di Andrea Galgano 8 marzo 2017
leggi in pdf La via provinciale di Giampiero Neri
Il nuovo lavoro di Giampiero Neri (1927), «un maestro in ombra», come recita il titolo di un acutissimo saggio di Alessandro Rivali[1] che recupera una felice espressione di Maurizio Cucchi, Via provinciale[2], edito da Garzanti, scompagina ogni marginalità della poesia. La sottigliezza, la nuda e scrupolosa sintassi, la fedeltà alle cose e l’abbaglio della memoria creano un universo segreto[3], composto di miniate che affermano nella sua poesia, come sostiene Giovanni Raboni, «un documentarismo materico-prezioso di origine probabilmente poundiana» e ancora un «sotterraneo recupero, fra ironia flaubertiana e malinconie realistico-crepuscolari, della conversazione e sottoconversazione quotidiana»[4].
L’enigma del reale si prefigura attraverso una creaturalità indecifrabile e protesa, in cui la laterale sfumatura del dettaglio diviene metafisica narrazione del tempo, avvenimento indicibile, purezza del gesto che non accondiscende, per tremare, come scrive Alessandro Rivali «di fronte al grande libro della Natura (il suo bestiario è sempre più ricco, incontriamo: uccelli, leopardi, cavalli, maiali, cavallette, aquile, oche, bisce, persino uno sfeco, «pericoloso insetto simile a una vespa») e di fronte ai Grandi scrittori del passato, magari esclusi del Canone, come Fenoglio, Grossman o persino come Collodi»[5]:
Che la seconda parte della vita sia occupata a contraddire la prima è di comune esperienza, per quanto spiacevole. Si salva poco di quello che avevamo pensato, forse niente. Cosa rimane allora del tempo passato? Si dice di un maestro zen che, prossimo a morire, aveva invitato i suoi discepoli nel suo giardino e rivolto a loro, sentendo gli uccelli cinguettare sui rami, aveva detto: “È tutto questo e niente altro”. (p.9).
Il detrito memoriale si configura, allora, come una subitanea successione di eventi, in cui non solo la rifinitura minuziosa diventa centro ma la scoperta del mondo svela il sentiero della sua composita fragilità al cosmo aperto dei vinti, agli sguardi nascosti e mai obnubilati, giungendo alla vigilanza di ogni cenno dell’esistenza:
Il negozio di drogheria occupava in parte il piano terra della grande casa, alla ― Clerici. Di solito al banco servivano due donne, entrambe Marie di nome, e diverse volte si univa a loro il giovane nipote, il mio amico Nene. Allora il banco si animava di giovinezza, di chiacchiere e anche di zelo. Questo poteva mettere in sospetto e infatti le due Marie si erano insospettite. Il lavoro aumentava ma non il guadagno. Il Nene era svelto di mano con la cassa. Si raddoppiò la vigilanza arrivando persino a cospargere di farina bianca, ce n‘era tanta in drogheria, l‘accesso al ― tesoretto, dove si tenevano i soldi da versare in banca. Dalle impronte si poteva forse risalire al Nene, ma non aveva funzionato. Nelle sere d‘estate ci andavamo a sedere ai tavolini del Caffè Bosisio. Offriva lui, frappè alla vaniglia. (p.10).
La naturale disposizione del tempo lascia il senso dell’esistere e la materia vivente in una traccia mai trascolorata, laddove la limpidezza poetica impone il suo gesto-segugio, il rispecchiamento ironico, la sedimentata e tenace attenzione a ogni passo del sorriso, l’architettura di luoghi e immagini che ravvivano sospensioni e segnali, cifre umane che toccano l’arte e l’estasi: «Che uno scrittore cerchi di arrivare al centro dei suoi interessi come alle ragioni per cui scrive, è molto probabile, ma che ci arrivi è tutt’altra cosa. A impedirlo si frappongono diverse cause, quando ne basterebbe una soltanto. Se ci arriva, la sua scrittura ne trabocca, altrimenti ripiega su se stessa, su meno alti traguardi».
Guardare l’umano in tutti i suoi segnali e avvisaglie, significa riflettere il tempo, la commozione, l’incontro, la pietas (come quel bellissimo episodio (30) che racconta del bancario di fronte a due fratelli che richiedono un prestito eccessivo rispetto al possibile rimborso. Dinanzi alla perplessità dell’impiegato, uno dei due fratelli esclama: «Ma si fidi, Neri, si fidi. Se non si fida dei poveri, di chi vuole fidarsi?». Viene data loro fiducia e il rimborso sarà regolare).
