Le lettere fatali di Ted Hughes

di Andrea Galgano Prato, 18 maggio 2013

POESIA CONTEMPORANEA

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Hughes è un poeta “fatale” (fate – e composti – è una delle parole che più si notano nei suoi libri, non solo quelli di poesia). Ogni cosa, nel sistema di Hughes, o forse bisognerebbe dire semplicemente nel “sistema Hughes”, dove essere così, quasi suo malgrado, anche quella più accidentale, quella che più sembrava muovere da una volontà maligna ed estranea e, perciò, nemica.

Ogni libro è parte e insieme paradigma del sistema. Per cui l’opera complessiva può essere letta come una serie di stazioni nel lungo, infinito cammino verso l’immagine più compiuta, più precisa, dell’ispirazione di partenza». (Nicola Gardini)

La trascrizione poetica di Ted Hughes (1930-1998), poeta tra i più importanti del Novecento, racchiude la scrittura in un riconoscimento totale e teleologico che, se da un lato avverte la frattura segnica nelle dimensioni dell’esistenza, dall’altro tenta di rammagliare e riscoprire il valore prospettico e profondo dell’esistente e l’antagonismo verso l’illusione, fatale, appunto, dell’apparente: «Siedo sulla sommità del bosco, a occhi chiusi. / Inerzia, nessun mistificante sogno / Tra il mio capo adunco e le mie zampe adunche: / o nel sonno riprovo cacce perfette e mangio».

In una realtà di significanti, lo spazio prospetta una suddivisione di linee e crinali che si dispongono in zone di confine, tra il reale e il simbolico, l’esterno e l’interno.

Il recupero ossessivo di zone d’ombra, che vengono messe a nudo descrivendone l’ampiezza e tentando di smascherare la catarsi mistificante del sogno, è un pangrafismo esistenziale che si inoltra nel mondo vegetale e animale, laddove il gesto del reale è lasciato nel fondo della scrittura. La scrittura diventa primordio di vita: «Non c’è sofisma nel mio corpo: / i miei modi sono di dilaniare teste – / la spartizione della morte. / Poiché l’unico sentiero del mio volo è diretto / Attraverso le ossa dei viventi. Nessuna tesi afferma il mio diritto: il sole mi è alle spalle. / Nulla è mutato dal mio inizio».

La dettatura e dittatura scritta non afferma mediazione alcuna. L’improvvisazione, la lettura della realtà è violenta e piena di abbandono; descrivere rimanda a un contenuto latente, come soggiornare sul taccuino di qualcosa che prende forma e si fa forma, persino attraverso un nucleo mitico, come scrive giustamente Pennati: «La descrizione della violenza è solo l’allegorismo più naturale e più manifesto di un’altra intima umana lotta, più che trasfigurata rispecchiata in animali».

Sullo sfondo delle colline dello Yorkshire, Hughes ricopia un nucleo mitico, non solo spingendo la propria infanzia, con il suo paesaggio nativo e il mondo animale o rivedendo Blake, Shelley, Shakespeare e perfino T.S. Eliot, a celebrare una essenza originaria, ma nel mito, in tutte le sue folgori e cromature, si fonde la parola incarnata e selvaggia:

«Immagino la foresta di questo momento a mezzanotte: / altro è vivo / oltre la solitudine dell’orologio / e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita / … un occhio / un verde fondo e dilatato, / brillante e concentrato, / che se ne viene per fatti suoi / sino a che, con improvviso acuto caldo puzzo di volpe / non penetri la buca nera della testa. / Ancora senza stelle è la finestra; batte l’orologio, / la pagina è tracciata».

La parola e la cosa tentano una fusione miracolosa, come guizzo d’istante e nesso stravolto. L’immagine acquista un’esistenza collusa e vibrante, oltre il confine del verso che si annuncia, oltre l’accento dei termini che si perde nel mito, come annota Gardini: «Secondo Hughes ogni creazione poetica si sviluppa da una matrice simbolica ( l’ «evento soggettivo di intensità visionaria») che, per quante trasformazioni attraversi, per quanto irriconoscibile diventi e debba diventare di passaggio in passaggio, costituirà sempre la fronte, il crogiolo di quella certa poesia, l’irriducibile sé (self) del poeta».

