smottamento, percepisce distintamente il “sovrano, fisico, delirante // moto delle cose”, sente che si «smontano / le muraglie del mondo» e che «Si squaderna / il principio scosceso / delle cose, la sua broda // intonsa, fermentante». Ma è appunto la voce di un poeta che ne parla, e con termini di esattezza dantesca e scientifica (la immagine dell’universo come libro, presa dalla Commedia, intonso aggettivo librario, brodo primordiale, termine inglese dei fisici per lo stato iniziale della materia) ovvero con grande consapevolezza.[2]
Sono frammenti incastonati che pongono l’inseguimento vagante e invaso come propria traccia di battesimo. Transizioni, impronte, cose sfatte e in divenire, che vengono registrate in un approdo mai mutilo, che avvengono, mutano, deviano in uno stridore concreto e in una torsione che figura l’osservazione del mondo e il suo punto di snodo «nel gelo / di biglia delle cose».
Inseguire le cose in ogni imo di profondità significa percepire anche la lingua che crepita, la datità che si cela e s’infima, e chiedersi se sia vuoto, ombra che sfida le scure trame, distanza incolmabile:
È notte, sei / tra le cose del mondo, le cose / solide, vaganti, che si sfanno / in altre cose, nell’imo che fermenta, / e sprofondi / nella vita che è, nel tutto / che s’invasa in uno, prima / di sfarsi nel crivello della mente / stridi, becchi, blaterii / buchi di lingua, suoni / che si torcono, stipano, si ammaccano / ed è lì, lei, fa un cenno / l’ombra funesta, troppo amata, / fa freddo, com’è troppa la stagione, / con che tenaglie stride, si torce, scuote / le lusinghe del mondo, «dov’è che sei?» / le chiedo, nel gelo / di biglia delle cose «sei cosa o altro?», mentre delira / in delirio il mondo, si sfarina, ed io / «non ho tempo per questo / struggimento stupido, doloroso, di’ / soltanto se sei o no» / ma lei: «di’ tu, piuttosto, di’ / qualcosa che valga / per me, per noi, che ti guardiamo», e va / per una strada che non conosco, va, dove non è / altro che lei, che loro, lì, nella gran fossa / del firmamento algido, stipato / di roba ultima, vagante, «di’, se sai, qualcosa / che valga la pena», continua / stridendo come una stupida / ferraglia / e fa cenno nel non so dove del sonno, nel / ben maturato senno della mente / a qualcosa che si cela, s’infima / in brividi, in onde / di niente, di poco – cosa / che si fa cosa, verbo / che sì’intana / in una lingua di troppo gelo, / di solo, forse, / vuoto?.
Francesco Filia sostiene che:
Il titolo del libro mostra l’oggetto, al tempo stesso meraviglioso e terribile, della riflessione e della visione poetica, il divenire che travolge ogni cosa, il suo incessante e ineluttabile fluire che rende ogni cosa al tempo stesso unica e finita. La riflessione poetica parte da questa visione, da questa meraviglia originaria, da questo thauma – per rifarci al termine greco, che per Aristotele era all’origine sia del pensiero filosofico sia della parola del mito e quindi della poesia – verso l’enigma del mondo. Ciò che rende necessario questo libro è la tensione partecipe dell’io lirico verso l’enigma che attraversa il nostro stare al mondo, in quanto del moto delle cose ognuno di noi è partecipe drammaticamente e quel moto siamo anche noi, nel nostro spirito e nella nostra carne, presi nella nostra irripetibile e mortale individualità.[3]
L’esattezza di Pontiggia, allora, è un accertato moto di passaggi registrati, che sfidano le luci ardue, che cercano di infoscarsi nei frustoli sfrangiati di senso e di suono, e nel fondo che muta, per farsi respiro luminoso.
Le voragini di fuoco, gli abissi, i nomi, i sensi petrosi e sepolti racchiudono ciò si vela e si svela, ciò che sprofonda e si aggruma, ciò che diventa irripetibile e sovrumano come ordine e stridìo rigoglioso.
È ordine scrostato e uncinato ma anche obbedienza meticolosa a ogni impollinazione che dà vita e tumultua all’appello dei nomi e al mondo che dispone la sua depredata sorgente, il suo covo altero e irreprensibile di bronzo lucente: «Nell’ordine uncinato delle cose, / nel suo fulgore di fuoco e di vento / in ciò che è / e non è / impazzano / gli atomi della mente, nomi / infrazionabili».
Dentro la fiamma del respiro si trova la genesi primordiale della sua forza limpida che guarda il cielo, il suo muto gorgo di schegge e brandelli sgretolati, la contemplata germinazione del moto operoso e micidiale della luce del mondo («Pochi versi, ma veri. / Valgano per te, come per me. / Che siano limpidi – per guardare il cielo / alto – / e severi, se così è il tuo animo»):
Sovrastino, su queste sabbie / finissime, tese come un lino, vaste / come il fiammeo dominio dei pensieri, / cieli più ampi del tempo / che s’ingorga, lento, pigro / in una luce ardua, / ventosa / o s’infoschino – in una sera / scura, dura, scheggiata, / che si sgretola, pezzo / dopo pezzo, sugli scogli / ondosi, flagellati / da crespe dense di fuoco, erosi / dalla furia / gemmata degli elementi – le porte / brucianti, dei tuoi occhi, / sempre, o contemplante, sentirai / il respiro / possente, luminoso / del mondo, la sua forte quiete, il suo operoso, micidiale / moto.