Ed è in essi che scopriamo noi stessi. Nella sua solida saggezza, Neri dilata le impronte del reale in una connessione di voci e discorsi, creando, attraverso una intricata diluzione di radici, una vertigine di teatro che evoca e rievoca l’annunciazione del mondo e la sua funzione mnemonica che, prima di tutto, viene
intesa come luogo minerario da cui estrarre i materiali necessari, indispensabili forse, alla vita attiva quotidiana. Perché l’atto del vivere – sembra suggerire il poeta – è difficile, sempre, al di là delle circostanze e delle condizioni che ci sono date, e lo scavo continuo tra i ricordi, tra i frantumi variegati della memoria, è un’attività che ci permette di lenire i nostri tormenti e di addomesticare i fantasmi che li popolano. Diamanti o detriti, tutto ciò che viene dal fondo del passato è rilevante e non va trascurato (Antonio Riccardi, dalla bandella di copertina del libro).
Il metodo che costruisce il linguaggio è l’affermazione a ritroso di ciò che nella materia vivente risuona, attraverso l’orma corrosa, in cui la trasformazione consunta ma viva, e il reperto denotativo dell’essere, tralucono in una lingua-specchio, facendosi epifenomeno segreto e oscuro coagulo indicibile:
Le vecchie bottiglie di fernet, anni trenta, portavano sull’etichetta l’indirizzo della dita, via del Broletto, vicino alla chiesa di san Tomaso. Ma un’altra iscrizione attirava la curiosità dei più giovani, che l’andavano ripetendo a voce alta: “Combatte lo spleen, patema d’animo”. Erano gli anni della grande depressione, della crisi di Borsa, dei salti dalla finestra. (p.14).
È attraverso la densità esperienziale, la profonda lucidità, l’appartenenza all’umano e ai suoi movimenti, che i suoi “crinali-cammei” vivono la loro riattualizzazione. Ma non c’è una nostalgia edulcorata, poiché la vita stessa, in Neri, è riportata continuamente alla luce, al suo presente, all’assorbimento esistenziale e oracolare:
La coppia, marito e moglie anziani, abitava al secondo piano, l’ultimo della casa di via Mainoni. Lui faceva il sarto e la grande cucina, tutta la sua casa, era il suo atelier. Per qualche motivo ero il loro beniamino, anche se non ricordo che mi abbiano mai dato una caramella, ma non ne avevano. Giocavo col loro gatto o a dama, soprattutto mi piaceva la loro compagnia. Con grande anticipo mi avevano detto che sarei stato a pranzo da loro per qualcosa di speciale, che non si sapeva, anche i miei erano contenti. Lui faceva uso di pepe, che metteva dappertutto e io provavo forse per la prima volta. Sembrava una festa, il sarto e la moglie ridevano e avevano gli occhi lucidi. Non so come, ma quel giorno il gatto non si era visto, e non l’avrei più visto, neanche dopo (p.13).
Il livello più radicale del libro, e quindi il suo portato fertile, si rinviene nella fotografia della realtà che nasce ad ogni istante e in esso, trova la sua vera forza, senza egocentrismo, ma proteso all’intuizione primigenia dell’umano che fa spazio, all’altro, anche quando lontano o intravisto, «poiché la sorpresa dell’essere è sempre dietro l’angolo»[6].
È nell’allusione a una magmatica concrezione di luoghi, campiture e battute che il prelievo nel reale raggiunge la massima espansione narrativa e la poesia rappresenta l’esito di un indizio di ritmo e battito, poiché, come sostiene Cesare Cavalleri:
[…] in Neri è sempre la memoria a lavorare su frammenti di figure e sentimenti che non vengono “attualizzati”, bensì riportati in quanto mai dimenticati. […] È poesia per il ritmo, perché include un metronomo che impone un’esclusiva scansione del tempo. Si provi a leggere Neri ad alta voce: spontaneamente si è indotti a modulare un “andante” come leggendo una partitura musicale, e se si tenta di accelerare il ritmo ci si avvede immediatamente di steccare. Perché la poesia è appunto questo: un testo con pronuncia obbligata. I temi sono quelli ai quali Neri ci ha abituato: la casa di Erba, episodi minimali ma incancellati della guerra e del dopoguerra, personaggi stravaganti intravisti e scomparsi con il loro mistero. [7]
Se di lateralità si tratta, essa è profondo baricentro che torna nei suoi frammenti sotterranei e intermittenti, nei lacerti racchiusi, nella parola che per descrivere deve essere netta, essenziale, farsi persino beffe, ma diventare documento di ciò che non muore o si perde. Nella circostanza, egli rispolvera il linguaggio che incontra l’esattezza di una vita nascosta e sopravveniente, giocata nella luce, combinata nel sogno e nella remota partecipazione dell’essere:
A sopravvivere, della biblioteca di mio padre, erano stati pochi libri, la collana dei classici Utet, una vecchia edizione dei Promessi Sposi, il grande Atlante Geografico e pochi altri. Tra questi spiccava un libro di Cechov, Il monaco nero. Erano sopravvissuti alle vendite che avevamo fatto in tempi difficili e ai vari cambi di abitazione. I racconti di Cechov avevo provato qualche volta a leggerli, ma proprio Il monaco nero, che era il primo, andava per le lunghe e non riusciva a coinvolgermi. Il tema dominante sembrava il giardinaggio, con citazioni della «mela cotogna russa», della «coltura a rotazione» e altre, di carattere tecnico. Rimanevo perplesso e chiudevo il libro. Una notte che mi ero svegliato troppo presto, ritornai a prenderlo. Non so come, era comparso di nuovo sul tavolo, a portata di mano. L‘avevo aperto a caso e lo stavo leggendo, era un dialogo. Continuai fino alla fine del racconto. Rimasi sopra pensiero per un certo tempo, dopo (p.32).
Nelle immagini del mondo che fluttua, nel sipario trasparente, nella formazione di ciò che accade, caricata di vita e mistero, la fotografia di Neri risplende di silenzio e rievocazione.
In quella via accade il reale e la vita passa prima degli occhi. La singolarità dell’esistente, la Brianza (e poi Como e dintorni, nella tensione che sembra spingersi fino all’odiato-amato Gadda) fanno rialzare lo spiovente di una densità perduta e riconquistata, dove i personaggi, dal professor Fumagalli, al milanese, piccoletto «con l’aria schiacciata», «la bionda insegnante di latino, l’ostinata maestra di musica e lo stesso preside, che voleva andare con Don Zeno, nel paese di Nomadelfia», rappresentano, come già accaduto in Liceo (1982), figure che fermano le epoche:
Dalla Colma si scendeva per sentieri appena tracciati fra i cespugli. Si sentiva un brusio che diventava più forte, avvicinandoci al paese. La piazzetta era piena di gente che parlava, agitava il giornale, leggeva ad alta voce: «Dimissioni», «Il cavalier Benito Mussolini», «Il vecchio corruttore». Era il 25 luglio del ’43. Anche noi prendemmo il giornale. Sulla strada di ritorno il Nene, che era più giovane, mangiava il pane, Mauri taceva e il suo amico si era messo a gridare: «Io sono un panciafichista borghese», e lo ripeteva con aria di sfida.
La scena del passato sviluppa il tempo nuovo che concentra valorialità etica e metafisica, promana l’altrove esatto ed episodico, che non riesce ad essere mai margine nevralgico, bensì sostanza vivente di un movimento, di una possibilità, di una passeggiata di particolari:
Di tanti cavalli e cavalieri che hanno monumenti nelle nostre piazze, almeno uno si è salvato dalla retorica, quello del generale Missori. Non tanto per il generale, quanto per il cavallo. Il generale ha la sciabola spezzata, simbolo del valore sfortunato, ma guarda fieramente in avanti. Il cavallo ha la testa bassa e l’aria di cercare qualcosa, un ciuffo d’erba o un posto dove andare a riposare. Pur essendo una bella statua, anzi la più bella che si conosca fra quelle numerose del suo genere, è rimasta in ombra. Nemmeno il suo autore ha avuto una soste migliore, un Ripamonti, forse lo stesso della via omonima. Insomma un nome oscuro. Eppure c’è qualcosa di umano in quel cavallo, che non finisce di attirare chi lo guardi, anche solo di sfuggita, passando in tram da piazza Missori. (p.35)
E tutta la storia che si dipana conosce e condensa il materiale narrativo, incontrando l’orlo delle cose, il dolore sguarnito («Si riflette sulla sconfitta, non sulla vittoria. Si cercano i perché della sconfitta e si finisce per ritenerla inevitabile. Sulla vittoria invece si festeggia»), la docile torsione che si fa visita di pagine chiare.
Maurizio Cucchi scrive:
[…] è nella memoria, nei suoi depositi, e nelle loro possibilità di riaffiorare per lacerti improvvisi, enigmatici eppure evidenti, attraverso i quali il poeta realizza una sorta di ricostruzione di eventi effettuata per dettagli minuziosamente proposti. In essi si manifestano figure sorprendenti in quanto inattese (il dottor Livingstone, Corso Donati), nelle quali verosimilmente si incarnano le ossessioni di una vicenda che non viene mai svelata apertamente (forse in buona parte oscura per lo stesso autore), che si intuisce essere personale e storica al tempo stesso e che lavora sotterraneamente mandando in superficie ombre, fantasmi e situazioni che vengono a comporsi come in un ordito onirico.[8]
La concretezza aspettuale e oggettuale della sua poesia, che unisce mondo vegetale e animale, sfumatura umana e visione, diventa essenziale esposizione sospesa, attorniata dal mistero e dalla lotta all’oblio, alla guerra, al male:
Il male, dunque, che fa irruzione per lampi dolorosi nel presente, turbandolo e rivendicando il diritto all’esistenza (perché da esso nasce il bene) costituisce un mistero di cui non si può tacere, e di cui la poesia di Giampiero Neri contempla lucidamente la portata. Egli ne coglie il fascino e l’orrore ma senza compiacersene e contrapponendo ad esso la necessità di uno sguardo carico di misericordia. «[…]» ha dichiarato. Nella speranza che non sia vana viene offerta in dono, come un vuoto o una preghiera che ci interroga e ci suggerisce che il mondo ha un misterioso scopo, una misteriosa presenza.[9]
Ecco il pensiero 13:
Dal finestrino del treno, fermo alla Stazione, il ragazzo guardava sua madre che parlava con un uomo. Stavano davanti al cippo di marmo rosa, che ricordava i benemeriti della ferrovia. L’uomo era un giovane sulla trentina, coi capelli biondi, ricci, che il ragazzo conosceva di vista, senza saperne il nome. Sapeva invece dove abitava, vicino all’Asilo infantile. Quel giorno doveva accompagnare a Milano sua madre, che nel frattempo era risalita in treno e sedeva vicino a lui. «Sai» stava dicendo «gli ho chiesto perché non si sposava e mi ha risposto che bisogna perdere la testa.» Lui l’avrebbe persa poco dopo in Val Pellice, con una pallottola, durante la guerra civile.
Il testo è la scena del mondo, il messaggio raggiunge il limite e lo innalza, vivendo il ciglio della vita per farlo respirare, in modo luminoso (e numinoso), e l’informazione solleva la profondità della superficie, il suo velo, l’incisione minima della vita, lo sguardo umano, poi, carico di interesse e autentico, segue ciò che primariamente si annuncia, per divenire spazio rivelativo: «A giudicare dall’andatura sgraziata e malferma, non si darebbe molto credito all’oca e forse per questo ha il nome che porta. Ma in acqua, per via delle sue zampe palmate, fila con eleganza e in aria vola. Anche l’oca domestica, dai cortili, dalle aie, quando è il suo momenti prende il volo. Lei sa dove va. E noi?» (p.62).
Nei suoi emblemi, Neri, costituisce la sua sorgiva ed evenemenziale prospettiva che abita e visita i suoi paesaggi inospiti, attraverso la scoperta recitata di un avvenimento di memoria e ricordo, appariscenza rivelata e poi concepito anche di autori cari (i luoghi di Fenoglio e Grossman che «sembra mettere mano a cielo e terra», la storia immortale di Collodi, Dino Campana).
Ed è in questa vibrata e precisa trasposizione che egli viaggia a piene mani nella realtà, in attesa di un lampo, di una sacra intrusione e di un enigma disvelato, fino alla precisione di ogni incastro che si porge, poiché la poesia, vox clamantis in deserto, «come il soffio del vento, va dove vuole e la si può trovare dove capita, anche in una stretta di mano, come è stato detto»:
Di tanti cavalli e cavalieri che hanno monumenti nelle nostre piazze, almeno uno si è salvato dalla retorica, quello del generale Missori. Non tanto per il generale, quanto per il cavallo. Il generale ha la sciabola spezzata, simbolo del valore sfortunato, ma guarda fieramente in avanti. Il cavallo ha la testa bassa e l’aria di cercare qualcosa, un ciuffo d’erba o un posto dove andare a riposare. Pur essendo una bella statua, anzi la più bella che si conosca fra quelle numerose del suo genere, è rimasta in ombra. Nemmeno il suo autore ha avuto una soste migliore, un Ripamonti, forse lo stesso della via omonima. Insomma un nome oscuro. Eppure c’è qualcosa di umano in quel cavallo, che non finisce di attirare chi lo guardi, anche solo di sfuggita, passando in tram da piazza Missori.
Il segno più vasto dell’essere è un particolare ornato che diviene fiato e colpo, e raccordo di gradazioni infinite che riafferrano l’io, sillabando la verità, per cui, la poesia, rende ancora più essenziali
il nitore e la chiarezza della pronuncia del quadro esterno, “reale” di riferimento. Quando poi questo quadro viene animato da movimenti e scatti quasi sempre impercettibili o apparentemente inessenziali della presenza umana o animale o naturale (fra storia, memoria, bilogia, logosfera e biosfera, onotogenesi e filogenesi), svela immediatamente la propria natura tragica.[10]
In un’intervista rilasciata a Pierangela Rossi, su “Avvenire”, il poeta, infatti, afferma: «La poesia come forma si caratterizza per una particolare martellatura della parola. Questo però lascia intatto il problema dell’arte. Questa martellatura non garantisce l’arte. L’arte è come lo Spirito Santo che ti trasforma e ti dà la felicità di vivere. Cosa rimane di tutte le lacrime poetiche sull’11 settembre? Rimane della brutta poesia. Lo Spirito Santo è la new entry di qualcos’altro»[11].
Neri G., Via provinciale, Garzanti, Milano 2017, pp. 81, Euro 16.
NERI G., Via provinciale, Garzanti, Milano 2017.
- Poesie 1960-2005, introduzione di Maurizio Cucchi, Mondadori, Milano 2007.
BERTONI A., La poesia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2012.
CAVALLERI C., La poesia? Si riconosce dalla pronuncia obbligata, in “Avvenire”, 13 giugno 2012.
- Neri, il poeta che ha scritto in prosa, in “Avvenire”, 30 aprile 2008.
DI STEFANO P., Tengo i segreti, sono un cuoco geloso, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 29 gennaio 2017.
MOTTA E., La poesia e il mistero. Dodici dialoghi, illustrazioni di Luciano Ragozzino, La Vita Felice, Milano 2016.
RIVALI A., Giampiero Neri, un maestro in ombra, Jaca Book, Milano 2013.
- Giampiero Neri, la sorpresa dell’essere è sempre dietro l’angolo (http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2016/7/23/LETTURE-Giampiero-Neri-la-sorpresa-dell-essere-e-sempre-dietro-l-angolo/716086/), 23 luglio 2016.
- Il tempo sospeso di Giampiero Neri (http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2017/2/21/LETTURE-Il-tempo-sospeso-di-Giampiero-Neri/749575/), 21 febbraio 2017.
ROSSI P., Neri «La poesia soffia dove vuole», in “Avvenire”, 6 ottobre 2016.
[1] RIVALI A., Giampiero Neri, un maestro in ombra, Jaca Book, Milano 2013.
[2] NERI G., Via provinciale, Garzanti, Milano 2017.
[3] DI STEFANO P., Tengo i segreti, sono un cuoco geloso, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 29 gennaio 2017.
[4] RABONI G., in Almanacco dello Specchio, n.1, a cura di Marco Forti e Giuseppe Pontiggia, Mondadori, Milano 1971.
[5] RIVALI A., Il tempo sospeso di Giampiero Neri (http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2017/2/21/LETTURE-Il-tempo-sospeso-di-Giampiero-Neri/749575/), 21 febbraio 2017.
[6] ID., Giampiero Neri, la sorpresa dell’essere è sempre dietro l’angolo (http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2016/7/23/LETTURE-Giampiero-Neri-la-sorpresa-dell-essere-e-sempre-dietro-l-angolo/716086/), 23 luglio 2016.
[7] CAVALLERI C., La poesia? Si riconosce dalla pronuncia obbligata, in “Avvenire”, 13 giugno 2012. Vedi anche Id., Neri, il poeta che ha scritto in prosa, in “Avvenire”, 30 aprile 2008.
[8] CUCCHI M., Memoria naturale, in NERI G., Poesie 1960-2005, Mondadori, Milano 2007, p.vii.
[9] MOTTA E., La poesia e il mistero. Dodici dialoghi, illustrazioni di Luciano Ragozzino, La Vita Felice, Milano 2016, p.85.
[10] BERTONI A., La poesia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 153-154.
[11] ROSSI P., Neri «La poesia soffia dove vuole», in “Avvenire”, 6 ottobre 2016.