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La poesia di Kim Addonizio

Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella

Biografia

Kim Addonizio, nata il 31 luglio 1954 a Washington, D.C., ha conseguito la laurea e il master presso la San Francisco State University. Ha pubblicato numerose raccolte di poesie, tra cui “Exit Opera” (2024), “Now We’re Getting Somewhere” (2021) e “Tell Me” (2000), finalista al National Book Award. Tra le sue opere in prosa ci sono il memoir  “Bukowski in a Sundress” (2016), due romanzi e diverse guide alla scrittura.

Addonizio ha ricevuto borse di studio dal National Endowment for the Arts e dalla Guggenheim Foundation, oltre a numerosi Pushcart Prizes. Insegna corsi di poesia online e vive a Oakland, California.

 

 
New Year’s Day

The rain this morning falls
on the last of the snow

and will wash it away. I can smell
the grass again, and the torn leaves

being eased down into the mud.
The few loves I’ve been allowed

to keep are still sleeping
on the West Coast. Here in Virginia

I walk across the fields with only
a few young cows for company.

Big-boned and shy,
they are like girls I remember

from junior high, who never
spoke, who kept their heads

lowered and their arms crossed against
their new breasts. Those girls

are nearly forty now. Like me,
they must sometimes stand

at a window late at night, looking out
on a silent backyard, at one

rusting lawn chair and the sheer walls
of other people’s houses.

They must lie down some afternoons
and cry hard for whoever used

to make them happiest,
and wonder how their lives

have carried them
this far without ever once

explaining anything. I don’t know
why I’m walking out here

with my coat darkening
and my boots sinking in, coming up

 

with a mild sucking sound
I like to hear. I don’t care

where those girls are now.
Whatever they’ve made of it

they can have. Today I want
to resolve nothing.

I only want to walk
a little longer in the cold

blessing of the rain,
and lift my face to it.

 

 

Il Giorno di Capodanno

La pioggia questa mattina cade
sulla poltiglia della neve

e la spazzerà via. Riesco a sentire
l’odore dell’erba di nuovo, e le foglie logore
venir inghiottite dal fango.
I pochi amori che mi è stato concesso
di mantenere stanno ancora dormendo
sulla West Coast. Qui in Virginia

cammino attraverso i campi con soltanto
un paio di giovani mucche per compagnia.
Dall’ossatura robusta e timide,
sono come le ragazze che ricordo
dalla scuola media, che non
parlavano mai, che tenevano le teste

chine e le braccia conserte sui
loro nuovi seni. Quelle ragazze

hanno quasi quarant’anni oggi. Come me,
devono affacciarsi qualche volta

ad una finestra a notte inoltrata, di fronte
ad un giardino silenzioso, ad una

sedia a sdraio arrugginita e alle pareti diafane
delle case delle altre persone.
Devono distendersi qualche pomeriggio
e piangere a dirotto per coloro
che le resero felici,
e domandarsi come le loro vite
le abbiano portate
fino a quel punto senza mai
dare alcuna spiegazione. Non so
perché io stia camminando qui fuori

con il cappotto che si annerisce
e gli stivali che affondano, riemergendo

con un morbido suono da suzione
che mi piace ascoltare. Non mi importa

dove queste ragazze siano adesso.
Qualsiasi cosa abbiano fatto delle loro vite

possono tenersela. Oggi non voglio
risolvere niente.
Voglio solo camminare
un po’ più a lungo nella fredda

benedizione della pioggia,
e alzare il viso in su.

The Singing

There’s a bird crying outside, or maybe calling, anyway it goes on
and on
without stopping, so I begin to think it’s my bird, my insistent
I, I, I that today is so trapped by some nameless but still relentless
longing
that I can’t get any further than this, one note clicking
metronomically
in the afternoon silence, measuring out some possible melody
I can’t begin to learn. I could say it’s the bird of my loneliness
asking, as usual, for love, for more anyway than I have; I could as
easily call it
grief, ambition, knot of self that won’t untangle, fear of my own
heart. All
I can do is listen to the way it keeps on, as if it’s enough just to
launch a voice
against stillness, even a voice that says so little, that no one is
likely to answer
with anything but sorrow, and their own confusion. I, I, I, isn’t it
the sweetest
sound, the beautiful, arrogant ego refusing to disappear? I don’t
know
what I want, only that I’m desperate for it, that I can’t stop asking.
That when
the bird finally quiets I need to say it doesn’t, that all afternoon
I hear it, and into the evening; that even now, in the darkness, it
goes on.

 

 

Il canto

C’è un uccello che piange fuori, o forse grida, in ogni caso continua
incessante,
senza fermarsi, così inizio a pensare che sia il mio uccello, il mio insistente
io, io, io che oggi è talmente intrappolato da qualche desiderio senza nome
ma pur sempre irrefrenabile
che non riesco ad andare più avanti di così, una nota che ticchetta
in maniera metronomica
nel silenzio del pomeriggio, scandendo qualche possibile melodia
che non potrei mai imparare. Potrei dire che è l’uccello della mia solitudine
che chiede, come al solito, amore, o comunque più di quanto io ne abbia; Potrei
con altrettanta semplicità chiamarlo
dolore, ambizione, un nodo del sé che non si vuole sciogliere,  paura del mio
cuore. Tutto ciò
che posso fare è ascoltare il modo in cui persiste, come se bastasse
scagliare una voce
contro la quiete, anche solo una voce così flebile, a cui probabilmente
nessuno risponderà
con nient’altro che dolore e confusione. io, io, io, non è il
suono
più dolce, il bellissimo, arrogante ego che si rifiuta di scomparire? Non
so
cosa voglio, so solo che ne ho un bisogno disperato, e non riesco a smettere di chiederlo.
Che quando
l’uccello finalmente tace, devo convincermi che non sia vero, che per tutto il pomeriggio
io lo sento, e fino a sera; e anche adesso, nel buio,
persevera.

 

Blue Door

Today I passed the house
we rented last summer.
It was only a glimpse
as I drove by-
blue door,
adobe arch painted with flowers.
In memory
your dusty van is parked on the gravel
and you’re standing at the stove
while I curl
on the couch with a book,
pretending to read,
but secretly
watching you, loving
how you look-
intent on our meal,
on getting it right.
How clearly
I can see everything:
cars passing
on the road outside,
you, shirtless, leaning over
a cast-iron pot,
me holding a few useless
words in my hands.
Nothing I’ll say
will make you stay with me,
nothing erase how you’ll turn
toward me, offering the wooden spoon
so that I get up,
and come to you, and taste
that salt on my tongue.

 

Porta Blu

Oggi sono passata davanti alla casa
che affittammo la scorsa estate.
È stata solo un’occhiata
mentre guidavo –
porta blu,
arco d’argilla dipinto di fiori.
In ricordo
il tuo van impolverato è parcheggiato sulla ghiaia
e tu sei in piedi davanti al fornello
mentre io mi rannicchio
sul divano con un libro,
fingendo di leggere,
ma di nascosto
guardandoti, amo
il modo in cui sei
concentrato sul nostro pasto,
sul prepararlo bene.
Quanto chiaramente
riesco a vedere tutto:
le macchine che passano
sulla strada fuori,
tu, a petto nudo, chino su
una pentola in ghisa,
io che tengo qualche parola
inutile nelle mie mani.
Nulla di ciò che dirò
ti convincerà a restare con me,
nulla cancellerà il modo in cui ti volterai
verso di me, offrendomi il mestolo di legno
così che io mi alzi,
e venga da te, e assaggi
quel sale sulla mia lingua.

Near Heron Lake

During the night, horses passed close
to our parked van. Inside I woke cold
under the sleeping bag, hearing their heavy sway,
the gravel harsh under their hooves as they moved off
down the bank to the river. You slept on,
though maybe in your dream you felt them enter
our life just long enough to cause that slight
stirring, a small spasm in your limbs and then
a sigh so quiet, so close to being nothing
but the next breath, I could believe you never guessed
how those huge animals broke out of the dark and came
toward us. Or how afraid I was before I understood
what they were–only horses, not anything
that would hurt us. The next morning
I watched you at the edge of the river
washing your face, your bare chest beaded with bright water,
and knew how much we needed this,
the day ahead with its calm lake
we would swim in, naked, able to touch again.
You were so beautiful. And I thought
the marriage might never end.

Vicino a Heron Lake

Durante la notte, dei cavalli passarono vicino
al nostro van parcheggiato. Dentro mi svegliai infreddolita
sotto il sacco a pelo, sentendo la loro movenza pesante,
la ghiaia ruvida sotto i loro zoccoli mentre si spostano
lungo la sponda fino al fiume. Tu continuasti a dormire,
sebbene, forse, nel tuo sogno li sentisti irrompere nella
nostra vita giusto il tempo di provocare quella leggera
agitazione, un piccolo spasmo nei tuoi arti e poi
un sospiro così silenzioso, così vicino all’essere nient’
altro che il prossimo respiro, che credevo non avresti mai immaginato
come quegli enormi animali emersero dal buio e vennero
verso di noi. O quanto spaventata io fossi prima di capire
cosa fossero – soltanto dei cavalli, niente
che potesse ferirci. La mattina seguente
ti guardai alla riva del fiume
mentre ti lavavi il viso, il tuo petto nudo imperlato d’acqua lucente,
e capii quanto avevamo bisogno di tutto ciò,
il giorno dinanzi a noi, con il suo lago calmo
in cui avremmo nuotato, nudi, in grado di toccarci di nuovo.
Eri così bello. E pensai che il matrimonio non sarebbe mai finito.

 

 

La poesia di Aracelis Girmay

Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella

Aracelis Girmay Traduzioni

Aracelis Girmay Biografia

Aracelis Girmay è nata e cresciuta a Santa Ana, in California. Si è laureata al Connecticut College nel 1999 e ha poi conseguito un Master in scrittura creativa, specializzandosi in poesia alla New York University.
Girmay è autrice di Black Maria (BOA Editions, 2016), per il quale è stata finalista al Neustadt International Prize for Literature; Kingdom Animalia (BOA Editions, 2011), vincitore dell’Isabella Poetry Award e finalista al National Books Critics Circle Award; e Teeth (Curbstone Press, 2007), vincitore del GLCA New Writers Award.  Nel 2015 Girmay ha ricevuto un Whiting Award.
Girmay è anche l’autrice e la disegnatrice del libro illustrato, “changing, changing”(George Braziller, 2005). Con la sorella ha collaborato al libro illustrato “What Do You Know?” (Enchanted Lion, 2021). Ha ricevuto premi e borse di studio da Cave Canem, Civitella Ranieri, American Academy of Arts and Letters e National Endowment for the Arts. Attualmente è curatrice di Blessing the Boats Selections di BOA Editions e fa parte del comitato editoriale dell’African Poetry Book Fund. Girmay vive a New York.

 

 Kingdom Animalia

When I get the call about my brother,

I’m on a stopped train leaving town

& the news packs into me—freight—

though it’s him on the other end

now, saying finefine

 

Forfeit my eyes, I want to turn away

from the hair on the floor of his house

& how it got there Monday,

but my one heart falls

like a sad, fat persimmon

dropped by the hand of the Turczyn’s old tree.

 

I want to sleep. I do not want to sleep. See,

 

one day, not today, not now, we will be gone

from this earth where we know the gladiolas.

My brother, this noise,

some love [you] I loved

with all my brain, & breath,

will be gone; I’ve been told, today, to consider this

as I ride the long tracks out & dream so good

 

I see a plant in the window of the house

my brother shares with his love, their shoes. & there

he is, asleep in bed

with this same woman whose long skin

covers all of her bones, in a city called Oakland,

& their dreams hang above them

a little like a chandelier, & their teeth

flash in the night, oh, body.

 

Oh, body, be held now by whom you love.

Whole years will be spent, underneath these impossible stars,

when dirt’s the only animal who will sleep with you

& touch you with

its mouth.