Il compito poetico si sostanzia in un ritrovamento di un’intelligenza primitiva e uditiva, per cui

«Le visioni successive evolvono nel tempo nel modo in cui il sé poetico evolve nella sua vita nascosta. Ma nella serie che costituisce l’opera complessiva del poeta, le più antiche sono spesso le più rivelatrici, vuoi perché queste visioni creative assomigliano molto a convenzionali sogni in serie, per il fatto che la prima rappresentazione compiuta è quella che più probabilmente contiene un indice di tutto quello che verrà». (T.Hughes, Winter Pollen, ed. William Scammell, Faber and Faber, London 1994, p.277).

Il mito originario è la puntuale sostanza dell’essere poeta, la dimensione percettiva più precipua del suo linguaggio, come egli afferma in questa intervista del 1971:

«Più si va a fondo nel linguaggio, meno importante diventa l’immaginario visivo/concettuale, mentre cresce l’importanza del sistema tensivo uditivo,/viscerale/muscolare. Questo perché secondo la biologia i nervi ottici sono collegati al cervello “moderno”, mentre i nervi uditivi si collegano in maniera diretta al cervelletto (cerebellum) – il sistema nervoso primitivo, il cervello primordiale ed animale».

Il primo nucleo mitico e inquieto del poeta è per la Dea (la «Dea Bianca: la donna che lui prendeva per Musa o che era una musa, si trasforma in una donna domestica che vorrebbe a sua volta addomesticarlo»). Lontano dalla sua figura egli ha taciuto gli istinti e le pulsioni delle origini, che ora covano nascoste e minacciose e la fede attuale nella datità dell’esterno e, quindi, dell’oggettività ha, di fatto, negato espressione al mondo interiore.

L’ipertrofia del reale soggiace a due termini, come «anima» e «io»; entrambi vivi nella poesia, spinta poi successivamente alla dimensione pre-logica. In essa trovano il riparo e la riparazione e l’intimo contatto con le forze originarie rituali.

La poesia, quindi, tenta di eliminare gli scompensi tra l’io e l’anima, come egli stesso scrive in questa lettera a David Roderick, del 24 gennaio 1967:

«La poesia […] esprime una vita spirituale il cui centro è la vita sessuale – la speranza è il mezzo migliore che la Natura abbia potuto inventare per andare avanti. Perciò la poesia non è in contrasto con le religioni che chiamiamo pagane, perché queste considerano enormemente Adamo ed Eva e la fertilità e l’energia in generale. Invece è in contrasto con il cristianesimo, perché questo nega la sessualità».

In Hughes la dimensione rituale è il contatto acceso con un mondo paradisiaco, in cui la controversia poetica sostanzia la sua capacità e potenza guaritrice e divinatoria, e in ultima istanza, sciamanica.

Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi di Mircea Eliade rappresenta per lui il centro di una riflessione acuta su chi possa porre il suo spirito al servizio della comunità. Lo sciamano scende negli inferi e rinasce, così come il sogno tesse la storia dell’eroe.

L’angosciosa inquietudine verbale di Hughes, intessuta anche con elementi della psicologia junghiana (aveva letto Tipi psicologici di Jung, sin dagli anni universitari), tocca gli strani movimenti dei cicli vitali, i comportamenti e i riti degli animali e degli insetti, con le loro leggi assolute, come avviene nel localismo dei «cardi che infilzano l’aria estiva / o si crepano aperti sotto una nerazzurra pressione» o i «granchi fantasma che emergono / un invisibile rigurgito del freddo del mare».

