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Rita Dove: La grazia esatta

di Andrea Galgano 1 maggio 2016

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Rita Dove: La grazia esatta

Il canto di Rita Dove (1952) possiede la natura profonda di esperienze che percorrono la vastità del vissuto. Nella radicalità dell’esistenza, la sua poesia segna, in modo complementare, l’integrità e la misura della possibilità, come categoria che fonda l’esistenza, la plasma permanendo nell’affermazione dell’umano, l’arricchisce per la profondità e la plasticità della percezione, «attraverso il sovrapporsi dei punti di vista: quello della storia “ufficiale” e, appunto, il controcanto di un’altra storia, più laterale. Per Rita Dove l’identità costituisce il personale accesso all’esperienza, un’esperienza che tuttavia si trova subito dimidiata tra l’esigenza di conoscersi e superarsi, al traino di una forza che rifonde ogni valore socio-culturale e in quella scoperta e libero apprendistato del mondo di cui è vettore la poesia, «il linguaggio al suo massimo di distillazione e potenza», secondo la definizione della poetessa», come sostiene Federico Mazzocchi.

Nata ad Akron, Ohio, premio Pulitzer per la poesia nel 1987, per la raccolta Thomas and Beulah, nel 1993 e fino al 1995 è stata nominata Poet Laureate of the United States dalla Biblioteca del Congresso, ed è stata il primo Poet Laureate afroamericano e il secondo a ricevere il Pulitzer, a cui si aggiunge, nel 1999, la carica di Special Consultant in Poetry per il bicentenario della Biblioteca del Congresso.

La poesia di Rita Dove, pertanto, non si confina solo nella verticalità delle radici originarie, bensì esplora il mondo come confronto e apertura, abitudine poetica e sostanza di riscatto. L’evidenza ineliminabile della realtà è l’esito della nota fondamentale della musica umana che essa trasmette, la percezione, la visione onirica del layout che scandaglia il prodigio della quotidianità attraverso l’esattezza di una unione: tra memoria e immaginazione, tra svelamento di appartenenza e dettaglio raggiunti dalla proporzione e dal rigore, tra destino singolo e collettivo che congiungono l’ampio raggio dell’elemento storico e la privata memoria, negoziando, come sostiene Pat Righelato, «il suo spazio artistico con la grazia e la determinazione».

Oggi è possibile conoscere la sua poesia magnetica e vertiginosa, con la sua scelta personale, edita da Passigli, dal titolo La scoperta del desiderio. Antologia Personale, curata da Federico Mazzocchi, che ci restituisce la sua baluginante soglia minima e il suo viaggio intenso che insegue il suo filamento immaginativo per comprendere, ricomporre e scoprire la tensione umana all’ultimità, intesa come significato e meraviglia di senso.

Scrive Roberto Galaverni: «La natura del suo impegno è infatti profonda, mai unilaterale. Le sacrosante rivendicazioni di eguaglianza etnica, sociale, sessuale, nei suoi versi ci sono solo perché esiste dapprima la realtà, e non viceversa. Parte dalla realtà, non dal bisogno di riscatto; guarda e riconosce la sacralità della vita, per questo sa cosa sono i diritti dell’uomo e la sua libertà».

La sua raccolta d’esordio, La casa gialla sull’angolo (1980), tende l’arco del vissuto «più domestico e naturale, appunto la “casa gialla sull’angolo”; è in questo laboratorio minimo di emozioni che la poetessa matura la propria percezione identitaria. Un libro d’esordio ma già di confine: la casa è sull’angolo, pronta alla tentazione del viaggio. Sono, infatti, gli anni del primo soggiorno in Germania (a Tubinga, dal 1973 al 1975, per una borsa di studio) e dell’incontro con lo scrittore tedesco Fred Viebahn, che sposerà nel 1979» (F.Mazzocchi).

Il cuore della sua impresa sovrappone due universi alternati e giustapposti, le cui fenditure d’incontro scompigliano le disposizioni immaginative in un contemporanea intimità di radici e di itinerario speculativo, sostanziato nella fantasia concentrata dell’esperienza, e dentro cui l’intensità delle forme espressive dischiude i sipari dell’infanzia, dell’adolescenza e della vita presente attraverso una simbolica geometria espressiva.

La dilatazione espansa della datità della realtà si incardina in un’ellissi cromatica di mete e tinte fino alla deriva, si propone in una trasparenza astratta e figurativa che libera lo spartito dello spirito. «La natura e la mente sono in armoniosa astrazione», afferma Pat Righelato, «persino il profumo dei fiori sarebbe un ingombro a questa trasparenza, rimozione e espansione di spazio. La trascendenza, il senso dello spazio aperto prende posto dentro lo spazio della stanza: «si sono incardinate su farfalle», trasformate ed espanse rimangono ancora incisivamente angolate»:

«Dimostro un teorema e la casa si espande: / le finestre in un balzo si librano sino al soffitto, / il soffitto con un sospiro va alla deriva. / Appena le pareti si sono spogliate di tutto / ma non della trasparenza, l’odore dei garofani / se ne va con loro. Io sono fuori, all’aperto, / e sopra di me le finestre si sono incardinate su farfalle, / dove si congiungono un raggio di sole riluce. / la loro meta è un punto vero e indimostrato».

La non consolata densità memoriale che ricerca la pienezza di un rifugio, l’incontro-scontro di culture, la ferita della geografia urbana come spasmo resiliente di suoni disgraziati e afflitti, destinano la materia vivente della memoria avvoltolata in un’arpionatura di cielo e in una metafora agonale e dettagliata, come «gusci scissi di quarzo e limone», dove non avviene consolazione bensì si rinviene il peso della rievocazione franta in movimento: «Quando il giorno è ancora una lacrima / congelata nel cervello, giungono / da est, code nelle proboscidi, / maldestre ballerine. / Come dir loro che per tutta sera / ho rifiutato ogni consolazione? Cinque / ombrelli, cinque salici, cinque ponti e la loro ombra! / Sollevano le proboscidi, arpionano il cielo / nel quale mi getterei, gusci / scissi di quarzo e limone. Potrei dire / che sono cinque ricordi ma / ciò non sarebbe giusto. / Piuttosto sassolini che cercano rifugio nel cuore. / Mi passano oltre. Io mi volto e li seguo, / e per ore non incontriamo nessun altro» (Cinque elefanti).

L’ultima poesia del volume “Ö”, espressione vocalica dell’esclamazione di stupore e meraviglia, diventa anche la parola che in svedese sta a significare “isola” e che ha «cambiato l’intero vicinato», trasformando e rivelando lo straniamento dell’ordinario in acuta porzione di altrove («Quando alzo lo sguardo, la casa gialla sull’angolo / è un galeone arenato sui fiori. Tutt’intorno / il vento. Persino l’acuto rombare di un trita foglie / potrebbe essere la sirena di una nave / che lambisce banchi di pesci nebulizzati»), sconfinando e aderendo alla parola esatta che freme in un piacere esteso e preciso («il presente porge la sua fronte di vetro al mare / (nel cortile brezze, sparpagliati cardinali rossi)»).

Nel momento più alto della precisione, la misura dà forma allo smisurato: è il rigore artistico a dare vitalità all’esplorazione, è il potere della parola a forgiare il linguaggio, come flusso sospeso che offre una nuova lingua alle cose: «e se, una sera, la casa sull’angolo / decollasse sopra alla palude / né io né il mio vicino / rimarremmo stupiti. A volte / si trova una parola talmente esatta che / freme alla minima spiegazione. / Cominci con una cosa, finisci / con un’altra, e nulla più / come era prima, nemmeno il futuro».

Museo (1983) innerva tutti i fatti della storia in una sorta di bassorilievo raccolto. Qui, sostiene Federico Mazzocchi, «Rita Dove sembra guardare oltre la propria esperienza, ma eventi apparentemente lontani e remoti sono ancora interrogati e in un certo senso “autenticati” dal proprio vissuto».

La storia sommersa dei dettagli minimi fornisce la fibra di un emblema fissato nella coscienza, la narrazione individuale e collettiva che compone il silenzio di una rievocazione museale che, da un lato, salda l’evento in una meticolosa linea di dettaglio, dall’altra delinea figure (Caterina d’Alessandria, Caterina da Siena, il soggetto greco, Shakespeare, Boccaccio e Fiammetta, Nestore, Christian Schad, il pianista Champion Jack Dupree) in condizioni circoscritte, in un ambito figurale ed antico come evidenza di vita, per entrare, simpateticamente, in un perfetto gioco di dialoghi e vitalità.

Anche qui la memoria non si impolvera ma restituisce, con scrupolo, l’esito di un tempo rigenerato, la proiezione temporanea di un germoglio di coscienza e crampo splendente. Il ricordo del sorbetto di uva, che il padre preparava per il Memorial Day, rappresenta la trattenuta reminiscenza che trapela nella sua «luce agglutinata» delle sperdutezze, nel sapore di lavanda e nei cumuli ricoperti d’erba, come il miracolo dell’esistenza gustata che illumina la sua presenza e il suo nitore di gelatina e grazia: «Dopo la grigliata / ecco Papà con il suo capolavoro – / neve vorticante, luce agglutinata. / Lo acclamiamo. La ricetta è / un segreto e lui reprime / un sorriso, col cappello all’insù / così che la falda sembri un’anatra. / Quel mattino galoppammo / tra cumuli ricoperti d’erba / e ad ogni lapide demmo il nome / d’un dente da latte perduto. Ogni cucchiaiata / di sorbetto, più tardi, / è un miracolo, / come sale su un melone che lo rende più dolce. […] Ci sembrò che là, sotto i nostri piedi, / non giacesse nessuno, / ci parve tutto / uno scherzo. Ho provato / a ricordare il sapore, / ma non esiste. / Ora capisco perché / ci tenevi tanto, / padre».

In Prezzemolo (Parsley), viene rievocata la strage di ventimila neri, per ordine del dittatore della Repubblica Dominicana, Rafael Trujillo, perché incapaci di pronunciare la lettera “r” in perejil, la parola spagnola che significa prezzemolo. Rita Dove compie qui un dramma corale con precisione di immagini, alternando le prospettive e i punti di vista: dalla scurrile pronuncia dei carnefici, calati nel loro inquietante abisso di compulsione e di ossessione, alla innocenza delle vittime nella pioggia che trivella i canneti: «Per ogni goccia di sangue / c’è un pappagallo che fa il verso alla primavera. / Fuori dalla palude spunta una canna».

Il simbolismo immaginativo di Rita Dove rivela persino il suo contrario non censurato di sentenza di morte, come afferma Therese Steffen, descrivendo l’abisso delle briciole incolori di una lingua annerita che contrasta con il paesaggio esterno. Il pappagallo e la lacrima sgomenta del generale per un ricordo scuro come luce nera che uccide l’orlo umano disastrato e i dolci spolverati di zucchero su uno strato di pizzo. Così la lingua segue l’immagine, si appropria di orrore e dramma in una percezione originaria, come sostiene Helen Vendler, ma si volta nel punto in cui la poesia «allarga la realtà dal suo interno, trovando la propria misura in questo “senso più largo”, che è ciò che la anima e assieme la lusinga. È così che Rita Dove ci mostra come la durata storica possa essere perfettamente congiunta alla percezione dell’individualità, e come il tempo possa d’improvviso spostarsi su un piano che di certo non lo trascende, ma che ne svela il volto più vero e nascosto» (Federico Mazzocchi).

La vicenda di Thomas e Beulah (1986) viene drammatizzata e riformulata, ricostruendo a intarsi la vita dei nonni materni per rintracciare «l’essenza dell’esistenza e della sopravvivenza dei [propri] nonni, non necessariamente i fatti della loro sopravvivenza. […] Ci si appropria di certi gesti della vita fattuale per rafforzare un senso più largo della verità che non è, strettamente parlando, realtà» (Conversation with Rita Dove, a cura di Ingersoll E. G., University Press of Mississippi, 2003, p. 66).

La fusione del momento lirico con la narrazione più ampia compone il palcoscenico della storia, sotto le diverse angolazioni prospettiche che svolgono il ruolo di collante tra le esperienze. La profondità e la densità simbolica connettono il profumo cromatico di un punto universale a quello interstiziale di una storia, in cui «i personaggi sono tessuto mentre eventi nazionali e internazionali sono la trama» (Moving Through Color: Rita Dove’s Thomas and Beulah in Kentucky Philological Review 14 (1999): 27-31).

La Dove unisce in una consistenza cromatica situazioni e azioni. Il gesto di un singolo diventa matrice universale e contrasto di esistenza: l’oggettualità trasparente, il mandolino e il cappello di paglia, i Negri appoggiati e il falsetto argenteo, il fango e la luna, il giallo delle banane e ancora l’argento crespato di Thomas e la sua sciarpa gialla, la coltre amorosa e perlacea di Beulah, il marrone delle castagne e il verde dell’isola raccolti in una notte torrida di acque ingrossate e dolcemente increspate descrivono la pienezza che si annuncia, nel dramma che scopre il desiderio e genera gesti incompiuti, finchè poi l’alone della poesia entra nella storia modificandola, rischiarandola, e la nota di dolore possa essere lambita.

L’epifania delle promesse d’amore sotto il bouquet in volo, «una prateria di vergini / che intonano Sia l’acqua, sia la luce. / Un respiro profondo, per gettarsi / nel sole, in mezzo ai baci, / sotto uno scroscio di riso / che li acceca entrambi», la quotidianità spolverata, il mattino saturato di bellezza e sogno di occhi, la morte che rannicchia, l’infarto e la guarigione («Lei è in piedi davanti al divano, / docile tra i suoi ninnoli, / nell’aria i segreti come un canto d’uccelli»), la tersità incisa del ricordo destano il tempo delle mancanze, delle figure e delle distanze tragiche e palesano l’improvviso colmo frammentato dell’essere.

L’immaginazione rapida e relazionale di Abbellimenti (1989), in inglese grace notes (le note musicali che abbelliscono e ornano la linea melodica principale), sottolinea l’avvertimento della grazia nella libertà di ogni dettaglio capillare e collezione di attese, di ogni abbellimento sotteso al segreto ritmo nascosto del reale che riporta a una tensione di avvenimento: le stelle singolari e gli alberi come destrieri nella loro linfa ascesa e luminosa, le donne delle isole che planano, percorrendo Parigi e inventando le mete, la sera delle api volate via nella casa di riposo a Gerusalemme, dove nell’aria minima «un ricamo ad ago / con la firma tersa della luna. / Qui nel deserto la domanda non è / Lo vedi? Ma Quanto è lontano? / Gli insediamenti nella valle indossano le loro luci / come armature; c’è il parlottio dei fringuelli / e i miei sandali, / con il loro irrilevante scricchiolio. / Chiunque qui attende, un tempo fu innamorato».

L’amore che pervade e irrora Amore materno (1995), in cui viene trasposta una versione moderna del mito di Demetra e Persefone, coinvolge e fa sospirare il mito in una accezione simbolica e pervasiva, dispone l’autobiografia (la relazione con la figlia Aviva) in una suggestione sobillata di protezione, di libertà e di destino che si compie.

Contrappuntando la memoria rilkiana dei Sonetti a Orfeo, la poetessa realizza il suo periplo di salvazione dei frammenti vitali dalla disintegrazione e dalla violazione: è l’incanto che protegge i giorni, la porta che trasfigura il mito in una contemporanea presenza di fiato e la punteggiatura che allinea le immagini.

La voce parentetica della madre avverte la figlia di andare direttamente a scuola e di non parlare agli sconosciuti ma quando Persefone raccoglie un narciso, vede la terra aprirsi nella sua scaturigine di rapimento e terribile chiarore di abisso, «come un coltello che cala / nella più umile fenditura».

La violenza del trauma («chi può dire / che cosa penetra?»), lo spegnimento del buio, la brillantezza perduta che diventa sintagma sopruso e atterrito splendore di cupa lucentezza («Fu come se / in tutti quegli anni avessi viaggiato / senza un corpo, / finchè le sue mani non mi trovarono – / nulla sarebbe più esistito / all’infuori di noi due: / l’uno che feriva / e l’altra che serviva»), lo spostamento dei punti di vista, lo straniamento di Persefone, nel suo rumore di passi che aleggia varcano il rapporto nucleare di Demetra attraversata da una tensione ricca e inconsolabile, come messe dispersa: «Niente può consolarmi. Potete portare seta / per far sospirare la mia pelle, dispensare rose gialle / come fa qualche vecchio dignitario. / Potete continuare a ripetermi / che sono insostenibile (e questo lo so): / eppure, nulla tramuta l’oro in granoturco, / non vi è nulla di dolce per il dente che vi si frantuma. / Non chiederò l’impossibile; / a camminare si impara camminando. / Col tempo scorderò questo mio traboccare di vuoto, / potrò sorridere ancora a / un uccello, forse, che abbandona il nido – / ma non sarà felicità, / poiché quella, io, l’ho conosciuta» (Demetra in lutto).

Spesso accade che il mito si distenda nella storia sommersa dell’epica quotidiana, come succede in  Sull’autobus con Rosa Parks (1999), in cui viene affrontato «un cameo di personaggi ed eventi» dove, come afferma Federico Mazzocchi, «Rita Dove evidenzia alcuni snodi della battaglia per i diritti civili dei neri, ma a prevalere sono ancora l’invenzione e il dramma; non una prospettiva di rivendicazione, bensì una “meditazione sulla storia e l’individuo”, un approccio che ben inquadra la frase di Simon Schama che apre la sezione eponima: “Tutta la storia è una negoziazione tra familiarità ed estraneità”. Rosa Parks è la donna che nel 1955 rifiutò di cedere il posto a un bianco sull’autobus e perciò fu arrestata, scatenando la reazione della comunità di Martin Luther King. Eppure lo spunto del libro sembra essere di tutt’altro genere: “Siamo sull’autobus con Rosa Parks” è la frase detta per gioco dalla figlia della poetessa durante uno spostamento. Nessuna contraddizione, perché indagare ciò che è fuori dalla storia significa anche per Rita Dove interessarsi di quello sguardo primordiale e innocente in cui la natura non si è ancora fatta cultura».

La sua poesia sembra far affiorare, ancora una volta, due proporzioni e sproporzioni, come se il tempo singolo, la chiamata del passato e il ritorno, i fantasmi, la semplice fiamma di Rosa, il ritratto dell’infanzia al tempo in cui «la terra era nuova / e il paradiso solo un bisbiglio, / al tempo in cui era troppo presto / perché i nomi delle cose attecchissero; / al tempo in cui le più tenui brezze / scioglievano l’estate nell’autunno / quando tutti i pioppi stormivano / dolcemente nei loro ranghi e schieramenti…», possano far rivisitare l’alba di ombre gloriose sulla pagina bianca spalancata, come recita una sua poesia dolce e profonda, poiché «Se non ti guardi indietro, / il futuro non accadrà mai. / Quanto è bello svegliarsi con il sole, / in un prodigo odore di biscotti – / uova e salsicce sulla griglia. / L’intero cielo è tuo / per scriverci sopra, spalancato su una pagina bianca».

È la vita di ogni giorno a chiamare, il taglio del paesaggio intravisto da questo autobus di affetto e storia, con tutte le sue ellissi e dilatazioni, che permette alla minuzia del dettaglio di scoprire il lato segreto e universale della realtà, il suo moto nascosto, la sua appartenenza e il rapporto intensivo tra musica e parola: «Fui piroetta e ghirigoro, / fui filigrana e fiamma. / Come avrei potuto contare le mie benedizioni / quando nemmeno sapevo il loro nome? / Al tempo in cui tutto doveva ancora venire, / la fortuna trapelava da ogni luogo. / Feci la mia promessa al mondo, / e il mondo mi seguì sino a qui».

La scena edenica di Giorno dei morti, tratto da American Smooth (2004), mostra Adamo ed Eva protesi a nominare le voci degli animali e il tempo del paradiso e, da quel momento afferma Mazzocchi «le parole infrangono la “musica” del silenzio, lasciando uomo e donna in una sorta di perenne danza nostalgica»: «Dinanzi a loro, un silenzio / più vasto di tutta la loro ignoranza / si spalancò e in esso si addentrarono / finchè non fu tutto ciò che sapevano. Col tempo / si rintanarono negli affari, / riempiendo il mondo di sospiri – queste creature anonime, / boriose, / le teste inclinate quasi nello sforzo / di carpire le parole di una canzone / cantata tanto tempo fa, in una terra straniera».

L’American Smooth è una forma di ballo liscio, in cui i partner sono liberi di rilasciarsi a vicenda e permettere l’improvvisazione e l’espressione individuale. Pertanto, Rita Dove compie la sua danza di nostalgia e elevazione, impastando e facendo convivere il lirismo con un nuovo ritmo, con una nuova porzione di storia che si palesa, come la nera luna solcata di Hattie McDaniel, prima attrice afroamericana a vincere un Oscar.

La sottile linea dei versi si muove attraverso questa polifonia di  grazia e forma, di indipendenza, di opposizione e di sinuosità morbida di incantesimi, che vengono assorbiti dalla danza, dal volto e dai gesti. Il gesto del ballo si proporziona al gesto poetico, seguendo entrambi la danza delle cose, che si modellano nell’aria del «compiuto volo» e della «repentina e placida / magnificenza / prima che la terra / ci ricordasse chi fossimo e ci riportasse giù».

La Sonata Mulattica (2009), incentrata sulla figura del violinista mulatto George Bridgetower, ricordato per essere il primo esecutore e l’iniziale dedicatario (“il mulatto lunatico”) della Sonata a Kreutzer di Beethoven, il quale revocò e attribuì la dedica a Rodolphe Kreutzer, presumibilmente per un litigio riguardante una donna.

Il lavoro di Rita Dove insegue un’esistenza omessa, scandagliando la piega interiore dell’Altro rimosso e della sua giovinezza esotica («Sono l’Interno Oscuro, / sono l’Altro, misterioso e perduto; / Destino Spaventoso, lacerato da vite e tubero, / predatore satinato che sguscia dietro / alla sua preda spacciata ed ignara»), l’intimità monologante e adunata dei personaggi (come in Haydn lascia Londra: «Chiudo gli occhi / e lo sento, una corda grave pizzicata a intervalli, / che trascina la nostra sentina verso il mare rigonfio – /  un basso continuo che martella il sangue, / che si agita e non è mai pago») e la simbologia animata e vivente del reale attraverso la natura della memoria pubblica e privata, come il ritaglio felpato di verde e la partitura sperperata nel furore dell’Eroica di Beethoven, trascritta nell’aria e inspirata nella brezza del suono puro. Anche qui il gesto umano è il gesto del libro, come l’angolo sbilenco di Billy Waters («sbilenco come un granchio / dolciastro come birra di radice») o il gesto simbolico e vivente della statua di Moro con smeraldi.