 

 

 

Kingdom Animalia

Quando ricevo la chiamata su mio fratello,
sono su un treno fermo che sta lasciando la città
& la notizia mi ingombra –fardello–
sebbene ci sia lui all’altro capo del telefono
adesso, a dirmi sto bene sto bene

Rinuncio ai miei occhi, voglio voltarmi
dai capelli sul pavimento di casa sua
& da come siano arrivati lì lunedì,
ma il mio unico cuore cede
come un caco, triste e pieno
caduto dalla mano del vecchio albero dei Turczyn.

Voglio dormire. Non voglio dormire. Vedi,

un giorno, non oggi, non ora, scompariremo da questa terra
in cui conosciamo i gladioli.
Fratello mio, questo rumore,
qualche amore [tu] che amai
con tutto il mio cervello, & respiro,
scomparirà; mi è stato detto, oggi, di tenerlo in considerazione
mentre percorro i lunghi binari & sogno così bene.

vedo una pianta sulla finestra della casa
che mio fratello condivide con il suo amore, le loro scarpe. & eccolo
lì, addormentato nel letto
con questa stessa donna la cui lunga pelle
copre tutte le ossa, in una città chiamata Oakland,
& i loro sogni pendono su di loro
un po’ come una lumiera, & i loro denti
balenano nella notte, oh, corpo.

Oh, corpo, fatti stringere adesso da chi ami.
Anni interi passeranno, sotto queste
stelle impossibili,

quando la terra sarà l’unico animale che dormirà con te
& ti toccherà con
la sua bocca.

 

I Am Not Ready To Die Yet
aftrer Joy Harjo

I am not ready to die yet: magnolia tree
going wild outside my kitchen window
& the dog needs a house, &, by the way,
I just met you, my sisters & I
have things to do, & I need
to talk on the phone with my brother. Plant a tree.
& all the things I said I’d get better at.
In other words, I am not ready to die yet
because didn’t we say we’d have a picnic
the first hot day, I mean,
the first really, really hot day?
Taqueria. & swim, kin,
& mussel & friend, don’t you go, go, no.
Today we saw the dead bird, & stopped for it.
& the airplanes glided above us. & the wind
lifted the dead bird’s feathers.
I am not ready to die yet.
I want to live longer knowing that wind
still moves a dead bird’s feathers.
Wind doesn’t move over & say That thing
can’t fly. Don’t go there. It’s dead.
No, it just blows & blows lifting
what it can. I am not ready
to die yet. No.
I want to live longer.
I want to love you longer, say it again,
I want to love you longer
& sing that song
again. & get pummeled by the sea
& come up breathing & hot sun
& those walks & those kids
& hard laugh, clap your hands.
I am not ready to die yet.
Give me more dreams. To taste the fig.
To hear the coyote, closer.
I am not ready to die yet.
But when I go, I’ll go knowing
there will be a next time. I want
to be like the cactus fields
I drove through in Arizona.
If I am a cactus, be the cactus
I grow next to, arms up,
every day, let me face you,
every day of my cactus life.
& when I go or you go,
let me see you again somewhere,
or you see me.

Isn’t that you, old friend, my love?
you might say, while swimming in some ocean
to the small fish at your ankle.
Or, Weren’t you my sister once?
I might say to the sad, brown dog who follows me down
the street. Or to the small boy
or old woman or horse eye
or to the tree. I know I knew I know you, too.
I’m saying, could this be what makes me stop
in front of that dogwood, train whistle, those curtains
blowing in that window. See now,
there go some eyes you knew once
riding the legs of another animal,
wearing its blue sky, magnolia,
wearing its bear or fine
or wolf-wolf suit, see,
somewhere in the night a mouth is singing
You remind me You remind me
& the heart flips over in the dusky sea of its chest
like a fish signaling Yes, yes it was me!
& yes, it was, & you were there, & are here now,
yes, honey, yes hive, yes I will, Jack,
see you again, even if it’s a lie, don’t
let me know, not yet, not ever, I need to think
I’ll see you, oh,
see you
again.

 

Non Sono Ancora Pronta Per Morire
da Joy Harjo

Non sono ancora pronta per morire: albero di magnolia
si infervora fuori dalla finestra della mia cucina
& al cane serve una casa, &, comunque,
ti ho appena incontrato, le mie sorelle & io
abbiamo cose da fare, & devo parlare al telefono con mio fratello. Piantare un albero.
& tutte le  cose in cui ho detto che sarei migliorata.

In altre parole, non sono ancora pronta per morire
perché non avevamo detto che avremmo fatto un picnic
il primo giorno di caldo, cioè,
il primo giorno, veramente, veramente caldo?
Taqueria. & nuotare, famiglia,
& cozza & amico, non andartene, vai, no.

Oggi abbiamo visto l’uccello morto, & ci siamo fermati.
& gli aeroplani planavano sopra di noi. & il vento
levava le piume dell’uccello morto.

Non sono ancora pronta per morire.
Voglio vivere più a lungo sapendo che il vento
muova ancora le piume di un uccello morto.
Il vento non si scosta & dice Quella cosa
non può volare. Non andare là. È morta
.
No, soffia e basta & soffia sollevando
ciò che può. Non sono ancora pronta
per morire. No.

Voglio vivere più a lungo.
Voglio amarti più a lungo, dirlo di nuovo,
Voglio amarti più a lungo
& cantare quella canzone
di nuovo. & essere scossa dal mare
& riemergere respirando & sole caldo
& quelle passeggiate, & quei ragazzini
& risata forte, batti le mani.
Non sono ancora pronta per morire.

Dammi più sogni. Per assaporare il fico.
Per sentire il coiote, più vicino.
Non sono ancora pronta per morire.
Ma quando me ne andrò, me andrò sapendo
che ci sarà una prossima volta. Voglio

essere come le distese di cactus
attraverso le quali guidavo in Arizona.
Se sono un cactus, sii il cactus
che mi cresce accanto, a braccia in su,
ogni giorno, lasciati guardare,
ogni giorno della mia vita da cactus.

& quando me ne vado o te ne vai,
lascia che io ti veda di nuovo da qualche parte,
o che tu veda me.

 

Non sei tu, vecchio amico, amore mio?
potresti dire, mentre nuoti in qualche oceano
al pesciolino alla tua caviglia.
Oppure, non eri mia sorella una volta?
potrei dire al cane marrone e triste che mi segue
lungo la strada.  O al bambino
o alla donna anziana o all’occhio del cavallo
o all’albero. So che sapevo di conoscerti, anch’io.
Voglio dire, potrebbe essere questo che mi fa fermare
di fronte a quella sanguinella, a quel fischio del treno, a quelle tende
che svolazzano in quella finestra. Guarda adesso,
ecco alcuni occhi che conoscevi un tempo
cavalcano le gambe  di un altro animale,
vestendo il suo cielo blu, magnolia,
indossando il suo abito da orso
o da lupo o elegante, vedi,
da qualche parte nella notte una bocca sta cantando
Tu mi ricordi di Tu mi ricordi di
& il cuore fa un salto mortale nel mare oscuro del suo petto
come un pesce che segnala Sì, sì ero io!
& sì, eri tu, & tu eri lì, & ora sei qui,
sì, tesoro, un covo di sì, sì Jack,
ti vedrò di nuovo, anche se fosse una bugia, non
dirmelo, non ancora, né mai, devo pensare
che ti rivedrò, oh,
ti vedrò
ancora.

 

[When I come home they rush to me, the flies]

When I come home they rush to me, the flies, & would take me, they would take me in their small arms if I were smaller, so fly this way, that way in joy, they welcome me. They kiss my face one two, they say, Come in, come in. Sit at this table. Sit. They hold one hand inside the other & say, Eat. They share the food, sit close to me, sit. As I chew they touch my hair, they touch their hands to my crumbs, joining me. The rim of my cup on which they perch. The milky lake above which. They ask for a story: How does it begin? Before, I was a child, & so on. My story goes on too long. I only want to look into their faces. The old one sits still, I sit with it, but the others busy themselves now with work & after the hour which maybe to them is a week, a month, I sleep in the room between the open window & the kitchen, dreaming though I were the Sierra, though I were their long lost sister, they understand that when I wake I will have to go. One helps me with my coat, another rides my shoulder to the train. Come with me, come, I say. No, no, it says, & waits with me there the rest whistling, touching my hair, though maybe these are its last seconds on earth in the light in the air is this love, though it is little, my errand, & for so little I left my house again.

[Quando rincaso si avventano su di me, le mosche]

Quando rincaso si avventano su di me, le mosche, &  mi prenderebbero, mi prenderebbero tra le loro piccole braccia se fossi più piccola, dunque volano di qua, di là con gioia, mi accolgono. Mi baciano in viso una due, dicono, Accomodati, accomodati. Siediti a questo tavolo. Siediti. Tengono una mano nell’altra & dicono, Mangia. Condividono il cibo, siedono vicino a me, siedono.  Mentre mastico mi toccano i capelli, toccano con le  mani le mie briciole, unendosi a me . Il bordo della mia tazza su cui si posano. Il lago lattescente sul quale. Chiedono una storia: Come inizia? Prima, ero una bambina, & così via. La mia storia va avanti troppo a lungo. Voglio solo guardarle in faccia. Quella anziana siede inerte, io siedo con lei, ma le altre adesso si dedicano al lavoro & dopo l’ora che forse per loro è una settimana, un mese, dormo nella stanza tra la finestra aperta & la cucina, sognando di essere la Sierra, di essere la loro sorella perduta da tempo, capiscono che quando mi sveglio dovrò andare via. Una mi aiuta con il cappotto, un’ altra poggia sulla mia spalla fino al treno. Vieni con me, vieni, io dico. No, no, dice, & aspetta lì con me le altre fischiettando, toccandomi i capelli, anche se forse questi sono i suoi ultimi secondi sulla terra nella luce nell’aria è forse questo amore, sebbene piccolo, il mio incarico, & per così poco sono uscita di casa di nuovo.
 

La poesia di Molly McCully Brown

Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella

Traduzioni MollyMcCullyBrown

Molly McCully Brown è l’autrice della raccolta di saggi Places I’ve Taken my Body pubblicata negli Stati Uniti nel giugno 2020 da Persea Books e nel Regno Unito nel marzo 2021 da Faber & Faber e della raccolta di poesie The Virginia State Colony For Epileptics and Feebleminded (Persea Books, 2017), che ha vinto il Lexi Rudnitsky First Book Prize nel 2016 ed è stata nominata tra i migliori libri del 2017 dai critici del New York Times. Insieme a Susannah Nevison, è anche coautrice della raccolta di poesie In The Field Between Us (Persea Books, 2020).Brown è stata destinataria della Amy Lowell Poetry Traveling Scholarship, della United States Artists Fellowship, Civitella Ranieri Foundation Fellowship e della Jeff Baskin Writers Fellowship dell’Oxford American magazine. Le sue poesie e i suoi saggi sono apparsi su The Paris Review, Tin House, The Guardian, Virginia Quarterly Review, The New York Times, The Yale Review e in magazine minori. Cresciuta nella Virginia rurale, si è laureata al Bard College at Simon’s Rock, alla Stanford University e all’Università del Mississippi, dove ha conseguito il suo MFA. Vive e insegna a Laramie, Wyoming, dove è direttrice del programma di scrittura creativa presso l’Università del Wyoming.

AFTER ALL (EVERYTHING)
this morning I wake up            and for a moment I think the visions have vanished
then I realize everything is shaded green the visions have alit like luna moths
around the dormitory on the doorframe and the table and the face
of every sleeping girl when I blow out my breath they travel noiselessly into the air
I pass an hour like this this is what no one tells you about suffering
sometimes you would not give it up for all the world

DOPOTUTTO (TUTTO)
questa mattina mi sveglio e per un momento penso le visioni sono scomparse
dopodiché realizzo che tutto è ombrato di verde le visioni sono atterrate come falene luna
intorno al dormitorio sugli stipiti della porta e sul tavolo e sul viso
di ogni ragazza addormentata quando esalo il mio respiro viaggiano senza far rumore nell’ aria
passo un’ora così questo è quello che nessuno ti dice della sofferenza
a volte non ci rinunceresti per nulla al mondo

Transubstantiation
It’s the middle of the night. I’m just a little loose on beer,
and blues,
and battered air, and all the ways this nowhere looks like
home:
the fields and boarded houses dead with summer, the
filling station rowdy
with the rumor of another place. Cattle pace the distance
between road
and gloaming, inexplicably awake. And then, the
bathtubs littered in the pasture,
for sale or salvage, or some secret labor stranger than I
know. How does it work,
again, the alchemy that shapes them briefly into boats, and then the bones
of great felled beasts, and once more into keening copper
bells, before
I even blink? Half a mile out, the city builds back up
along the margin.
Country songs cut in and out of static on the radio. Lord,
most of what I love
mistakes itself for nothing.

