di Andrea Galgano 7 settembre 2021
leggi in Pdf Jón Kalman Stefánsson.lo scenario strappato dal sogno
La poesia di Jón Kalman Stefánsson, che ora Iperbrea raccoglie in un volume dal titolo La prima volta che il dolore mi salvò la vita[1], con la traduzione di silvia Cosimini, contiene la genesi di un’attitudine nascosta, nata da un’asperità e da un smarrimento che insegue la parola che può dire l’amore e liberarlo, come musica ed eruzione, mattamente, bruciore e urlo di spiagge.
Daniele Piccini scrive: «Jón Kalman Stefánsson ha raccontato tutto questo: la sfida dell’uomo e del su sogno – spesso nutrito di parole, di libri molto amati – a una natura imperturbabile e ostile. Con personaggi che parlano poco e piuttosto rimuginano, rivanno con la mente ad anni lontani o a eventi che li hanno fulminati[2]».
Con il porto d’armi per l’eternità (1988), Dai reattori degli dei (1989) e Mi chiese cosa avrei portato su un’isola deserta (1993), più un’appendice di testi del 1994, la linea postuma del tempo, la creaturalità, la tregua e la fida, l’universo e la sua vastità, l’indistinto, l’oltre-mondo e la sua affermazione vivono di una coltre spessa e robusta, che rivela il duro cavo di un lavoro di perfezionamento archetipico e poi la lontananza, l’attesa: «Allora la tenebra era il respiro degli spettri / i casali di torba tremavano ai colpi brutali / dei venti mentre i fieno già raccolto volava via».
La scrittura di Stefánsson è un’emersione di fondo, che tenta di far affiorare, persino, ciò che svanisce e si dirada nelle tenebre, il mare oscuro delle ciglia, il divincolamento dei nessi e i rapporti interni delle sillabe.
La sua profonda inquietudine si confronta con il destino. La voce diventa il nesso causale di una bellezza franta che nasce «dal vuoto, nel vuoto forse lasciato, forse da un Dio che sembra eclissato, morto[3]», (dirà infatti: «lo riferiscono certi informatori / che uno dei prossimi giorni / si potrà vedere dio / andare a caccia insieme al futuro / l’attimo prima / di fare fagotto e andarsene / con il cielo sottobraccio»).
Egli racconta l’addensamento dello stupore («L’aurora si addensa in un sole / che come sempre non vede nulla di nuovo / e paventa l’eternità»), l’amplificazione della tradizione, la voluttà del margine, la dissolvenza onirica dei ricordi e la notizia della vita, che si mostra come spaesamento di pioggia e caldo:
«davanti ai miei occhi si dirada / la notte / gli alleati / apparsi dal buio / si rivelano fatti della densità del sogno / e il giorno / mi serra le sue mani azzurre intorno al collo / e detta le condizioni del vincitore / non mi aspetto che questa guerra / si legga nei libri di storia; / il numero dei morti / non mi supera di molto / e con le sue generazioni svanite alle spalle / dichiaro che / un giorno / un maledetto giorno / darò anch’io il mio contributo / ad abbattere i sogni».
Poi Reykjavík diviene l’approdo di una vita che si volge, lo scranno del presente e del vento salmastro, la stanchezza di una tela-isola di orizzonte, in una nuvola di polvere.
Stefánsson muove i passi attraverso dettagli mendicanti (un incidente stradale, le radio, Elvis Presley, i corvi, la luce disabitata della scomparsa e della distanza e il sortilegio umbratile di una vertigine): «questa greve / atrofizzante rotazione / del pianeta nel vuoto siderale e io / sempre faccia a faccia col calore / del sole che ogni giorno punta / il suo sguardo rovente come fiamme / lanciate dietro stelle sfavillanti / in folle fuga nella notte appena sorta».
Il senso di fallimento, l’amarezza e la malinconia, il sogno di veglie e la ferita aperta, conservano l’oro del silenzio, le parole e le sere, lo schermo dei capelli chiari, come l’assalto delle dimore che non cancella le ombre e si affida ai cicli naturali e alle attese memoriali degli istanti come folgori.
«Un mezzo bicchiere di whisky colato più volte sul vecchio piano / una voce arrochita e nel crepuscolo una tromba lamenta il suo destino / e da qualche parte, il violino si tiene / i nostri sogni. / Notte, un velo di nebbia scivola quieto / otto i lampioni. Le sedie capovolte sui tavoli / e un nero brizzolato sembra che spazzi. / La sua camicia che era blu ha un colore indefinito. / Una coppia sognante sulla pista in abbracci profondi. / La donna con un vestito a rose. Un uomo addormentato / sul bancone del bar e la sigaretta consumata da tempo. / Una lampada a olio fumosa proietta una luce flebile sul mezzo / bicchiere vuoto e un raggio di sole rossastro tasta / senza far rumore la finestra dello scantinato. / Il giorno non è nostro e lei. Lei è infinitamente lontana».
Daniele Piccini afferma ancora:
«Resta al poeta, in questa vertigine di irrilevanza, in questa condizione di povertà e di incertezza, la propria parla: una lingua affilata, accordata a un ritmo, a una vera e propria musica. […] La poesia sarà da maneggiare un po’ come un strumento, per tentare di addomesticare la solitudine e comporre scenari che la rendono contemporanea, abitabile come un luogo quotidiano».[4]
L’insonnia e gli orli, il sarcasmo e la fierezza, dunque, in cui l’io fronteggia l’epica solitaria degli arcobaleni («donna, guarda; / ho mandato quest’uomo / così posso strappargli / gli occhi / – e tenerli per me / con la tua immagine dentro»), vivono la scomparsa sgualcita dello sguardo ventoso di donne amate e lo sparo dell’eternità, come il closing time alla Tom Waits.
o l’immensità di una domanda che ricerca lo spasimo precario dell’umano, oltre l’inermità dei sogni interrotti, del limite-respiro quasi leopardiano e di ciò che sparisce oltre lo sguardo:
«A volte sogno la nera bellezza del cielo / le mani ardenti del sole che spazzano la marea / umana dalla superficie della terra prima che il giorno / si chiuda dentro la notte glaciale / A volte sogno oltre il vortice di luce urbana / un cielo che è una porta o un miraggio sopra / i monti frastagliati che s‘infilano tra le nubi cariche / d’acqua e uccelli che spariscono nei corrugati / crinali mentre l’inchiostro del tempo sposta / le montagne e la mia vita trascorre come / una stretta di mano casuale / A volte sogno un uomo indistinto / nel tempo sostenere che la terra è sua».
[1] Stefánsson J.K., La prima volta che il dolore mi salvò la vita, traduzione di silvia Cosimini, Iperborea Milano 2021.
[2] Piccini D., L’Islanda dopo Leopardi non è fatta per l’Antropocene, in “Corriere della sera – La Lettura”, 5 settembre 2021.
[3] ID., cit.
[4] ID., cit.
Stefánsson J.K., La prima volta che il dolore mi salvò la vita, traduzione di silvia Cosimini, Iperborea Milano 2021, pp.288, Euro 17, 50.
Stefánsson J.K., La prima volta che il dolore mi salvò la vita, traduzione di silvia Cosimini, Iperborea Milano 2021.
Piccini D., L’Islanda dopo Leopardi non è fatta per l’Antropocene, in “Corriere della sera – La Lettura”, 5 settembre 2021.