Umanizzando e drammatizzando la sua orma materica, l’autrice allinea immagini inconsuete e rarefatte, mescola, nei cinque movimenti, i generi, toccando la precarietà nella nota che predomina, e creando un altro tempo nel tempo apre di continuo crepe ritmiche ai suoni dimenticati e, infine, adesca l’indicibile in una collezione di grazia mirata di sillabe primitive. Esatte.

 

Rita Dove - la scoperta del desiderioDOVE R., La scoperta del desiderio. Antologia personale, a cura di Federico Mazzocchi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2015, pp.157, Euro 18,50.

 

 

 

 

DOVE R., La scoperta del desiderio. Antologia personale, a cura di Federico Mazzocchi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2015.

The Underside of the Story: A Conversation with Rita Dove with Stan Sanvel Rubin and Judith Kitchen (1985), in Ingersoll E. G., Kitchen J., Rubin S.S., The Post-Confessionals: Conversations with American Poets in the Eighties, Fairleigh Dickinson Press Rutherford 1989.

Moving Through Color: Rita Dove’s Thomas and Beulah in «Kentucky Philological Review» 14 (1999): 27-31.

Conversation with Rita Dove, a cura di Ingersoll E. G., University Press of Mississippi, 2003.

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GALAVERNI R., Così Dove porta al cuore del mondo, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 17 gennaio 2016.

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Thomas Merton: il poliedro del silenzio

di Andrea Galgano 25 ottobre 2015

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Thomas-Merton
Thomas Merton: il poliedro del silenzio

La poesia di Thomas Merton (1915-1968) significa sfiorare la parola scritta nella modalità, come scrive Bianca Garavelli, «più naturale per esprimere emozione e pensiero» e la vitalità dei suoi versi

«è commovente: davvero trasmettono un profondo amore per la vita, e una gioia nel descriverla, capaci di suscitare ispirazione. Una sorta di contagio benefico che induce ad aprirsi alla bellezza, anche attraverso le realtà più tristi o cupe. Tutte le immagini del mondo sembrano fondersi come onde di un unico mare, ogni istante assume la consistenza preziosa di una gemma, il respiro della creazione diventa musica. […] si intuisce come la poesia di Merton tenda a una fluida dimensione poematica, infusa dalla tradizione dei Salmi: ogni movimento umano, ogni frutto, ogni oggetto (le tonache dei confratelli, una bufera, una quaglia) diventa la nota di una sinfonia perenne, che confluisce in una grande preghiera corale, di cui la poesia è anticipazione. Nella duttile sintesi dei versi, echeggiano le intuizioni di un’anima che nel silenzio e nella solitudine ritrova la pienezza, si abbandona all’abbraccio di Dio».

Pertanto, la poesia rappresenta il movimento di una trasformazione spirituale e propedeutica alla preghiera e agli interrogativi del vivere, in tutta l’ultimità estrema, e come «accesso a una “visione altra” della realtà, la quale supera il materialismo, ma che a un certo punto l’uomo di fede deve superare abbandonandosi all’azione di Dio in lui. Nell’artista, invece, tende a prevalere un atteggiamento più attivo, tipico dell’esercizio della creatività» (Christian Albini): «Segrete / Parole vegetali, / Acqua non scritta, / Zero quotidiano […] O pace, benedici questo luogo folle: / Silenzio che non tramonta / Ama l’inverno quando la pianta tace».
Recentemente Papa Francesco, nel viaggio apostolico negli Stati Uniti, ha ricordato Thomas Merton, nel celebre discorso al Congresso del 24 settembre, assieme a Lincoln, Martin Luther King e Dorothy Day:

«Egli resta una fonte di ispirazione spirituale e una guida per molte persone. Nella sua autobiografia scrisse: «Sono venuto nel mondo. Libero per natura, immagine di Dio, ero tuttavia prigioniero della mia stessa violenza e del mio egoismo, a immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il ritratto dell’Inferno, pieno di uomini come me, che amano Dio, eppure lo odiano; nati per amarlo, ma che vivono nella paura di disperati e contraddittori desideri». Merton era anzitutto uomo di preghiera, un pensatore che ha sfidato le certezze di questo tempo e ha aperto nuovi orizzonti per le anime e per la Chiesa. Egli fu anche uomo di dialogo, un promotore di pace tra popoli e religioni».

La parola che sagoma e ricerca, il tempio dell’anima come passaggio e transito verso un respiro che sia cifra d’Eterno e ressa inquieta, destina la sua profondità a ricercare Dio in tutte le sfumature della realtà. Scrive Marco Roncalli:

«Merton è stato soprattutto un monaco inquieto, ma che ha trasformato l’eremo, con la penna, in un pulpito senza confini, e, con la preghiera, in un tabernacolo dove custodire insieme all’Eucarestia ogni fratello; un trappista difensore della vita monastica eremitica e comunitaria, convinto di «tener viva nel mondo moderno l’esperienza contemplativa e mantenere aperta per l’uomo tecnologico dei nostri giorni la possibilità di recuperare l’integrità della sua interiorità più profonda». Sino a trasformare la sua stessa parabola in un racconto incessante della ricerca di Dio, vivendola tra solitudine e comunione, contemplazione e azione».

La tessitura mistica della sua trama poetica diviene l’esito di una stanza interiore che viene ridestata da una vibrazione e da una scoperta che riconcilia. Nato nel 1915 in Francia da genitori artisti, da madre statunitense e padre neozelandese, si trasferisce a Douglaston, vicino New York nel 1916.
Dopo la perdita della madre, ammalatasi e morta di cancro nel 1921, si trasferisce con il padre (morirà nel 1931 di tumore) alle Bermuda e poi di nuovo in Francia, vive la sua esistenza di tormento e inquietudine, pacificandosi dapprima con la conversione nel 1938 al Cattolicesimo e poi nel 1947 pronunciando i voti solenni nell’abbazia trappista di Nostra Signora di Gethsemani, nel Kentucky: «Incominciai a ridere con la bocca nella polvere: senza sapere come e perché, avevo compiuto davvero la cosa giusta, e anche una cosa magnifica».
Nel 19 marzo del 1958, Merton, all’epoca maestro dei novizi del suo monastero, annota nel suo diario: «Fui d’un tratto preso dall’idea che io amavo tutta quella gente, che mi apparteneva come io appartenevo a loro, che non potevamo essere estraniati gli uni dagli altri anche se di razze diverse».
Commenta Enzo Bianchi:

«È lo stupore di scoprirsi appartenente all’unica umanità, senza esenzioni e privilegi, uno stupore che spazza via l’illusione che emettendo i voti religiosi si diventi una creatura di diversa specie, pseudo-angeli, “uomini spirituali”, uomini di vita interiore. […] Ed è lo stupore […] dell’ateo libertino che resta incantato dagli scritti di Etienne Gilson e Jacques Maritain e, dopo pochi mesi di frequentazione della chiesa del Corpus Christi a New York, viene battezzato. È lo stupore del giovane docente universitario che, solo tre anni dopo il battesimo, scopre un’abbazia trappista nel Kentucky rurale e chiede di esservi ammesso come novizio. Sarà ancora lo stupore del monaco provato che cerca un’impossibile conciliazione tra il voto di obbedienza a una comunità cenobitica e il crescente desiderio di una solitudine eremitica. Ma anche lo stupore di chi scopre che, man mano che si ritira dalla frequentazione degli altri – confratelli, amici, frequentatori del monastero – sente crescere in sé una solidarietà cosmica, un farsi carico delle speranze e delle sofferenze della propria generazione».

Il poeta sente vibrare lo stupore, la riconciliazione che assona, la contemplazione che abbraccia il reale come segno, come crittografia sacra che ricerca, senza risparmio e nello spasmo, il compimento, l’abbraccio, il senso nascosto e vitale e la scena in cui il mondo accade dove la terra raccoglie il cielo: «Vento e una quaglia / E il sole pomeridiano. / Cessando di interrogare il sole / Sono divenuto luce, / Uccello e vento. / Le mie foglie cantano. / Sono terra, terra […] Quando avevo un’anima, / quando ardevo / quando questa valle era / Solo aria fresca / Hai pronunciato il mio nome / Chiamando il Tuo silenzio».
Scrive Christian Albini: «Merton contempla i boschi, gli animali, gli uccelli in volo, la notte, ma anche i grattacieli e la vita sfrenata delle città, le guerre, i disordini razziali e sente vibrare in tutte queste realtà il soffio dello Spirito, come presenza o come appello. Invece che metterlo a tacere, cerca di lasciarlo parlare, prestandogli la propria voce».
E questo sentimento inquieto a lasciare, in tutte le sue dieci raccolte di poesia, lo stampo di una Presenza che pervade mito e sogno, il silenzio (Tutti questi alberi / Così trasformati / Stolti / Si chinano adoranti / Le colline dormono / In trapunte ghiacciate / Mi immergo fino al ginocchio nel silenzio / Dove la bufera solleva nubi e punge), il dolore («Poiché tra le macerie del tuo aprile Cristo giace ammazzato, / E piange tra le rovine della mia primavera: / L’oro delle Sue lacrime cadrà / Nella tua mano debole e abbandonata, / E ti riscatterà a questa terra: / Il silenzio delle Sue lacrime cadrà / Come campane sulla tomba straniera. / Ascoltale e vieni: ti reclamano a casa») e le bufere precoci, l’amore prima dell’alba come nascita e emanazione («E quando le loro voci lucenti, linde come l’estate, / Risuonano, come campane di chiesa sul campo, / Cento Luteri polverosi risorgono dai morti, incuranti, / Scrutano l’orizzonte cercando la smorfia sdentata / delle fabbriche, / E annaspano, nel grano verde, / Verso i richiami sonori del treno merci dell’ovest»), la protesta e l’ironia, il disegno delle linee che chiedono respiro al mondo creato e alle particelle che lo compongono: «Quando nessuno ascolta / Gli alberi quieti / Quando nessuno nota / Il sole nella pozza / Dove nessuno sente / La prima goccia di pioggia / O vede l’ultima stella / O accoglie il primo mattino / Di un mondo smisurato / Dove inizia la pace e termina la rabbia: / Un uccello, immobile, / Guarda l’opera di Dio: / Una foglia che vortica, / Due fiori che cadono, / Dieci cerchi nello stagno. / Una nuvola sulla collina, / due ombre nella valle / E la luce colpisce la casa».
Commenta Christian Albini: «In coerenza con la logica dell’incarnazione, la contemplazione, in quanto consapevolezza della vita autentica, può essere raggiunta solo nell’umanità, non estraniandosi da essa. La poesia, perciò, può consentire di vedere il mondo intero e le vicende della vita come sacramenti, segni di Dio e del suo amore all’opera nella nostra esistenza».
I luoghi, allora, diventano corali dipinti, perforano l’aria del monastero che diventa città di Dio in una minuta di destino e compimento, solleva la panoramica di un’appartenenza alla variegata bellezza che circonda ed entra in comunione, in quanto segno intuito e vissuto della mano di Dio.
Il monaco, come Elia, si mette in cammino e l’io si risveglia in tutte le sue urgenze elementari. È la sua stanza il punto di sguardo. Ma è una stanza che pronuncia la sua appartenenza e la sua dipendenza all’infinita Genesi, a Dio che si incarna e tocca ogni infinitesimo umano, che si introduce in modo non prevedibile e non previsto, facendo luce sulla verità di noi stessi: «Il seme, come ho detto, / Si cela nella zolla ghiacciata. / Modellate dai fiumi, le pietre / Non se ne curano né lo sentiranno mai, / E coprono la terra coltivata. / Il seme, per natura, aspetta di crescere e dare / Frutto. Per questo non è solo / Come le pietre, o le cose inanimate: / Voglio dire, solo per natura, / O solo per sempre».
La vera ascesi non è elevazione sulle dinamiche mondane bensì entra in comunione: con l’umano unico e irripetibile. Ed ecco che la poesia diventa umana questione e preghiera, si fa religiosa, perché la realtà lo, lo annuncia ogni giorno qui e ora silenziosamente: «Io sono l’ora stabilita, / L’«adesso» che taglia / Il tempo come lama. / Sono il lampo inatteso / Oltre il «sì», oltre il «no», / Il presagio della Parola di Dio. / Segui la mia strada, ti porterò / Verso soli dai capelli d’oro, / Logos e musica, gioie senza colpa, / Scevre di domande / E al di là delle risposte: / Poiché io, la Solitudine, sono il tuo sé / Io, il Nulla, sono il tuo Tutto. / Io, il Silenzio, sono il tuo Amen!».
Afferma Albini, «Non perché sia uno scrivere riguardante questioni religiose, ma nel senso di essere una scrittura che è in sé un’attività religiosa, dal momento che produce parole mediante le quali Dio agisce, anche indipendentemente dalla consapevolezza e dall’intenzione del poeta. Sono “parole per Dio” nella misura in cui ci liberano dalle prigioni create dalla nostra mente o dalla società, risvegliandoci alla realtà autentica».
Questa poesia costruita nel silenzio compone le sue fiamme di visione, presentendo e vivendo ciò che accade, prefigurando, profeticamente, ogni crollo e apocalisse, come tensione e vertice di ogni genialità: «Come sono state distrutte, come sono crollate / quelle grandi e possenti torri di ghiaccio e d’ acciaio / fuse da quale terrore? / […] Quali fuochi, quali luci hanno smembrato, / nella collera bianca della loro accusa / quelle torri d’argento e d’ acciaio/ colpite da un cielo vendicatore? […] Le ceneri delle torri distrutte si mescolano ancora alle volute del fumo / velando le tue esequie nella loro bruma; e scrivono il tuo epitaffio di braci: / “Questa fu una città/ che si vestiva di biglietti di banca”».

Scrive, infatti, Luigi Giussani:

«Come mai può accadere quell’avvenimento? Come mai possiamo essere provocati dall’urto di quell’incontro – per cui la vita s’incomincia a illuminare, un baluginare sia pur crepuscolare s’insinua nel nostro orizzonte, e insorge un desiderio di capire di più ciò che ci si è fatto incontro, di esserne più profondamente investiti e di seguirlo? Come mai l’avvenimento accade? Poiché non c’è nessun precedente che lo possa far prevedere; ma accade. Se accade, ha una causa. Essa non si lascia tuttavia includere nell’elenco che nostre analisi di accadimenti antecedenti possono formulare: è qualcosa d’altro. Qual è dunque la causa dell’avvenimento, la causa per cui quell’avvenimento diventa un incontro con una presenza eccezionale, che poi riconosceremo coscientemente divina, cui poi diremo: «Tu, Cristo» – poi, non allora? Nel momento dell’incontro essa è infatti una realtà che semplicemente ci colpisce e ci muove per la sua diversità, perché chi da quell’avvenimento è già stato colpito, e partecipa dunque della sua comunicazione nel mondo, ha una faccia con degli aspetti diversi: ha criteri diversi, una emotività e una affettività diversa, un impeto di gratuità ignoto, una capacità di impegno strana («Chi te lo fa fare?» gli si direbbe guardandolo). La causa di quell’avvenimento, di quell’incontro, e del movimento che suscita in noi, si chiama, nel linguaggio cristiano, Spirito Santo. Si dice Spirito l’energia con cui il mistero di Dio opera nel mondo che ha creato, lo plasma e lo piega, come un grande fiume, verso la sua foce – che è il mistero stesso di Dio. Questa energia viene nel mondo e lo penetra infinitamente di più da quando quell’Uomo cui lo Spirito stesso ha dato vita («… concepì per opera dello Spirito Santo») è morto ed è risorto».

E l’avvenimento allora provoca, insorge, destina il sangue a una domanda di eternità non preclusa, e siamo chiamati a sperimentare questa resurrezione discreta, come crepa di dimore intime e cenno pregato, ultimo indizio di una gioia cara che rende puro i cieli come sorgente.

merton
THOMAS MERTON, Che la mia sete diventi sorgente, Àncora, Milano 2015, pp.96, Euro 12,00.

MERTON T., Che la mia sete diventi sorgente, a cura di Christian Albini, traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, Àncora, Milano 2015.
AA.VV., The Literary Essays of Thomas Merton, a cura di Patrick Hart, New Directions, New York 1985.
BIANCHI E., Thomas Merton, lo stupore della comunione con gli altri, in “La Repubblica”, 1 febbraio 2015.
CASOTTI F., La poesia di Thomas Merton, in «Aevum», anno 39, Fasc. 3/4 (Maggio-Agosto 1965), pp. 370-378.
GARAVELLI B., Merton. Il respiro dei versi, in “Avvenire”, 2 ottobre 2015.
GIUSSANI L., Appunti da una conversazione con un gruppo di universitari, La Thuile, agosto 1992. (http://www.tracce.it/?id=338&id_n=5062)
MEDAIL C., Merton, il profeta che vide crollare le torri di New York, in “Corriere della Sera”, 20 MARZO 2002.
O’CONNELL P. F., «The Vision of Poetry», in W.H. Shannon – C.M. Bochen – P.F. O’Connell, The Thomas Merton Encyclopedia, Orbis Book, Maryknoll 2002, pp. 360-363.
PAPA FRANCESCO, Discorso all’assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti D’America, Washington, D.C., 24 settembre 2015. (http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/september/documents/papa-francesco_20150924_usa-us-congress.html)
RONCALLI M., Merton. Viaggio alla ricerca dell’uomo, in “Avvenire”, 28 gennaio 2015.
WILLIAMS R., Azione e contemplazione. Incontri con Thomas Merton, Qiqajon, Bose 2013.

Le immagini di Giuseppe Panella

di Andrea Galgano 8 ottobre 2014

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9788884102027Scrive Andrej Tarkovskij:

«L’immagine artistica è un’immagine che assicura a se stessa il proprio sviluppo, la propria prospettiva storica. È un seme, un organismo vivente in evoluzione. È il simbolo della vita, ma è diversa dalla vita stessa. La vita include in sé la morte. L’immagine della vita o la esclude oppure la considera come l’unica possibilità di affermare la vita. L’immagine artistica è di per sé espressione della speranza, grido della fede, e ciò è vero indipendentemente da cosa essa esprima, foss’anche la perdizione dell’uomo. L’atto creativo è già di per sé una negazione della morte. Ne consegue che esso è intrinsecamente ottimista, anche se in ultima analisi l’artista è una figura tragica. Per questo non possono esserci artisti ottimisti e artisti pessimisti. Possono esserci solo il talento e la mediocrità» (da Martirologio-Diari 1970-1986).