Ed è così che la dismisura del tempo sovrasta e deborda l’essere, la crescita e decrescita del tempo, la cesura, l’orlo, la esemplare forbitezza del tenue arco della vita che si impone, evocando memoria e doppi rimandi di destino: arco, trombe, stame e sfinge. L’enigma bilanciato delle cose si flette e vortica nello spazio infinitesimo, nella deità e nella umanizzazione temporale.
Nella opacità e negli abissi orlati, però, si vede, nitidamente, anche una sovra- enunciazione che avviene. Si forma la chiarità, si intravvede, ancora una volta, il fondo (perché tale è la poesia di Pontiggia, un fondo che si sporge) che risale negli attriti e nei detriti, nei vortici, nei tremiti, negli scarti dei segni dapprima rinvenuti esili, poi man mano scolpiti nel loro gesto che invade e sbianca ogni cosa:
Nasce, il bimbo, alla vita, e vede / per primo il chiaro dei cieli e delle stanze / – fiamma che invade i suoi occhi / molli, ancora, di scuri tepidari, di sonni / deliranti. Viene / dal fondo dei popoli, delle madri / antiche come la specie; del tempo / in cui tutto fu cielo, e acque, e frastornanti / fogliami. Risale, dai grumi e dai fanghi / di ere troppo remote, di paste / scure, grondanti / muffe di un innominabile ade, / e si esalta, sospira, si dispera / mentre già la notte cala, che tronca / ogni luce, e la immerge / in un acquario di sogni / caotici e riottosi. / Viene il mattino, un altro, si desta: com’è / che ritorna la luce, l’esile, prima, poi man mano più fulgida, folgorante / fino a sbiancare ogni cosa? E gli occhi / s’immergono di nuovo, s’imbevono, non hanno / altro da chiedere che questo / lasciare che le cose siano, e siano…
Le cose improvvise, allora, irrompono e congiungono e legano alla vita e, appunto, «al sovrano, fisico, delirante / moto delle cose». Non c’è scampo a questa sospensione franata di ore, all’era vasta e immortale, a questo sgretolato splendore.
Alla diafanità scura si oppone il prodigio illuminato e in limine del vivente, dell’essere, dell’esser-ci che trascende, ricerca, posiziona la sua ontologia di congedi e straripamenti, chiedendo allo splendore di permeare la propria incipiente mendicanza («e implori un senso / unico, forte, uno / stupefacente prodigio che illumini / il buio, intediato, della mente, / la tua, di nuovo, / che si spappola / in materie straripanti, ignote, formine / colorate del mondo che intanto / si congeda in addii e ancora addii / – e senti»):
E temi, e nel timore ti separi da ogni cosa, / e da chi, perfino, ti è più caro; temi, / e tremi, / e non osi guardare fuori di te, e ti rinchiudi / in una cella di diffidenza e di rancore. E senti / che non hai doveri se non per te, e che ogni atto, / ogni pensiero è solo per stare un po’ di più, ostinata / mente, / sul suolo dei mortali. Esser vivo, essere, esserci: / solo a questo pensi, e pensi / come celare al mondo il tuo orribile segreto: / di stare, di stare più che puoi nel mondo / azzurro, tra i cieli e le terre, i fiori e gli asfalti, / starci comunque, anche tra gente che non ami, / in città tetre, apocalittiche, / malato, storpio, a mendicare un po’ della loro vita / calda, inebriante.
La luce di Pontiggia è porosa, si innerva nelle catabasi vertiginose e ultime, raccoglie le disposizioni temporali e memoriali attraverso una catalogazione che sprofonda e intrude.
L’enumeratio della realtà non serve solo a registrare l’ombreggiamento della mente che guarda, ma «Come in un’anfora / scaldata dal sole», diventa forza mitopoietica e contemplazione dirottata verso l’intatto podio dello sguardo, il suo sogno, la sua ineluttabilità di confine fino alla piagata fine della durata.
Essa è odore, seme, nascita, rapidità che sprigiona, spalanca l’hic et nunc e l’altrove in una inoltrata aratura, dove le cose sono in quanto sono e dove il fiato fulgido e trafitto gioisce nello schianto e nella polvere di ogni fessura e di ogni ombra finita:
Resta nel tuo vallo / di fiamme e di tempo / che cola, lento, e non è / cosa che lo argini, né dito / che saldi la fessura, immane / gioisci / della gioia, prova / male per i mali, ma non tanto, vedi / com’è la natura delle cose, polvere / su polvere, ombra / che si disfa in ombra / smanie effluvi / schianto.