Commenta Gardini: «Il signatum metaforico in Hughes non nasce tanto dalla trasfigurazione dell’oggetto naturale, il signans, quanto dall’imposizione a quello di un certo signatum. […] in Hughes certe idee sono così originarie – e così prepotenti- che cercheranno di esprimersi nelle forme più elementari del mondo e, teoricamente, anche quando non ne trovino una adatta, resteranno sempre dietro le parole, come il loro senso».

Il poeta si trova ad essere il centro ricettore delle forze che pervadono e celebrano l’universo, scandaglia le forze e l’urto (la guerra assume la metafora della rappresentazione), sul margine della follia e nel mito.

I gruppi semantici, messi in atto, tentano di collegarsi all’energia universale, nel canto estremo e nella danza spogliata, come abissale e taumaturgica discesa nell’oscuro profondo. L’assoluta fedeltà a una lingua poetica prelogica, corporea e persino averbale, si nutre del suo suolo primigenio, in cui l’essenza della terra, così come la pregnanza della saga familiare, acquista la spartizione delle epoche, in cui madre e padre diventano, all’unisono, mito e storia.

Scrive ancora Nicola Gardini:

 «Questa prospettiva familiare – che, vale la pena ribadirlo, deriva dal paradigma soteriologico dello sciamano e quel paradigma rimanda all’infinito – ci aiuta a osservare in una luce non consueta anche il rapporto tra Ted e Sylvia. Più che un confronto tra moglie e marito, quel matrimonio, nel “sistema Hughes”, è stato un conflitto tra figli: lui figlio dell’Inghilterra, lei figlia dell’America».

 L’Inghilterra di Hughes è realtà mitica e territoriale, tempio atemporale che rimanda alla sua identità di valli e di alture minacciose e incombenti, come la brughiera che aspetta appartata e ritirata, nel suo isolamento e nel suo orrore immobile.

Lo spazio fisico è la linea di orizzonte e di demarcazione di due simbologie di nitore e di senso: la terra e il cielo.

I continui rimandi al viaggio sciamanico e vitalistico percorrono, da sempre, l’attonito equilibrio e il salvifico scompenso di rinascita e tenebra, come il represso che tenta l’ascolto, come via di uscita, e come spinta ascensionale di un tonfo e di una dissoluzione: «Prima che queste ciminiere possano fiorire di nuovo / devono cadere nell’unico futuro, nella terra». Il lungo poema eroico della sua poesia è assieme missione e segno di disfatta di epoche.

Con le ottantotto Lettere di Compleanno, pubblicate a sorpresa nel 1998, Ted Hughes esce dal riserbo della sua persona e della sua vita, con chiarezza e senza ellissi. L’autobiografia, che non perde mai lo smalto eroico ed epico e persino la speranza ineffabile, prende il posto delle idee o del catalogo sciamanico dei fatti che si osservano, con i fiori, gli animali o gli uccelli. È la sua inaudita prefica al lutto che cova tenace il suo urlo e la neve caduta.

Egli mette in scena il teatro del suo rapporto con Sylvia Plath e ci parla delle sue sfaccettature insonni, dei transiti dell’amore e delle nostalgie, dei fatti che hanno attorcigliato nelle spire di dolore e gioia, il controverso e abraso amore per Sylvia che, quando lo conobbe, scrisse così a sua madre, il 19 aprile 1956:

 «Ti racconterò un fatto miracoloso, strabiliante e tremendo e voglio che tu ci pensi e lo condivida in parte con me. È quest’uomo, questo poeta, questo Ted Hughes. Non ho mai conosciuto niente di simile. Per la prima volta in vita mia posso adoperare tutta la conoscenza, la capacità di ridere e la forza di scrivere che ho, e posso scrivere di tutto, fino in fondo, dovresti vederlo, sentirlo… è pieno di salute, è immenso».

Il sentimento oscuro, il lutto scuro che colora e, sembra, delle volte, ammorbidire queste pagine non ha il vertice di un senso di colpa o di una nostalgia umbratile. Sylvia, nell’incontro con Ted, ha destinato la cesura di una vertigine poetica.