Il poderoso saggio di Giuseppe Panella, docente di Estetica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, edito dalla fiorentina Clinamen, indaga, in nome dell’immagine, descritta o reale o mentale, lo stretto rapporto tra le discipline volte alla formulazione del discorso, alle imagines memoriae, al legame tra visualizzazione e composizione.
La reale incompatibilità tra parole e immagini, partite dall’analisi di Foucault, punta all’origine della comunicazione, alla sua versatilità, e all’atto linguistico: «La poesia è, dunque», scrive lo studioso, «lo spazio in cui è possibile collegare immagini e parole, in cui si esalta e si definisce l’esperienza dell’identità coniugata attraverso le differenze dei suoi segni (o viceversa), il luogo in cui le similitudini nascoste all’interno dello strato roccioso dell’oblio emergono grazie all’azione corrosiva di succhi poetici sotterraneamente distillati e operanti in segreto» (p.16).
In un saggio, dal titolo L’arte della memoria, Francis Yates, soffermandosi sull’atavica e sostanziale uguaglianza tra poesia e pittura, confluita nella formula oraziana ut pictura poësis, così sintetizzava: «La teoria dell’equazione poesia-pittura poggia anch’essa sulla supremazia del senso della vista: il poeta e il pittore pensano entrambi per immagini, che l’uno esprime poetando, l’altro dipingendo. Le sottili e sfuggenti relazioni con le altre arti che percorrono tutta la storia dell’arte della memoria sono così già presenti nella fonte leggendaria, nei racconti attorno a Simonide, che vide poesia, pittura e mnemonica in termini di intensa visualizzazione».
La stuporosa fascinazione di Walt Whitman, che inaugura i prodromi della modernità, apre il catalogo del mondo alla sua composizione e le immagini «di cui il mondo esterno è composto si incontrano e si scontrano con le idee interiorizzate e introiettate in profondità nella mente del poeta, fino a realizzare un cortocircuito lirico continuo e travolgente che produce alla fine l’emergenza della poesia. […] Il poeta non può fare a meno del contatto con la materia della sua scrittura e con la concretezza dell’esperienza di vita che ne è il sostrato imprescindibile».
L’immagine illuminata di Whitman si staglia ed emerge come trionfo visibile e come elemento dinamico, con cui la poesia si appropria della pienezza delle immagini per compiersi e addentrarsi nel magma della realtà.
Laddove Hopkins fa ondeggiare la fresca profondità del reale con l’imperiosa potenza delle sue epifanie, «il gradiente sonoro delle parole utilizzate si fonde così con la descrizione dell’evento facendo emergere dallo sfondo indistinto della natura la forma privilegiata del canto libero» (p.26).
La raccolta delle immagini dà corpo alla sua campitura, al moto composito che si esprime ed emerge nella sua fosforescenza.
Il saggio percorre le linee di un mosaico che diventa preludio. Se D’Annunzio ha espresso la carnalità umbratile della parola e il suo fuoco, la totalizzazione (e tragicità) dell’io, l’incoscienza dello stile: è la dischiusura delle immagini a far nascere la germinazione poetica, Joyce percorre la selezione e collezione epifanica, come coniugazioni del Sublime «con l’idea catartica (e , quindi, aristotelica) della scrittura come espressione di “momenti di essere” che solo la loro (apparente) riuscita e perfezione potranno redimere dall’oblio e salvarli dall’essere confinati nella stanza buia della dimenticanza» (p.35).
Lo spostamento dell’imagismo di Pound, nato dagli stimoli teorici di Thomas E.Hulme, tocca il culmine breve dell’esattezza e della densità nuova del linguaggio dell’immagine («ciò che presenta un complesso intellettuale ed emotivo in un istante di tempo»), che sovrappone i livelli simbolici e letterali, inventando un verticale superamento visuale, un’ appropriazione del flusso metamorfico dell’esistente, e in questa ricerca «di valorizzazione della parola come “forma naturale” dell’immagine, il poeta americano cercava di liberarsi dal carico “filologistico” che aveva caratterizzato talune sue prime prove […] e di produrre un soffio rivitalizzante […]» (p.43).
Con Apollinaire la poesia inizia a farsi allusione ed espansione, condensa la sua lampante manifestazione in una scena visiva che «proprio per questo motivo e proprio perché accetta l’idea della fine della comunicazione artistica come evento esclusivamente verbale, rappresenta una forma ulteriore dell’utilizzazione delle immagini come parole e al posto delle parole».
Nei suoi successivi passaggi il saggio si snoda in tre direttive, che mettono a fuoco le analisi delle immagini all’interno del dispositivo di scrittura e di interpretazione critica.
L’istanza fenomenologica di Bachelard, analizzata nel volume, fa luce sullo spazio immaginato e sullo spazio in figura dell’immagine. Le fascinazioni (rêveries) elementari approdano al superamento della realtà che, se da un lato, sconfinano nell’esperienza onirica, dall’altro, diventano fenomenologia cosciente.
Bachelard, pertanto, come scrive Giuseppe Panella, «cerca di riscontrare (e di ritrovare di conseguenza) nell’azione dell’inconscio i segni più significativi ancora accessibili del loro processo di trasformazione in registro consapevole delle intuizioni e delle sospensioni di immagini che popolano la pagina scritta. Le immagini si fanno realtà nel momento in cui vengono riconosciute come tali» (p.62).
L’Arte come perfetta sintesi di “intuizione”ed “espressione”, come prospettato da Benedetto Croce, si richiama alla vichiana logica poetica, saldamente ancorata all’autonomia e alla fantasia dei suoi lumi sparsi.
Croce fa coincidere l’Arte con la conoscenza intuitiva, l’Armonia come suo segno distintivo, e conseguentemente, «ciò che è libero dai condizionamenti (concettuali e/o concreti) della pratica artistica perché è essa stessa una delle forme “autentiche”della pratica […] Certamente, la poesia non è solo espressione lirica e non è soltanto arte o letteratura, non è pura forma né grossolano contenuto, non è oggetto dell’attività singola di un singolo staccato dal proprio contesto storico, non è eternità congelata nell’atto dell’ispirazione come una sorta di folgorazione in decrittabile e/o ineffabile, non è solo tecnica o poiesis […], non è rilettura “in pensieri” del proprio Zeitgeist né anticipazione dello stesso, non è attività concettuale né pura e semplice espansione dell’Io in forme prescritte dalla tradizione o dalla convenzione letteraria o dal gusto o dal mercato delle lettere» (p.76).
L’indagine sulla traccia filologica di Contini prima, e Muscetta, poi, si sofferma sul rapporto della filologia come lettura, riscoperta e trasmissione di segni e studio di strutture.
Lo «scandaglio genetico» dell’opera, come nel caso della riscoperta dei Sonetti di Belli, mira a ricostruire il fulcro dei suoi passaggi e delle sue peculiarità espressive, attraverso l’impegno storiografico, e la sua forza antipopolare.
Il rapporto tra immagini e parole, nei diversi momenti della storia letteraria tra fine Ottocento e Novecento e nelle ipostasi delle avanguardie, analizza il lavoro scavato (direbbe Heaney) della parola poetica, come un limite sovrabbondante, che in esso trova forza e abbandono, capace di presentare la provocazione della realtà, la sua meraviglia e il suo assurdo.
Persino il silenzio diventa, come nel caso di Rimbaud, compiutezza e conclusione: «La poesia realizzata in termini di pura rappresentazione trova proprio nelle sue immagini la sua ultima metamorfosi in un diverso progetto di vita: dalla poesia si passa all’amministrazione coloniale e senza soluzione di continuità. Dalla lirica come rappresentazione “colorata “ del mondo (è il caso “pittorico” di Voyelles) non si può che giungere al mondo come caleidoscopio di colori, quale scomposta asimmetria di frammenti poetici che non si possono afferrare se non per un attimo» (p.131).
Il sogno e l’epifania poetica della città, poi, condensano il teatro di una totalizzante e suprema arsi immaginale, in cui rapportarsi al proprio inconscio (Aragon), all’inventario della sua topografi (Benjamin), al suo moderno teatro (Schnitzler), alla non località inestesa dei suoi passaggi e paesaggi e infine ai simulacri forgiati dalla sua identità (il dandy).
Il volume studia tutti gli scenari e i sentieri possibili: dal paradosso come costruzione della soggettività fino al suo rovesciamento nel feticismo che pertiene alle fondamenta della prospettiva borghese.
Paul Klee scrisse che il compito dell’arte non è riprodurre il visibile ma rendere visibile l’invisibile. Ciò che noi vediamo materialmente, non è detto che sia ciò che è oggetto di attrattiva, come testimonia l’incompiutezza della Pietà Rondanini, che esprime questo doppio movimento: usa il visibile come porta d’accesso all’invisibile e così realizza il Bello.
Il libro di Giuseppe Panella condensa nella sua pienezza d’insieme, non soltanto il rapporto segreto della parola con l’immagine, ma permette di vivere appieno il fascino della relazione e dell’ermeneutica, che sono traccia, ineludibile, di un canto mai svanito.
PANELLA G., Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, Clinamen, Firenze 2014, Euro 49,00.

La soglia di Susan Stewart

di Andrea Galgano             25 settembre 2014

leggi in pdf LA SOGLIA DI SUSAN STEWART

Susan Stewart Poet Writer Critic

Susan Stewart (1952) esprime la vitale vertigine di un nutrimento che attinge dal repertorio dei classici latini e greci e dalla coltre concettuale sedimentata dei poeti metafisici inglesi del Seicento, ma manifesta una pura e sostanziale ricerca espressiva che si sporge sulla conoscibilità del reale, sulla sua calorosa meraviglia e, infine, sulla concretezza che si fa immagine primordiale ed eco inscindibile.
Poetessa, membro dell’American Academy of Arts and Sciences, critico, traduttrice (ha tradotto l’Andromaca di Euripide), insegna storia della poesia ed estetica presso l’università di Princeton e nel 2005 ha ottenuto il titolo di Chancellor dall’Accademy of American Poets.
Il suo sguardo si afferma nella densità dell’essere. In essa la realtà emerge nella sua datità, nella sfrontatezza di una cosalità mai ridotta, ma vibrante nella profondità e nell’intensità di una «ambiguità instabile tra le profondità intime dello’io e, d’altra parte, il fondo misterioso della realtà che ci circonda, fino ad esiti solo apparentemente paradossali» (Antonio Spadaro):

«Lascia che ti parli del mio meraviglioso dio, di come si nasconda negli esagoni / delle api, di come la siccità che strofina le sue mani coriacee / sopra il mondo sia una sua creazione, così come la pioggia nei minuti silenziosi / che lasciano soltanto pensieri di pioggia. / Un atomo che lavora e lavora, un atomo che lavora nella notte / più profonda, poi esplode come la stella più lontana, molto / più piccolo di una puntura di spillo, molto più piccolo di uno zero che non ha / nessun desiderio, nessun desiderio verso di noi».

Scrive Roberto Mussapi:

«La Stewart […] restituisce un binomio di felicità visionaria e potenza rivelante su cui si innesta innanzitutto la poesia americana, e una dimensione metafisica, di origine europea, dove metafisico non indica una astratta speculazione nelle sfere celesti, ma la rappresentazione di realtà invisibili e incorporee attraverso immagini concrete, azioni, insomma la traduzione dell’ invisibile in visibile che è uno dei sogni e degli impulsi originari che muovono ogni artista. Come molti poeti americani del passato, è legata al mondo presocratico, vale a dire al pensiero greco delle origini, quando filosofia, cioè ragionamento logico, e poema, cioè cosmologia, canto della natura, si intersecano e a volte si fondono. Paesaggi, luoghi e figure elementari di un mondo percepito nel suo nascere: foresta, stelle, acqua, deserto, prato, lampo, rosa. Il mondo delle cose prime, rivelato dallo stupore del poeta che quanto più è immediato tanto è sapiente e sapienziale: «Io mi addormento in onore della pioggia, / in onore dell’inquietudine delle foglie, / e un gran fremito passa / sopra la terra; è la musica / del nostro dimenticare».

E ancora: «In Susan Stewart il mondo quotidiano, in cui la natura non è marginale ma onnipresente, si accende di lampeggianti rivelazioni, la vita è svelata in piccoli miracoli ininterrotti, continuamente celati nel mistero, cifra principe della realtà. Una poesia della soglia, continuamente al confine tra umano e divino, visione e meditazione filosofica. Immaginazione e pensiero trovano nella sua opera una formulazione nuova di un binomio cardinale della poesia d’Occidente». Pertanto il pieno brusio del suo magma cerca l’oscurità delle superfici, la sorgente primordiale e primaria di un luogo, «una fila di alberi, una fila di stelle. / Cercalo dunque: troverai che potresti perdere / il senso della profondità, / una foglia, un fascio / di carta, una federa / o una faccia / a forma di cuore, / un sibilo che infuria, / come i venti, come / la morte, in un groviglio / là nei rami».

È una danza avvinta che incontra i libri del buio («Buia la stella / fonda nel pozzo, / luminosa nell’acqua») e il silenzio muschioso, per premere contro l’oscurità, «andando più a fondo nell’acqua, nero nella nerezza, / la fonte dell’acqua che aspetta là, lontana sotto l’acqua / e l’acqua nera come carbone, / nera come qualsiasi cosa estratta dalla terra; / allora portala alla luce del giorno e schiarirà / ancora, trasparente nel bicchiere trasparente, invisibile / sulle mani, benedizione, / che scende, felicità che balena».
La grammatica delle sue linee ha radure luminose e sospensioni di anima. Il verso frastagliato, dislocato e franto condensa le punte iconiche della riflessione, della percezione del reale e del suo contrappunto esperienziale, quest’ultimo forgiato dall’intuizione e dall’immaginazione.
Il risveglio celebra la soglia dei contorni e la loro nitidezza condivisa, laddove la scena invernale e brinosa porge il suo nero solco impenetrabile.
Il dopo-immagine ghiacciato raccoglie il volo improvviso e nitido che precipita e discende, come un empito di fiato che unisce sacro e profano, nel suo sibilo che infuria, lasciando l’impronta di una notizia splendente e impossibile: eppure «la verità rimane / che non posso sapere solo quel che ho visto e se / viene ogni notte, ogni sogno, ogni stella o per niente». Il gufo, che in questo poema è, allo stesso tempo, invocazione, notturno ed esplorazione, – ossia «troubled-recognition topos», secondo la felice definizione di Randall Couch, diventa, come commenta Maria Cristina Biggio, «nell’istante della poesia e per sempre, meravigliosa creatura che sposa il paesaggio e redime il tempo-di-ora bloccato nell’attesa di fare “un sogno invernale”».
L’abbandono e la forza epistemologica della mobilita la sua ricerca di significato, si compromette con l’allungamento delle ombre e con la profondità della indeterminatezza dello slittamento della percezione visiva. Essa diventa, pertanto, il luogo della creatività e della fantasia, come finalità della forma.
In un’intervista rilasciata a Roberto Mussapi, su “Avvenire”, del 28 dicembre 2013, Susan Stewart traccia la sua vitale e meravigliosa stele poetica, affermando che

«La bellezza di ogni poesia è costruita sulla musica dei suoi suoni e intervalli misurati, sulla vividezza delle immagini, l’immediatezza e la tessitura del suo eloquio, e la sua evocazione di presenza. Le poesie sono vive, e la loro vita è più lunga di ogni nostra vita individuale. Il pensiero poetico è capiente, perché esalta non solo tutti i nostri poteri mentali (la ragione, l’immaginazione, le memoria e l’emozione insieme), ma anche i nostri ritmi fisici, il battito dei nostri cuori, il ritmo del respiro, gli occhi che si chiudono o si aprono. Nel leggere e scrivere poesia noi portiamo il nostro intero se stesso a significati condivisi. Come forma d’arte, la poesia ha valore in se stessa, il linguaggio attraverso il quale la poesia si compie non si esaurisce nell’esperienza o nei desideri del momento. No, la poesia vive oltre il contesto del suo farsi e la sua storia procede».

L’orbita immaginale e il colombario della sua anima lucente di buio fiutano e tentano di appropriarsi della vita piena e della sua realizzazione, come l’atto di fede che arreda la transizione e la liminalità. Esse interrogano, come scrive M. C. Biggio,

«l’idea di trascendenza (la luce, il volo, gli uccelli, le ali, le api, il vento, il “fuoco vivente”, il divino, la fuga, il paradiso, la bellezza lirica, il vorticare) e la realtà della discesa (l’oscurità, la cenere, il bruciare, la caducità, il radicato, il sotterraneo, il mondo fisico e i suoi elementi, ecc.). Sono motivi costanti anche la riflessione sul farsi e sulla forza epistemologica dell’invenzione poetica – capace di estendere la nostra imperfetta conoscenza del mondo e di tracciare una nuova mappa di mondi possibili rivelando il sacro e il misterioso di realtà trasfigurate dall’arte – e sull’ossimorica potenza della “memoria umana”, intesa come abisso, fondo incommensurabile in cui il tempo si fa quasi infinito nella vita breve e mortale dell’uomo che la possiede. Ad essi si accompagna l’interesse di Stewart per la perduta condizione edenica dopo la cacciata dei nostri mitici progenitori: il tema della caduta offre alla sua poesia la possibilità di farsi struggente ripetizione del giardino e, nel contempo, lamento dell’esperienza profondamente umana del limite, senza che in essa vengano mai meno né la capacità di confrontarsi con la tragedia e il male come parti del tutto, né la speranza e lo stupore per l’incommensurabilità dell’esistenza».

La poesia cerca l’ineffabile tangibilità e percepisce l’attesa e la lotta contro le soglie tenebre, l’osmosi dei passaggi, l’enigma, l’alchimia del linguaggio, per folleggiare «con il nonsense e l’ironia (intesa in senso romantico e in quello socratico di dissimulazione nella struttura discorsiva) per sottolineare il dubbio e l’incertezza che l’accompagnano, e che usa il mito come prezioso collante alle interrogazioni della cangiante e multiforme realtà. Per poter infine dire, al di là di quinte e sipari e con la più vasta gamma possibile di domini del reale, il favoloso mondo sognato in cui «nessuna morte è naturale» (Maria Cristina Biggio): «Una volta eri addolorato / e loro ti vennero incontro nell’aria bianca. / Entrarono in / una musica infinita, / il pavimento del tempio / era muschio calpestato. / Hai vegliato / per una fessura / nella pietra / che poteva aprirsi e / chiudersi liberamente, come / una mano. / Hai vegliato / nella verdezza mentre colmava l’aria bianca».
La densità ermetica della poesia di Susan Stewart si concentra sull’allusione, sull’incontro tra l’io e chi riceve, divenendo esplorazione d’infanzia e giovinezza del mondo.
La realtà si svela e compie il suo linguaggio e lo sguardo della Stewart, come visione binoculare, intuisce risvegli smossi, la nostalgia del passato trasferito e in transito, la frizione della vita e della morte e «tremare argento dell’elemento».
La sovrapposizione della memoria percorre le scapole della poesia in un contrasto metafisico e conoscitivo, vive di un trasalimento felice che illumina l’inizio per figurare la specificità dell’altro, ricalcarne le forme, conoscerne la fecondità.
L’erranza della materia, «Dove l’aria è intessuta di muschio che s’asciuga, / (in quel posto dove son cresciuta) la foresta in un groviglio, / un aroma di muschio dai funghi e dalle trine di muffe, / dolce-stellato andare, in un groviglio di rovi, di felci», permette di trapassare gli oggetti, di conoscere le stratificazioni, il limitare della foresta simbolica, che è «risorsa della natura, di tutto ciò che è oltre i fatti della storia, oltre i nostri concetti di spazio e tempo e le categorie e il nostro modo di conoscere e che, in quanto tale, precede la memoria e l’invenzione. La natura è l’indefinibile, l’illimitata risorsa al di sopra della quale la conoscenza si innalza – proprio come l’invisibilità sta al di là del visibile – non in senso mistico ma come un reale riconoscimento del limite dei nostri poteri analogo alla finitudine sancita dalle nostre morti individuali».
La chiarità e l’esatta precisione delle immagini di Susan Stewart si appropria delle trame e delle simmetrie dei giochi, come spostamento di forze (come lo spirito che vaga tra le foglie scosse di red rover) e ripiegamento svelato, riflessione sulle passioni e sui mali del mondo: «colui che si è riversato / nel suono, si è fatto parola del silenzio; / mandato in mezzo al tempo, si è fatto tempo che emerge. / Mentre il passato si accresce, il futuro diminuisce / e la paura assume i tratti dell’amore».
Fare precipitare la visione poetica tra le radici nascoste, lo stupore, gli abissi, tra le presenze vitali incise nella memoria fantasma e nella luce, nei vecchi dolori, è il genio dello scarto e della visione, situata nella «profonda mezzanotte del giorno e dell’anno».
Scrive ancora Maria Cristina Biggio:

«La Stewart accoglie, in una fantasmagoria di specchiata luce e ombra, le contraddizioni e i dubbi della realtà, allo stesso tempo accogliendo il progresso e l’avanzamento che nasce dal loro contrasto e scontro, lasciando entrare una variazione, formale e/o tematica nel verso ripetuto, che così slitta verso un significato di problematica discordanza, più cupo o perturbante che, appunto, disorienta il lettore […] Metafore e metonimia, metafore-metonimiche, giochi di parole e giochi con le parole […] sono la logica conseguenza di una metafisica instaurata con il senso (della vista, dell’udito, del tatto e di un senso vestibolare della vertigine o dell’equilibrio nell’attraversamento delle varie soglie), che viene poi necessariamente rappresentata in parole. Davanti all’eterno, all’invisibile, al non razionale, la parola umana prova a dire i cortocircuiti della razionalità, mentre il poeta sale e scende dalla mitica catena d’oro del linguaggio, tentando di avvicinare terra e cielo».

Persino il male, la caduta, il dolore diventano traccia meridiana ed eco di una possibile redenzione e di una nuova costruzione di mondo, come antifone che nominano e conservano le cose, come colonie perdute a punta di freccia e come litanie ripetute di uno shock ripetuto e continuo, che però non ha paura di richiamare i nomi di un mondo spezzato che riporta indietro il tempo, rallentato e pastorale (Elegia contro il massacro alla Amish School, west Nickel Mines, Pennsylvania, autunno 2006): « Lena, Mary Liz, e Anna Mae / Marian, Naomi Rose / quando il tempo si è fermato / dove il tempo ha rallentato / i cavalli portavano la pioggia. / Mary Liz, Anna Mae, Marian / Naomi Rose and Lena / le lanterne accese / nel buio mezzogiorno / nel processionale del dolore».
Il potere incantatorio del mito, laddove celebra la drammatizzata soglia dei vasti panneggi, va alla ricerca del linguaggio della memoria prenatale, celebra l’incisione dei luoghi e del tempo e, nelle sue prominenze lessicali, inscena una parola gravitata, «alla base immobile del mondo che gira», che non ammette eclissi, ma scava il suo sfioramento della visione presente, gli incontri trans temporali come riscrittura e connessione di qualcosa che non c’è ancora, ma trova la sua trama di inizi rianimati nel «sonno orlato di raso».

STEWART S., Columbarium, Ares, Milano 2006.
ID., Red Rover, Jaca Book, Milano 2011.
COUCH R., On the art of Susan Stewart (http://jacket2.org/article/art-susan-stewart)
MUSSAPI R., Quello stupore primordiale di Susan Stewart, in “Il Giornale”, 26 novembre 2014.
ID., Stewart, versi come atti di fede, in “Avvenire”, 28 dicembre 2013.
SPADARO A., Nelle vene d’America. Da Walt Whitman a Jack Kerouac, Jaca Book, Milano 2013.
BIGGIO M.C., Susan Stewart, due poesie (http://poesia.blog.rainews.it/2012/01/19/susan-stewart-due-poesie/)

La rilevanza della letteratura nella formazione dello psicologo

di Andrea Galgano             7 luglio 2014

*intervento alla Prima Conferenza Internazionale di Psicologia Dinamica, Cenacolo di sant’Apollonia, Firenze, 27-28 ottobre 2012

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de chirico

Un buon libro lascia al lettore l’impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. Quando la letteratura è al suo apice ci sembra che d’improvviso ricordiamo qualcosa d’importante che sapevamo ma abbiamo scordato.

O.Lagercrantz, da L’arte di leggere e scrivere

In un breve scritto dal titolo Poesia, filosofia, psicoanalisi Umberto Saba afferma che una persona «guarita dalla psicoanalisi non scriverebbe più poesie, neanche qualora avesse sortito dalla nascita il felice ingegno di Dante»[1]. Secondo Saba, e Rilke più tardi,  l’attenuazione del narcisismo, la cancellazione dei demoni, perseguita dalla psicoanalisi, attenuerebbe anche la fecondità e la fertilità poetica.

Ma se ogni poesia, come direbbe Wittgenstein, può assurgere a gioco linguistico e una moltiplicazione delle regole del linguaggio, ecco che determina un «arrest of disorder», ossia una sospensione del disordine, come si rinviene nelle affermazioni del grande poeta americano Robert Frost, in un’intervista con John Ciardi (1959). Altrove, in un altro passaggio, Frost si rivolge al legame che nasce tra autore-poeta e poesia, che prende forma durante il processo figurativo:

Se è una melodia selvatica, allora è poesia. Il nostro problema quindi, come moderni astrattisti, è di raggiungere la selvaticità pura; essere selvaggi con nulla, essere selvaggi verso qualcosa. Ci solleviamo come aberrazionisti, cedendo ad associazioni indirette e facendoci scalciare in ogni direzione dalla possibilità di un’associazione all’altra, come una cavalletta in un caldo pomeriggio. È solo il tema che può mantenerci fermi. Così come il primo dei misteri è il modo in cui una poesia può avere una melodia dentro la piattezza della metrica, così il secondo è come una poesia può essere selvatica e, al tempo stesso, avere un soggetto da soddisfare. Sarà il piacere che ci dà una poesia a dirci come questo sia possibile. La figura che una poesia crea.

