di Andrea Galgano Prato, 10 febbraio 2013
RECENSIONI
Ho obbedito a una ferita interiore e alla bellezza gloriosa e delicata incontrata in tante opere e in tanti volti. Sempre indebitato, innamorato e inquieto ho fatto questo tratto del mio viaggio (…) Il mio destino è un mare all’alba.»
L’origine poetica di Davide Rondoni, uno dei più grandi poeti contemporanei, è un’obbedienza irrefrenabile. Il percorso che nel suo ultimo testo raccoglie versi e interventi su artisti dal Trecento ad oggi, pubblicata da Marietti, obbedisce allo sfarzo glorioso e povero di un gesto. Lo abita e lo trapassa.
Sostando sulla materia di questi versi, il cuore non ha riposo. In esso, anzi, si agita il guazzabuglio di un fermento e di un’inquietudine ferita, come palpito musaico e come abisso di luce.
Nella prefazione, accorta e profonda, Beatrice Buscaroli aggiunge che questi scritti: “Sono il grido ulteriore di un gesto fermo nella pietra, sono il rovello di tanti artisti quaranta o cinquantenni in cerca della strada, («la fatica, la irrefrenabile obbedienza di questi artisti è la mia forza», scrive l’autore nella Nota, e, oltre, «è della generazione, la stessa mia, che non sa come fare»), sono una terza voce che travalica i consueti rapporti tra “poesia” e “pittura”, interrogando l’artista stesso, oppure un protagonista sconosciuto, qualcuno che, fino a poco prima, era muto, o non esisteva”.
La poesia raccoglie l’Avvenimento della realtà e, allo stesso tempo, il magma della sub-creazione per usare un’espressione cara a Tolkien.
Tocca, sfiora, e infine si impregna di una tensione all’infinito, per cui la nostra stessa sostanza si riconosce e si afferma.
In questi testi il grido non è una solitaria espressione socchiusa, ma nasce da «spasmi, pianti e inabissamenti di fronte a loro», ossia l’avvenimento accade anche in chi scrive, come un gemito in un tempo che dialoga.
Nell’amore e nella passione per l’arte, la poesia si mette al suo servizio, la pagina si intesse di una sproporzione indicibile, di un’altezza di canto, fioca e potente, che attraversa l’ombra e il regno dei giorni: «devo/ dire di te, / di voi che nell’ombra restate in quella posizione/ non vi muovete da quell’ansa/ immobili come sicari», o ancora: «le mie figure non sorridevano mai, /dimmi perché, se lo sai…/ ora che vedi dall’altro lato/ dello specchio».
Figure come Lorenzo Lotto, Elisabetta Sirani, Caravaggio o Michelangelo rappresentano lo sguardo e l’immersione delle mani nella conca del reale, l’estremità infinita e indicibile di un vertice umano a cui porre l’ascolto e l’esercizio della libertà.
L’urgenza di sfiorare e toccare i segni disseminati in queste opere è indice di un metodo libero, rigoroso, visionario, come una mano che attende il vivente, che cerca qualcosa che, pur non esistendo in natura, si afferma e si vede.
Nel lavoro dell’arte è il presentarsi dell’esistenza il volto a cui attingere, in quanto piena possibilità di attenzione, di visione, di cenno che invita e costringe a guardare.
Le opere a cui Davide Rondoni ha prestato ‘servizio’ di lettura e di ascolto divengono, per citare Maritain, lo spazio di una comunicazione ininterrotta tra cielo e terra, anche nello sperdimento di un dolore che sanguina, che reclama e che porta in grembo l’immagine e il bagliore di una gioia sopravvissuta e baluginante.
In questa inquietudine e smarrimento si gioca la partita ultima del teatro del mondo. I versi non accompagnano, non si sviluppano secondo un confine parallelo, ma indicano, si fondono, cercano le linee, i raspamenti e gli spostamenti ultimi di una vertigine di figura, di un abisso che ama transitare, persino nell’incompiuto, per ritornare all’origine, nascere di nuovo, arrendersi.
Non esiste un percorso parallelo, neanche riscrittura di opera, ma solo urgenza di resa e cammino di sguardo.
Davide Rondoni tocca il visibile del pensiero incarnato del verso per farlo sporgere dalla finestra del reale, sfiora la «primogenitura» dei colori e delle macchie dell’arte, per vivere e per esistere, in un’infinita tensione, in un segreto limite: «Incidi, /dividi con una linea di tempo/ dal niente, le figure/ dal bianco. / E dai branchi nebulosi della morte/ l’umile gloria, / l’esistente».
Le «crete appena vive o disegni» della «sfacciata opera » di Testori, il centro innocente della rappresentazione di Van Eyck con il «belato sperduto di Dio», le «rughe sul volto del viaggio» di Frisoni o le donne di Omar Galliani- solo per citare alcuni di questi bellissimi e sospesi attimi di vento-, non danno quiete, ma mettono in moto il fuoco dell’esperienza umana, che cade e si alza, che costringe a transitare sull’enigma dell’essere, a cogliere gli anfratti, a sospendersi nello stupore.
Il movimento dell’arte poetica di Rondoni è sospensione e cammino di occhi sulla realtà, una ricerca di tracce da antichi segni futuri, una compagnia di visione.
Essa diviene, pertanto, il fulcro permanente e sperduto di un bisbiglio al tempo, alla sua vertigine di accensione, all’illuminazione straziata del colpo al cuore, come il ridere di Bacon, voce di dura sostanza: «con il sorriso andato via da millenni sulla faccia d’oro/ come un dio maya in giacca di pelle, / ti hanno festa, e ora stanno togliendo grammo/ a grammo, velo a velo, l’infelicità dai tuoi quadri».
Ma nel segreto smisurato del gesto si avverte la pienezza di qualcosa che si sveli d’improvviso, la fame di un compimento che impasti la nostra povertà lucente e la vita che accade qui e ora.
In questo dettato di esistenza, duro e sognato, ampio e ricolmo di bagliore, c’è il nostro essere in ascolto, che vibra e che risuona e che chiede compimento.
La poesia di Rondoni si unisce a questi artisti potenti e fragili. Conosce la dismisura e l’immersione e si presenta povera e gemmata, nel suo cammino e nel suo abbandono, alla dolcezza dell’Infinito.
Nell’arte, vivendo.
di Davide Rondoni
Marietti, 2012, pp.292, euro 22
in presentazione al Polo Psicodinamiche di Prato il 15 febbraio 2013