Nella poesia intitolata Cappotto nero lei guarda lui che si spinge verso l’acqua del mare e nella sua mente affiora il padre-colosso: «Non mi accorsi / che, mentre le tue lenti si stringevano, / lui mi scivolò dentro».

Giovanni Raboni vide in questo testo una presa di distanza dall’accenno violento di cumuli espressivi e affettivi, scagliati dalla Plath. Lei non è la Musa: è la destinataria di versi compressi e densi che emergono dall’oblio e non solo dal ricordo.

Le sillabe affettive di Hughes sono gestazione di viscere e simulacri irripetibili e unici di episodi, dove la gioia e la morte si intrecciano indissolubili, divenendo fragili e mortali.

Scrive Nadia Fusini: «Il senso della poesia si manifesta nella sua essenza di ricordo; ovvero, di pensiero confitto nel cuore del poeta, vedovo di un’assenza che lo tortura. E lo trasporta nelle caverne della memoria, dove lenta cresce la risposta al dolore».

Il mistero dell’esperienza affettiva, sulle pagine trascina gusti e sapori e anche nella violenza degli scontri e dei margini dei bersagli infedeli, tenta risvegli dall’assenza, sibila racconti nella durata, aspettando si formi una crosta lavica. Nella morte di lei si rinviene la ferita della poesia e dalla sua morte voluta, un richiamo simbolico di fantasmi e ribellioni.

La loro tormentata relazione, dopo il loro incontro a Cambridge, è stata sempre giudicata come la causa principale della fragilità emotiva di Sylvia e le continue infedeltà di lui (che la lasciò per Assia Wevill, morta anch’ella suicida nel 1969, e che poi sposò Carol nel 1970) sarebbero state la causa scatenante del suo suicidio.

Ma queste lettere testimoniano, irrefutabilmente, la presenza di un amore e la paura di un amore, la sua verità, il segreto, come annota acutamente la Fusini:

 «La paura della donna è il pensiero tragico che fa da sfondo al tessuto passionale e immaginifico del canzoniere di Ted. […] In questo studio senz’altro figlio della Dea Bianca di Robert Greaves, […] Hughes dimostra come la cultura occidentale fiorisca e prosperi in un rapporto casuale diretto all’invidia del maschio per quella dea che è all’origine di tutto. […] Il Tutto, l’uomo maschio non lo sopporta. Ne deriva (poiché il femminile è vitale) una alienazione pericolosa per l’individuo in genere; ma estremamente dannosa per il poeta, visto che – così pensa Ted – compito del poeta è di intonarsi ai suoni inauditi del mondo interiore e istintuale e dare loro la misura del verso».

 La morte di Sylvia rappresenta il grado di irrealtà, il tempo ulteriore e ultimo che si fa estremo, l’incanto di un futuro che raccoglie ceneri per tentare di farle rinascere, riportandole alla vita e infine sciogliersi nell’iniziazione a una fonte di battesimi lontani: «Mi sarei allontanato dalla tua porta rossa chiusa / che nessuno avrebbe aperto / con ancora in mano la tua lettera».

Hughes T., Poesie, I meridiani Mondadori, a cura di N.Gardini e A.Ravano, Milano 2008 .

Id., Pensiero-volpe e altre poesie, a cura di Camillo Pennati, Mondadori, Milano 1973.

Id., Lettere di compleanno, Mondadori, Milano 1999.

Id., Winter Pollen, ed. William Scammell, Faber and Faber, London 1994.

Eliade M., Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee, Roma 1974.

Middlebrook D.W., Suo marito. Ted Hughes & Sylvia Plath, Mondadori, Milano 2009.

Wagner E., Sylvia e Ted. Sylvia Plath, Ted Hughes e le «Lettere di compleanno», La Tartaruga, Milano 2004.

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Andrea Galgano 18-05-2013   Le Lettere Fatali di Ted Hughes