La poesia, allora, rappresenta questa ellittica germinazione di senso che cola nell’immanità: i cieli di fiamma, il dirupo degli spasimi, il dono dolce e tragico dell’esistere cercato.
A tal proposito, il poeta afferma:
L’improvviso irrompere, in una condizione di aurea felicità, di segni inquietanti è espresso con immagini limpide e esemplari che nondimeno sono cariche di storia e di pensiero: trombe, arco, stame, sfinge evocano qualcosa che è certo nella memoria di ciascuno di noi, e che derivano dalla doppia cultura, classica e cristiana, nella quale ci siamo formati: sono insomma parole-mito, in cui si condensa intuitivamente, quasi fulmineamente, la nostra idea di vita e di destino. Anche l’ambientazione, domestica e mitica insieme, della scena porta in sé echi profondi: l’eden biblico, il giardino delle Esperidi, i giardini epicurei. La poesia non è emozione, ma un’esperienza in cui si fondono moti di pensiero, percezioni di vita quotidiana, echi di dottrine, sogni, visioni. Tutto questo in una lingua che deve affondare nell’elementare ruvidezza del parlato e insieme distanziarsene: non so se «s’incavedia» sia un neologismo, ma certo chiunque abiti in un palazzo dell’ultimo secolo, sa cosa sono i cavedii, e quale fitto di buio e di paure in esso si concentri. Le parole della poesia sono sempre sensibili, dotate di una loro materia fisica, concreta, con tutte le risonanze, le scie di luce e di ombra che ogni oggetto – e ogni nome – inesorabilmente porta con sé.[4]
Qui la poesia sembra annunciare, in modalità lucreziane, la folgorazione vigile della realtà, il classico che promana la sua effige tragica, il seme conflagrato, la sua cognizione altera, e il confine vacillato della mente, dove la luce degli enti è uncino e trono di nubi, si sospende nel tremore che si ripete incessante da ogni inizio, che «non elude nulla, nulla censura, nulla pare riscattare anche perché – a differenza di un altro lombardo senza riparo, Testori – qui non c’è nulla da riscattare, non è centrale il tema di una colpa o peccato, ma solo punto, calo di forze, sperdimento[5]».
L’infinita somma dei colori conflagrano e smottano nel fondo, laddove la muraglia montaliana del tempo contrassegna l’imo infero e le sue code, la dispersione nebulare, l’appercezione e l’infinita sospensione di quel che ci precede e ci segue, come sguardo che travaglia e separa ogni sperdutezza lontana: «Una linea infinita di tempo / ci precede; un’altra / ci segue: attoniti le contempliamo, / sospesi fra due mondi / indifferenti, lontano. Eppure, niente li separa / se non te, che guardi».
Nell’infinita radura urtata del nostro vivere rimane questo spaesamento, la perdita nel possente inizio delle cose («quando ancora niente è in noi / se non caldo grembo, cibo, sonno, / suoni stranieri che rimbombano nel cavo / della mente»), la loro nascita inaudita e la loro corteccia come lungo bagliore e stridore finale: «Stride, il cielo, e stridono / le vertebre dell’aria. Guardi in su, dove / gli occhi si nutrono – stupiti – / di una materia sottile, / più sottile, infinitesima, tenebrosa / quasi – e ti sprofondi / in una palude di ozi, di silenzi vasti e / lunghissimi».
La stanza declinata degli occhi, sopra le mura incendiate del mondo, accende briciole e barbagli. Qui l’apparizione rarefatta della materia plasma l’origine remota dei frantumi, i residui e i lumi nelle stive, i grumi e le scorie, fermentando il grembo primario delle cose come un soffio evaso.
[1] Di Palmo P., La voce del poeta: Giancarlo Pontiggia. Cieli senza dèi, (http://www.succedeoggi.it/2016/12/cieli-senza-dei/), 12.2016.
[2] Rondoni D., Il retro dell’arazzo di Pontiggia, (https://www.rivistaclandestino.com/il-retro-dellarazzo-di-pontiggia/), 24 settembre 2017.
[3] Filia F., (poetarumsilva.com/2017/10/09/giancarlo-pontiggia-il-moto-delle-cose/), 9 ottobre 2017.
[4] Pontiggia G., in Di Palmo P., cit.
[5] Rondoni D., cit.
Pontiggia G., Il moto delle cose, Mondadori, Milano 2017, pp. 160, Euro 18.
Pontiggia G., Il moto delle cose, Mondadori, Milano 2017.
Di Palmo P., La voce del poeta: Giancarlo Pontiggia. Cieli senza dèi, (http://www.succedeoggi.it/2016/12/cieli-senza-dei/), 12.2016.
Filia F., (poetarumsilva.com/2017/10/09/giancarlo-pontiggia-il-moto-delle-cose/), 9 ottobre 2017.
Rondoni D., Il retro dell’arazzo di Pontiggia, (www.rivistaclandestino.com/il-retro-dellarazzo-di-pontiggia/), 24 settembre 2017.