E ancora:

Comincia in gioia, si inclina verso l’impulso, con il primo verso assume direzione, percorre un tragitto di eventi fortunati e finisce in una chiarificazione della vita – non necessariamente una grande chiarificazione, come se ne trovano nelle sette e nei culti, ma in un momentaneo riparo dalla confusione. […] È solo una poesia truccata, una poesia che non è tale, se la parte migliore è stata pensata prima e serbata per la fine. (Frost, 1939, p. 440)[2].

È l’indizio di una sospensione del disordine, non un’illuminazione che tutto chiarifica e che tutto rende ampio.  I neuroscienziati e gli psicologi cognitivi che studiano le relazioni tra cervello e linguaggio, considerano la poesia uno degli eventi del cervello, che, per così dire, costruisce la realtà in cui viviamo. Hans Magnus Ezensberger, in Omaggio a Gödel, , scrive:

«Teorema di Münchhausen, cavallo, palude codino/ è una delizia, ma non dimenticare: / Münchhausen era un bugiardo. / Il teorema di Gödel a prima vista appare / poco appariscente, ma rifletti: Gödel ha ragione. / «In ogni sistema sufficientemente complesso si possono formulare frasi / che all’interno del sistema / non sono né dimostrabili né confutabili, / a meno che il sistema/ non sia di per sé inconsistente». / Puoi descrivere la tua lingua/ nella tua propria lingua: ma non del tutto./ Puoi analizzare il tuo cervello/ col tuo stesso cervello: ma non del tutto. Ecc. / Per giustificarsi / ogni sistema pensabile / deve trascendersi, / ossia distruggersi. / «Sufficientemente complesso» o no: / la libertà di contraddire / è un fenomeno di carenza / o una contraddizione. (Certezza = inconsistenza). / Ogni pensabile uomo a cavallo, / quindi anche Münchhausen, / quindi anche tu, è un sub sistema / di una palude piuttosto ricca di sostanze. / E un sottosistema di questo sottosistema / è il proprio codino, / questa specie di leva / per riformisti e bugiardi. / In ogni sistema piuttosto ricco di sostanze / quindi anche in questa palude, / si possono formulare frasi / che all’interno del sistema / non sono né dimostrabili né confutabili. / Prendile in mano, queste frasi, / e tira!»[3].

Nella loro attività la poesia e la letteratura condividono la funzione terapeutica del linguaggio, la sua forza, il suo orientamento, la sospensione del disordine, appunto, per cui, come scriverà Paul Celan, nel suo «cristallo di respiro», luogo cercato, forma racchiusa di una testimonianza mai rinnegata e irrefutabile: «In fondo / al crepaccio dei tempi, / presso il favo di ghiaccio/ attende, cristallo di respiro, / la tua irrefutabile / testimonianza»[4].

La poesia nasce in un segno fragile e solenne e nella perfezione del cristallo dà forma al silenzio, toglie fiato e parola, ma, allo stesso tempo, offre il suo itinerario umano, la sua tensione. Avere un ritmo nella lingua, che ostinatamente, si muove alla ricerca del punto fermo del mondo, sollecita maggiormente l’interesse e l’impulso del clinico, per il contatto con i sogni, la memoria, i ricordi e la conoscenza, in quel che James Hillman chiamava la «base poetica della mente»[5].

Nello spettacolo del reale, per accedere al simbolico, il poeta deve saper trasformare, separando con la sua attitudine povera e ricca allo stesso tempo, il reale dal fantastico. È nel preconscio che avviene questo lavoro di commutazione.

La parola diviene la traccia di un’apertura, che attraverso la scrittura, transita nel confine tra dicibile e non detto, rivelazione e ignoto. Perché il poeta, con le sue ossa spezzate in segreto, prima di rivelarsi in pubblico (Baudelaire), è, per usare le parole di Josif Brodskij «qualcuno per cui ogni parola non è la fine ma l’inizio di un pensiero».

Per indagare il mondo e i suoi oggetti, e salvare il «volto comune di ciascuno individuo», egli usa il linguaggio, le sue vaste campiture e le sue potenzialità. La parola rappresenta uno degli spazi di salvezza del bene della individualità e della personalità.

Nel frammento noto come Il primo programma sistematico dell’Idealismo tedesco, del 1795-96, Hölderlin, Hegel e Schelling attribuiscono alla poesia la missione di preparare il regno della libertà, con i suoi dispiegamenti individuali, i destini che trasformano e incarnano la loro precipua singolarità, i loro demoni. Parlano di religione del sensibile, caratterizzata da ciò che Giorgio Antonelli chiama «monoteismo della ragione e del cuore e politeismo dell’immaginazione dell’arte».[6]

Il farsi della poesia e dell’analisi conduce l’epifania degli dei a manifestarsi, a rivelare la loro intima natura, in ciò che Coleridge chiama co-adunaton, come l’immaginazione che si presentifica, offrendo la sua sponda silente. La teo-epifania di Rilke, Yeats, Pound è esibizione materica di una lunga e inevitabile arsi interiore.

Scrive Angelo Maria Ripellino nella sua nota a Sulla Poesia di Osip Mandel’ŝtam

Come il Pasternak del Salvacondotto, anche Mandel’ŝtam punta tutto sulla metafora, accostando in misture inattese opposti campi semantici, rendendo tangibili con virtuosistici intarsi di abbaglianti similitudini e suoni, gli odori, le «meraviglie» dei versi altrui, dei paesaggi, di eventi lontani e dell’ambiente giudaico della sua infanzia. Per cogliere l’identità delle cose distanti, egli tende la vista «come un guanto di pelle di daino» (e riesce così a percepire e ad immettere nella densissima sigla d’una metafora tutto quello che sta fuori campo, attorno al punto focale, il contiguo), quasi il suo sguardo, asimmetrico come gli occhi di certi pesci, potesse simultaneamente imbricare differenti assi ottici.[7]

Gli fa eco il grande poeta francese Yves Bonnefoy, citato da Armando Massarenti, in un interessante articolo de “Il sole24 ore” del 16 luglio 2011:

A ogni istante due vie s’aprono nel cuore della parola; e la poesia si decide a questo bivio: essa deve lasciare la grande biblioteca, andare sino allo sprone che s’inoltra tra cielo e terra, e continuare ancora, più lontano, declinando verso appuntamenti dello sguardo ove s’accoglie ancora il calore appena mitigato della notte d’estate.[8]

L’intensità della parola poetica costruisce i circuiti neuronali più solidi, sostanziali e profondi, e  ci parla del carattere sempiterno dell’espressione poetica, che, nella sua concretezza e ricchezza, come testimoniato anche da un recente saggio in tedesco del neuropsicologo Arthur Jacobs e del poeta Raoul Schrott[9], può offrire un valido strumento di analisi e indagine nelle strutture interne del paziente. La lettura di sostantivi, verbi e aggettivi (guerra, nazismo, torturare, distruggere, morto) e positivi (amore, libertà, ridere, baciare, grandioso) provocano la modificazione opposta delle pupille, della frequenza del polso e del colorito della pelle, mentre parole ad alto tasso emotivo possono rallentare la lettura.

Leggere e ascoltare permette di trasmettere ai centri cerebrali, segnali visivi e acustici che arrivano alla coscienza con un significato, un ritmo, un senso, un’immagine. Una poesia può esprimere l’intensità di ciò che altrimenti sarebbe impossibile dire, un romanzo o una novella e persino un racconto (si pensi allo sguardo sulla nevrosi americana di John Cheever) possono entrare nel magma vitale più di qualunque testimonianza. L’intensità dei centri dell’affettività sollecitati ne è fervida conferma. Scrive il poeta americano Mark Strand in un suo elzeviro:                                                                             

È una cosa curiosa: la vita che conduciamo ci consente solo di rado di fermarci a riflettere su ciò che abita nel nostro corpo e, di conseguenza, possiamo diventare così estraniati da noi stessi da aver poi bisogno della poesia per ricordarci che cosa si prova a esser vivi. La nostra abitudine a pensarci in relazione agli altri e a giudicarci in base a come agiamo in un contesto sociale ci rende più vicini allo spirito della narrativa: il comportamento esteriore è più facile da osservare, può essere percepito immediatamente, ed è quindi più semplice giudicarlo. (…) Una poesia, tuttavia, avrà necessariamente un’esistenza nel tempo, se non altro per il modo in cui si relaziona alle opere precedenti, assieme alle quali viene a formare un lungo specchio ininterrotto che, nel fluire dei secoli, ritrae la soggettività umana. È curioso notare come i sentimenti, pur accompagnandoci sempre, siano così difficili da cogliere da sembrare qualcosa di effimero. In genere vi prestiamo attenzione quando si fanno avanti con impellenza, nei momenti critici, quando è più forte l’esperienza della perdita: durante una separazione, per esempio, o in seguito alla morte di una persona cara. È allora che ci rivolgiamo alla poesia perché ci dica quali sono i nostri sentimenti, per mettere in parole ciò che supera la nostra capacità di articolazione. Inoltre, la poesia ha la capacità di conservare il senso di urgenza di tali momenti, permettendoci di riviverli più e più volte: anche quando una poesia è incentrata sulla perdita, il suo scopo è quello di conservare, di trattenere. Vogliamo serbare ciò che sentiamo nel profondo ma in un modo tale da trasformarlo in piacere.[10]

La letteratura, esperienza di lingua accesa, spesso ai margini della formazione e della professione psicologica, crea uno spazio di incontro in cui le individualità si sentono e in cui si sperimentano le gradazioni affettive dell’uomo, esplorate precipuamente da Dostoevskij ad esempio, nelle cui opere emerge il mistero insondabile dell’uomo, il suo essere una creatura in perenne confine tra bene e male, paradiso e inferno.[11]

Ne Il Sosia egli, ad esempio, descrive l’inizio di una psicosi, il senso di una alienazione, mai altrimenti visibile, afferrato da un nuovo sistema sconosciuto e ignoto.

Dostoevskijj parla dell’uomo all’uomo, affascina e reca timore e tremore, poichè raggiunge, anche nel buio e nelle tenebre, la positività ultima del reale, il suo disegno umano e divino e la sua grazia potente.[12]

L’esperienza poetica consente il ristabilimento di un rapporto con la realtà. Tale attività risulta, pertanto, decisiva, come  scrive T.S.Eliot, a portare in superficie le reazioni della nostra personalità dinanzi al visibile e toccabile, verso un’alterità, misteriosa e infinita, che esprime il punto di fuga della nostra esperienza avventurosa.

L’esperienza della poesia si dà innanzitutto come incontro. Qualcosa di nuovo, di sconosciuto e forse di insolito entra a contatto con la nostra vita. Anzi qualcuno, una persona nel momento in cui esprime una sua urgenza. Può tratatrsi di qualcuno che non conosco affatto, o solo per nome (come certi autori ‘famosi’), o di cui ho già letto qualcosa. Potrebbe essere addirittura un vecchio amico, che, però, fermandomi in quel modo lungo il corso, di fatto chiede di essere reincontrato di nuovo. Ogni incontro, ogni testo letto per la prima o la millesima volta è, di fatto, un avvenimento nuovo nell’ambito di ciò che ha costituito fino a quel momento il retroterra e l’orizzonte della mia conoscenza e della mia esperienza.[13]

L’esperienza della poesia è legata allo stupore di fronte alla presenza dell’esistenza, uno stupore che si attesta sul riconoscimento di qualcosa d’altro che, per così dire, compie il reale, fino al suo punto infinitesimo che è l’io. Leopardi in un appunto dello Zibaldone dell’agosto 1823, descrive la coscienza di un’attitudine poetica autentica

Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’é minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale rinchiusa in sí piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere[14]

Ecco il movimento della poesia, come segno di non contraddizione, come gesto ineliminabile dell’uomo, nel riconoscersi «quasi nulla» prediletto dall’essere, che gli ha dato la possibilità di abbracciare tutto con stupore vero.

Il suo avvenimento aiuta a giudicare in modo più umano la vita, riconoscendo l’adeguatezza del suo rilievo. L’incontro con questa materia viva permette una com-prensione, salva la possibilità di un’esperienza adeguata del mondo, introduce a un altro avvenimento e permette, infine, il giudizio che la realtà esprime su di sé.

A poco più di vent’anni nel 1938, Mario Luzi e poco prima T.S.Eliot,  notavano come il presupposto della poesia moderna fosse una sorta di disincanto deluso verso l’esperienza del visibile. Far emergere in superficie le reazioni della nostra personalità dinanzi a ciò che è visibile e toccabile è il suo dono, il suo crinale più vero.

Lo scopo della poesia e della letteratura, in senso lato, è esprimere la realtà della vita e suggerirne la conoscenza in modo non pregiudicato. Una tensione che spinge a trovare il legame di forme e parole più adeguate alla realtà che si intende comunicare, per mettere a fuoco il mistero della verità che ci tocca e ci rende vivi, suscitando, da un lato una risonanza personale, dall’altro una rievocazione intertestuale. La memoria viene sollecitata, come una sorta di esperienza primordiale, come scrive J.S. Bruner, secondo il quale i generi letterari «sono espressioni convenzionali di rappresentare le vicende umane, ma sono anche modi di raccontare che ci predispongono a usare la nostra mente e la nostra sensibilità in un senso particolare»[15]

L’intuizione di Vygotskij (1930 circa – 1978) sulla natura culturale e sociale delle «funzioni psicologiche superiori» e del carattere “mediatore” di strumenti e segni, per cui le funzioni cognitive “superiori” tendono a svilupparsi attraverso attività compiute come il linguaggio, la scrittura, ad esempio, divengono strumenti cognitivi che forniscono un meccanismo formale, per padroneggiare i processi psicologici, ha trovato eco nelle rielaborazioni di Bruner (1965) sugli strumenti intesi come “amplificatori culturali” o al modello dell’intelligenza adattiva di Olson (1976), fino a Michael Cole.

Cole (1994, 1995, 1996), riprende la configurazione triangolare tra individuo e ambiente di Vygotskij, per applicarla al processo di lettura, ridefinendone la relazione  fra mente e cultura e il carattere intersoggettivo e contestuale della cognizione, poiché

«gli esseri umani si distinguano dalle altre creature per il fatto che essi vivono in un ambiente trasformato dai prodotti (artefacts) delle generazioni precedenti, sin dagli inizi della specie […], la cui funzione fondamentale è quella di coordinare gli esseri umani con l’ambiente e fra di loro».[16]

In uno studio del 1994 di R.W.Gibbs[17] è emerso che la mente umana è modellata non solo da processi poetici o figurati, ma le stesse figure retoriche, scheletro di ogni componimento,  costituiscono gli schemi attraverso cui gli uomini concettualizzano la loro esperienza quotidiana e “il mondo esterno”. L’amore, ad esempio, come scrive in un interessantissimo articolo Laura Messina[18]

sembra che nella cultura occidentale sia concettualizzato attraverso un limitato numero di metafore, tra cui, più frequenti, “amore è una forza naturale”, “amore è un’unità”, “amore è una risorsa preziosa”, “amore è insania”, “amore è calore” Da queste metafore può derivare un numero pressoché infinito di espressioni che è possibile rendere in modi più o meno creativi. Ciò che solitamente viene inteso come un’espressione creativa di una certa idea in una poesia, (…) è spesso solo una sorprendente instanziazione di specifiche strutture metaforiche, che derivano da un limitato set di metafore concettuali condivise da molti individui all’interno di una cultura. Alcune di queste instanziazioni sono il prodotto di un pensiero altamente divergente, flessibile, ma la loro esistenza è determinata da “soggiacenti schemi di pensiero che limitano, o addirittura definiscono, i modi in cui pensiamo, ragioniamo, immaginiamo”.

Il gesto poetico, non solo contribuisce a una accensione a una tensione infinite, ma sono l’indizio di una esperienza e di un nome alle cose e alla pienezza del reale.

Eugenio Montale descrive il rapporto di associazione  di vita-arte-vita  come un  «pellegrinaggio attraverso la coscienza e la memoria degli uomini, il suo totale riflusso alla vita donde l’arte stessa ha tratto il suo primo alimento»[19]

La creazione delle immagini, che portano scritto «più in là», rappresentano la traiettoria di una domanda e di una visione dei propri desideri costitutivi, l’intuizione dei modi con cui si educa a vedere la realtà come segno. Pur in ogni variabilità individuale, guardare la realtà come segno, ci porta a sostare, riflettere, trattare le persone con prospettiva umana e a non smettere mai di indagare, con cura e stima, il «misterio eterno dell’esser nostro».

L’arte risulta allora una lente particolare in grado non solo di osservare  la realtà, ma di analizzarla e di elaborarla, definendone le prerogative e i limiti e realizzando una vera e propria Weltanschauung.

L’opera d’arte  rappresenta, quindi, l’esito di un processo inconscio che acquista senso plastico e bellezza nelle immagini e nei simboli, e scaturendo da profondità, diversamente, insondabili.

Sklovskij, infatti, afferma che l’arte esiste «per risuscitare la nostra percezione dell’esistenza, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra. Il fine dell’arte è di darci la sensazione delle cose così come esse vengono percepite, non così come vengono conosciute. La tecnica dell’arte consiste nel rendere gli oggetti strani, complicare le forme, accrescere la difficoltà e la durata della percezione, perché il processo della percezione ha un fine estetico in sé e per sé e deve essere protratto (1917)»[20].

Analogamente, la riflessione di Jung[21] penetra sì la personalità creativa dell’artista, portatore di un disagio e di una peculiarità non comune,  ma lo riconosce capace di attingere dalle risorse primordiali e originarie dell’umanità e di offrire la possibilità di un superamento della dimensione della sofferenza psichica.

La forza delle immagini primordiali, si pensi a tal proposito alle delicate e vitali immagini della fanciullezza leopardiana, germinano l’opera d’arte, come una sorta di “complesso autonomo” che esprime la sua forza di espressione, imponendosi alla coscienza.

Nell’introduzione del suo saggio, qui preso in esame, Jung assegna alla psicologia i compiti di chiarire «la struttura psicologica dell’opera d’arte» e le «condizioni psicologiche che creano un’artista».

L’intuizione poetica permette di cogliere la strada verso l’ignoto, le lande occulte, il notturno dei voli e dei volti, risale alle figure mitologiche, la primigenìa di un enigma e la pienezza delle sue visioni: «In opere d’arte di questo tipo (che non si debbono mai confondere con la persona dell’artista) è indubbio che la visione è un’autentica esperienza primordiale, checché ne pensino i razionalisti. Non è cosa derivata, secondaria, sintomatica, ma simbolo vero, cioè espressione di un’essenza sconosciuta».[22]
Secondo Jung è possibile rintracciare tali visioni in un nutrito elenco di opere, tra cui Hoffman, Dante, Blake, Goethe. Tutte culminano in un confine quasi epocale, in quanto espressioni larghe del genio profetico e del suo disvelamento:

Perciò il Faust tocca una corda presente nell’anima di ogni tedesco […], perciò la gloria di Dante è immortale e il Pastore di Erma è diventato quasi un libro canonico. Ogni epoca ha le sue unilateralità, i suoi pregiudizi e il suo malessere psichico. Un’epoca è come la psiche del singolo, ha la sua limitata specifica situazione cosciente e ha perciò bisogno di una compensazione; questa le è fornita dall’inconscio collettivo; di modo che un poeta o un veggente esprime l’inesprimibile della sua epoca e dà vita, nell’immagine o nell’azione, a ciò che tutti attendevano, nel bene o nel male, per la salvezza di quell’epoca o per la sua rovina[23].

La formazione intellettuale di Jung inizia con la lettura della Bibbia di Lutero; poi continua con i testi di teologia, ma trova nel Faust di Goethe, un orizzonte possibile di richiamo e di domanda

La sua lettura fu per la mia anima come un balsamo miracoloso “Ecco finalmente” pensai “qualcuno che prende sul serio il diavolo, e conclude persino un patto di sangue con lui – con l’avversario che ha il potere di frustare il proposito di Dio di fare un mondo perfetto” […] Finalmente avevo trovato conferma che vi erano, o vi erano stati, uomini che vedevano il male e il suo potere universale, e – cosa più importante – il compito misterioso che esso ha nel liberare l’uomo dalla sofferenza e dalle tenebre. Pertanto Goethe diventò, ai miei occhi, un profeta.[24]

 

«In qualche luogo c’era una volta un Fiore, una Pietra, un Cristallo, una Regina, un Re, un Palazzo, un Amante e la sua Amata, e questo accadeva molto tempo fa, in un’isola nell’oceano cinque mila anni fa… Questo è l’Amore, il Fiore Mistico dell’Anima. Questo è il Centro, Il Sé…”.

Jung parlava come se fosse in trance.

“nessuno comprende ciò che voglio dire; soltanto un poeta potrebbe iniziare a comprendere…”.

“Lei è un poeta”, dissi, spinto da quello che avevo udito»[25]

Lo studio della psichiatria rappresenta, pertanto, il trait d’union fra la scienze naturali e quelle umanistiche. Si pone l’obiettivo di conoscere l’uomo e le sue relazioni, deviazioni[26] e tensioni.

Una psicologia che non si riduca a psicofisiologia deve attenersi a «ciò che significa esser uomo»[27], alla sua presenza nell’originario essere-nel-mondo.

Anche l’aspetto psicoanalitico che ha interessato le caratteristiche precipue della psicologia della letteratura[28], da Petrarca, a Borges, fino al teatro quale psicodramma e al «ruolo modulare dell’immaginazione», sta piano piano facendo emergere una sintesi attenta di alcune dinamiche di studio, che qui brevemente abbiamo enunciato.

Gli artisti sembrano precedere gli psicologi nei territori profondi della psiche. In alcune pagine di uno dei romanzi più intensi, sebbene incompiuto, di Hugo von Hoffmansthal Andrea o i ricongiunti[29], nel quale si sviluppa una sorta di immaginario che si spinge fino a frequentare il linguaggio dell’invisibile e nell’ignoto che appare, o  ne I quaderni di Malte Laurids Brigge[30], come nelle rabdomantiche e oscure Elegie Duinesi[31] di R.M.Rilke, è possibile rintracciare dense strutture di significato, altrimenti difficilmente distinguibili dalle esperienze psicotiche in senso stretto.