Transubstanziazione
È notte tarda. Sono soltanto un po’ sciolta dalla birra,
e il blues,
e dall’aria maltrattata, e da tutti i modi in cui questo niente assomiglia
a casa:
i campi e le pensioni morte con l’estate,
la stazione di servizio ricolma
del brusio di un altro posto. Il bestiame scandisce la distanza
tra la strada
e l’imbrunire, inspiegabilmente desto. E poi, le vasche da bagno
abbandonate nella radura,
da vendere o da riparare, o per farci qualche lavoro segreto più strano di quel che io
sappia. Come funziona,
ancora, l’alchemia che le trasforma brevemente in barche,
e poi le ossa
di grandi bestie abbattute, e poi di nuovo in campane ramate
disperanti, prima
ancora che io possa batter ciglio? Mezzo miglio più in là, la città si ricostruisce lungo
il margine.
Canzoni country vanno e vengono dall’interferenza della radio. Signore mio,
quasi tutto quel che amo
è in torto nel credersi effimero.

Virginia, Autumn
October, I’m dragging the dog away from perfect birds lifeless on the pavement. By the water, boys in dress blues with bayonets, the blistered hulls of boxships. Everything                                                                 is sunshine. Everything is dead, or dying, and this isn’t                                 a new thought. I grew up here, but farther from the ocean.                      Each April, they took us to the battlefield, marched us                              in schoolhouse lines up courthouse steps:  here                                               is where the war ended. Never mind that it was fall                                         before the final battleship lowered its flag; never mind                        that we still haven’t fired the last gun. What business                               do I have wanting a baby here: in this body                                                         where I can’t keep my balance, this country                                                    where we can’t keep anything alive that needs us,                                       or dares not to, not even the switchgrass                                                      pale and starved for groundwater? And still,                                                      I do want. I search the news for mention of the birds,                       whatever poison or disease I’m sure is claiming them                                  in such great numbers: meadowlarks, house wrens,                       chickadees, starlings. Once even a gray gull, pulled                                  open at the chest before we found him, hollowed                                        of his organs. It takes a long time—too long—                                                 for me to understand the sun in this season                                                      is blinding, and the birds are flying into windows                                               all around me, fourteen stories up. Flying into glass                                and falling. What we love is rarely blameless.                                                   Is it a failure that I wouldn’t trade this brightness?                                           I imagine pointing upward for my daughter:                                                Look, there, how it catches in the changing trees.

Virginia, Autunno
Ottobre, sto trascinando il cane via dai perfetti uccelli                      senza vita sul marciapiede. A riva, ragazzi in divisa blu                             con le baionette, lo scafo piagato delle navi cargo. Ogni cosa                    è luce. Ogni cosa è morta, o morente, e questo non è                                 un pensiero nuovo. Sono cresciuta qui, ma più lontana dall’oceano. Ogni aprile, ci portavano al fronte, ci facevano marciare                           in fila indiana sui gradini del tribunale: qui è dove è finita la guerra. Non importa che fosse ancora autunno                                                                 prima che l’ultima corazzata abbassasse la sua bandiera; non importa se non abbiamo ancora sparato l’ultimo proiettile. Che diritto ho io di volere un bambino qui: in questo corpo in cui non riesco a mantenere l’equilibrio, questo paese in cui non siamo in grado di sostentare ciò che ha bisogno di noi, o che osa non averne, neppure la gramigna pallida e affamata di acqua dal terreno? Eppure, io lo voglio. Cerco nel giornale notizie sugli uccelli, su qualsivoglia veleno o malattia sono sicura li stia portando via in gran numero: allodole, scriccioli, cince, storni. Una volta persino un gabbiano grigio, squarciato in petto prima che lo trovassimo, vuotato dei suoi organi. Mi ci vuole tanto tempo- troppo tempo- per capire che il sole in questa stagione è accecante, e gli uccelli volano contro le finestre intorno a me, al quattordicesimo piano. Volano contro il vetro e cadono. Quel che amiamo è raramente senza colpa. Mi sbaglio a non voler rinunciare a questa luce? Mi immagino di indicare il cielo per mia figlia: guarda, là, come si intrappola tra gli alberi che mutano.

#Nuova Poesia Americana 4

di Andrea Galgano 27 febbraio 2023

Nel quarto volume di Nuova poesia americana[1], edito da Black Coffee, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, gli autori «recitano le loro poesie in modo intimo, con delicatezza, come se gli avessimo poggiato la testa in grembo. Altre volte declamano urlando, come qualcuno che ci parli in un locale affollato[2]».

 

Michael Collier (1953), Poeta Laureato del Maryland, autore di diverse raccolte poetiche e fellowship presso la Guggenheim Foundation e il National Endowment for the Arts, concentra la densità creaturale dello sguardo umano. L’assurdo e il dettaglio, l’inquietudine straordinaria che penetra l’ordinarietà del quotidiano. È come se venisse scompaginata la monotonia dell’esistenza da gesti, dettagli, presenze animali, dal chihuaua Bum Bum, alla capra su una catasta di legname di scarto, dove gli occhi «sono bisecati da un orizzonte di luce gialla», all’albero alla finestra, spogliato e vivido, fino agli eventi minimi, come un tacchino caracollante o alla dolce gentilezza di un controllore di un treno Bucarest-Mosca, che unisce il percorso della storia a uno sguardo che si impara.

La sua poesia innesta una descrizione percettiva, che oscilla nei contrasti lirici e nelle assenze, nelle tragedie e nelle cifre di gioia, nell’amore domato e nella inquietudine selvaggia del tempo: «Ma adesso che il sole se n’è andato, il crepuscolo blu dell’estate / tinto di timo e d’argento sotto le foglie di ulivo / placido nei solchi scavati, che rabbuia i frammenti bianchi / di calcare riesumati dall’aratura, l’apicoltore nei suoi paramenti / spreme il mantice dell’affumicatore, soffia una sottile corrente azzurra / in una fessura, sgancia il piano superiore, come il coperchio / di una scatola, e ne diffonde altro».

Carolyn Forchè (1950), poetessa di pregio e attivista per i diritti umani, originaria di Detroit, Michigan, docente alla Georgetown University, oggi dirige il Lannan Center for Poetry and Social Practice, ispessisce il forte sapore quasi giornalistico, come scrive John Freeman, alle sue opere.

Vi è il potere lirico della scena, come la bellezza screziata e violenta de Il guardiano del faro:

«Notte senza navi. Corni da nebbia risuonano nel muro di nube, e tu / ancora vivo, attratto dalla luce come fosse fiamma curata da monaci, / buio una volta incrostato di stelle, ma ora buio-morte mentre veleggi verso terra. / Attraverso ginestre e relitti, attraverso erica e lana lacera / hai corso, tirandomi per mano, perché lo potessi vedere una volta nella vita: / l’arcolaio, l’arcolaio di luce, il suo roteare, luce in cerca di chi si è perso, / lì già dall’era del fuoco, delle candele, delle cave lampade a olio, / olio di balena e lucignolo, colza e lardo, cherosene e carburo, / i fuochi-segnale accesi su questa costa pericolosa nella torre di Hook».

La tragedia delle traversate, l’esilio esile, il ricordo invisibile dell’ultimo ponte, le città in assedio, le guerre e le isole sono le sue poesie perdute: compassione vigile e traiettoria umana, lucentezza oltre-fine che supera morte e dolore, attraverso la tensione dell’avvento di ciò che viene.

Ted Kooser (1939), premio Pulitzer nel 2005 per Delights & Shadows e Poeta Laureato nel 2004, originario di Ames, Iowa, ricorda e intaglia la sperdutezza dell’infanzia trascorsa sulle pianure dell’Iowa, che ospitavano registri di sogni, meraviglia e stupore, laddove il ricordo e la bellezza dell’estate slacciata, la perdita, ciò che trapela dalle fessure del tempo, come la concimatrice nei campi, ritornano al respiro della polvere e del mais.

Sembrano raccontare il mondo, il quadro e la vertigine della vita, la linea-madre e la finestra aperta di un mattino d’inverno e, nel silenzio immobile, solo il sussurro del bollitore e «contro il gelo stellato un piccolo anello azzurro di fiamma».

John Freeman scrive: «Kooser è poeta dalle immense capacità pittoriche, ma non le usa per sovrastare il lettore. Anzi, lo invita ad afferrare l’effimero, ad ammettere, in altre parole, i limiti dell’essere umano, ad apprezzare ciò che può essere osservato[3]».

Ada Limón (1976), Poeta Laureata degli Stati Uniti, rappresenta l’urgenza di contatto con il mondo[4], il suo respiro e il suo limite assieme, attraverso lo stretto rapporto di natura e poesia. La libertà, come il rimando, selvaggio e puro, alla bellezza dei cavalli, apre all’amore infinito, alla gioia implume, e, infine, alla grazia sopravvissuta delle creature che compongono il suo dolce assedio alla vita, la sua crepa trafitta e il suo cuore in fiamme: «io sono un essere umano, basta sono solo e disperato, / basta animale che mi salva, basta aria e il sollievo che dà, / io ti chiedo di toccarmi».

Gary Snyder (1930), nato a San Francisco e Professore Emerito presso l’Università della California-Davis, sulla linea epica e vertiginosa della beat generation, pone la sua asciuttezza al mondo come atto devoto alla quotidianità, al suo mistero, alla grazia cromatica ed elementare. È una esplosione di luce e prospettiva che attraverso patchwork espressivi insegue i luoghi, i dettagli e le piccole trame che cercano di non scomparire. Il mondo che si porge è in tutto il suo orizzonte.

Paul Tran, partendo dal recupero del mito Icaro, nel quadro di Pieter Bruegel, come afferma John Freeman, «celebra la rigenerazione, facendo attenzione a non edulcorare la sofferenza. Nelle sue poesie l’adattamento non è mai separato dalla sua fonte, dalla sua motivazione. Nel linguaggio preciso e potente di Tran il pesce bioluminescente, o perfino Icaro, con le sue raffazzonate ali, sono esseri viventi che si adattano all’ambiente circostante» (p.21).

Tale rinascita, dunque, è un respiro che si solleva, in cui gli esiti della possibilità, del dolore, del sacrificio dell’essere tornano sulla pagina come valico e tenebra, lacerazione e bellezza.

[1] (a cura di) Freeman J.-Abeni D., Nuova poesia americana, IV, Black Coffee, Mombaroccio (PU) 2022.

[2] Freeman J., Introduzione, cit., p.16.

[3] Id., cit., 19.

[4] Bruna M., Ada Limón. Vedo nei cavalli la mia libertà, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 4 dicembre 2022.

SAFIYA SINCLAIR – AUTOBIOGRAPHY GOOD HAIR LITTLE RED PLUM

A cura  di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

Introduzione

Safiya Sinclair è nata e cresciuta a Montego Bay in Giamaica.

È autrice del memoir How to Say Babylon e della raccolta di poesie Cannibal, selezionata come uno degli “American Library Association’s Notable Books of the Year”.

E’ stata finalista per il “PEN Center USA Literary Award”, oltre ad essere candidata per il “PEN Open Book Award” e il “Dylan Thomas Prize”.

Le sue opere sono apparse in riviste e giornali come: The New Yorker, Granta, The Nation, Poetry, Kenyon Review, the Oxford American.

Ha ricevuto il suo “MFA” in poesia presso l’Università della Virginia e il suo dottorato in letteratura e scrittura creativa presso la University of Southern California.

Attualmente è professoressa di scrittura creativa presso l’Arizona State University.

Autobiography

 When I was a child

I counted the looper moths

caught in the dusty mesh

of our window screens.

 

Fed them slowly into the hot mouth

of a kerosene lamp, then watched

them pop and blacken soundlessly,

but could not look away.

 

I had known what it was to be nothing.

Bore the shamed blood-letter of my sex

like a banishment; wore the bruisemark

of my father’s hands to school in silence.

 

And here I am, still at the old window

dying of thirst, watching my girlself asleep

with the candle flame alive in my ear,

little sister yelling fire!

Autobiografia

Quando ero bambina

Contavo le falene di looper

intrappolate nella rete polverosa

delle nostre zanzariere.

 

Le nutrivo lentamente nella bocca calda

di una lampada a cherosene, poi le guardavo

scoppiare ed annerire silenziosamente,

non potevo distogliere lo sguardo.

 

Avevo scoperto cosa significasse essere niente.

Sopportavo la disonorevole e maledetta lettera del mio sesso

come una punizione; indossavo i lividi

delle mani di mio padre a scuola in silenzio.

 

Ed eccomi qua, ancora alla vecchia finestra

morendo di sete, a guardare la me bambina addormentata

con la fiamma della candela accesa nel mio orecchio,

la sorellina urla fuoco!

 

Good Hair

 Sister, there was nothing left for us.

Down here, this cast-off hour, we listened

but heard no voices in the shells. No beauty.

 

Our lives already tangled in the violence of our hair,

we learned to feel unwanted in the sea’s blue gaze,

knowing even the blond lichen was considered lovely.

 

Not us, who combed and tamed ourselves at dawn,

cursing every brute animal in its windy mane—

God forbid all that good hair being grown to waste.

 

Barber, I can say a true thing or I can say nothing;

meet you in the canerows with my crooked English,

coins with strange faces stamped deep inside my palm,

 

ask to be remodeled with castaway hair, or dragged

by my scalp through your hot comb. The mirror takes

and the mirror takes. I’ve waded there and waited in vanity;

 

paid the toll to watch my wayward roots foam white,

drugstore formaldehyde burning through my skin.

For good hair I’d do anything. Pay the price of dignity,

 

send virgins in India to daily harvest; their miles

of glittering hair sold for thousands in the street.

Still we come to them yearly with our copper coins,

 

whole nights spent on our knees, our prayers whispered

ear to ear, hoping to wake with soft unfurling curls,

black waves parting strands of honey.

 

But how were we to know our poverty?

That our mother’s good genes would only come to weeds,

that I would squander all her mulatta luck.

 

This nigger-hair my biggest malady.

So thick it holds a pencil up.

 

Bei Capelli

Sorella, non c’era più niente per noi.

Quaggiù, intrecciando i ferri, ascoltavamo le conchiglie

ma non sentivamo niente. Niente di bello.

 

Le nostre vite da sempre aggrovigliate nella violenza dei nostri capelli,

abbiamo imparato a sentirci indesiderate nello sguardo blu del mare,

sapendo che persino il lichene biondo venisse considerato bello.

 

Non noi, che ci pettinavamo e contenevamo all’alba,

maledicendo ogni bruto animale che avesse una criniera ventosa –

Dio ha proibito che tutti quei capelli meravigliosi crescessero per andar perduti.

 

Parrucchiere, posso dire la verità o stare in silenzio;

ci incontriamo nelle treccine del mio inglese imperfetto,

monete con strani volti stampati nel profondo del mio palmo,

 

chiedono di essere rimodellate con capelli scompigliati, o tirate

dalla mia cute col tuo pettine caldo. Lo specchio riflette

e lo specchio rivela. Sono arrivata fin qui e ho aspettato in vanità;

 

ho pagato il pedaggio per guardare le mie radici ribelli piene di schiuma,

formaldeide scadente brucia sulla pelle.

Per dei bei capelli farei di tutto. Pagare il prezzo della dignità,

 

inviare vergini in India per il raccolto quotidiano; miglia

di capelli brillantinati venduti per migliaia nelle strade.

Veniamo ancora da loro tutti gli anni con le nostre monetine,

 

intere nottate passate in ginocchio, le nostre preghiere sussurrate

da un orecchio all’altro, sperando di svegliarci con ricci aperti e morbidi,

onde nere separano ciocche di miele.

 

Ma come potevamo sapere della nostra povertà?

Che i bei geni di nostra madre sarebbero diventati erbaccia,

che avrei sperperato tutta la sua fortuna mulatta.

 

Questi capelli da nera, la mia più grande malattia.

Così spessi da tener su una matita.

 

 Little Red Plum

Crisis in the night.

My heart a little red plum

in my mouth. Glowing

its small fire in the dark.

How you, hand on my breast,

open my little animal cage

to watch me burn, eyes

marveling at the birds

that rush out. My voice rising

red balloons in the air. My hands

find a bright cardinal bleeding

through your shirt, my name

spreading softly on your tongue.

Swift cherry vine galloping,

stitching warm skin to skin.

I reach for you, reach into

the feathers of the dark,

wanting to stay here, wanting

to press each hour into vellum

so tomorrow I may search

and find our little blossom

still Unfurling there. I slip slowly

into your light, kiss my red

plum into your mouth.

Here. I give you all of me

in this little pink cup: hot mouthfuls

of fevergrass, of wild Jamaican

mint. Here, in the shadow of this

hothouse room, a red hibiscus

blooms and blooms.

 

 

Piccola Susina Rossa

 

Crisi nella notte.

Il mio cuore è una piccola susina rossa

nella mia bocca. Splende

il suo piccolo fuoco nel buio.

Come tu, mano sul mio petto,

apri la mia piccola gabbia per animali

per guardarmi bruciare, con occhi che

ammirano gli uccelli

che fuggono. La mia voce innalza

palloncini rossi nell’aria. Le mie mani

trovano un cardinale vivace sanguinante

nella tua maglietta, il mio nome

si spande lievemente sulla tua lingua.

I pomodorini maturano velocemente,

suturano pelle calda a pelle.

Ti cerco, cerco tra

le piume delle tenebre,

volendo rimanere qui, volendo

comprimere ogni ora nella pergamena

così che domani possa cercare

e trovare il nostro piccolo bocciolo

che si sta ancora schiudendo. Scivolo lentamente

nella tua luce, bacio la mia susina

rossa nella tua bocca.

Qui. Ti dono tutta me stessa

in questa piccola tazza rosa: caldi bocconi

di citronella, di menta selvatica

giamaicana. Qui, nell’ombra di questa

serra, un ibisco rosso

fiorisce e sboccia.

 

Traduzione di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

 

JOYCE CAROL OATES AMERICAN MELANCHOLY POEMS: SINKHOLES TOO YOUNG TO MARRY BUT NOT TOO YOUNG TO DIE HOMETOWN WAITING FOR YOU OLD AMERICA HAS COME HOME TO DIE THAT OTHER

A cura  di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

 

 

 

Introduzione

Joyce Carol Oates è una scrittrice, poetessa, drammaturga e accademica statunitense.

Autrice e intellettuale americana eclettica, tra le più prolifiche della letteratura americana, ha pubblicato il primo libro nel 1963.

Da allora, ha frequentato ogni genere letterario in prosa e in versi: romanzi, racconti, narrativa per l’infanzia, poesie, drammaturgie, saggi.

Nell’arco di sessant’anni ha pubblicato oltre cento libri, alcuni dei quali, per la maggior parte romanzi del mistero, pubblicati sotto lo pseudonimo di Rosamond Smith e Lauren Kelly.

Ha vinto numerosi premi letterari, incluso il National Book Award, due O. Henry Award, la National Humanities Medal e il Jerusalem Prize nel 2019; è stata inoltre finalista del Premio Pulitzer sia per i romanzi Acqua nera (1992), What I Lived For (1994) e Blonde (2000), che per le raccolte di racconti The Wheel of Love (1970) e Lovely, Dark, Deep: Stories (2014).

Oates ha insegnato alla Princeton University dal 1978 al 2014 ed è Roger S. Berlind ’52 Professor Emerita in the Humanities col corso di Scrittura Creativa.

Insegna “Short Fiction” alla University of California di Berkeley ed è membro del consiglio di amministrazione della John Simon Guggenheim Memorial Foundation.

Con American Melancholy mette in mostra alcuni dei suoi migliori lavori degli ultimi decenni.

Coprendo soggetti grandi e piccoli, questa collezione tocca sia il personale che il politico.

Vengono indagate la perdita, l’amore e la memoria, insieme agli sconvolgimenti della nostra epoca moderna, le devastazioni della povertà, del razzismo e dei disordini sociali.

 

 

 Sinkholes

 

take you where

you don’t want to go.

 

Where you’d been

and had passed smilingly through,

and were alive. Then.

 

Le Voragini

 

ti portano dove

non vuoi andare.

 

Dove sei stato

e dove sei passato sorridendo

ed eri vivo. Allora.

 

 

Too Young to Marry but Not Too Young to Die

 

Drowned together in his car in Lake Chippewa.

It was a bright cold starry night on Lake Chippewa.

Lake Chippewa was a “living” lake then,

though soon afterward it would choke and die.

 

In the bright cold morning after we could spy

them only through a patch of ice brushed clear of snow.

Scarcely three feet below,

they were oblivious of us.

 

Together beneath the ice in each other’s arms.

Jean-Marie’s head rested on Troy’s shoulder.

Their hair had floated up and was frozen.

Their eyes were open in the perfect lucidity of death.

 

Calmly they sat upright. Not a breath!

It was 1967, there were no seat belts

to keep them apart. Beautiful

as mannequins in Slater Brothers’ window.

Faces flawless, not a blemish.

Yet—you could believe

they might be breath-

ing, for some trick

of scintillate light revealed

tiny bubbles in the ice,

and a motion like a smile

in Jean-Marie’s perfect face.

 

How far Troy’d driven the car onto Lake Chippewa

before the ice creaked, and cracked, and opened

like the parting of giant jaws—at least fifty feet!

This was a feat like his 7-foot-3.8-inch high jump.

 

In the briny snow you could see the car tracks

along the shore where in summer sand

we’d sprawl and soak up sun

in defiance of skin carcinomas to come. And you could see

how deftly he’d turned the wheel onto the ice

at just the right place.

And on the ice you could see

how he’d made the tires spin and grab

and Jean-Marie clutching his hand Oh oh oh!

 

The sinking would be silent, and slow.

 

Eastern edge of Lake Chippewa, shallower

than most of the lake but deep enough at twelve feet

to suck down Mr. Dupuy’s Chevy

so all that was visible from shore

was the gaping ice wound.

And then in the starry night

a drop to -5 degrees Fahrenheit

and ice freezing over the sunken car.

Who would have guessed it, of Lake Chippewa!

 

Now in the morning through the swept ice

there’s a shocking intimacy just below.

With our mittens we brush away powder snow.

With our boots we kick away ice chunks.

Lie flat and stare through the ice

Seeing Jean-Marie Schuter and Troy Dupuy

as we’d never seen them in life.

Our breaths steam in Sunday-morning light.

 

It will be something we must live with—

the couple do not care about our astonishment.

Perfect in love, and needing no one to applaud

as they’d been oblivious of our applause

at the Herkimer Junior High prom where they were

crowned Queen and King three years before.

(In Herkimer County, New York, you grew up fast.

The body matured, the brain lagged behind,

like the slowest runner on the track team

we’d applaud with affection mistaken for teen mockery.)

 

No one wanted to summon help just yet.

It was a dreamy silence above ice as below.

And the ice a shifting hue—silvery, ghost-gray, pale

blue—as the sky shifts overhead

like a frowning parent. What!

Lake Chippewa was where some of us went ice-fishing

with our grandfathers. Sometimes, we skated.

Summers there were speedboats, canoes. There’d been

drownings in Lake Chippewa we’d heard

but no one of ours.

 

Police, fire-truck, ambulance sirens would rend the air.

Strangers would shout at one another.

We’d be ordered back—off the ice of Lake Chippewa

that shone with beauty and onto the littered shore.

By harsh daylight made to see

Mr. Dupuy’s 1963 Chevy

hooked like a great doomed fish.

All that privacy yanked upward pitiless

and streaming icy rivulets!

We knew it was wrong to disturb the frozen lovers

and make of them mere bodies.

 

Sweet-lethal embrace of Lake Chippewa

But no embrace can survive thawing.

 

One of us, Gordy Garrison, would write a song,

“Too Young to Marry But Not Too Young to Die”

(echo of Bill Monroe’s “I Traced Her Little Footprints

in the Snow”), which he’d sing with his band the Raiders,

accompanying himself on the Little Martin guitar

he’d bought from his cousin Art Garrison

when Art enlisted in the U.S. Navy and for a while

it was all you’d hear at Herkimer High, where the Raiders

played for Friday-night dances in the gym, but then

we graduated and things changed and nothing more

came of Gordy’s song or of the Raiders.

 

“TOO YOUNG TO MARRY BUT NOT TOO YOUNG TO DIE”

was the headline in the Herkimer Packet.

We scissored out the front-page article, kept it for decades in a

bedroom drawer.

(No one ever moves in Herkimer except

those who move away, and never come back.)

The clipping is yellowed, deeply creased,

and beginning to tear. When some of us stare

at the photos our hearts cease beating—oh, just a beat!

 

It was something we’d learned to live with—

there’d been no boy desperate to die with any of us.

We’d have accepted, probably—yes.

Deep breath, shuttered eyes—yes, Troy.

Secret kept yellowed and creased in the drawer,

though if you ask, laughingly we’d deny it.

 

We see Gordy sometimes, and his wife, June. Our grand-

children are friends. Hum Gordy’s old song

to make Gordy blush a fierce apricot hue

but it seems cruel, we’re all on blood

thinners now.

 

Troppo Giovani per Sposarsi Ma Non Troppo per Morire

 

Annegarono insieme nella sua auto nel lago Chippewa.

Avvenne in una notte stellata, fredda e luminosa.

Il lago Chippewa era un lago “in vita” all’epoca

anche se poco dopo soffocò e morì.

 

Nella fulgida e fredda mattinata seguente, dopo esser riusciti a spiarli

solo attraverso una lastra di ghiaccio ripulita dalla neve.

Un metro poco più sotto,

non si erano accorti di noi.

 

Insieme sotto il ghiaccio l’uno tra le braccia dell’altro.

La testa di Jean Marie appoggiata sulla spalla di Troy.

I capelli erano riemersi in superficie e si erano ghiacciati.

Gli occhi erano aperti nella perfetta lucidità della morte.

 

Seduti beatamente. Neanche un respiro!

Era il 1967 e non c’erano cinture di sicurezza

a separarli. Belli

come manichini nella vetrina dei fratelli Slater.

Volti illesi, neanche un graffio.

Potevi credere

che stessero respiran-

do, dal momento che, qualche scintillante

riflesso della luce rivelava

bollicine nel ghiaccio,

e l’accenno di un sorriso

sul volto perfetto di Jean-Marie.

 

Fino a che punto Troy aveva guidato la macchina sul lago Chippewa

prima che il ghiaccio scricchiolasse, cedesse, e si aprisse

come giganti mascelle – almeno di quindici metri!

Un risultato come il salto in alto di Troy, 2 metri e 96 centimetri.

 

Nella neve salmastra erano visibili le tracce della macchina

sulla sabbia della spiaggia in cui d’estate

ci stravaccavamo e prendevamo il sole

sfidando il tumore della pelle a colpirci. E si poteva vedere

con quanta destrezza avesse girato il volante sul ghiaccio

proprio al punto giusto.

Si poteva notare

come avesse fatto girare e aderire le gomme alla superficie ghiacciata

e avesse fatto afferrare a Jean Marie la sua mano Oh oh oh!

 

L’inabissamento fu lento, e silenzioso.

 

La sponda est del lago Chippewa, meno profonda

di gran parte del lago, ma profonda abbastanza (3 metri)

da risucchiare la Chevy del Signor Dupuy,

rese visibile dalla spiaggia soltanto

la voragine nel ghiaccio.

E poi nella notte stellata

una caduta di 5 gradi Fahrenheit

e il ghiaccio si riformò sulla macchina sommersa.

Chi l’avrebbe mai detto del lago Chippewa!

 

Ora, di mattina, sotto al ghiaccio ripulito

c’è un’intimità scioccante.

Con i guanti portiamo via cumuli di neve farinosa.

Con gli stivali calciamo pezzi di ghiaccio.

Increduli lo fissiamo

Vedendo Jean-Marie Schuter e Troy Dupuy

come non li avevamo mai visti in vita.

La condensa dei nostri respiri nella luce di una domenica mattina.

 

Sarà qualcosa con cui dobbiamo convivere –

alla coppia non importa del nostro sconcerto.

Perdutamente innamorati, senza alcun bisogno di applausi

essendo stati ignari dei nostri applausi

al ballo della Herkimer Junior High dove

tre anni prima furono nominati re e reginetta.

(Nella Contea di Herkimer, New York, siete cresciuti in fretta.

Il corpo è maturato, il cervello è rimasto indietro

come il più lento maratoneta della squadra

applaudivamo con affetto scambiato per derisione adolescenziale.)

 

Nessuno voleva ancora chiamare i soccorsi.

C’era un silenzio sognante sopra il ghiaccio così come sotto.

E cambiava tonalità – argento, grigio-fantasma, blu

pallido – come il cielo cambia sopra di noi

quanto un genitore arrabbiato. Come!?

Il lago Chippewa era il luogo in cui alcuni di noi andavano a pescare

con i loro nonni. A volte, andavamo a pattinare.

In estate c’erano motoscafi, canoe. C’erano stati

annegamenti nel lago Chippewa di cui avevamo sentito

ma nessuno dei nostri.

 

Polizia, camion dei pompieri, sirene d’ambulanza squarciavano l’aria.

Sconosciuti si urlavano contro.

Ci era stato ordinato di allontanarsi dal ghiaccio del lago

che irradiava bellezza e di dirigerci verso la spiaggia affollata.

Dalla crudele luce diurna sorta per vedere

la Chevy del 1963 del signor Dupuy

agganciata all’amo come un grande pesce predestinato.

Tutta quella privacy tirò fuori fiumiciattoli di ghiaccio

che scorrevano senza pietà!

Sapevamo che fosse sbagliato disturbare gli

amanti congelati e renderli meri corpi.

 

La morsa dolce e letale del lago Chippewa

Ma nessuna morsa sopravvive al disgelo.

 

Uno di noi, Gordy Garrison, avrebbe scritto una canzone.

“Too Young to Marry but Not Too Young to Die”

(riecheggi di “I Saw Her Little Footprints

in the Snow” di Bill Monroe), che cantava con la sua band “The Raiders”,

accompagnandosi alla chitarra Little Martin

che aveva comprato da suo cugino Art Garrison

quando Art si era arruolato nella marina americana e per un po’

era l’unica cosa in auge alla Herkimer High, i Raiders

suonavano ai balli del venerdì sera in palestra, ma poi

ci diplomammo e le cose cambiarono e nient’altro

uscì fuori dalla canzone di Gordy o dai Raiders.

 

“TOO YOUNG TO MARRY BUT NOT TOO YOUNG TO DIE”

fu la prima pagina dell’Herkimer Packet.

Ritagliammo l’articolo e lo conservammo per decenni in un

comò.

(Nessuno si iscrive alla Herkimer eccetto

coloro che poi si trasferiscono e non tornano più.)

Il ritaglio è ingiallito, terribilmente sgualcito,

e sta iniziando a lacerarsi. Quando alcuni di noi guardano

le foto i nostri cuori cessano di battere – oh, solo un battito!

 

 

Fu una cosa con cui imparammo a vivere –

non ci fu nessun ragazzo fremente di morire tra di noi.

Avremmo accettato, probabilmente – .

Respiro profondo, occhi sbarrati – , Troy.

Un segreto mantenuto stropicciato e ingiallito nel comò

però, se doveste chiedercelo, ridendo negheremmo.

 

A volte vediamo Gordy, e sua moglie, June. I nostri nipo-

ti sono amici. Canticchiamo la sua vecchia canzone

per farlo arrossire

ma sembra crudele, siamo tutti sotto anti

coagulanti ora.

 

Hometown Waiting For You

 

All these decades we’ve been waiting here for you. Welcome!

You do look lonely.

No one knows you the way we know you.

And you know us.

 

Did you actually (once) tell yourself—I am better than this?

One day actually (once) tell yourself—I deserve better than this?

 

Fact is,you couldn’t escape us.

And we have been waiting for you. Welcome home!

Boasting how a scholarship bore you away

like a chariot of the gods except

where you are born, your soul remains.

 

We all die young here.

Not one of us outlived young here.

Check out obituaries

in the Lockport Union Sun & Journal.

Car crash,

overdose.

Gunshot, fire.

Cancers of breast,

ovaries, lung,

colon. Heart

attack, cirrhosis

of liver.

Assault, battery.

Stroke! And—

did I say over-

dose? Car

crash?

 

Filling up the cemeteries here.

Plastic trash here.

Unbiodegradable Styrofoam here.

Three-quarters of your seventh-

grade class now

in urns, ash and what remains

in red MAGA hats.

 

 

 

Those flashy cars

you’d have given your soul

to ride in,

just once, now

eyeless

rusting hulks

in tall grass.

Those eyes you’d

wished might crawl

upon you like ants,

in graveyards

of broken glass.

 

Atwater Park where

you’d wept

in obscure shame

and now whatever

his name who’d trampled

your heart, he’s

ash.

 

Proud as hell

of you though

(we admit)

never read a

goddamn word

you’ve written.

 

We never forgave you. We hate winners.

 

Still, it’s not too late.

Did I say overdose?

Why otherwise are you here?

 

Ti Abbiamo Aspettato

 

Ti abbiamo aspettato per tutti questi decenni. Benvenuto!

Sembri davvero solo.

Nessuno ti conosce come ti conosciamo noi.

E tu ci conosci.

 

Ti sei davvero (una volta) detto – Valgo più di questo?

Un giorno (una volta) ti sei davvero detto – Merito più di questo?

 

Il fatto è: non potevi sfuggirci.

E ti abbiamo aspettato. Benvenuto a casa!

Fregiandoti di come una borsa di studio ti abbia portato via

come un carro degli dèi, senonché

dove nasci, la tua anima permane.

 

Moriamo tutti giovani qua.

Qui nessuno è riuscito ad invecchiare.

Controlla i necrologi

nel Lockport Union Sun & Journal.

Incidenti d’auto,

overdose.

Sparatorie, fuoco.

Tumori al seno,

ovaie, polmone,

colon. Crisi

cardiaca, cirrosi

epatica.

Aggressione, percosse.

Infarto! E –

ho detto over-

dose? Incidenti

d’auto?

 

Si riempiono i cimiteri qua.

Buste di plastica,
polistirolo non biodegradabile qui.

Tre quarti della tua classe

di seconda media è adesso

nelle urne, cenere e quel che rimane

nei cappelli rossi MAGA. *

 

Quelle auto pacchiane

per cui avresti dato l’anima

pur di salirci su,

almeno una volta, ora

senz’occhi

carcasse arrugginite

nell’erba alta.

Quegli occhi che volevi

brulicassero su di te come formiche,

nei cimiteri

di vetri rotti.

 

Il giardinetto Atwater dove

piangevi

colmo di vergogna nascosta

e adesso qualunque sia

il nome di chi abbia fatto sobbalzare

il tuo cuore, è

cenere.

 

Orgogliosissimi

di te però

(ammettiamo)

non abbiamo mai letto

una fottuta parola

di ciò che hai scritto.

 

Non ti abbiamo mai perdonato. Odiamo i vincenti.

 

Tuttavia, non è troppo tardi.

Ho detto overdose?

Altrimenti per quale altro motivo sei qua?

 

 

 *Acronimo di “Make America Great Again”, slogan della campagna elettorale di Trump del 2016.

Old America Has Come Home to Die

 

Old America has come home to die.

From Oklahoma oil fields where the sun

beat his head and brains boiling in a stew

of old memories. Penance for my sins

I never owned up to.

 

From Juneau, Alaska, where he’d fished

coho salmon on the Mary Flynn.

From Black Fly, Ontario,

where he’d been a hobo farmhand,

and from New Jericho, Manitoba,

where he’d mined gypsum sand,

Old America has come home to die.

Bad memories like shreds of tobacco on the tongue,

you can’t spit off.

 

From Big Sky, Montana, where

he’d been a cowboy. From

Western Pacific, Sandusky,

and Santa Fe Railway, from the Gulf

Islands and Skagit River, Washington,

where he’d worked construction,

Old America has come home to die.

Bosses treat you like shit on their shoe

they can scrape off any time.

And they do.

 

From the Great Lakes, where

he’d worked freighters

in minus-

zero

weather, lost

half his damn fingers and toes

to frostbite. From the mines

at Crater Falls, Idaho,

where his lungs turned the hue

of anthracite. And from Moab,

Utah, where he’d been incarcerated

seven years for a rob-

bery he hadn’t done,

Old America has come home to die.

Romantic life of a “hobo”

lasts until your legs go.

 

Old America freckled with melanomas,

straggly hair to his shoulders

like the boy-General Custer,

and fester-

ing sores

on his back, sides, and belly

has come home to die

where no one remembers him —

“Uncle Eli?”

who’d sent postcards

from the West long faded

in Granma’s photo album

as out of a void

in an era before Polaroid

Old America has come home to die.

Old America with a blind left eye.

Old America with a stump

of his gangrenous left leg, amp-

utated at the knee.

How bad I treated my family

who loved me.

Come home to say I am sorry and I love you.

 

Great-Granma’s youngest sister’s

son Eli who’d left the farm in 1931

to work on the Erie Canal, but no —

disappeared somewhere west

beyond Pocatello, Idaho. We’d guessed

you’d died in the Yukon, or in

the Eagle Mine in Utah. Capsized

in the Bering Strait, or vaporized

at the Fearing Nevada Test Site

or murdered by railroad cops

and flung into the Mississippi —

poor Uncle Eli!

Sins I have committed these many

years, I regret. Wash my soul

clean before I die.

Trying to explain why he’d left home except —

Where is Marta? Please

let me see Marta — his brother’s wife

he was in love with, and Marta told him

she was pregnant, and he abandoned

her to her violent husband like a coward.

Years I never thought of Marta, or Ma —

any of you. Now, that’s all I think about.

Forgive me how bad I behaved

when I was young . . .

 

Old America, we are not cruel

people, but the fact is mostly we’ve

forgotten you. And Great-Aunt Marta

too—died in 1961. And her oldest

son Ethan, who’d be the one

you’d want to see, is gone, too —

somewhere south of the 38th parallel,

Korea.

Where are my brothers—Frank, Joseph, Frederic?

My sisters—Margaret, Elizabeth?

My cousin Leah?—so many cousins . . .

Old America, frantic to repent,

has brought us presents —

flute carved out of a walrus tusk, Inuit

doll and soapstone skulls, beaded belts and

miniature pelts and something that causes Maya to scream,

Oh God—is that an Indian scalp?

 

Old America has come home to die

this first week of December

in time for Maya to videotape

an interview with Great-Uncle Eli

for her American Studies seminar at Wesleyan —

Life of an Oldtime “Hobo.”

Her classmates will be impressed —

Old America is like awesome, fantastic —

and her professor will grade an A —

Tragic, vividly rendered & iconic.

 

La Vecchia America è Tornata A Casa a Morire

 

La Vecchia America è tornata a casa a morire.

Dai giacimenti di petrolio dell’Oklahoma dove il sole

gli spaccava la testa e il cervello bolliva in un minestrone

di vecchi ricordi. Penitenza per i miei peccati

che non ho mai confessato.

 

Da Juneau, Alaska, dove aveva pescato

salmone argentato sulla Mary Flynn.

Da Black Fly, Ontario,

dove era stato un bracciante hobo*,

e da New Jericho, Manitoba,

dove aveva estratto gesso,

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

Brutti ricordi come filamenti di tabacco sulla lingua,

che non puoi sputare.

 

Da Big Sky, Montana, dove

era stato un cowboy. Dalle

tratte ferroviarie della Western Pacific, Sandusky,

sino a quelle di Santa Fe, dalle Isole

del Golfo e il fiume Skagit, Washington,

dove aveva lavorato nei cantieri,

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

I padroni ti trattano come merda sotto le loro suole

che possono raschiar via quando vogliono.

E lo fanno.

 

Dai Grandi Laghi, dove

aveva lavorato sulle navi cargo

sotto

zero

aveva perso

metà delle sue dannate dita delle mani e dei piedi

per congelamento. Dalle miniere

di Crater Falls, Idaho

dove i suoi polmoni erano diventati color

antracite. E da Moab,

Utah, dove era stato detenuto

sette anni per una ra-

pina che non aveva commesso,

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

La vita romantica di un “hobo”

dura fintantoché le gambe non cedono.

 

La Vecchia America macchiata di melanomi,

capelli in disordine sulle spalle

come quelli del Generale Custer, e

piaghe
infette

sulla schiena, fianchi e pancia

è venuta a morire

dove nessuno si ricorda di lui –

“Zio Eli?”

che aveva inviato cartoline

dall’ovest sbiadite dal tempo

conservate nell’album di foto della nonna

come uscite dal nulla

in un’era prima della Polaroid

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

La Vecchia America con un occhio sinistro cieco.

La Vecchia America con la sua protesi

alla gamba sinistra incancrenita, am-

putata al ginocchio.

Quanto ho trattato male la mia famiglia

che mi amava.

Torno a casa per dire che mi dispiace e che vi amo.

 

Il figlio della sorella più piccola della bisnonna,

Eli, che aveva lasciato la fattoria nel 1931

per lavorare al Canale Erie, ma no –

scomparve da qualche parte nell’ovest

oltre Pocatello, Idaho. Ci eravamo immaginati

che fossi morto nello Yukon, o

nelle miniere di Eagle nello Utah. Annegato

nello Stretto di Bering, o vaporizzato

nello Spaventoso Nevada Test Site*

o assassinato dai poliziotti ferroviari

e scaraventato nel Mississippi –

povero Zio Eli!

Dei peccati che ho commesso in tutti questi

anni, me ne dolgo. Purifico la mia anima

prima di morire.

Cerco di spiegare perché

avesse lasciato casa, solo che –

Dov’è Marta? Vi prego

fatemi vedere Marta – la moglie di suo fratello

di cui era innamorato. Marta gli disse

che era incinta e lui come un codardo

la abbandonò al suo violento marito.

Anni in cui non ho mai pensato a Marta, o a mol-

ti di voi. Adesso, è l’unica cosa a cui penso.

Perdonate quanto mi sia comportato male

da giovane…

 

Vecchia America, non siamo gente

crudele, ma il fatto perlopiù è che

ti abbiamo dimenticata. E anche la prozia Marta

morì nel 1961. E il suo figlio più grande

Ethan, quello che

ti farebbe piacere vedere, è morto anche lui –

da qualche parte nel 38esimo parallelo sud,

Corea.

Dove sono i miei fratelli – Frank, Joseph, Frederic?

Le mie sorelle – Margaret, Elizabeth?

Mia cugina Leah? – così tanti cugini…

Vecchia America, convulsa nel ravvedersi,

ci ha portato dei regali –

zufolo di zanna di tricheco, bambola

eschimese e teschi di pietra ollare, cinture di perle e

tappeti di pelliccia animale e qualcosa che fa urlare Maya,

Oh dio – è la testa di un indiano?

 

La Vecchia America è tornata a casa a morire

questa prima settimana di dicembre

giusto in tempo per fare in modo che Maya registri

un’intervista con il prozio Eli

per il suo seminario in American Studies a Wesleyan –

La vita di un “Hobo” di altri tempi.

I suoi compagni di classe saranno impressionati –

La Vecchia America è un qualcosa di stupendo, fantastico –

e il suo professore le darà una A –

Tragica, vividamente rappresentata e iconica.

 

 

 *Un hobo è un vagabondo che adotta in maniera tendenzialmente volontaria uno stile di vita senzatetto improntato alla semplicità, al viaggio, all’avventura, alla ricerca interiore, alla marginalità, svolgendo  talvolta lavori occasionali.

*Sito, istituito l’11 gennaio 1951 per test sulle armi nucleari

That other

 

They laughed, but no. You

don’t remember that.

 

What you think you remember—

it wasn’t that.

 

Yes—you remember

some things. And

some things did

happen. Except not

that way.

 

And anyway, not

to you.

 

Quell’altro

 

Ridevano, ma no. Tu

non lo ricordi.

 

Ciò che pensi di ricordare –

non corrisponde al reale.

 

Sì – ricordi

alcune cose. E

alcune cose sono davvero

successe. Però non

in quel modo.

 

E in ogni caso, non

a te.

 

Traduzione di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

DANUSHA LAMÉRIS THE WATCH RED TIGHTS THE GOD OF NUMBERS

A cura  di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

 

 

leggi in pdf: Danusha Laméris

Introduzione

Danusha Laméris è nata da padre olandese e madre caraibica.

E’ cresciuta nella California Bay Area trascorrendo i suoi primi anni a Mill Valley e si è poi trasferita a Berkeley dove ha frequentato la College Preparatory School.

Da quando si è laureata in Arte presso l’Università della California a Santa Cruz ha sempre vissuto lì.

Poetessa, insegnante e saggista, è autrice di “The Moons of August” (Autumn House, 2014), che è stata scelta da Naomi Shihab Nye come vincitrice del premio di poesia Autumn House Press ed è stata finalista del Milt Kessler Book Award.

Alcune delle sue poesie sono state pubblicate in: The Best American Poetry, The New York Times, The American Poetry Review, Prairie Schooner, The SUN Magazine, Tin House, The Gettysburg Review e Ploughshares.

Il suo secondo libro, Bonfire Opera, (University of Pittsburgh Press, 2020), è stato finalista del Paterson Poetry Prize e vincitore del Northern California Book Award in Poetry. Vincitrice del Lucille Clifton Legacy Award nel 2020, è una Poet Laureate della contea di Santa Cruz, in California, co-guida i webinar Poetry of Resilience e la comunità di scrittura Hearthfire con James Crews.

È nella facoltà del programma della Pacific University “low-residency MFA”.

 

 

The Watch

At night, my husband takes it off

puts it on the dresser beside his wallet and keys

laying down, for a moment, the accoutrements of manhood.

Sometimes, when he’s not looking, I pick it up

savor the weight, the dark face, ticked with silver

the brown, ostrich leather band with its little goosebumps

raised as the flesh is raised in pleasure.

He had wanted a watch and was pleased when I gave it to him.

And since we’ve been together ten years

it seemed like the occasion for the gift of a watch

a recognition of the intricate achievements

of marriage, its many negotiations and nameless triumphs.

But tonight, when I saw it lying there among

his crumpled receipts and scattered pennies

I thought of my brother’s wife coming home

from the coroner carrying his rings, his watch

in a clear, ziplock bag, and how we sat at the table

and emptied them into our palms

their slight pressure all that remained of him.

How odd the way a watch keeps going

even after the heart has stopped. My grandfather

was a watchmaker and spent his life in Holland

leaning over a clean, well-lit table, a surgeon of time

attending to the inner workings: spring,

escapement, balance wheel. I can’t take it back,

the way the man I love is already disappearing

into this mechanism of metal and hide,

this accountant of hours

that holds, with such precise indifference,

all the minutes of his life.

L’orologio

 

La sera, mio marito lo toglie

lo posa sul comodino accanto al portafoglio e le chiavi

giace, per un momento, l’occorrente dell’essere uomo.

A volte, quando non guarda, lo prendo

ne saggio il peso, il quadrante scuro, punte d’argento

il cinturino marrone, in pelle di struzzo con i suoi piccoli brividi

premurato come carne risvegliata dal piacere.

Aveva desiderato un orologio e fu grato quando gliene regalai uno.

E dato che siamo insieme da dieci anni

mi è sembrato il momento adatto per regalarglielo

un riconoscimento delle intricate conquiste

del matrimonio, le sue molteplici negoziazioni e i trionfi senza nome.

Ma stasera, vedendolo lì, tra

gli scontrini accartocciati e le monetine sparse

ho pensato alla moglie di mio fratello che tornava a casa

dall’obitorio riportando i suoi anelli, il suo orologio

in una bustina trasparente, a chiusura ermetica, e a come sedevamo al tavolo

svuotando nei palmi delle nostre mani

ciò che rimaneva di lui, la loro leggera pressione.

Quanto è strano il modo in cui un orologio continua a misurare il tempo

anche dopo che il cuore si è fermato. Mio nonno

era un orologiaio e visse la sua vita in Olanda

chino sopra un tavolo pulito e ben illuminato, un chirurgo del tempo

che si occupava dei meccanismi interni: molla,

scappamento, bilanciere. Non posso rimediare

al modo in cui l’uomo che amo sta già scomparendo

in questo meccanismo di metallo e cuoio,

questo contatore di ore

che misura, con così precisa indifferenza

ogni minuto della sua vita.

Red Tights

 

for Maxine

 

When I see my friend’s little girl

in the produce aisle, she beams, “I’m happy.

I have new red tights and a boyfriend!”

We’re standing between the twin peaks

of apples and tomatoes,

light shining off their taut skins.

 

She does not know

that she will spend her whole life

at the mercy of the opening and closing

of the delicate mechanism of her heart.

 

Just this morning, I ran into an old lover.

When he kissed my cheek,

I inhaled his scent and was thrown

back to a time when all we wanted

was to fit completely inside each other’s bodies,

 

something we took as seriously as engineers

contemplating how to land a rocket

on a moon of Jupiter.

And sometimes we succeeded,

and for a moment

the universe seemed to balance

on a fulcrum, the slight wobble

of the earth’s orbit steadied.

 

How loyal the heart is, a stray dog.

Today, when my ex turned and walked

into the crowd, all I could do

was stand and watch

as mine trotted after him

down the long sidewalk.

And then he rounded the corner

and disappeared.

 

Calze Rosse

 

per Maxine

 

Quando vedo la bimba della mia amica

nel reparto ortofrutta, esclama, “Sono felice.

Ho delle calze rosse nuove e un fidanzato!”

Ci troviamo tra le cime gemelle

di mele e pomodori,

la luce opacizza la loro buccia tesa.

 

Non sa

Che passerà tutta la vita

alla mercé dell’aprirsi e chiudersi

del delicato meccanismo del suo cuore.

 

Proprio questa mattina, mi sono imbattuta in un vecchio amante.

Quando mi ha baciato la guancia,

ho inalato il suo profumo e sono stata catapultata

in un tempo in cui l’unica cosa che desideravamo

era avvilupparsi l’uno al corpo dell’altro,

 

una cosa che prendevamo seriamente come ingegneri

che studiano l’atterraggio di un razzo

su una luna di Giove.

A volte funzionava,

e per un attimo

l’universo sembrava stare in equilibrio

su un fulcro, la sottile oscillazione

della stabile orbita terrestre.

 

Com’è fedele il cuore, un cane randagio.

Oggi, quando il mio ex si è girato e si è incamminato

verso la folla, l’unica cosa che ero in grado di fare

era star ferma a guardare

mentre il mio cuore si precipitava verso di lui

sul lungo marciapiede.

Poi girò l’angolo

e scomparve.

The God of Numbers

 

My mother once had a job measuring penises —

penises that belonged to men whose chromosomes

were askew. “The trouble,” she said,

“is that when I went to measure them, they’d grow!”

I picture her pulling a wooden ruler

from a pocket of her white lab coat.

How hard we try to break the world down,

make sense of it. How steadily it resists.

My friend David, an astrophysicist,

had a job counting the clouds of dust around stars,

an assignment that, in my mind,

put him in an echelon of angels

just above the ones who number grains of sand.

There’s something comforting about inventory,

futile as it may be, the act of assessment

itself a form of care. I like to imagine a God

who rises before dawn, takes out the stone tablets,

and starts to tally the individual hairs on each head,

the number of breaths we’ve taken in the night,

who counts the cilia shooting our cells

through the dark galaxies of our bodies

just before he gets back to work

turning out the next tornado

or reaching down to give the tectonic plates

another good, hard shake.

Il Dio Dei Numeri

 

Tempo fa mia madre aveva un lavoro: misurava peni –

peni che appartenevano a uomini i cui cromosomi

erano sballati. “Il problema,” diceva,

“è che quando li andavo a misurare, si ingrandivano!”

Me la immagino tirar fuori un righello di legno

da una tasca del suo camice bianco.

Quanto ci impegniamo per scomporre il mondo,

dargli senso. Come fermamente resiste.

Il mio amico David, un astrofisico,

per lavoro contava le nubi di polvere interstellare,

un compito che, nella mia testa,

lo collocava in uno scaglione di angeli

appena al di sopra di coloro che numerano i granelli di sabbia.

C’è qualcosa di rassicurante nell’inventariare,

per quanto possa essere futile, l’atto di assicurarsi

è in sé una forma di cura. Mi piace immaginare un Dio

che sorga prima dell’alba, tiri fuori le tavole della legge,

e inizi a contare uno per uno i capelli su ogni testa,

il numero di respiri che facciamo ogni notte,

che conti le ciglia che purificano le cellule

nelle oscure galassie dei nostri corpi

poco prima che ritorni a lavoro

provocando il prossimo tornado

o chinandosi per dare alle placche tettoniche

un altro bello scossone.

 

Traduzione di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

Un ringraziamento speciale a Piper Mathews.

JOE BOLTON THE LAST NOSTALGIA

 

Cura e Traduzione di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

Joe Bolton THE LAST NOSTALGIA

Introduzione

Joseph Edward Bolton nacque il 3 dicembre 1961 a Cadiz nel Kentucky.  Visse parte della sua vita in una zona dello stato conosciuta come Jackson Purchase.  Figlio di insegnanti, riuscì a lasciare la terra natia grazie ad una borsa di studio dell’università del Mississippi. Purtroppo poco dopo ritornò in Kentucky dove però riuscì a portare a termine gli studi e a conseguire il Bachelor alla Western Kentucky University a Bowling Green. In seguito alla sua laurea, come altri giovani scrittori del tempo, si trasferì da un programma di scrittura creativa di un college ad un altro. Visse in Texas, Florida, Arizona e proprio in quest’ultimo stato compì il gesto estremo. Nella primavera del 1990, poco dopo aver consegnato la tesi di laurea – una raccolta di poesie chiamata “The last Nostalgia” – si suicidò.

Non lasciò nessuna lettera.

Joe Bolton credeva fermamente che la miglior opera dovesse essere scritta durante la giovinezza e che opere successive a questo periodo della vita fossero soltanto anticlimax e declino.

In vita fu ossessionato dall’idea della propria morte e affascinato dal romaticismo del suicidio, un tema assai ricorrente nelle sue poesie.

Dal “Rough South” una voce marginale e veritiera.

Poesie dimenticate che meritano nuova luce.

Un ponte tra tutto ciò che è solido e terreno e tutto ciò che è etereo ed intangibile nella miglior tradizione letteraria del Sud degli Stati Uniti.

BRECKINRIDGE COUNTY SUITE:

TO A YOUNG KENTUCKY WOMAN

On the Square 

It could be any Southern town you care to name:

Bank, diner, hardware store, lone traffic light.

Saturdays, you come to buy everything

That can’t be grown, contrived or done without.

Old men sit spitting on the courthouse steps.

A boy in a Camaro squeals, once, his wide new tires.

Women test their reflections in the windows of the shops

They pass, hoping to find some lost beauty restored.

 

And when those eyes, for a moment, hold yours, they seem

To hold some insolence. You think they think you

Are guilty of some crime beyond the crime

All are guilty of. And oh, my dear, they do!

 

And so do you.

 

In Piazza

 

Potrebbe essere una qualsiasi città del sud di cui tu voglia parlare:

Banche, tavole calde, ferramenta, semafori solitari.

Sabati, nei quali vieni per comprare tutto ciò

Che non può essere coltivato, fatto in casa, o di cui non puoi fare a meno.

Uomini anziani siedono e sputano sui gradini del tribunale.

Un ragazzo in una Camaro fa stridere i suoi nuovi ed imponenti pneumatici.

Le donne scorgono i loro riflessi nelle vetrine dei negozi

Avanzano, sperando di ritrovare frammenti di bellezza perduta.

 

E quando quegli occhi, per un attimo, guardano nei tuoi, sembrano

Trattenere un po’ di impertinenza. Pensi che pensino che tu

Sia colpevole di qualche crimine oltre al crimine

Di cui tutti siamo colpevoli. E oh, mio caro, lo pensano!

 

Così come tu lo pensi.

 

ADULT SITUATIONS

 

Summer

 

How could we think that it would never end?

While each day was a little eternity,

We must have known the leaves were getting ready

To turn and fall – then loneliness again,

The chill, exquisite longings of autumn.

You woke to find it had become September;

I woke a little later to find you gone.

And suddenly what I would remember

Was wholly formed, irrecoverable:

The hundred-degree heat and the trouble

We had trying to keep cool in our shorts

Till the sun went down – me on the back porch,

Sipping Scotch and listening to Sinatra;

You in the bedroom, reading the Kama Sutra

 

Estate

 

Come abbiamo potuto pensare che non sarebbe mai finita?

Quando ogni giorno sembrava una piccola eternità,

Dovevamo sapere che le foglie si stessero preparando

A cambiare colore e cadere – ancora solitudine,

Il freddo, delicati desideri d’autunno.

Ti svegliasti e realizzasti l’arrivo di settembre;

Mi svegliai poco dopo e non c’eri più.

E all’improvviso ciò che ricordavo

Prese piena forma, irrecuperabile:

I trentotto gradi del caldo e le difficoltà

Nel cercare di star freschi

Fino al calar del sole – io nella veranda sul retro,

Sorseggiando Scotch e ascoltando Sinatra;

Tu in camera da letto, leggendo il Kama Sutra.

 

 

 

ADULT SITUATIONS

 

Soon

Soon, these great stadiums will be empty,

Standing coolly at twilight, lit only

By the twilight, and there will be no sound,

No echo and no memory of sound.

 

Soon, these mansions along North Boulevard

Will fall into disrepair, then will fall,

Their foundations given over to grass

Under the vaulted naves of the live oaks.

 

These freeways won’t dream of rush-hour traffic.

These towers won’t give you the time of day.

These storefronts won’t show the season’s fashion.

Nobody will try to take your money.

 

Soon, no one will remember how it was

To drive home at the end of the long day,

To hear a song you thought you’d forgotten,

To sleep and rise and not know quite what for.

 

And no one will remember what it was

To try to live and love and make love live

In these times we belong to but call ours,

Near the end of what looked like forever.

 

Presto

 

Presto, questi grandi stadi saranno vuoti,

Rimarranno freddi al calar del sole, illuminati soltanto

Dalla luce crepuscolare, e non ci sarà rumore,

Nessun eco e nessun ricordo del rumore.

 

Presto, queste ville lungo North Boulevard

Cadranno in rovina, poi crolleranno,

Le fondamenta riverse sul terreno

Sotto le navate a volta delle querce sempreverdi.

 

Queste autostrade non vorranno il traffico dell’ora di punta.

Questi campanili non indicheranno l’ora del giorno.

Queste vetrine non mostreranno gli abiti in voga.

Nessuno proverà a spillare soldi.

 

Presto, nessuno ricorderà com’era

Tornare a casa dopo una lunga giornata,

Ascoltare una canzone che si credeva dimenticata,

Addormentarsi e svegliarsi senza saperne l’esatto perché.

 

E nessuno ricorderà cosa significasse

Provare a vivere e amare e a far vivere l’amore

In questi tempi a cui apparteniamo per cui li chiamiamo nostri,

Verso la fine di ciò che sembrava essere per sempre.

 

 

 

ADULT SITUATIONS

 

The New Gods

 

And then, for a long time, nothing happened.

The citizens slept in the sleeping cities

And rose at dawn and worked and loved and slept.

Nobody knew just how long this would last.

 

It happened because it wanted to happen.

Young, sculptural, the gods rose in the cities.

Lush, sexual, they shone as the citizens slept.

Lovely, they filled the screens but couldn’t last.

 

It happened because it had to happen.

Moving sleepless through the sleepless cities,

Filling the dreams of citizens who slept,

They too just wanted to sleep at last.

 

Not from the snow-marbled heights of mountains,

Not from the deep blue rivers the snow made,

Not from the sweet blue nowhere of the sky,

 

But from the scented gloss of magazines,

From New York, Houston and L.A., they came –

To become immortal, and then to die.

 

I Nuovi Dèi

 

E poi, per molto tempo, nulla accadde.

I cittadini dormivano nelle città dormienti

E si alzavano all’alba e lavoravano e amavano e dormivano.

Nessuno sapeva di preciso quanto questo durasse.

 

Successe perché voleva succedere.

Giovani, statuari, gli dèi apparvero nelle città.

Floridi, sensuali, rilucevano mentre i cittadini dormivano.

Non avevano nulla che non andasse, ma non potevano permanere.

 

Successe perché doveva succedere.

Muovendosi insonni nelle città senza sonno,

Dando forma ai sogni dei cittadini che dormivano,

Dopotutto anche loro desideravano soltanto dormire.

 

Non dalle cime innevate delle montagne,

Non dai profondi fiumi blu originatisi dalla neve,

Non dal dolce nulla blu del cielo,

 

Ma dall’odorosa lucentezza delle riviste,

Da New York, Houston e Los Angeles, vennero –

Per diventare immortali, e dopodiché morire.

 

ADULT SITUATIONS

American Tragedy

 

The Chevrolet fires past two blond children

Eating mud in the ditch by a dirt road.

Kentucky, midsummer, sun going down –

Day like an empty shotgun shell, still warm,

Fragrant with dog shit and honeysuckle.

 

The skinny girl inside the white trailer

Is drinking gin and torturing herself

With a cigarette: nipples, navel, crotch.

The screen door hangs by one broken finger.

Past dark, a light comes on. Nothing happens.

 

Tragedia Americana

 

La Chevrolet sfreccia davanti a due bambini biondi

Mangiando il fango nel fosso su una strada sterrata.

Kentucky, metà estate, il sole che cala –

Il giorno come una cartuccia vuota, ancora calda,

Al sapore di merda di cane e caprifoglio.

 

La ragazza magra nella roulotte bianca

Beve gin e tortura sé stessa

Con una sigaretta: capezzoli, ombelico, inguine.

La zanzariera si regge su un perno instabile.

Dopo il buio, una luce si accende. Non succede niente.

 

Traduzione di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

 

Grace Paley: l’attenzione nascosta

di Andrea Galgano  25 gennaio  2021

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L’anima di Grace Paley (1922-2007) è un’urgenza di domanda. Lo è nella esatta puntualità dei suoi racconti, nella registrazione puntuale dei dettagli del mondo, nella narrazione, solo apparentemente semplice (e quindi, chiara e trasparente) delle sue raffigurazioni.

La raccolta dei suoi testi di poesia, ora riuniti in volume, dal titolo Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta[1], tradotto da Paolo Cognetti e Isabella Zani, per l’editore Sur, ha segnato gli anni più tardi della sua vita, toccata dalle vertiginose bellezze autunnali del Vermont, dove viveva con il marito fino alla morte, avvenuta nel 2007.

Nella prefazione, Paolo Cognetti racconta l’estremità di due poli identitari che comunicano tra loro, l’anima versatile dei racconti, in perfetta linea di congiunzione con Hemingway, Carver e Bukowski, ambientati nel Bronx, a New York, dove il fulcro popolare, le frontiere di passaggio dell’immigrazione erano la cifra e la firma di una umanità in lotta, e il tempismo lirico e sagace del gesto poetico:

«Con Bukowski, Grace Paley ha piuttosto in comune il carattere: l’esuberanza, l’anticonformismo, l’ironia, l’idea della scrittura come luogo di libertà, l’insofferenza a ogni tipo di autorità sulla pagina e nella vita, e anche l’orecchio che le permetteva di registrare la musica del mondo. Le piaceva definirsi una story-listener, ascoltatrice di storie: prima ascoltare e poi riferire, era la sua idea del lavoro di scrittore. E con ciò fare della scrittura un atto politico, perché riferire è un dar voce a chi non ce l’ha: agli ebrei, alle donne, ai bambini, ai migranti – ai dimenticati e agli sconfitti delle guerre del nostro tempo. E infine agli sconfitti della guerra tra noi e il pianeta, che sono gli alberi e gli animali. […] Grace Paley non poteva scindere il suo lavoro di scrittrice dall’impegno politico, ma se sulla pagina era una compositrice raffinata, musicale, una jazzista della lingua inglese, per strada era una combattente che non si tirava indietro davanti alla violenza del potere […]».[2]

Roberto Galaverni scrive:

«Paley è stata quel che si dice una scrittrice civilmente impegnata, una protagonista della controcultura newyorchese che ha costantemente avuto nel proprio mirino il militarismo, la discriminazione razziale e quella sessuale, nei confronti delle donne anzitutto; ma poi anche l’avidità, la mancanza di idee, di coscienza politica, di partecipazione comunitaria, di prese di posizione forti e consapevoli. […] Per un temperamento simile la lettura non poteva certo consistere in un rifugio o in un mondo a parte. Al contrario, l’esercizio della scrittura risulta sempre subordinato alle necessità dell’esistenza, pubblica o privata senza particolari differenze. Anche per questo ha scritto poco: l’impegno diretto nella e per la vita aveva comunque la precedenza sulle pur amate parole».[3]

Il garbo, l’ironia, l’azione necessaria della scrittura, il travaglio e la dolenza, il discorso e la passione, la cura per la realtà e per l’umano, l’interesse vitale sono le linee del suo orizzonte, celebrano il dettaglio universale per farsi battito puro e secco della forza tenuta da un avamposto, senza bisogno di fuga. Un allarme contro ogni scomparsa, piccole avvertenze quotidiane che vivono e intessono le dinamiche esistenziali, anche nei decentramenti e negli spaesamenti della lingua:

«Un giorno nella vita della mia famiglia / io sono entrata nella lingua inglese / le d e le t fra i denti   il fischio delle s / Allungavo le i / mi perdevo in qualche r  / le infilavo / dove non erano richieste / spesso piazzavo una preposizione / alla fine della frase / questo per guardarmi da / un’inflessione risentita / Con mia grande sorpresa gli estranei mi capivano / ho continuato a parlare   / ero sfrontata   / dicevo / ovunque vada trovo verbi che non combinano niente / sono anni che certi nomi comuni non vengono più chiamati / col loro nome proprio / devo fare una domanda triste / le leggi dell’entropia agiranno a dispetto del rigore? / esiste una letteratura che canti la scomparsa / delle lingue madri?».

Le fragilità degli avvisi, il cuore umano in tutta la sua contrastata pulsazione, il limite e la precarietà di ogni finitudine, la voce di ciò che non si sente, l’arguzia a servizio di una parola che è dettato e spazio, sono il tempo dell’umano, lo consegnano all’umano, vissuto dal treno, dal gesto vissuto e dal dialogo, appena gridato o sussurrato:

«Che diceva la poesia quel giorno / stavamo parlando  parlando / diceva  sta’ buona   lasciami / l’ultima parola  senza quella / hai a stento un pensiero  / Ai tempi / avevo le tasche piene / di ottime pietre / ma non ero / senza peccato  che cosa / potevo fare se non passi pesanti  pesanti / Un giorno ho smesso di reggere le battute / riuscivo a farle con la facilità di sempre / ma mi chiedevo perché l’altra persona rideva / non era anche lei nei guai / come il resto del mondo? / La vita è due sogni / il tuo e quello di chi ami / a colazione  una fatica ascoltare / una pena raccontare  qualcuno / piange  chi ha fatto il caffè / e tutto è perduto».

La forza di Grace Paley è questa attenzione nascosta, dove le immagini, i richiami, la memoria e il conflitto, la sintonia naturale custodiscono un ponte di sollievo, ciò che raduna i bisbigli di madre, ciò che non si tacita e dove persino una parola, come stormire, è arrivata tardi ma non ha oblio, non conosce l’oblio, è solo un ritardo di affrancamento: «è una parola meravigliosa / ho tentato di usarla ma non ci sono riuscita / mi è squillata davanti in una poesia di Jane Cooper / adesso vivo tra gli alberi  le fronde / i rametti e le foglie  / soffia un vento leggero / ma la parola stormire mi è arrivata troppo tardi» (LA PAROLA STORMIRE).

Già il titolo della raccolta, che è l’incipit di uno dei testi, richiama l’essenzialità della procedura e del gesto poetico, la non-canonizzazione dell’aura poetica, il gradiente arguto e intelligente del dire, dove le pause sono respiri e sillabe dilatate, dove il paradosso è il modo per innervare gli ossimori del mondo, i dolori, i traumi e le inibizioni del corpo che cambia («la carne incontra l’anima / e sussurra   tu»), le latitudini autunnali della meraviglia del Vermont, la sua benevolenza visibile.

«Non volevo dipendere dall’autunno / volevo perdermelo per una volta   saltare / a un’altra latitudine dove non era così / famoso  volevo mostrare che la bellezza / si può trattenere nel respiro così come respiriamo / dolore e tradimento   non sempre devono / accadere nell’attimo presente / Guardate  eccolo là  il nostro celebre / dorato autunno del Vermont color del vino  verde / come l’estate per cominciare e poi il sole / mattutino tira su la bruma dal freddo fiume notturno / gli aceri addolciscono  / senti un certo / battito accelerato  una vampata   in te che vivi quella / fedele campagna  in fiamme  in tremante / attesa del suo lungo inverno  nessuno dovrebbe  / esser costretto a sopportare tanta bellezza motivata dalla / morte / ogni singolo anno  / questo corpo stagionato sa / che insopportabile».

Tutta la poesia di Grace Paley è un indizio visibile, come avviene in Lettura dei giornali all’edicola di paese, dove l’ironia compensa le notizie lette e scabre e vi è «la retorica asciutta e la logica paradossale di chi sa destrutturare i luoghi comuni, con lo stesso riverbero lirico entro una natura antropomorfizzata[4]».

L’addensarsi del tempo, i cambiamenti, la cooperazione naturale («perché la luna estiva è bassa / ad abbagliare i campi in ombra e / fa talmente luce alla finestra  è / la legge naturale come anche un bambino / capirebbe della luna dell’amore della notte»), la vita lieve, la morte e la bufera che infuria, segnano le sue buone stelle, come l’ultima bellezza di uno sguardo d’amore, nella luce spoglia:

«Volevo portarle un calice / o magari un bicchiere d’amore / o d’acqua fresca  volevo sedermi / accanto a lei mentre riposava / dopo una lunga giornata  volevo ingiungere / encomiare  ammonire dicendo non / fare così  ma certo  perfetto  provaci / volevo aiutarla a invecchiare  volevo / dire parole ultime  / le parole famose  / per l’illuminazione definitiva / volevo / dirgliele adesso  casomai fossi / placida in sonno quando l’ultimo sonno colpisce / o disordinata dalla vecchiaia  volevo / portarle un bicchier d’acqua fresca / volevo spiegarle che  la stanchezza è / normale  anzi perfino opportuna / alla fine del giorno».

[1] Paley G., Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, prefazione di Paolo Cognetti, sur Edizioni, Roma 2022.

[2] Cognetti P., prefazione, in Paley G., cit., pp. 6-8.

[3] Galaverni R., La seconda stagione dell’ardente Grace Paley, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 16 gennaio 2022. 

[4] