di Andrea Galgano 26 gennaio 2017
leggi in pdf La tempesta di Zbigniew Herbert
La pubblicazione, presso Adelphi, degli ultimi versi di Zbigniew Herbert (1924-1998), L’epilogo della tempesta, in un volume che raccoglie i testi poetici scritti tra il 1990 e il 1998, anno di morte dell’autore, con l’aggiunta di testi sparsi scritti tra il 1950 e gli ultimi anni, rende ragione a questo autore, attraverso «una poesia definita classica e intellettuale, ma permeata di quel romanticismo polacco che imponeva un modello di scrittore impegnato nella storia, poeta dell’oscura sofferenza esistenziale e bardo dell’opposizione nella Polonia di Solidarnosc […]» (Francesca Fornari, Postfazione, p. 173).
La poesia di Herbert non sa indugiare. Quando compone l’elegia del mondo, si serve della realtà per sfogliarla, provocarne la fibra, divulgando la sua pagina senza mediazioni e spingendo la speculazione filosofica alla catabasi stoica, permeata dal passaggio «dall’oggettivazione figurativa e culturale, dall’impersonalità e dal distacco delle schermature allegoriche, che costituiscono il tratto qualificante della sua fisionomia espressiva, a una pronuncia più personale e dolente, più esposta e coinvolta in prima persona» (Roberto Galaverni), e, infine, solcata dal transito solare:
«Chi sarei diventato se non avessi incontrato Te – Henryk Maestro mio / A cui per la prima volta mi rivolgo per nome / Con la riverenza il rispetto che si devono – alle Grandi Ombre / Sarei stato fino alla fine della mia vita un ragazzo buffo / Sempre alla ricerca / Affannato taciturno che si vergogna di esistere / Un ragazzo che non sa / Vivevamo in tempi che erano davvero il racconto di un idiota / Pieno di frastuono e delitti / La Tua severa mitezza la forza delicata / Mi insegnavano a stare nel mondo come pietra pensante / Paziente indifferente e sensibile al contempo» (A Henryk Elzenberg nel centenario della Sua nascita).
L’inclinazione della poetica herbertiana raccoglie la profondità della pietas, esponendola alla mitologia, allo scarto e all’avamposto di una umanità senza cesure, come dirà in un’intervista nel 1991: «Scrivevo poesie serie, tragiche, e adesso scrivo sul mio corpo, sulla malattia, sulla perdita del pudore»), che sperimenta la fine e il limite, il chiaroscuro-fervore dell’attuale, della testimonianza attonita e, infine, del tempio sacro del vivente che lotta ai margini attraverso le ombre chiare e le schiere inermi.
Afferma Valeria Rossella:
«[…] Herbert declina in una lingua scabra e precisa da tragedia antica, con allegorica figuratività, le sue parabole intrise di rigoroso ethos. Mai si abbandona al catastrofismo, al soggettivismo solipsistico, in questo incarnando la figura del poeta-testimone, tipica della poesia polacca, caratterizzata secondo Miłosz da un «costante connubio con la storia»: una poesia non ombelicale, lontana dal narcisismo e dal nichilismo di tanta lirica novecentesca. Fra i sontuosi visionari arazzi di Miłosz e il microcosmo metafisico della Szymborska, questo poeta che Adam Michnik ha definito un «guardiano delle tombe» per la sua profonda pietas stoica, ci parla di chi finì nella macina della storia come “I lupi” (i partigiani dell’Armja Krajowa) e di chiunque si oppone ostinatamente alla sua legge brutale e distratta. Questa pietas è la sua cifra, espressa tramite exempla, “parabole” come le definì acutamente Brodskij, tratte spesso dall’antichità greco-romana da cui era affascinato […]».
Elegia per l’addio, la settima raccolta di Herbert, uscita nel 1990, già presente in Rapporto dalla città assediata, antologia pubblicata da Adelphi nel 1993, a cura di Pietro Marchesani, rappresenta l’esito di una incendiata sovrapposizione di natura e storia, regno vegetale, umano e animale, attraverso una impronta che dispiega metafore di violenza nascosta e pervasiva, segnate da una ferita urgente e unite da folli cause perse.
Lo sguardo sull’uomo dimidiato e percosso (La famiglia Nepenthes) penetra nelle fibre scure del male radicato nelle fessure, laddove l’assenza di innocenza («e noi viviamo in armonia con la nepente / tra campi di concentramento e di sterminio poco ci importa / di sapere che nel mondo vegetale l’innocenza – è assente») banchetta alle irresistibili spire dei nettari vischiosi, come «polizia segreta di una certa superpotenza».
Il prugnolo, nonostante «le peggiori previsioni degli indovini del clima», fiorisce a dispetto del «gelo polare conficcato fino in fondo all’aria», esponendo la sua sopravvivenza e il suo concerto solista alle bufere accecanti e alle note sparpagliate, a «questo cespuglio ai bordi delle strade» che «spezza / la congiura dei prudenti», diventando franto dispendio di giovinezze perdute, «come gli insorti che malgrado gli orologi della storia / malgrado le peggiori previsioni / malgrado tutto iniziano».
La colpa e il perdono toccano assottigliano il giudizio della coscienza, quando «il proiettile che ho sparato / da un piccolo calibro / nonostante le leggi di gravitazione / ha fatto il giro del globo / e mi ha colpito alle spalle / come volesse dirmi / che niente a nessuno / sarà perdonato» o si è tentato di cancellare dalla memoria «con l’acqua della pietà / la fuliggine il sangue le offese» perché «la nobile bellezza / il fascino dell’esistenza / e forse persino il bene / dimorassero in me».
Non è un mondo perduto bensì un aguzzato recupero di ciò che è, innocentemente, perduto: ombre sporche, venti senza alberi e senza nuvole, luna conficcata nel cielo, poiché il poeta è, come scrive ancora Roberto Galaverni: «un uomo lasciato improvvisamente scoperto dal ritiro della spessa coltre della Storia, e, dall’altra parte, dal possibile tradimento della vita. Tutto il suo mondo, il suo stesso sistema poetico, solo poco tempo prima assolutamente convinto e agguerrito, sembrano a questo punto ritorcersi contro di lui».
Al suo alter ego, il Signor Cogito, lascia la sua disillusione amara e radiosa, il suo eroismo e la sua casa oscura e incerta, il numero delle figure che se ne vanno, l’agenda corrosa e nebulosa del proprio esistere, fino alla trasformazione artistica della sofferenza e della memoria concava, come un sigillo, poiché «per Zbigniew Herbert, le regole del mondo erano chiare, stare dalla parte dei deboli, ambire a un posto nella schiera dei grandi spiriti, stare dalla parte degli oppressi» (Jaroslaw Mikolajewski).
Come ad Hermes, invece, il rammarico del passo danzante della sua preghiera inesauribile o il colore della terra del commiato:
«[…] tutto si dispiega in fasce orizzontali – un fiume pigro / l’altra riva scoscesa che ripida digrada verso il basso / rivela infine quel che si doveva confessare / argilla sabbia rocce di calcare strati di terra nera / e il bosco gracile ora un bosco che piange / sono felice ovvero libero da illusioni / il sole appare poco ma in compenso offre / spettacoli di splendidi tramonti quasi alla Nerone / sono calmo dobbiamo prendere commiato / i nostri corpi hanno assunto il colore della terra».
La disposizione di Herbert, quindi, pur abitando e patendo la schiera nefasta delle ombre novecentesche e la pura cognizione della sofferenza, non genera mai «l’abdicazione» della dignità (Jaroslaw Mikolajewsky), vivendo il ciglio e il dolore dell’orizzonte ultimo, sperperando i sigilli increspati di ciò che ascende e della domanda intagliata nel sangue, aggrappato al sapore dell’ostia e del lenzuolo bianco, alla parola nuda che tace ed affiora («a lungo si dovrà lavorare / per riportarle fuori / si dovrà accelerare / il ritmo del cuore / o rallentarlo / e forse ancora una volta / qualcuno le scriverà su un muro / nelle catacombe della notte / sul vetro latteo dei mattini»), preparando il rilascio di ogni possibilità detenuta, come accade a Barabba, terrorista, vasaio, mulattiere, usuraio, proprietario di navi o spia al soldo dei romani, che «pulisce le mani macchiate di delitto / nell’argilla della creazione»: «Lui Imperatore delle proprie mani e della testa / Lui Governatore del proprio respiro», mentre «il Nazareno / è rimasto solo / senza alternativa / con il ripido / sentiero / di sangue».
Antonella Anedda, infatti, sostiene:
«È vero, questo tardo Herbert che scrive sul ciglio della morte dice più spesso «io» rispetto al passato, ma lo fa mantenendo una distanza di sicurezza; scrivendo poesie che reggono, dalla struttura perfetta, dove ogni aggettivo è calibrato e ogni dettaglio ha un senso. Nessun ammiccamento al lettore, nessuna civetteria o lusinga. Non solo chi scrive, ma anche chi legge deve assumersi le proprie responsabilità. La reticenza – quella che ha dato vita alle tante poesie sul Signor Cogito, ironica considerazione anti-cartesiana – resiste intatta in una confidenza non ostentata ma piena di pudore, anche nell’osservazione del proprio corpo invecchiato, malato: strumento di conoscenza, che ritrova – attraverso la memoria del professore di medicina legale, chino sul torace dei suicidi – la pietà di Antigone».
Rovigo (1992) rappresenta, per Herbert, lo strato di un passaggio e di una iniziazione, in cui la prospettica sospensione tra passato e presente si accompagna alla crocifissione del luogo e dello spazio, e dove non esiste sacrificio vano. La grande cultura italiana è il segno del suo sguardo, attraverso di essa, anche ciò che è minimale, diventa centro, perché
«in Herbert è il dato concreto, il dettaglio il punto di partenza per una riflessione che però va sempre verso una generalizzazione che valga per tutti. […] Nell’opera poetica di Herbert i grandi temi tralucono dalle piccole cose, da dettagli apparentemente inessenziali. Il fuoco della lente di ingrandimento è sempre sui particolari, sui dettagli delle situazioni rappresentate; ogni esistenza è singolare, precaria, drammatica e irripetibile» (Giorgio Linguaglossa).
Scrive Josif Brodskij:
«Herbert è un poeta molto italiano, poiché la sua estetica risente moltissimo dell’arte italiana, della pittura in particolare […]. La figura del Rinascimento che viene in mente quando si legge Herbert è, senza dubbio, Piero della Francesca, perché le poesie di Herbert si interessano, per così dire, più della geometria del fondale del dramma che dei suoi personaggi centrali. Sì, geometria è la parola giusta: più che a qualsiasi altra cosa le sue poesie assomigliano a teoremi o, se vuoi, a parabole: per via della loro reticenza e del loro rigore» (Lettera al lettore italiano, Rapporto della città assediata, p.17).
L’orlo della confessione intima, la pietas irrinunciabile come avvertimento dell’umano, l’incanto della parola avversa alla refrattarietà del tempo e la demarcazione trascritta e inesausta della domanda a Dio (sconosciuto), diventano «un sudario di terra calato con premura / sugli occhi». È il pudore, rarefatto di azzurro, della sua humanitas.
Sulla classicità oraziana di Herbert, Francesca Fornari, così scrive:
«Le figure mitologiche e i personaggi della storia classica sono apparizioni via via più sporadiche nei testi di Herbert, che nel raccontare il duello tra Achille e Pentesilea coglie l’eroe in un momento di pietà e commozione davanti alla bellezza dell’amazzone uccisa (Achille e Pentesilea). Il Dioniso di Herbert è incarnazione del motivo del viaggio, naviga verso l’ignoto in una spedizione senza meta che è anche il viaggio della vita stessa, dove l’unica certezza è la consapevolezza della nostra ignoranza (Opera a figure nere di Eksekia). Nell’ultima fase della sua scrittura Herbert compone testamenti spirituali, affida al lettore le confessioni intime di un io che abita «sull’orlo del nulla»: finito il tempo dell’emergenza storica, per la prima volta infrange la propria regola poetica dell’oggettività, che imponeva il riserbo nell’esprimere emozioni, e dice semplicemente: «la mia anima è triste»» (p.174).
Il fondale di Herbert, allora, non è un epicedio dell’umano bensì la resistenza di ciò che è umano contro la depressione, la malattia, il limite, l’amarezza, la decadenza di ciò che ci circonda. È l’arte che è specchio «che passeggia per la strada maestra», riflettendo «i miraggi / l’aurora boreale / l’estasi dei posseduti / i banchetti degli dèi / gli abissi / lotta anche con la storia / con alterni successi / tenta di addomesticarla / di darle un senso umano».
Persistono le rovine ma sono punto focale di ciò che, a dispetto di tutto, resiste all’assedio del tempo, non soltanto come tregua ma come resurrezione scandita. In questa forza risiede il suo canto strenuo, la sua parola non sbiadita e il suo tentativo di ripristino della realtà «collosa» che unisce tragedia, sacrificio e riscatto di incontri sicuri («Solo i bottoni inflessibili / sono scampati alla morte testimoni del crimine / salgono dalle profondità in superficie / unico monumento sulla loro tomba / sono testimoni che Dio farà la conta / e avrà pietà di loro / ma come potranno risorgere col corpo / se sono parte collosa della terra») (I bottoni, dedicata a suo zio Edward Herbert, ucciso dai Russi a Katyn): «Con la legge dei lupi hanno vissuto / per questo la storia ne ha taciuto / di loro nella neve molle è rimasta / urina giallastra e quell’orma di lupo / più rapida di uno sparo a tradimento nella schiena / li colpì al cuore la disperata sete di vendetta / mangiavano miseria bevevano acquavite / cercavano così di resistere alla sorte» (I lupi).
Il suo passaggio affronta nubi, quelle di Ferrara, ad esempio, vissute attraverso il precipuo scorrimento di natura e creazione dipinta (il Ghirlandaio), che «scorrono / molto lentamente / sono quasi immobili» e rivelano il destino mancato di chi non ha potuto scegliere «niente nella vita / secondo il mio volere» e che ha sempre cercato, non trovandolo, il rifugio nella storia o la sua sosta. Perché è in loro la destinazione umana, le estensioni di tempo, di dimenticanza e di durata, la persistenza paziente e l’osservazione sofferta, le palingenetiche ginocchia dell’infanzia (quelle della nonna che gli faranno scoprire «la ruvida / superficie e il fondo / della parola»), la precisione del male.
La prospettiva che spinge verso l’infinitesimale presenza delle cose trova in Rovigo, il paesaggio grigio e la città di pietra e carne, e come afferma Francesco M. Cataluccio, essa diviene «per lui il simbolo della normalità e delle occasioni perdute, di qualcosa che non riusciamo, forse non vogliamo del tutto, afferrare: una città di passaggio, come la nostra vita»:
«STAZIONE DI ROVIGO. Associazioni incerte. Un dramma di Goethe / o qualcosa di Byron. Sono passato per Rovigo / n volte e per l’ennesima volta ho compreso / che nella mia geografia intima è un luogo / particolare anche se non cede di sicuro il passo /
a Firenze. Non vi ho mai messo piede / e Rovigo si avvicinava o fuggiva all’indietro / Vivevo allora d’amore per l’Altichiero / dell’Oratorio di San Giorgio a Padova e per Ferrara / che amavo poiché ricordava la / saccheggiata città dei miei padri. Vivevo sospeso / tra il passato e l’attimo presente / crocifisso più volte dal luogo e dal tempo / E tuttavia felice fermamente fiducioso / che il sacrificio non sarebbe stato vano / Rovigo non si distingueva per niente di particolare era / un capolavoro di mediocrità strade diritte brutte case / solo prima o dopo la città (in base alla direzione del treno) / dalla pianura si alzava all’improvviso una montagna / – tagliata da una cava rossa simile a un prosciutto festivo ricoperto di un cavolo crespo / e oltre a ciò niente che divertisse intristisse attirasse lo sguardo / Eppure era un città in carne e pietra – come altre / una città dove qualcuno ieri qualcuno è morto qualcuno è impazzito / qualcuno per tutta la notte ha tossito disperatamente / IN COMPAGNIA DI QUALI CAMPANE APPARI ROVIGO / Ridotta a una stazione a una stazione una virgola una lettera cancellata / niente soltanto una stazione – arrivi – partenze / e perché penso a te Rovigo Rovigo».
È ne L’epilogo della tempesta, che il suo accertamento del dolore impalato si fa più denso e infittito: «ogni palmo di terra è stato scavato e devastato / dall’attacco precedente spianato del tutto e allora perché / questa furia del dolore se questo è un segnale / e il dolore è un segnale inviato allo stato maggiore».
Il suo breviario è preghiera («Signore, / Ti rendo grazie per tutta questa cianfrusaglia della vita, in cui annego senza scampo da tempi immemorabili, mortalmente assorto nella continua ricerca di minuzie»), linea del respiro, «sospesa come i ponti, come l’arcobaleno, come l’alfa e l’omega dell’oceano», accordo lacerato e confessione di falde («Signore, / so che i miei giorni sono contati / ne rimangono pochi / bastano perché io possa raccogliere la sabbia / con cui mi copriranno il viso / non farò più in tempo / a riparare alle offese / né a chiedere perdono a tutti / coloro a cui ho fatto del male / per questo la mia anima è triste»).
L’intimità dell’io espone così le sue ultime battute nude: «perché / la mia vita / non è stata come i cerchi sull’acqua / un inizio che cresce / risvegliato dentro profondità infinite / si dispone in anelli falde gradini / per spirare sereno davanti / alle tue imperscrutabili ginocchia»).
Il dolore del corpo e il terrore notturno, gli oggetti silenti e appartati nella loro concretezza, ontologicamente descritti in tutta la miniata sofferenza quotidiana («Signore, Ti rendo grazie per le siringhe con l’ago spesso o fine come un capello, per le bende, per ogni tipo di cerotto, per l’umile impacco, grazie per la flebo, i sali minerali, le cannule, e soprattutto per le pasticche di sonnifero dai melodiosi nomi di ninfe romane, / che sono buone perché chiamano, ricordano, sostituiscono la morte»), la lingua non arresa di sogni e fiori salpati e distratti compongono la trasparenza dell’ultima parola («la mia vita / dovrebbe descrivere un cerchio / chiudersi come una sonata ben scritta / e adesso vedo chiaramente / un istante prima della coda / gli accordi lacerati / parole e colori assortiti male / strepito dissonanze / le lingue del caos») e la compassione verso un’attesa «scevra da qualunque ansia thanatofobica o anche thanatofilica, vissuta con l’animo sereno di chi vede la nave ormai prossima al porto e riflette su ciò che è stato, con tono pacato, ma non per questo privo di tragicità» (Andrea Ceccherelli).
Ancora una volta al Signor Cogito, egli consegna la sua privata allerta, l’ironia e le mani impazienti, il transito alla sua cara Leopoli «città che non esiste su alcuna mappa / del mondo», dove «c’è un pane che può nutrire / tutta la vita nero come la fede di rivedere / la pietra il pane l’acqua il permanere delle torri all’alba», l’appartenenza al tempo e allo spazio, l’impossibilità, la fedeltà iscritta e l’attesa, la memoria sopravvivente all’oblio, l’infinità e la coscienza, il corpo inappellabile, e la sua anima, nell’esilità del respiro doppio, così portata in spalla, sarà pronta al volo nella piena luce del giorno: «Dove passerai l’eternità? / Non lo so. Forse tra la sabbia delle nebulose» (Conversazione).
HERBERT Z., L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti, a cura di Francesca Fornari, Adelphi, Milano 2016, pp. 180, Euro 20.
HERBERT Z., L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti, a cura di Francesca Fornari, Adelphi, Milano 2016.
- A poet Who Misses Censors, in «Newsweek», 1991.
- Rapporto dalla città assediata, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 1993.
- Rovigo, a cura di Andrea Ceccherelli e Alessandro Niero, Il Ponte del Sale, Rovigo 2008.
ANEDDA A., Zbigniew Herbert, la pianura fredda tra le parole (https://www.alfabeta2.it/2016/11/20/zbigniew-herbert/), «Alfabeta2», 20 novembre 2016.
CATALUCCIO F.M., L’epilogo italiano di Herbert, in “Il Domenicale- Il sole 24ore”, 30 ottobre 2016.
CECCHERELLI A., Zbigniew Herbert, il morso del tempo sul corpo del dolore, in “Il Manifesto”, 4 settembre 2016.
CUCCHI M., Novecento in versi. Il secolo d’oro della Polonia, in “Avvenire”, 29 dicembre 2016.
GALAVERNI R., Il nemico non c’è più, il vate si congeda, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 25 settembre 2016.
LINGUAGLOSSA G., “Rovigo”. Una poesia di Zbigniew Herbert Traduzione di Andrea Ceccherelli e Alessandro Niero. Commento di Giorgio Linguaglossa, (http://www.giorgiolinguaglossa.com/index.php/giorgio-linguaglossa-critica28).
ROSSELLA V., recensione di HERBERT Z., L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti, a cura di Francesca Fornari, Adelphi, Milano 2016, in «Poesia», dicembre 2016.