Karl Jaspers in un suo famoso saggio Psicopatologia generale[32] ha affermato che non esistono né psicologie né psichiatrie degne di questo nome, che non cerchino confronti e correlazioni in modo permanente con analisi, ricerche, letteratura, narrativa, poesia e creazioni, che abbiano la capacità di rendere meno drammatico il solco interrotto e, per così dire, bruciato, che separi l’anima, la conoscenza della vita affettiva e la disperazione degli altri.

L’esperienza letteraria, come si evince dagli ultimi acutissimi studi di Eugenio Borgna[33], può permettere l’uscita dalle separazioni delle discipline e una prova di indagine incisiva e profonda tra noi e coloro che ci chiedono aiuto.

I testi letterari riescono a farci comprendere come gli enigmi dell’esistenza possano trovare un varco segreto e un trasloco, attraverso la frequentazione assidua e piena di soste della coltre poetica.

L’apertura umanistica nei confronti del paziente, della sua “mitologia” personale e del suo romanzo autobiografico, trova negli strumenti letterari e poetici il riflesso, non solo di grandi stati d’animo e di grandi angosce, ma soprattutto di altezze estreme, anche perchè, come scriveva la grande scrittrice americana Flannery O’Connor: «Se la vita ci soddisfacesse, fare letteratura non avrebbe senso».

La ribellione e la fiamma contro ogni cosificazione di studio e prassi, permette a tutti coloro che si accingono a rapportarsi all’altro, di sostenerne la fragilità, la debolezza radente e coglierne i particolari singolari.

Occorre, infatti, ciò che Simone Weil chiamava l’ «educazione all’intuizione», affinchè ogni terapia possa permearsi di una conoscenza profonda e maggiormente incisiva.

Il rapporto con il testo non tende a una “psicoanalisi” dell’autore, non cerca di sollevarsi dal perimetro ampio e vasto della sua narratività, ma grazie al solco vivido di una lingua accesa, consente un ulteriore contributo, talvolta decisivo, alla comprensione del paziente, alla sua peculiare esperienza esistenziale e comportamentale e alle sue istanze originarie. L’incontro costituisce l’inizio di tutto:

L’avventura incomincia quando la persona è destata dall’incontro […]. E l’avventura è lo sviluppo drammatico del rapporto tra la persona risvegliata e la realtà intera da cui essa è circondata e in cui vive[34]

perché

Quanto più uno ama la perfezione nella realtà delle cose, quanto più ama le persone per cui fa le cose, quanto più ama la società per cui fa la sua impresa, di qualunque genere, tanto più è per lui desiderabile essere perfezionato dalla correzione. È questa la povertà del nostro possedere le cose, che in ogni lavoro, in ogni impresa rende l’uomo attore, artefice, protagonista.  Ma libertà vuol dire anche, oltre che coscienza del proprio limite, impeto creatore. Se è rapporto con l’Infinito, essa mutua dall’Infinito questa inesausta volontà di creare. […] Tutto è correggibile e tutto deve essere creabile. Questo istinto creatore è ciò che qualifica la libertà in un modo più positivo e sperimentalmente affascinante.[35]

L’immagine poetica, nella sua funzione prima espressiva (ossia le immagini mentali e le forme del pensiero e del linguaggio) e poi elaborativa (ossia il generare immagini impresse), esprime il valore conoscitivo del logos, che non si situa nell’astratto, ma vive della concretezza del reale, recuperata grazie al mondo delle «belle apparenze»[36].

Tolstoj, nella sua splendida epopea russa che è Guerra e Pace, coglie con semplicità estrema la divaricazione tra essere e apparire, tra comprensione d’abisso ed esperienza di angoscia:

Oggi mi hanno portato al consiglio di governatorato per farmi esaminare, e i pareri sono stati discordi, hanno discusso e hanno deciso che non sono pazzo, ma lo hanno deciso solo perché durante l’esame mi sono trattenuto dall’esprimere ciò che penso, e non ho espresso ciò che penso perché ho paura del manicomio, ho paura che lì mi impedirebbero di compiere il mio pazzo compito. Hanno dichiarato che sono predisposto all’emotività o qualcos’altro del genere, ma sano di mente. Questo è quello che hanno dichiarato, ma io so che sono pazzo, il dottore mi ha prescritto una cura assicurandomi che se seguirò scrupolosamente le prescrizioni allora tutto ciò che mi agita passerà, cosa non darei perché passasse. È un tormento troppo grande. (…) Tutto il giorno avevo lottato contro la mia angoscia e l’avevo vinta, ma nell’anima c’era una terribile sensazione come se mi fosse successa una qualche disgrazia e io potessi dimenticarla solo temporaneamente, ma era essa lì nel fondo dell’anima e mi dominava[37].

A tal proposito lo studio dell’opera di Elsa Morante si riconnette in modo preciso alle incursioni nel romanzo dell’inconscio, che nella comunicatività e raffinatezza del suo  linguaggio, si spingono verso una densa attività onirica, collegata in maniera tumultuosa e angosciosa con la veglia notturna e le crisi nervose. Ida è il personaggio del romanzo La storia, molto vicino alla scrittrice, solita prendere appunti dei suoi sogni.

Era un mondo ricco, contorto e intriso di angoscia, rivissuto attraverso una vivida tensione[38].

Forse, fu anche l’interruzione della cura a provocare una simultanea trasformazione della chimica del suo sonno. Difatti, è incominciata da allora la crescita rigogliosa dei suoi sogni notturni, che doveva accoppiarsi alla sua vita diurna, fra interruzioni e riprese, fino alla fine, attorcigliandosi alle sue giornate più da parassita o da sbirra che da compagna[39].

«Amare la verità che giace al fondo», pertanto, come scriveva Umberto Saba, è un richiamo a sorprendere quell’azione dell’aria, a notarla, a farne memoria e lasciarsi stupire, come spalancamento più largo possibile ai fattori del reale e dell’esistenza.

Diceva Hannah Arendt che purtroppo l’uomo moderno ha sostituito lo stupore che gli antichi ponevano alla base di ogni conoscenza con la dubitosità (e George Steiner aggiungerebbe: con lo scetticismo nemico dell’arte). L’uomo dubitoso e scettico mette in crisi ogni rapporto perché non crede ai suoi occhi, mette in dubbio la forma e quindi vive l’arte come una illusione, e non come quella «magia vera» di cui parlava Giuseppe Verdi. Non ha più visione, ma una sensibilità labirintica, come richiamava Flannery O’Connor. Invece nella poesia che amo tutto procede dallo stupore verso l’alterità presente, misteriosa e infinita, che costituisce il punto di fuga nella nostra avventurosa esperienza. Così che tra percezione elementare e visione non c’è più differenza.[40]

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[1] Saba U., Poesia, filosofia, psicoanalisi, in Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, Meridiani Mondadori, Milano 2001.

[2] Bromberg P.M., L’ombra dello tsunami. La crescita della mente relazionale., edizione italiana a cura di  Vittorio Lingiardi e Francesco de Bei, Raffaello Cortina editore, Milano 1998, pp. 5-6.

[3] Ezensberger H M., Gli elisir della scienza. Sguardi trasversali in poesia e in prosa, Einaudi, Torino 2004.

[4] Celan P., Poesie, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, pp.551.

[5] Hillman J., Scritti sull’Umanesimo, a cura di Paola Donfrancesco, Moretti & Vitali, Bergamo 2001, p.29.

[6] Antonelli G., Origini del fare analisi, Napoli, Liguori 2003.

[7] Mandel’ŝtam O., Sulla poesia, con due scritti di Angelo Maria Ripellino e una nota di Fausto Malcovati, Bompiani, Milano 2003, p.8.

[8]  Massarenti A., Bonnefoy, «A Silvia» e le neuroscienze, “Il Sole24 ore”, 16 luglio 2011.

[9] schrott R.- jacobs a., Gehirn und Gedicht Wie wir unsere Wirklichkeit konstruieren (Cervello e poesia. Come costruiamo la nostra realtà), Hanser Verlag, Monaco di Baviera 2011.

[10] Strand M., Ritrovarsi sull’isola dei poeti, “Il Sole24 ore”, 3 luglio 2011.

[11] Kasatkina T., Dal paradiso all’inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij, a cura di Elena Mazzola, Itaca, Castel Bolognese 2012.

[12] Id., Dostoevskij. Il sacro nel profano, Bur Rizzoli, Milano 2012.

[13] Rondoni D., La parola accesa, una mappa di letture, Bari, Edizioni di Pagina, 2006, p.7.

[14] Leopardi G., Zibaldone, 12. VIII 1823

[15]Bruner J. S., La costruzione narrativa della “realtà”, in Ammaniti e Stern (1991), p.31.

[16]Cole M., Culture and cognitive development: From cross-cultural research to creating systems of cultural mediation, Culture & Psychology, 1, 1995, pp.25-54.

[17]Gibbs R.W., The poetics of mind: Figurative thought, language, and understanding, Cambridge University Press, Cambridge 1994.

[18] Messina L., Psicologia della letteratura: alcuni aspetti educativi, Università virtuale – Spazio editoriale: i quaderni della SSIS – Università Ca’ Foscari di Venezia, pp.1-22.

[19] Montale E., Auto da fè, Il Saggiatore, Milano 1966, p. 135.

[20] Sklovskij V., Una teoria della prosa. L’arte come artificio. La costruzione del racconto e del romanzo, De Donato, Bari 1966.

[21] Jung C.G., Psicologia e poesia, in Opere vol. 10-I, Civiltà in transizione: Il periodo fra le due guerre, Bollati e Boringhieri, Torino 1985.

[22] Id., cit., p.367.

[23] ivi, p.371.

[24] Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung. Raccolti ed editi da Aniela Jaffé, edizione riveduta e accresciuta, Rizzoli, Milano 1978, pp. 90-91.

[25] Serrano M., Il cerchio ermetico. Carl Gustav Jung e Hermann Hesse, Astrolabio, Roma, 1976, p.60.

[26] Borgna E., Di armonia risuona e di follia, Feltrinelli, Milano 2012.

[27] Binswanger L.,  Sogno ed esistenza in Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1984, p.67.

[28] Tomassoni R., Psicologia e letteratura alle soglie del terzo millennio, Edizioni Franco Angeli, Roma 1998.

[29] Hoffmannsthal Von H, Andrea o i ricongiunti, a cura di Giovanna Bemporad, Adelphi, Milano1970.

[30] Rilke R.M., I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di F. Jesi, Garzanti, Milano 2002.

[31] Id, Elegie duinesi, a cura di M. Ranchetti, Feltrinelli, Milano 2006.

[32] Jaspers K., Psicopatologia generale, Il Pensiero scientifico, Roma 2000.

[33]borgna E., L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano 2005. Id., Come in uno specchio oscuramente, Feltrinelli, Milano 2007. id.,  La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Milano 2011.

[34] Giussani L., L’io rinasce in un incontro (1986-1987), Bur, Milano 2010, pp.206-207.

[35] Id.,  L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, p. 117.

[36] Zambrano M., Filosofia e poesia, a cura di P. De Luca, Pendragon, Bologna 2002.

[37] tolstoj L., Guerra e Pace, Garzanti, Milano 2007.

[38] Bernabò G., La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci, Roma 2012, pp. 212-215.

[39] Morante E., La storia, Einaudi, Torino 2005, p. 291.

[40] Rondoni D., Non una vita soltanto Scritti da un’esperienza di poesia, Marietti,Genova 2002, pp.19-20.

Mark Strand. L’assenza e l’ombra

di Andrea Galgano             18 giugno 2014*

mark-strand-timothy-greenfield-sandersAver amato come accade nelle ore vuote del tardo pomeriggio; lasciarsi andare e concepire un viaggio che alle spalle non lascia traccia di se stesso; affacciarsi dalla casa e vedere una figura che si piega in avanti come per opporsi al vento anche se non c’è vento; vedere i cappelli della gente in paese, gettati via in momenti di passione, sparsi per terra anche se la terra non la si può vedere. Tutto ciò nella vaga luce che ingiallisce, che si fa fioca nell’ora che precede il buio; niente di questo ha valore se non per il piacere che produce, ingigantendo un istante e in fin dei conti facendolo apparire come se fosse vero. E anni dopo imbattersi nella stessa scena — la figura che si piega allo stesso vento, gli stessi cappelli sparsi sulla stessa terra che non si può vedere.

Scrive così il poeta americano Mark Strand (1934), di origini canadesi, nel suo ultimo fulminante libro di prose dal titolo Almost invisible (2012), ora in Italia con il titolo Quasi invisibile (2014) e con la traduzione di Damiano Abeni.

Questo passaggio reca luce non solo sull’immagine modellata come un fascio di passaggi e paesaggi, ma anche sull’essen–zialità delle situazioni, degli oggetti e focus di sguardo e visione:

«Poiché abbiamo attraversato il fiume e il vento offre soltanto un torpido sdipanarsi di freddo cui ci siamo adattati con mansuetudine, senza più aspettarci altro oltre a ciò che ci è stato dato, e senza più chiederci com’è che siamo arrivati in questo luogo, non ci dispiace affatto che niente sia andato come avevamo sperato. Non c’è modo di dissipare la foschia in cui viviamo, non c’è modo di sapere che ci è stato inflitto un altro giorno. La neve silenziosa del pensiero si scioglie senza una sola possibilità di attecchire. Nessuno ha la minima idea di dove siamo. Le porte sull’assenza di luogo si moltiplicano e il presente è così distante, così profondamente distante» (Nasconditi la faccia tra le mani).

Il minimale barbaglio della sua concretezza dilata contorni, si appropria del tempo viaggiante e labile del ricordo e del sogno, diventa disparità di luogo e contorno:

Cara Henrietta, visto che sei stata tanto gentile da chiedermi perché non scrivo più, farò del mio meglio per risponderti. Ai vecchi tempi, i miei pensieri sfavillavano come minuscole scintille nel buio quasi assoluto della consapevolezza e io li trascrivevo, e pagina dopo pagina risplendeva di una luce che dichiaravo tutta mia. Sedevo alla scrivania, sbalordito da ciò che era appena successo. E perfino mentre guardavo le luci affievolirsi e i miei pensieri divenire piccoli mausolei senza alcun senso nel lucore residuo di tanta promessa, restavo ancora sbalordito. E quando scomparivano, com’era inevitabile, io ero pronto a ricominciare, pronto a restare seduto al buio per ore ad aspettare anche un’unica scintilla, nonostante sapessi che non avrebbe quasi per nulla emesso luce. Quello di cui non mi ero reso conto allora, ma di cui mi rendo conto fin troppo bene adesso, è che le scintille portano dentro di sé il desiderio di essere sollevate dal fardello della lucentezza. Ed è per questo che non scrivo più, e che il buio è la mia libertà e la mia contentezza (Una lettera da Tegucigalpa).

Oppure nel Notturno del poeta che amava la luna, la sostanziale affermazione della poesia si ferma come una ferita che sollecita il tempo, affabile e consunta, che tende alla «congiunzione luminosa di niente e tutto»:

Mi sono stancato della luna, stancato di quell’aria attonita, del ghiaccio azzurro del suo sguardo, dei suoi arrivi e delle sue partenze, del modo in cui avviluppa amanti e solitari sotto le sue ali invisibili, senza saperli distinguere. Mi sono stancato di così tante cose che un tempo mi incantavano, sono stanco di guardare l’ombra delle nuvole passare sull’erba illuminata dal sole, di vedere i cigni che scorrono avanti e indietro sul lago, di scrutare nel buio, sperando di trovare l’immagine di un sé ancora non nato. Lasciamo che la semplicità penetri l’occhio, semplicità come un tavolo su cui non è apparecchiato niente, come un tavolo che ancora non è nemmeno un tavolo.

Pertanto, Mark Strand, come si legge nella nota di copertina del testo: «agisce con ironia spesso anche beffarda, esprime una sorta di insoddisfazione quieta eppure dominante, pervasiva, che coinvolge un’ampia serie di personaggi: un banchiere, un ministro della Cultura, un viaggiatore, il padrone di una grande villa e tanti altri, tutti collocati in situazioni ambientali particolari, come fossero elementi dei più disparati luoghi e paesaggi».

È la sospensione della storia, impastata di effimero ed eterno a colpire il suo occhio vigile, come accade ne Gli studiosi dell’ineffabile: «[…] Avevo affittato una casa sul mare. Ogni sera sedevo in veranda e mi auguravo di provare un’ondata di sentimento, un flusso di suono infuocato che mi portasse lontano da tutto ciò che avessi mai conosciuto. Ma una sera salii la collina alle spalle della casa e dall’alto contemplai una stradina serrata dove fui sorpreso di vedere lunghe file di persone che si trascinavano in lontananza», la loro opera, infatti, «ha a che fare con il sè».

Nonostante la polvere del loro cammino veli il cielo, uno di questi “camminatori” risponde all’obiezione del poeta: «siamo solo di passaggio, le stelle torneranno».

L’ansia di Strand non si attesta, quindi, solo sul valore ineffabile della poesia, sulla sua permeabilità quasi invisibile, ma sul valore prettamente conoscitivo ed esperienziale che egli chiama «firelit stream of sound» che porta in grembo la ruvidezza dell’inquietudine e del mistero, come una sorta di infinitesima resistenza che tiene.

È un suono profanato che compie la sua ferita nelle cicatrici e indossa l’estate fuggevole, per fermarlo, assisterlo, improntarlo. In Il desiderio del ministro della Cultura  viene esaudito, il suo burocrate «rientra a casa dopo una giornata estenuante in ufficio. Si sdraia sul letto e cerca di non pensare a niente, ma non accade niente o, per essere più precisi, il niente non accade».

Ma in questa propagazione di tenebra e chiarezza futile, egli è paziente, «e pian piano le cose scivolano via – le pareti di casa, il parco al di là della strada, gli amici nella città vicina» e la permanenza del buio, del vuoto e del nulla si affermano in una sorta di amaro divertissement, di ironia sagace e di piacevole contraddizione.

L’incompiutezza è l’abbozzo di una sospensione che attende, protesa, l’ineffabilità di un pronunciamento, il suggerimento di una porta aperta sull’inconoscibile. Il lettore, pertanto, diventa il protagonista di questa sospensione, prossima a dissolversi, ma in tempo per centrare l’andatura dell’essere, come un tramonto spossato o una storia assurda.

In un articolo su “Il Manifesto”del 15 giugno 2014, dal titolo Mark Strand: aspetta, silenzio, Caterina Ricciardi scrive:

Rispetto alle ultime rac­colte (dia­lo­gate per lo più con il per­so­nag­gio «Morte»), la ricerca poetico-esistenziale di Strand con­ti­nua in tale dire­zione ma in ter­mini sem­pre più bril­lanti nell’impiego vir­tuo­si­stico di un wit, un’arguzia, agghiac­ciante. Di fronte alla com­me­dia dell’assurdo che è l’esistere nel mondo, e nel mondo di oggi, il poeta, che corag­gio­sa­mente discende nei sot­to­suoli dell’anima e del reale, non è affatto ras­se­gnato a farsi fer­mare da un silen­zio bec­ket­tiano. L’intento è quello di inter­ro­gare entità inco­no­sci­bili, aprire porte proi­bite, come fecero altri in altri tempi e con altre alle­go­rie, e altri intenti, incluso quello di ritor­nare a rive­dere la luce. L’accostamento non è azzar­dato: le bufere infer­nali fla­gel­lano anche i suoi ‘dan­nati’.

Strand mette in scena il suggello di un’epica sparita e sparsa, abitata dalla moltitudine delle identità e dalla sottigliezza dell’invisibile che instaura un lungo processo meditativo irrisolto che indaga la condizione umana e cerca la salvezza fissata, il punto denso, l’istante che si sporge sul vuoto e, come annota ancora la Ricciardi, mira

alla scan­sione in gal­le­ria di una suc­ces­sione di tableaux vivant, riqua­dri (anche tipo­gra­fici) ani­mati da una consorteria di per­so­naggi, per lo più appar­te­nenti a un’estenuata classe bor­ghese (un ban­chiere, un mini­stro della cul­tura, un gior­na­li­sta, un io qua­lun­que), per­so­naggi appa­ren­te­mente nor­mali e tut­ta­via ritratti alle prese con situa­zioni biz­zarre in nudi interni (una camera da letto, un bor­dello, un castello, un bou­doir matri­mo­niale) o, più spesso, in pae­saggi esterni ino­spi­tali, algidi spec­chi alla Magritte, iper­rea­li­stici e al con­tempo inson­da­bili e miste­riosi. In que­sti cro­no­to­poi del nulla il sog­getto osserva il pro­prio azzeramento nel mondo, oppure, nell’evitarlo, si lascia tra­sci­nare da un incontrolla­bile impulso verso un viag­gio non si sa mai da quale e in quale dire­zione, un viag­gio nell’ignoto che non sem­bra pre­ve­dere arrivi.

Premio MacArthur Fllowship, Pulitzer nel 1999 e poeta laureato, Strand è espressione di un gesto poetico che stanzia i suoi confini tra gli eccessi di presagio e luce (omens of the end), laddove l’aneddoto biografico, la dedica, le immersioni nel buio, manifestano la tensione verso una strana disarmonia e una caccia di istanti:

Non ogni uomo sa cosa canterà alla fine, / guardando il molo mentre la nave salpa, o cosa sentirà / quando sarà preso dal rombo del mare, immobile, là alla fine, / o cosa spererà una volta capito che non tornerà più. / Quando il tempo è passato di potare la rosa, coccolare il gatto, / quando il tramonto che incendia il prato e la luna piena che lo gela / non compariranno più, non ogni uomo sa cosa invece scoprirà (The End).

Attraverso un’istanza con forte eco leopardiana, egli va a caccia delle ombre, delle assenze riformulate, delle confessioni pastorali che dissolvono i nastri temporali e le dislocazioni di identità e di memoria: «Il sole che cala. I prati in fiamme. / Il giorno perso, la luce persa. / Perché amo quel che svanisce?» (The Guardian).

La sua confessione si richiama alla classicità accesa di Teocrito prima e di Virgilio e Ovidio poi, frequenta certa poesia accesa del ‘600, affermando la sua illuminazione e il suo tracciato antimimetico.

È come se il paesaggio della sua anima manifestasse e dichiarasse apertamente una esclusione, una evanescenza vibrante, come scrive Luigi Sampietro su “Il sole 24ore” del 17 luglio 2011, in una interessantissima recensione alle poesie di Strand, apparse qualche anno fa per Mondadori: «è un detective metafisico che si sofferma sulle tracce di chi — o di ciò– che ora, qui, è assente e non si vede, ma che deve pur esserci o esserci stato. V’è un lato enigmatico, per non dire enigmistico — oltre che, ben inteso, umoristico, — in taluni momenti della sua poesia».

I suoi paesaggi e i suoi spazi, come i campi, i panorami e diorami marittimi e montani, rivelano una struttura compositiva sommersa e racchiusa in un punto di fuga che consuma il destino delle scene e degli attori della sua pagina, in cui si fondono la malinconia irreversibile delle cose perdute, l’ironia e la narrazione comico–surreale: «Da qui sgorga la poesia: abitiamo in un posto / che non è nostro, e, soprattutto, non è noi».

Ecco l’esito di una via vera e reale, lo spiraglio del cielo aperto. L’esclusione e l’assenza riflettono il moto umano del lutto battente e di quello che sarebbe potuto essere ma non è stato, come «i colori che svaporano» e attendono il breve solco della slabbratura della grazia: «In un campo / io sono l’assenza / del campo. / È / sempre così».

L’assenza che si fa prospettiva, come l’avvenimento dei quadri Edward Hopper o le incisioni di M.C. Escher, grande incisore olandese di distorsioni e prospettive, colorano un’illusione che permette la dilatazione dello sguardo e il rovescio della sua avventura: «l’amore che arriva, / la luce che viene. / Ti svegli e le candele entrano a fiotti nel cuscino, / sprigionano caldi bouquet d’aria. / Perfino così tardi gli ossi del tempo splendono / e la polvere del domani s’incendia in respiro».

La tonalità di ombra con cui il malessere e il dolore si schierano, trova solo in una fissità di sponda derisa e mutata, la sua figura agganciata e prossima che «data l’impalpabilità e la sostanza cinerea di fatti e oggetti e desideri lasciati puntualmente fluire, non gli è possibile nascondere un sorriso (ora amato ora distaccato) quando accade che una qualsiasi “situazione compiuta” presuma di stagliarsi e di durare». (Marco Giovenale, in «Poesia», marzo 2005)

Scrive Rosanna Warren:

il protagonista di Strand è un “io”, un personaggio che si sottrae al paesaggio. È una poesia semplice come un teorema, eppure inesauribilmente misteriosa. Come interpretare la reiterata auto asserzione […] che cancella il sé? Forse l’“io” è incorporeo come l’aria di cui prende il posto […] nel suo connubio di astrazione filosofica e linguaggio americano contemporaneo, il poema modula e incarna la riduzione che onora, spostandosi da un “campo” a “campo”, operando espansioni e contrazioni minime alla lunghezza dei versi e consegnando il proprio vuoto all’aria, perché lo riempia dopo ogni strofa.

La natura mitologica del suo pensiero rivela il rovescio che abita lo spazio poetico del simbolo, giacendo nella separazione, come l’io che rinuncia, uscendo da sé e fermandosi sui detriti di ciò che resta: «Mi svuoto dei nomi degli altri. / Mi svuoto le tasche. / Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada», o ancora «Adagio esco ballando dalla cassa in fiamme della mia testa. / E chi non è nato e rinato di continuo in paradiso?».

L’io, che sta «diventando orizzonte» e invoca an island in the dark, solca il suo respiro tormentato e spezzato, come un rito di assenze tremanti e di “sereniani” vuoti radiosi: «lei guardava fisso… / non me, ma oltre me, uno spazio / che poteva essere colmato da qualcuno / che ancora doveva arrivare». (Specchio)

La realtà, collocata sulle impronte sparse del metafisico, regola il tempo che sfugge ai suoi contorni definiti e definibili, e rende il suo magma ipnotico, diretto, fortemente evocativo, come il tramonto, ora della doppia luce e ingresso calmo e lento al buio inevitabile e dissolto: «l’oscurità si fa desiderio, / quando non v’è nulla che non aneli nascere; / i giorni in cui il destino del presente è pienezza di brezza».

L’evocazione è vigoria di respiro e eco quasi kafkiano, arroventato e perduto; respiro cosmico e malinconia di circonferenze espressive, che mostrano la loro ambiguità e la loro caduta, in un tragitto metafisico, nello spazio quintessenziato:

Dove stava scritto che una sera così si sarebbe dispiegata, / oscuramente incidendosi ovunque, o per quel che importa, dove / stava scritto che io sarei rinato di continuo in me stesso, / come sto facendo perfino ora, come ogni cosa in questo attimo, / e avrei sentito la caduta della carne nel tempo, e l’avrei sentita volgersi / silenziosamente, adagio, come se stesse rimettendosi nel verso giusto?.

La connotazione orfica del paesaggio strandiano è capace di soffermarsi sul crinale di un confine, lo abita, sostituisce le ombre con il vertice della descrizione di senso e dell’avamposto delle parole strenui, con il colloquio con un elemento che risplende: «descrivere gli occhi di lei, / la fronte su cui si stendeva la luce d’oro della sera, / la curva del collo, il declivio delle spalle, ogni parte / fino giù alle cosce, ai polpacci, lasciando sgorgare le parole, come suscitate dal sonno, controcorrente, alla deriva, / contro il volere dell’acqua, dove ogni affaticarsi / condannato e futile».

Il paesaggio insegue la sua perdita e cerca la poesia che compie il suo atto vivente e il suo sacrificio nella prospettiva dell’azione: incorporea, evanescente, scomparsa e abdicata: «la storia della fine, dell’ultima parola / della fine, quando narrata, è storia senza fine».

In un’intervista di Luigia Sorrentino, Strand sostiene non solo l’indefinibilità della sua poesia ma anche il singolare pronunciamento, persino comico, dell’opera nel suo compiersi:

Non posso definire la mia poesia. Non credo spetti a me. Di certo ci sono certi temi che si ripetono nella mia poesia, aspettative, attesa, delusione, il buio che avanza, tuttavia quando scrivo non ho in mente niente di tutto questo. Non considero il mio lavoro nella sua totalità, mai, ma considero le singole poesie mentre ci sto lavorando. Poi una volta che ho scritto la poesia, non ci penso più. Me ne sbarazzo. E inizio un’altra poesia. Se avessi pensato di avere dei temi sui quali dovevo ritornare ancora e ancora, mi sarei sentito paralizzato. Sarei stato prigioniero di una nozione astratta di ciò che stavo facendo. Sarebbe stata la mia morte. […]

Nella estemporaneità lirica il fasto della poesia coglie la grazia di un’altezza splendida, promuove il canto estraneo delle cose, ma non si annulla, anzi rinviene i processi della sua nascita, in un vocabolario di brume e venti notturni, nell’estrema visione mistica delle luci lunari disilluse: «venne in una lingua / non sfiorata dalla pietà, in versi, oscuri e fastosi, / in cui la morte è rinata e inviata nel mondo come dono, / così che il futuro, privo di voce propria e di speranza».

In una intervista rilasciata a Laura Lilli su “la Repubblica” del 12 luglio 2007, Strand riferendosi a quel «luogo di perpetuo inizio che in sé contiene / ciò che mai occhio ha visto, mai orecchio ha udito, mano / mai ha toccato, ciò che mai è nato in cuore d’uomo», afferma la sostanziale potenza della poesia in un luogo terrestre non soggetto a giurisdizione, a cui il poeta si inchina, consacrandolo, nella sua caducità frammentata.

Altrove su “Il sole 24ore” del 3 luglio 2011, con un elzeviro dal titolo Ritrovarsi sull’isola dei poeti, egli scrive:

È una cosa curiosa: la vita che conduciamo ci consente solo di rado di fermarci a riflettere su ciò che abita nel nostro corpo e, di conseguenza, possiamo diventare così estraniati da noi stessi da aver poi bisogno della poesia per ricordarci che cosa si prova a esser vivi. La nostra abitudine a pensarci in relazione agli altri e a giudicarci in base a come agiamo in un contesto sociale ci rende più vicini allo spirito della narrativa: il comportamento esteriore è più facile da osservare, può essere percepito immediatamente, ed è quindi più semplice giudicarlo. […]

Una poesia, tuttavia, avrà necessariamente un’esistenza nel tempo, se non altro per il modo in cui si relaziona alle opere precedenti, assieme alle quali viene a formare un lungo specchio ininterrotto che, nel fluire dei secoli, ritrae la soggettività umana. È curioso notare come i sentimenti, pur accompagnandoci sempre, siano così difficili da cogliere da sembrare qualcosa di effimero. In genere vi prestiamo attenzione quando si fanno avanti con impellenza, nei momenti critici, quando è più forte l’esperienza della perdita: durante una separazione, per esempio, o in seguito alla morte di una persona cara. È allora che ci rivolgiamo alla poesia perché ci dica quali sono i nostri sentimenti, per mettere in parole ciò che supera la nostra capacità di articolazione. Inoltre, la poesia ha la capacità di conservare il senso di urgenza di tali momenti, permettendoci di riviverli più e più volte: anche quando una poesia è incentrata sulla perdita, il suo scopo è quello di conservare, di trattenere. Vogliamo serbare ciò che sentiamo nel profondo ma in un modo tale da trasformarlo in piacere.

La sintassi, come la sua anima percorre il mito e le sue istanze, il corpo della poesia con il vagabondaggio offuscato che avviene, come un passo disilluso e mortale davanti al buio.

leggi in word Mark Strand. L’assenza e l’ombra

*versione ampliata di Mark Strand. L’assenza e l’ombra in GALGANO A., Mosaico, Aracne, Roma 2013, pp. 453-58.

La terra promessa di Leif Enger

di Andrea Galgano             2 aprile 2014

letteratura americana La terra promessa di Leif Enger

Leif_Enger

La narrativa di Leif Enger (1961), autore nativo del Minnesota (Osakis), dove vive con la moglie e due figli, è una filiazione di approdi, un’avventura che sollecita sponde come epica salvata.

Il suo primo libro La pace come un fiume (2001) è un dramma di respiro che ama le nascite e le tregue, la speranza di un tempo imprevisto di attesa che ama i confini per superarli, l’origine per vivere.

Il romanzo, ambientato agli inizi degli anni Sessanta, condensa il suo presente vivo e memoriale di nostalgie morbide, la cui stoffa sibila suono e fiato di occhi bambini: «Sin dal mio primo respiro in questo mondo tutto ciò che ho sempre voluto sono un paio di polmoni e l’aria per riempirli […]. Pensate al vostro primo respiro: un vento sconvolgente che con estrema facilità vi si infila giù per i polmoni, mentre voi siete ancora lì che vi rigirate nelle mani del medico. Che urlo avete fatto!».

Il respiro, che deve lottare per liberarsi dai suoi precipizi e aprirsi alle feritoie del vento insperato e sconvolgente, ha nel protagonista, l’undicenne Reuben Land, figlio di Helen e Jeremiah, la destinazione del sangue-fiato, che sin dalla nascita sembra non avere avvii, scaraventata nel mondo senza possibilità.

Se non fosse per suo padre, Jeremiah, che con il soffio indomito della sua preghiera nel vento, invoca inizi: «Reuben Land, in nome del Dio vivente ti sto dicendo di respirare».

Commenta padre Antonio Spadaro: «Non si fa fatica, leggendo le prime tre pagine del romanzo, a cogliere che il primo respiro in questo mondo (first breath in this world) è rinvio a quel «soffio» che aleggia sulle acque della terra informe e deserta di cui si parla nel libro della Genesi (1,1). Il respiro è passaggio dal caos dell’asfissia mortale all’ordine del mondo creato come buono, bello, vitale. Il passaggio qui è garantito da un «miracolo» compiuto dal padre del bambino».

Salvato sul bordo del precipizio, Reuben raccoglie il suo miracolo. Inizia ora l’avventura della famiglia Land, nei termini del mondo: «I miracoli veri danno fastidio alla gente, come quegli strani improvvisi malesseri sconosciuti alla letteratura medica. È vero: confutano ogni legge da cui noi bravi cittadini traiamo conforto. […] Io credo di essere stato salvato da quei dodici minuti senz’aria per diventare un testimone e, in quanto testimone, fatemi dire che un miracolo non è una cosa carina, è piuttosto un colpo di spada».

Ecco lo strappo al nulla in una provincia indenne, che non si allontana mai dal limite dei segni e delle ferite, come Jeremiah abbandonato dalla moglie, i figli Swede e Davy, il tentato stupro di Dolly, la giovane fidanzata di Davy, da parte di due ragazzi, Israel Finch e Tommy Basca, che minacciano vendetta. I due rapiranno la piccola Swede e copriranno di catrame la casa dei Land. Davy li sorprenderà in casa propria e, con feroce determinazione, porrà fine alla loro esistenza.

L’armonia che lotta con il caos, genuflessa ai limiti, apre il corso di esistenze nuove e fuggiasche. Davy viene processato e gli viene imputata la premeditazione, allora inizia il suo tripudio di esilio e ricerca: «Quando fu che Davy Land si rese conto che l’esilio è un paese dai confini mutevoli, difficile da abbandonare ma altrettanto da sopportare, non importa quanto siano larghe le tue spalle, o quanto indurito il tuo cuore?».

Lo spazio aperto delle terre del North Dakota è la frontiera delle badlands, il selvaggio confine dell’ombra e dell’assedio. La sua famiglia si mette alla sua ricerca, a bordo della Plymouth, per cercare di trovarlo prima della polizia. In una inesausta battuta d’aria e di inverni, l’irraggiungibilità esiliata di Davy non ha riparo, mentre la ricerca di Jeremiah non proclama inerzie, ma si compone di fede e preghiera, come la sua Bibbia sfuriata e sfogliata.

Scrive Antonio Spadaro: «Il tema classico della vita on the road – che qui viene rielaborato efficacemente con gli elementi del romanzo poliziesco e della saga familiare – dà vita a un’epica della vita ordinaria illuminata dalla fede, dalla speranza e dall’affetto profondo, al di là di ogni vano sentimentalismo. L’elemento «maledetto» e selvaggio delle storie on the road viene trasfigurato nello stupore del «miracolo» e della speranza contro ogni apparenza», proprio come dice Reuben, narratore di questo viaggio: «Tutto questo, lo capite, traeva ispirazione solo dalla pura fede. […] La fede ci aveva condotto a questo. La fede, secondo papà, ci aveva mandato la roulotte Airstream, e la fede avrebbe guidato il nostro viaggio».

Ma la paolina sostanza delle cose sperate e l’anticipazione delle cose che non si vedono non è una sospesa chiarità, bensì una robusta visione che permette di «vedere le cose, di toccarle, di attenderle» (Antonio Spadaro). Ed ecco che il viaggio inscena la trama vivente del sacrificio, della speranza, della salvezza promessa come una terra, gettata nel dolore e nella domanda, bisognosa e mendicante. È, in sostanza, un esodo di luce.

Il respiro di Reuben, che figura ritmi e viaggi, poggia la sua forza sulla pagina, raccoglie paesaggi e soste di incontri indicibili e viventi, come Roxanna Cowley che indica gli occhi e una meraviglia carnale. Reuben vedrà Davy che vive con il losco Jape Walzer e Sara, la sua donna schiava, ma questi gli impone di non far parola con nessuno. Un peso segreto tremendo che egli porterà con sé. Jeremiah e Roxanna sviluppano il loro cuore e Reuben vedrà «le loro mani toccarsi, non una stretta appassionata, ma uno scambio semplice ed eterno, antico come la Sacra Scrittura».

Le fughe di Davy portano mani fuggiasche e conclusioni estreme: porta con sé Sara nel suo paese d’origine e viene raggiunto da Jape che spara ferendo Jeremiah e colpendo mortalmente Reuben, ma «misteriosamente e miracolosamente avviene una sorta di scambio in un capitolo ambientato in una zona, un aldilà, tra la vita e la morte, dove Reuben gusta la beatitudine. Il ragazzo rinviene e Jeremiah muore, lasciando però al figlio, miracolosamente guarito dall’asma, un messaggio di fiducia e salvezza. Davy riprenderà la fuga. Swede diventerà scrittrice. Reuben sposerà Sara» (Antonio Spadaro).

In un’intervista rilasciata a T.Wiss, in Inside Borders dell’ottobre del 2001, il riconoscimento della sostanza del reale sostanzia la pagina e Leif Enger sostiene che: «Non so come sia possibile scrivere un libro senza che la tua fede appaia. […] La tua fede ha sempre a che fare, io penso, col modo in cui tu vedi il mondo, e dato che il mio modo di vedere le cose è quello cristiano, questo è il modo in cui il mio libro va letto. Detto questo però, il mio libro non è un tentativo di fare evangelizzazione. È realmente la storia di un ragazzo alle prese con la fede che gli è cresciuta dentro e che si gioca in termini di lealtà e sacrificio […]».

Ad Andrea Monda su “L’Osservatore Romano” del 15-16 giugno 2009, risponde che: «Una persona può discutere sul fatto che l’atto dello scrivere sia esso stesso un atto di fede – perché ognuno crede in qualcosa, si affida a un qualche vangelo, quello di Dio o il proprio – e la scrittura è un’espressione di quella fede, ma in fondo alla strada giace la teologia, che è un territorio che mi confonde. Per dirla più onestamente possibile, io scrivo perché amo il linguaggio e le storie e voglio vedere come le cose si sviluppano. Il mio primo obiettivo quando lavoro a un romanzo è scoprire cosa succederà e far girare la storia in un modo tale che il lettore possa salire a bordo, godersi il viaggio, e lasciarlo soddisfatto. Per quanto riguarda il fatto di eternare la bellezza, sicuramente un libro è un modo per provarci, ma ce ne sono migliaia altrettanto buoni o migliori, come allevare figli, costruire navi, riparare tetti, coltivare giardini. Io sto provando a fare qualsiasi lavoro che mi è a portata di mano, e lascio decidere a Dio cosa mantenere e cosa buttare via».

In Così giovane, bello e coraggioso siamo nel Minnesota del 1915. Lo scrittore Monte Becket che aveva scritto un romanzo nel Far West è in crisi creativa, e allora decide di risalire il fiume salendo su una barca a remi, guidata da Glendon Hale, un rapinatore di treni, fuggiasco e  ricercato dalla polizia e dal detective Charles Siringo, verso la California, dove questi deve arrivare prima di morire per chiedere perdono alla sua moglie da lui abbandonata. Tra i due nasce un’amicizia profonda che cambierà e renderà autentico il cuore inquieto di Monte, vero alter-ego dell’autore.

Paolo Pegoraro, in un articolo su «Famiglia Cristiana» del 2009 afferma: «Eppure, dietro l’apparenza del racconto volutamente spensierato e melodrammatico, Enger dice qualcosa di più. I suoi personaggi dovranno rinunciare a ciò che più vogliono per poterlo ritrovare, sia esso la libertà o il desiderio di scrivere. E viene da chiedersi se, dietro la storia di Monte Becket, non ci sia un risvolto autobiografico: anche Enger infatti è del Minnesota, sposato, autore di un solo bestseller uscito ben sette anni prima di questo nuovo romanzo. Avrà affrontato anche lui una crisi creativa? e come ne sarà uscito? Forse proprio come il suo personaggio, abbandonandosi senza troppe preoccupazioni alla prorompente e romantica avventura della vita. E in fondo non è questo che c’insegnano, i romanzi d’appendice? G.K. Chesterton li definiva «letteratura a sensazione», «un vangelo più schietto e valido di tutti gli iridescenti paradossi etici… semplice come il tuono del cielo ed il sangue degli uomini».

La frontiera, la terra, il destino, l’epica rappresentano la vita come tensione inesausta verso la pienezza, amore implorato e incendiato, vivezza di carne e radicalità, nulla è come prima, perchè «è strano, quando raggiungi la tua meta: pensavi di arrivare lì, fare quello che ti proponevi e andare via soddisfatto. Invece, quando ci sei, ti accorgi che c’è ancora altra strada da fare» e in cui il fiume rappresenta sempre «un luogo che ha a che fare con la trascendenza. Metti una canoa nell’acqua che fluisce e sei subito spinto rapidamente dalla corrente con nessun impegno da parte tua; diventi così una creatura differente, una creatura del fiume, capace di odorare strane cose, vedere creature viventi al di sotto del livello dell’acqua, sentire il gracidio di invisibili uccelli acquatici. Anche il tempo cambia sul fiume. Non c’è altra esperienza che così rapidamente rimuove la pressione dalle tue spalle, la vita sul fiume si percepisce come un dono forse più che in altre situazioni. Mark Twain ha scritto che “la vita è potentemente libera, tranquilla e comoda su una zattera” e aveva ragione».

 

Enger L., La pace come un fiume, Fazi, Roma 2009.

Id., Così giovane, bello coraggioso, Fazi, Roma 2009.    

Spadaro A., «La pace come un fiume». Un romanzo sulla famiglia, la fede e i miracoli, in «La Civiltà Cattolica», IV, 2002.

Wiss T., «A miracle of a novel», in «Inside Borders», october 2001.

Il posto di Jorie Graham

di Andrea Galgano             27 marzo 2014

recensioni Il posto di Jorie Graham

sul sito della poetessa nella Bibliografia ufficiale  http://www.joriegraham.com/bibliography

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Si chiama Il posto (Mondadori 2014), la nuova raccolta di Jorie Graham (1950), una delle più alte voci della poesia americana. Dopo la scelta antologica, edita qualche anno fa da Sossella, L’angelo custode della piccola utopia, ci giunge questo testo di scheggia e potenza, acutamente tradotto da Antonella Francini.

Premio Pulitzer nel 1996, dal 1997 al 2003 Chancellor of the Academy of American Poets e premio Nonino 2013, per aver «intarsiato i suoi versi sul mito, sulle dicotomie e polarità dell’esistere, scandagliando e sperimentando profondamente tutte le sensazioni della poesia […] dove la parola ritrova la sua eticità e spiritualità tendendo all’infinito», Jorie Graham è nata a New York nel 1950, ha vissuto fino ai diciotto anni a Roma (e il suo iter sembra attestarsi su Pavese. Montale e prima Petrarca) e ha studiato sociologia a Parigi, prima di terminare la sua formazione negli Stati Uniti, dove oggi insegna, ad Harvard, retorica e oratoria.

L’eidetica di Jorie Graham, quasi di neoavanguardia, «[…] ci fa entrare nella forza magmatica della poesia, la sua capacità di testimoniare l’umanità, di risvegliare la mente attraverso i sensi, le presenze vitali del mondo, una «fiumana di sangue» che procede attraverso un deserto. In una fusione coinvolgente di musicalità poematica e densità narrativa» (Bianca Garavelli, da “Avvenire”, 17 marzo 2014).

Ed ecco che i sintagmi intessuti nella pagina acquistano una scaturigine di terra e ferita, il conflitto (persino quello sociale) e la gioia, il crampo del cuore, il tocco, il registro e la trascrizione dell’atto del reale.

È l’inatteso, il blocco superno della realtà che reclama il suo posto, lo spazio di scoperta del mistero che incide l’inconoscibile, che si appropria dell’amore, del tempo presente dilatato e dell’immaginazione: «E vento accolto dal velo d’acqua. / Guarda: l’accoglienza ha una forma […] Ogni cosa nel sole / improvvisa a ritroso, / buttando giù frasi veloci e nervose […] ogni cosa nel sole che tenta d’incarnarsi attraverso qualcos’altro […] Certo il futuro / un tempo non era affatto là […] Parla della lunga catena a ritroso / all’inizio del “mondo” (come lo chiama) e poi, infine, al grande non / inizio. Sento il no iniziare. / Il seguito ronza leggero intorno a me, / cancella le mie impronte», […] Canta dice l’acqua che ripiomba su acqua più ferma – che scorre dove l’altra si rompe. Cantami / qualcosa (il suono del rompersi basso dell’onda) / (gli accordi dove laggiù deposita materia di vita / sulla rampa di spiaggia) (anche la molteplicità / di profondità e rivestimenti dove sorge la chiarezza come una moltitudine) / (mentre l’onda s’abbatte sul suo frangente) / (per squarciarsi all’unisono) (sul suo rifrangersi) – / canta qualcosa, e cantando dissenti».

La poesia di Jorie Graham  chiede un atto ineffabile, evita di dissotterrare la nostra messa in gioco, invita a rischiare la parola per recuperarla nei fondi, non concedendo distrazioni.

E la parola, scomposta, segmentata e frammentata richiede il suo posto, per inebriarsi di mistero, stare dietro la luce del giorno che «sussulta / dietro di noi / ed è un tesoro immenso per esempio oggi / un uomo a cavallo galoppava / leggero su Omaha / sopra la mia spalla sinistra / giungendo veloce ma / leggero e inaudito finchè non mi sono voltata / senza un motivo / come se ciò ch’è dietro di noi / avesse sussurrato / cosa posso fare per te oggi e io mi fossi appena / voltata a / rispondere e la risposta alla mia / risposta scaturisse dalla battigia nell’ultimo sole in cui lui /loro stavano entrando».  

Il respiro precede così l’incedere del verso e il battito, incalzante e vivido, implora la sua esplorazione, quasi che l’istante proclamasse la sua densità e l’immagine si imporporasse di suoni.

Claudio Magris, in un articolo sul “Corriere della Sera” del 20 gennaio 2013, dal titolo La poesia ricuce il mondo, scrive:

«La sua lirica cattura una totalità mossa, spezzata, mutevole, imprevedibile, multipla e simultanea, che il suo verso epicamente lungo e digressivo o concentrato ed essenziale come quello di un haiku coglie con bruciante verità. La sua totalità comprende l’individuo – i suoi sentimenti, passioni, smarrimenti – ma anche la specie e l’incertezza radicale del suo, del nostro futuro. La sua opera esprime una radicale verità della nostra condizione, la vigilia di un ignoto e sconvolgente cambiamento: la possibile – concretamente possibile – assenza di futuro, la morte della nostra specie o una trasformazione tale da renderla non più umana, da aprire l’era del non-umano. […] Il tempo geologico è tanto più grande di quello storico, ma forse il tempo non c’è, non esiste, perchè nel ticchettio dell’orologio non c’è niente, solo un secondo in cui non può esistere nulla e lo spazio fra un secondo e l’altro in cui egualmente non può accadere nulla, eppure la poesia va alla ricerca di questo tempo e di ciò che esso (forse) contiene; ascolta gli uomini, ma anche la foglia, lo scirocco, il cristallo come le vicende d’amore, gli eventi storici e quelli mai es empre esistiti del mito, «il bagliore che assomiglia allo svanire», perchè ogni Io ha dentro di sè il suo «animale morente». La sua Euridice, come quella che ho cercato di rappresentare anch’io, desidera sparire in quello sguardo di Orfeo che si volta».

Il posto, pertanto, è l’osservazione avventurosa del mondo, il gemito del creato, che, anche quando sembra superfluo, si intride di rivelazione, come scrive in Cagnes sur mer 1950: «Sono l’unica a ricordare / la voce di mie madre nell’ombra particolare / dell’arco romano ricolmo di cielo / che oscura le pietre sulla strada in discesa / da dove lei ora risale all’improvviso. / Come l’arco, la voce e l’ombra / violentemente afferrano il piccolo triangolo / della mia anima, un film muto dove note di piano / diventano un corpo impazzito / per le immagini squillanti dello spirito – patria abbandonata – miracolo da cui / si riemerge vivi. Così qui, io di nuovo / rileggo il libro del tempo,

il mio unico tempo, come se ci fosse un fatale errore la cui / natura non so rintracciare – o la forma –  o l’origine – / prendo la creatura e la riporto / sul posto dove io sono un minuscolo serbatoio di sangue, cinque chili d’ossa / e tendini e altre cose – già condannata a quest’unica anima – che dicono pesi meno d’una piuma, o tanto / quanto un centinaio di grammi quando cresce – come in un viaggio ripercorro / quelle arterie, il prezioso liquido, il campo di metodi, agonie, / stupori – che io non sprechi gli stupori – / che non uccida per errore fratello, sorella – mi siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio […]».

L’espansione dell’opera di Jorie Graham si nutre di una vocalità cosmica e di uno spazio di macerie insalubri, di spaesamenti di mente e mondo, e costringe a non cambiare itinerario di affinamento, per osservare, intingere gli occhi nel tempo per «restituire alla mente, in modo nuovo per ogni generazione, la sua parola e le parole al loro mondo tramite un uso preciso. Ogni generazione di poeti ha questo dovere, e ogni volta deve svolgerlo ripartendo sostanzialmente da zero», per «riportare la parola umana nella cosa immortale; assicurare che il rapporto, anche se per un istante soltanto,  sia vitale e autentico Far sì che le parole siano canali fra mente e mondo. Renderle di nuovo pregnanti».

È la sua personale ricostruzione della parola segmentata nel mondo, il gesto sopravvivente nella strada al margine del campo, «per vedere / nella spumeggiante fine del giorno / il posto dove tutto davvero / risiede, desiderato o sopra- / valutato / dalla mente umana, che può / se lo vuole / portarlo alla luce / con l’immaginazione – non c’è invenzione – oppure c’è – finchè / esiste, la mente può / farlo – […] il mondo ha aperto la sua veste / e tu / eri libera di guardare / senza nessuna / frenesia, nessuna canzone, semplicemente così, polmoni sospesi, le / cesoie sospese / lì nella mano, / la siepe selvatica accanto a te, / e tu puoi – sì – sentirla scorrere / per le sue migliaia / di steli – e più vicino ora / anche lo stelo / esile e solo».

L’osmosi di corpo e mente, la sopravvivenza della parola alla storia e nella storia, l’immaginazione, che non tralascia nemmeno il fare politico, invita alla redenzione e la poesia diviene «un atto di profonda responsabilità spirituale … Io utilizzo la poesia per essere obbligata a rimanere nella storia». come disse a Firenze il 20 dicembre 2006 nel laboratorio della rivista “Semicerchio”, l’azzardo e lo scandaglio abissale delle sue pagine diventano espressione di concrezione di passato e  ferita, di persone e luoghi, in un fertile connubio di comunione.

Recuperare la parola alla sua sopravvivenza, come solcare le retine di una presenza di senso che essa contiene, senza la scheggia di vaniloqui possibili e di ovvietà spezzate, per cercare, infine, il disegno delle danze, la visione delle colline lontane, il trampolo dei sogni.

La scena diviene, pertanto, una gemma di macerie recuperate, di splendente vacuità sulle foschie e laddove la resistenza, la geniale trasposizione umana sono «ancora il segreto del terreno / arato di nostra creazione / respiro dopo respiro».

Scrive Antonella Francini: «Nell’intervista rilasciata a “The Paris Review”, Graham ricorda che Roma ha rappresentato per lei il tempo storico, uno spazio dominato da un «imponente senso della storia», dove la «percezione della dimensione temporale, della vita e delle azioni del passato»  la facevano sentire come un fantasma, «un’anima in pili nell’enorme massa di detriti umani». Al lato opposto della sua esperienza Graham mette il tempo “geologico” del Wyoming, le vaste distese di spazio dove si sentiva ugualmente un fantasma, dove «questioni di giustizia, cause ed effetti della storia svaniscono», dove la coscienza individuale non ha accesso e «qualsiasi assunto sull’importanza degli esseri umani su questo pianeta» deve necessariamente essere corretto. […] Il periodo intermedio della Francia e dell’esperienza politica ha rappresentato invece l’apertura alla realtà, ad «altre forme del presente definite pili dalle idee che dalle sensazioni, dall’immaginazione, dal mito, dalla storia». Queste tre dimensioni possono essere associate ai tre grandi blocchi tematici della poesia di Jorie Graham: il tempo geologico dell’Ovest americano fa da sfondo alla meditazione metafisica, quello romano al tema della storia (personale, collettiva e culturale) e quello francese alle questioni socio-politiche».

È nella dinamica dell’altro e dell’altrove, dalla esperienza e dall’avvenimento della poesia, che può essere rintracciabile la sua origine e l’affettività della sua conoscenza che implorano «la morbida deviazione mutata in bellezza».

Ancora una volta, la parola, come annota Antonella Francini è «scardinata da ogni vincolo sintattico, ma tuttavia risalta e risuona dalla posizione di isolamento in cui Graham la pone avvertendo il lettore postmoderno che, anche se erosa dagli attacchi teorici e dalla retorica, può sempre creare significato. Le parole, così messe sotto il riflettore, impongono ed esigono una ri-definizione, creano una vibrante tensione fra occhio e immagine grafica, rispuntano ossessivamente in una sorta di gioco del gatto e del topo con un poeta determinato a costruire una nuova colonia per il suo “sciame”, a sondare per loro tramite i misteri della vita umana. In quest’appassionata ricerca della minima essenza di lingua e materia, parola e silenzio devono in qualche modo coincidere […]».

La sua poesia proclama il risveglio di una conquista, non solo di forma o di distesa emersa, ma un posto umano che si impenna, si concede, offre il suo fianco vitale, per «Essere una persona / umana e poi donna. / Essere una che ha avuto / abbastanza. / Abbastanza sottosuolo. / Abbastanza giardino / col suo muro alto anche se non alto abbastanza con tutti / gli spioncini a meno che non fossero / soltanto cretti accidentali / da cui vedere / il mondo».

Poi il mondo, che corre famelico, che nasconde le mani. Resta in ascolto l’anima socchiusa, la nota lunga del tempo, come una creatura che abita le soglie e il dolore esaminato, la maestria delle forme umane. Dove un grido o forse, meglio, un canto tralasciano il loro sangue per darsi avvio e pronunciare tutto il loro magma di spaesate gemme.

 

3Dnn+9_2B_pic_9788804635796-il-posto_originalJORIE GRAHAM, Il posto

Mondadori, pp.240, euro 18    

 

  

Graham J., Il posto, Mondadori, Milano 2014.

Id., L’angelo custode della piccola utopia. Poesie scelte (1983-2005), Luca Sossella Editore, Milano 2008.

(a cura di) Graham J.- Lehman D., The Best American poetry 1990, Collier Books, New York 1990.  

La lotta di Herman Melville

di Andrea Galgano             26 febbraio 2014

letteratura moderna La lotta di Herman Melvilleindex

Il prezioso equilibrio tra allegoria e simbologia e tra esperienza vitale e magma narrativo trova in Herman Melville (1819-1891), l’indizio di uno scandaglio universale.

Il dettaglio minuzioso che scopre l’approdo di vita vissuta su terre sconosciute, che non teme l’arcaica promessa di un incanto selvaggio, come testimoniano Typee (1846) e Omoo (1847), si unisce alla pervicace sapienza analitica che compone cromature inaspettate e si appropria della minuzia dell’anima «che tutto il pensiero profondo e serio non sia che lo sforzo intrepido dell’anima per mantenere l’aperta indipendenza del mare».

Ecco cosa scrive Melville all’editore Murray, il 25 marzo 1848: «la ripetuta accusa di essere un romanziere travestito mi ha indotto finalmente alla decisione di mostrare […] che un vero romanzo mio non è né TypeeOmoo ed è fatto di materia totalmente diversa […]. Procedendo nella mia narrazione di fatti ho cominciato a provare per essi un inguaribile disgusto; e un desiderio di spiegare le mie ali in volo; e a sentirmi infastidito, ostacolato e inceppato dal dover arrancare con banali luoghi comuni».

La rivista inglese John Bull commentò così il prodigioso Moby Dick uscito nel 1851: «Fra tutti i libri straordinari usciti dalla penna di Herman Melville questo è di gran lunga il più straordinario. Chi sarebbe andato mai in cerca di filosofia tra le balene e di poesia nel grasso di balena? Eppure pochi, tra i libri che trattano professionalmente di metafisica o reclamano una parentela con le muse, contengono vera filosofia e genuina poesia come la storia del viaggio a balene del “Pequod”».

Del resto lo stesso Melville scrisse della sua lotta con i propri fantasmi: «Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che mi interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. […] Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi getto in mare».

Nel 1951 Cesare Pavese, traduttore e colui che per primo ha introdotto in Italia questo testo, un secolo dopo l’uscita di Moby Dick, parlando della perfetta fusione di Melville con Poe e Hawthorne, annota: «[…] In altre opere, come Typee, Omoo e White jacket, vediamo Melville ispirarsi maggiormente alle proprie esperienze autobiografiche. Moby Dick, invece, possiede una qualità stilistica molto alta spesso paragonata al linguaggio biblico. […] Si legga quest’opera tenendo a mente la Bibbia e si vedrà come quello che potrebbe anche parere un curioso romanzo d’avventure, un poco lungo a dire il vero e un poco oscuro, si svelerà invece per un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano. Dal primo estratto di citazione «E Dio creò grandi balene» fino all’epilogo, di Giobbe «E io sono solo scampato a raccontarvela» è tutta un’atmosfera di solennità e severità da Vecchio Testamento, di orgogli umani che si rintuzzano dinanzi a Dio, di terrori naturali che sono la diretta manifestazione di Lui».

La straordinarietà dell’opera congiunge un doppio movimento: l’epopea eroica, innervata nella luce, nel buio e nella lotta contro il male e la poesia metafisica di una tensione netta e distinta, in un continuo alone e in una affermata processione di condizione.

«Melville», scrive Paolo Gulisano, «realizzò l’epica della giovane America dell’Ottocento che aveva conquistato con la forza l’indipendenza, distaccandosi dalle sue radici britanniche ed europee, lanciandosi alla conquista di nuove frontiere. È l’epica di una nazione ma anche di un tempo, l’Ottocento positivista e scientista, che vuole sfidare le leggi della natura e di Dio, che con la tecnica decide prometeicamente di scalare i cieli».

Il romanzo narra infatti le avventure marinare, predestinate e fatali, del capitano Achab, assetato di vendetta nei confronti dell’eburnea (una sensazione di morte, di vuoto, di nulla) balena Moby Dick («se il suo petto fosse stato un cannone, gli avrebbe sparato il cuore»), colpevole di avergli mozzato una gamba.

«Chiamatemi Ismaele» è il celebre incipit (come il nome nel libro della Genesi di uno dei figli di Abramo) che raffigura l’inizio di una autobiografia spirituale, l’incendio di una lotta e di un archetipo, mantenuti su un livello evidente e costante di realtà, simbolo e esperienza universale: «Ma per quale motivo io, dopo aver ripetutamente fiutato l’odore del mare in qualità di marinaio mercantile, mi fossi messo in testa di andar per balene; a questa domanda l’invisibile poliziotto delle Parche, che costantemente mi sorveglia, e segretamente mi pedina, e in modo inesplicabile m’influenza, potrà rispondere meglio di qualunque altro. E, senza dubbio, il fatto che io intraprendessi il mio viaggio a balene faceva parte di quel grandioso programma della Provvidenza che fu tracciato tanto tempo fa».

Il realismo di Melville si carica della profezia che contiene moltitudini e l’influenza biblica non si afferma solo nella scelta nominale, nelle citazioni trasparenti, ma nella forma “impura” che avvicina mondi e specchia temi sparsi: «Dove infatti, se non nella Bibbia, una coinvolgente epopea popolare viene improvvisamente raffreddata da capitoli di precettistica, una scelta di battaglia bilanciata da un trattato architettonico, una storia passionale contrapposta a elenchi genealogici, un racconto delle origini seguito da istruzioni rituali che comprendono persino la macellazione animale? Da quando l’umanità ha cominciato a scrivere non è mai apparso un testo altrettanto “impuro”, ovvero altrettanto impastato nelle vicende quotidiane degli uomini» (Paolo Pegoraro).

«C’è in ogni uomo che si eleva al di sopra della mediocrità un qualcosa che, per lo più, si percepisce d’istinto […]», scrive Melville, «Io amo tutti gli uomini che si tuffano. Qualunque pesce sa nuotare vicino alla superficie, ma ci vuole una grossa balena per scendere a ottomila metri o più, e se questa non ce la fa a toccare il fondo, beh,  tutto il piombo di Galena non basta a forgiare lo scandaglio in grado di farlo. Sto parlando dell’intero corpo dei “palombari del pensiero” che si sono immersi nel fondo per ritornare a galla con gli occhi iniettati di sangue da che è cominciato il mondo».  

Il giovane newyorchese, annoiato dalla vita, proietta lo specchio di Melville e, nella sua risorsa vitale, è attratto, in una sorta di brivido mistico, dall’oceano misterioso e immenso: la sua acqua, purificatrice, simbolica, originaria, cosmica.

Due episodi segnano la sua partenza, da una parte l’incontro con Queequeg, giovane tatuato pagano idolatra, appartenente a una tribù di cannibali della Polinesia e il sermone di padre Mapple sul racconto biblico di Giona.

È questa doppia marcatura che segna, dilata, il pernottamento nella Locanda del Baleniere. Egli si affida a Dio e inizia a compiere una scoperta incredibile: «Quantunque egli fosse un selvaggio, e orribilmente sfregiato in faccia, pure, a gusto mio almeno, aveva nell’espressione qualcosa che non era per niente spiacevole. Non si può nascondere l’anima. Nonostante quei tatuaggi pazzeschi, mi pareva di scorgere le tracce di un cuore semplice e onesto; e negli occhi grandi e profondi, fieramente cupi e arditi, si leggeva un coraggio da sfidare mille diavoli. E oltre tutto questo, il portamento di quel pagano aveva in sé una certa dignità che neppure la sua rozzezza poteva del tutto avvilire».

Il ramponiere Queequeg desta la simpatia e l’ammirazione di Ismaele ed accende la sua prossimità, e la spiritualità che questo incontro afferma, in una vertigine di accoglienza e mistero. Entrambi si dirigono verso l’isola di Nantucket, l’ultimo avamposto di iniziazione, l’angolo naufrago e il frammento di croce. La visita di Ismaele alla cappella del baleniere, prima del viaggio, è un incendio di anima, dove «il Dio dei venti favorevoli o contrari viene per la prima volta invocato perché mandi brezze benigne. Sì, il mondo è una nave su cui si compie una traversata e non un viaggio di andata e ritorno; e il pulpito è la sua prora».

Trovano imbarco sulla baleniera Pequod, popolata di gente di ogni sorta, tra cui Starbuck, primo ufficiale, concreto uomo prudente e antitesi di Achab, descritto come una sorta di antico cavaliere, Stubb, uomo tranquillo e allegro e Flask, il tozzo uomo di bordo.

Capitano della nave è Achab, Vecchio Tuono, come il nome nel primo Libro dei Re: «Sembrava un uomo strappato al rogo quando il fuoco gli abbia già trascorso e devastato le membra senza distruggerle né portar via nemmeno un briciolo della loro compatta e annosa robustezza. Tutta la sua alta e vasta figura sembrava fatta di solido bronzo, e forgiata in uno stampo inalterabile, come il Perseo fuso dal Cellini».

Quell’uomo è marchiato nella sua cabina, eroso dall’odio per la Balena Bianca, con la sua mutilazione, figlia di un destino avverso e di un rimpianto. Vuole schiacciare quel mostro, vendicarsi, ucciderlo. La sua cicatrice è il volto infernale della balena, il gemito di una lotta primaria con gli elementi, la furia che gela l’esistenza: «Ciò che ho osato, l’ho voluto; e ciò che ho voluto, lo farò! Mi credono pazzo… Starbuck per esempio; ma io sono un ossesso, sono la pazzia impazzita! Quella pazzia furiosa che è calma solo per comprendere se stessa! La profezia diceva che sarei stato smembrato e io… sì! Io ho perduto questa gamba. Faccio la profezia, ora, di smembrare chi mi ha smembrato. Siamo, dunque, ora, profeta ed esecutore la stessa persona. Questo vuol dire essere più di quanto voi, grandi dèi, siate stati mai. Vi derido e vi urlo dietro. […] La strada del mio fermo proposito è percorsa da rotaie di ferro, per andar sulle quali è scanalata l’anima mia. Su precipizi senza fondo, attraverso il cuore rigato delle montagne, sotto i letti dei torrenti io mi precipito infallibile! Niente è d’ostacolo, niente piega questa strada di ferro».

Scrive Ferdinando Castelli: «Achab è il prototipo tragico che richiama alla memoria prometeo della letteratura classica e romantica; ricorda anche il Capaneo del XIV canto dell’Inferno dantesco: pur sotto il martirio del fuoco, sembra sfidare la potenza divina».

Se, come commenta Paolo Gulisano: «Achab presenta tutte le caratteristiche peculiari dell’eroe tragico; faustianamente egli trascende la propria condizione deciso a perseguire il suo scopo fino all’estremo, condannando se stesso e i suoi marinai all’annichilimento della ragione e della morte», la sua è una lotta di demoni, dove l’accanimento si specchia nel corpo straziato e nell’anima ferita e persino nell’incuria, dove il viaggio persegue la sua specola di tappa e il suo dramma.

Guidato da Achab, il Pequod si inoltrerà nella vastità dei mari, ad oriente, doppiando Capo di Buona Speranza, giungendo nell’Oceano Indiano percorrerà il mare di Giava, fino all’isola di Borneo e nelle Filippine e toccherà l’Oceano Pacifico: «Questo Pacifico misterioso e divino cinge tutta la massa del mondo: fa di tutte le coste una sua baia; sembra il cuore della terra pulsante di maree. Sollevati da quegli ondeggiamenti eterni, vi è giocoforza riconoscere il seducente iddio, e chinare il capo dinanzi a Pan».

Poco dopo la baleniera punta a sud e raggiunge l’Equatore. Qui Achab è convinto che si trovi la Balena Bianca, il mostro che lo ha reso «balordo e incavigliato» e che ha dato origine alla sua cerca, all’opposizione verso un tempo sconosciuto e reale che si accanisce.

Vuole possedere quella creatura che, come scrive Pavese, «assomma in sé la quintessenza misteriosa dell’orrore e del male dell’universo».

La tensione verso questa ombra sfuggente, calante e inseparabile, tocca l’imperscrutabilità di un odio: «Quella cosa imperscrutabile è l’oggetto primo del mio odio; la balena bianca può esserne l’agente, la balena bianca può esserne il mandante: io quest’odio lo sfogherò su di lei. Non parlarmi di empietà amico: colpirei il sole, se mi offendesse. Perché se il sole fosse capace di questo, io dovrei essere capace di quello; c’è sempre una certa lealtà nel giuoco, poiché la rivalità presiede a tutte le cose create. Ma nemmeno quel giuoco leale, amico mio, può farla da padrone con me. Chi c’è sopra di me? La verità non ha confine».

È nello scontro con qualcosa di misterioso e leviatanico, forse ubiquo e immortale, che ha origine la sua sfida senza tempo, in una vigilia di vita insonne.

Alla vigilia dell’ultimo combattimento, il capitano Achab sale in coperta e si affaccia sul mare, accanto a lui c’è Starbuck: «Oh, Starbuck, è un vento dolce, e un cielo dall’aspetto dolcissimo. In un giorno simile, di altrettanta dolcezza, ho colpito la mia prima balena: ramponiere a diciott’anni! Quaranta, quaranta, quaranta anni fa! Quarant’anni di caccia continua. Quarant’anni di privazioni e di pericoli e di tempeste! Quarant’anni sul mare spietato! Per quarant’anni Achab ha abbandonato la terra tranquilla, per quarant’anni ha combattuto sugli orrori dell’abisso! Proprio così Starbuck; di questi quarant’anni non ne ho passati a terra tre. Quando penso a questa vita che ho fatto, alla desolazione di solitudine che è stata, all’isolamento da città murata di un capitano, che non ammette che ben poche delle simpatie della verde campagna esterna… quando penso a tutto questo, sinora soltanto sospettato, non mai veduto così chiaro, e come per quarant’anni non ho mangiato che cibo secco salato, giusto emblema dell’asciutto nutrimento della mia anima! Mentre il più povero uomo di terra ha avuto frutta fresca quotidiana e ha spezzato il pane fresco del mondo, invece delle mie croste muffose… lontano, lontano oceani interi da quella mia moglie bambina che ho sposato dopo i cinquanta, mettendo la vela il giorno dopo al Capo Horn e non lasciando nel cuscino nuziale che un’ infossatura… Moglie? Moglie? Vedova piuttosto, col marito ancor vivo. Sì, quando ho sposato quella povera ragazza io l’ho resa vedova, Starbuck. E poi, la pazzia, il delirio,l il sangue in fiamme e la fronte bollente, con cui in migliaia di discese il vecchio Achab ha dato la caccia furiosa, schiumosa, alla preda, da demonio più che da uomo.. Mi sento stracco a morte, piegato ricurvo come fossi Adamo, barcollante dal tempo del Paradiso sotto il cumulo dei secoli. Stammi accanto, Starbuck; fammi guardare un occhio umano; è meglio che guardare nel mare o nel cielo; è meglio che guardare in Dio».

Paolo Gulisano afferma che «Il mito di Moby Dick ci parla anche del problema del dolore: il male oscuro che tormenta Achab, il dolore acuto del capitano Gardiner, che incrocia il Pequod, e che ha il proprio figlio disperso in mare, un dolore al quale il sofferente Achab rimane totalmente indifferente, troppo preso dal proprio inseguimento della Balena Bianca per perdere tempo ad aiutare chi ha bisogno. […] Achab è l’icon dell’uomo della modernità, deluso dall’arroganza dell’antropocentrismo da un lato e disilluso nei confronti di Dio».

Ecco l’uomo abbandonato alla fioca esilità della miseria e alla nostalgia esiliata, tremenda di luce e felicità, come un re ferito e mutilato che scrive la sua mappa afflitta. E allora Starbuck tenta di distoglierlo e lo invita a ritornare a Nantucket e ai suoi dolci colori azzurri: «Che cosa è mai, quella cosa senza nome, imperscrutabile e ultraterrena è mai; quale signore e padrone nascosto e ingannatore, quale tiranno spietato mi comanda, perché contro tutti gli affetti e i desideri umani, io debba continuare a sospingere, ad agitarmi, a menare gomitate senza posa, accingendomi temerario a ciò che nel mio cuore vero, naturale, non ho mai osato nemmeno di osare? È Achab, Achab? Sono io, Signore, che sollevo questo braccio, o chi è? Ma se il sole immenso non si muove da sé, e non è che un fattorino del cielo; se nemmeno una stella può ruotare se non per un potere invisibile, come può dunque questo piccolo cuore battere, e questo piccolo cervello pensare, se non è Dio che dà quel battito, che pensa quei pensieri, che vive quella vita,e  non io?». Così Achab è di fonte al suo esodo di solitudine, davanti al mare e al dramma della sua libertà che sfida un dio minore, un diavolo bianco che fa vittime e corrode il destino.

Il dramma inizia ad avere compimento. La baleniera, dopo ripetuti contatti, si perde nell’abisso assieme a tutto l’equipaggio e Achab lancia il suo ultimo e spaventoso grido: «Io volterò la schiena al sole. […] mi è tolto anche l’ultimo caro orgoglio del più meschino capitano naufrago? Oh, una morte solitaria dopo una vita solitaria! Ora sento che la mia maggiore grandezza sta nel mio maggior dolore. Olà, olà!. Dai più lontani confini rovesciatevi ora quaggiù, flutti audaci di tutta la mia vita trascorsa, e ammucchiatevi in questo grande cavallone della mia morte! A te vengo, balena che tutto distruggi ma non vinci, fino all’ultimo lotto con te; dal cuore dell’inferno ti trafiggo; in nome dell’odio, vomito a te l’ultimo mio respiro».

Il suo ultimo arpione come il suo ultimo respiro trascinato. Si salva solo Ismaele, aggrappato alla bara che Queequeg aveva costruito per il suo corpo. Verrà raccolto da un veliero, la “Rachele” che raccoglie orfani e salva dal naufragio.

L’uomo di Melville è in bilico su un disastro. Incalzato, spintonato dai mari dell’essere e della vita, afflitto dalle sue lotte, piene di lampi, contro miserie, tradimenti e lacerazioni.

Scrive un libro malvagio e si sente immacolato come un agnello, come egli stesso afferma in una lettera del 1851, sosta nell’ombra per dipanare una luce fioca, confusa e predestinata, quasi di esclusione.

Nell’esclusione e nella ribellione, la carità suprema attracca nel suo porto celeste e immolato, un disegno che accetta, un’ombra che si muove.

 

 

Melville H., Moby Dick, Rizzoli BUR, Milano 2012.

Id., Opere scelte, Mondadori, Milano 1972-1975.

Id., Viaggi e balene. Scritti inediti, Clichy, Firenze 2013.  

Amoruso V., Alla ricerca di Ismaele. La narrativa di Herman Melville, Graphis, Bari 2005.

Bacigalupo M. (a cura di), Rotte di lettura intorno a «Moby Dick», Marietti, Genova 1992.

Baird J., Ishmael, Harper, New York 1960.

Bianchi R.., Invito alla lettura di Melville, Mursia, Milano 1997.

Castelli F., Herman Melville: «Moby Dick», in «La Civiltà Cattolica», IV, 2012.

Gulisano P., Fino all’abisso. Il mito moderno di Moby Dick, àncora, Milano 2013.

Storia letteraria degli Stati Uniti, vol.2, il Saggiatore, Milano 1963.

Pavese C., La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi 1951.

Pegoraro P., Moby Dick ovvero l’importanza della forma, «www.zenit.org», 5 aprile 2011.

Weaver R.M., Herman Melville: Mariner and Mystic, Doran, New York 1921.

 

Il viaggio inciso di Charles Wright

di Andrea Galgano                                         5 febbraio 2014

poesia contemporanea Il viaggio inciso di Charles Wright

charles-wright

La poesia di Charles Wright (1935), è una immersione nell’esperienza totale. Nato nel Tennessee, dopo aver studiato nell’Iowa e insegnato nella California, oggi insegna a Charlottesville, in Virginia. Vincitore di premi prestigiosi, come il Ruth Lily Poetry Prize o nel 1998 del Premio Pulitzer per la poesia nel 1998, è anche noto traduttore di Montale e Campana e inseguitore dei crocevia danteschi.

Nella visionarietà torrenziale ed ulteriore si trova la traccia potente e dolce del suo slargo, in cui alla solida poesia statunitense di Whitman, Dickinson, Wallace Stevens o Pound, si accompagna una sua peculiare intensità epifanica, fradicia di talento e immagine: «le nostre preghiere – come vestiti, come scaglie di cenere – che prendono il volo senza di noi / in un sempiterno, / che continua senza di noi, / azzurro dentro azzurro dentro azzurro – / le nostre preghiere, come schegge di vetro esauste d’acqua, / vorticanti nella risacca, levigate e indistruttibili e lucenti, / le nostre vite un graffio nel cielo, indolori, impossibili da rievocare» (Vita negativa).

Commenta padre Antonio Spadaro: «Poeta di epifania spirituale, Wright è poeta legato, sia per immagini sia per atteggiamenti interiori, ai paesaggi rurali o comunque connessi alla natura selvaggia. Sembra così accostare implicitamente le foreste indiane alla selva oscura dantesca con echi e rimandi di grande intensità alla ricerca di una via».

La via aurale e concepita scommette invocazioni, apre schemi essenziali come scrittoi stellati e insolubili: «Inizio di novembre nell’anima, / Pioggia forte e oro scuro / dagli alberi, luce obliqua / del pomeriggio inoltrato e greve peso sul cuore. / Come sempre svigorito e spento. / Sessantaduenne, voce incolta, incline alla notte, / sono in piedi e tranquillo sul vialetto vuoto. / Sblocca il mio habitat, luce stellare, fammi insolubile».

La contemplazione del divino scardina nuove sorprese, in cui l’architettura intensa e perfetta dei versi forgia le sue forme in una coincidenza ultima, in una estremità di viaggio peregrino, teso alla redenzione, come un diagramma che si estende fino all’anima: «E qui, dove il cigno mugola nel suo incavo, dove la sanguinaria / e la belladonna insistono a confortarci […] come una goccia di limpido olio il Guaritore ruota nel vento della notte».

Pertanto già nei suoi primi testi, come Bloodlines (1975) e China Trace (1977), come afferma Antonella Francini, «si trovano già definiti gli inconfondibili tratti della sua scrittura dal taglio fortemente autobiografico (aneddotico, appunto), affidata ad una lingua icastica, netta, che sembra incidere la pagina. Vi si trovano già la struttura del viaggio, la figura di un alter ego in cammino verso un’elusiva e improbabile spiritualità, cosciente dei propri limiti conoscitivi; il tema dei morti chiamati in causa come ispirazione e monito per chi vive, metafora estrema dell’inconoscibile, presenza eterna nella continua rigenerazione del mondo di cui tutta la poesia di Wright è un altissimo canto; la percezione di un io inquieto che continua a interrogarsi sul suo viaggiare («E dove ci porta, pellegrino, / questo andare avanti e indietro sulla terra, sapendo / che niente cambia, o tutto; / e, per raccontarlo,  solo questi tristi segni, / frasi analizzate a metà, ellissi e fregi sul terreno?»); il ruolo fondamentale del paesaggio che freme di invisibili presenze metafisiche epifanie; la struttura geometrica, infine, a chiudere il tutto».

I suoi lampi di memoria costeggiano la dimensione terrena, inseguendo redenzioni e impronte salve, rigenerando la superficie del mondo, in una geometrica compiutezza che richiama patrie e risurrezioni («Se noi, come siamo, siamo polvere, e la polvere, com’è certo, risorge» o ancora «allora risorgeremo, e ci raduneremo / nel vento, nella nuvola, e saremo il loro effluvio, / una cascata di cose nella cascata del mondo, e scivoleremo / fra i rami puntuti e le giunture schiantate dei sempreverdi»): «Le foglie mi cadono dalle dita. / Fiori di mais si spargono sui campi come stelle, / come stelle di fumo, / presso i binari del treno, le foglie turbinano / sotto le nuvole lente / e i nove gradini ai cieli, / la luce cade a grandi lenzuoli fra gli alberi, / lenzuoli quasi veri. / Penso che la trasfigurazione comincerà così, / fiato mozzato, / lama veloce tra gli alberi, / qualcosa di rosso che mi cade dalle mani, / l’aria che si raffredda … / E allora / uscirò da questo corpo stanco, un nodo sanguigno di luce, / pronto ad accogliere in me il buio. / – O per l’arrivo del vento / che, osso dopo osso, mi trasporterà per il cielo, / la sua ostia un’ustione sulla mia lingua, / il suo vino oblio profondo».

Le presenze invisibili abitano il presente nel loro sipario mitico, il ricordo effonde il suo richiamo di spazi fragili e potenti, si assiste, persino, all’interrogazione sul destino ultimo dei cieli, alla popolosa partecipazione dell’essere («Che c’entri tu, anima mia, col Paradiso?») e alla domanda di folgore che incanta e poi scompare, per scrivere poesia «su Dio o sull’uomo – e credo che esistano poche altre categorie – il solco da lui tracciato ci precede. Non ci resta altro che seguirlo».

«Wright», ha scritto sul “Corriere della Sera”, Sergio Perosa il 19 luglio 2001, «gioca superbamente con ciò che resta e non resta, ci elude e ci afferra, ci incanta e scompare; è un metafisico del cuore e del quotidiano, con voce cristallina»: «Lentamente una foglia si sgancia da un ramo. / Lentamente le mani velate dei morti svolazzano dai loro antri. / Una fiammella rosata è estinta nella mia bocca».

L’ombra che si staglia e affossa ritardi, pregna di immagini care, estremità correlata, nascosta realtà trascendente che sistema le presenze e le assenze in un messaggio partecipe e invisibile. Non si allontana mai dal vissuto la sua frequentazione di dolore e gioia, come una persistente iconografica che disegna viaggi nel mondo, raggiunge l’indaco sidereo delle costellazioni, si dissolve nelle tappe dell’io proteso all’infinito: «Come sempre il silenzio avrà l’ultima parola, / e Venezia s’adagerà come seta / sul bordo del mare e del cielo notturno, / albeggiante di luna. / Si vive tutti la stessa vita / se si vive abbastanza».

Ma c’è sempre un andirivieni di alterità non toccate, nei lividi verdi, nelle promesse alle finestre, nelle sopravvivenze ripetute per sempre: «Ho parlato d’una una cosa sola per trent’anni, / l’ho detta e ripetuta, / vento come grossi pali fra gli alberi – / voglio dire il piccolo punto immobile nel punto dove tutte le cose si incontrano; / voglio dire la forma che muove il  sole e le altre stelle».

Nelle sue trilogie, il passo del tempo è una sfaldatura di suono, una scatola che contiene punti nascosti ed emersi che percorre la volta delle cose in una viva e sperata estremità: «L’Orsa Maggiore mi ha seguito ogni giorno della mia vita. / Sotto le sue stelle di latta ilo mio passato è arrivato e partito. / Stanotte, nello smalto d’aprile / e negli intagli eburnei del cielo, / mi benedice ancora una volta / con la sua acqua nera, e mi spinge avanti».

Venezia, Verona, il Tennessee o gli Appalachi impongono percorse immersioni attonite, dialogo serrato con i trapassi, respinti dai limiti, ma uniscono distanze reali e ideali «verso un’agognata quanto elusiva epifania spirituale dell’autobiografico protagonista e narratore che instancabilmente rivisita i luoghi che sente legati a intense emozioni e rivelazioni, e pertanto, a lui “sacri”».

Il paesaggio, la lingua, l’idea del divino coordinano il suo azzardo imprevedibile, la frontiera delle cose perdute e ritrovate, come le pietre nere e rare degli episodi, della mitologia e dei segreti.

Il paesaggio, «risurrezione della parola», raccoglie il ciclo delle stagioni, il vetro segreto degli anni, le rive altre dei fiumi che amano giocare nelle foglie quando il crepuscolo raggruma di ombre l’aria e l’argenteo alfabeto del mare: «è di legami che sto parlando, / di armonie e strutture / e di tutte le cose che serrano i nostri polsi al passato. / Qualcosa d’infinito appare oltre ogni cosa, / e poi scompare. / è solo questione di come / si restringono le superfici. / è solo questione del nostro posto nel cielo».

La natura si accende, proclama i suoi chiarori lunari, tinteggia i meriggi e scoperchia le notti assorte, per raggiungere il remoto avamposto dell’io, immerso in un lembo remoto: «Immagino sempre una bocca / dentro di me che comincia a aprire / le sue labbra blu, un braccio / che s’incurva triste su una finestra aperta / la sera, e rospi che balzano nell’erba umida. / Di nuovo il silenzio dei fiori. / Di nuovo le flebili note di musica di piano là nei boschi / Come riempie facilmente la stanza l’estate».

La comparsa e disparizione delle cose non concedono un terrificante progetto di nulla, ma conoscono il chiaroscuro delle autobiografie, in cui il paesaggio non è cornice, ma bagliore innamorato, solco di vento, segno di lingua addosso che si appropria di blues, contry, jazz e gospel: «Tutto è più essenziale nella luce del nord, cavalli / distesi sul prato secco, / nuvole in fila come carri di pionieri / sul bordo sinistro dell’orizzonte, / forbici di rondini si tuffano ad angelo, / bip d’api e cantilena di mosche, Dio con l’orecchio buono / al suolo. / Tutto è più intenso, il vento / ristagna quasi invisibile tra i larici, / linfa dorata sull’ombrello del pino, / un mosaico bizantino / dentro la cupola del giorno, / caratteri cuneiformi sfumati sul fondo della foresta. / Tutto sembra immediato, / come schegge del divino / d’improvviso screziate sulla punta delle nostre dita, / conoscenza proibita dell’oltre ciò che possiamo appena / decifrare, / fili d’erba inclini ad abbagliare e piegarsi, / acque mnemoniche, picchi, uccelli del crepuscolo».

La caccia e l’inseguimento a Dio che compie Charles Wright è un abbaglio scomparso che ogni volta, prepotentemente, torna a galla per accarezzare il limite e attendere trasmutazioni «dalla prospettiva di un monaco nella sua cella»: «Cammino nel freddo della notte d’autunno pieno / come Orfeo, / pensando il mio canto, ansioso di voltarmi, / la mia vita svanita un ornamento, una / nuvola alla deriva dietro di me, / dolce trascendenza di cenere / sepolta e risorta una volta, e poi ancora / e ancora …».

Antonella Francini scrive che: « […] Il paesaggio e la lingua sono il negativo del trascendente, come il passato lo è del presente. La poesia metafisica di Wright lavora nello scarto minimo tra il visibile e il buio, in una zona di crepuscolo che prelude all’inevitabile sconfitta della luce e del poeta affinchè un nuovo viaggio inizi e la mappa dell’anima continui ad estendersi entro le sue geometriche strutture come, secondo un’immagine cara a Wright, una ragnatela sempre più ampia concentrica alla sua origine»: «Sotto i peschi, gli ideogrammi che le foglie gettano / sull’erba acconciata dal sole dicono / purgatio, illuminatio, contemplatio, / parole còlte in una luce dolce e duratura, / al contrario di quella dove conducono, / la cui vista ci fa colare a picco e incolti come campi abbandonati».

Il suono scrive e cerca la sua redenzione, come quando risuona il fiume «E siamo ancora qui fuori immobili a guardare lassù, a guardare lassù i cieli pensando» (Sky Diving). Il paesaggio è lì, tramato nelle percezioni memoriali, negli sconquassi dei fatti minimi, nei confini di vetro istoriato che affresca il suo tempo mitico, in una traccia visibile che sfiora l’invisibile tempo «nel punto in cui tutte le cose s’incontrano»: «La raffica di pioggia si è bloccata di schianto, / ciondolano seducenti le fronde della palma. / La vita, come si dice, è bella».

L’estensione dell’io, come la sua contrazione e la sua sfrangiatura, accerchia la sua domanda elementare, spinta verso l’alto e indomita nei suoi chiari abissi di vertice ascendente: «Cosa c’è per noi d’imperturbabile nelle stelle? / Quale impulso, quale bassa marea / ci attrae lassù come vertigine / quale / inversione di quota ci spinge verso i loro abissi chiari? […] Chi dirà che il respiro d’un angelo non m’ha sfiorato l’orecchio?».

La sua «dolce trascendenza di cenere» ammanta i suoi punti inafferrabili ma toccabili, come ricami in filigrana, sospesi tra le stelle e i loro vortici. Il tempo è inviolato, la coltre è una luce accesa: «C’è un’ultima solitudine dove non sono ancora giunto, / la stanchezza come polvere in gola. / Ma fremo dentro il suo contorno, / e mi sento al sicuro, mentre le stelle traboccano, per una notte ancora / come un viandante medievale affrescato con in mano il suo poema, / intorno sempre i cieli. / E come lui, qualcosa di rosso e inviolato sotto i miei piedi».

 

Wright C., Crepuscolo americano e altre poesie (1980-2000), Jaca Book, Milano 2001.

Id., Breve storia dell’ombra, Crocetti, Milano 2006.

Spadaro A., Nuova poesia degli Stati Uniti, in «La Civiltà Cattolica», II, 3767, 2007, ora in Id., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013.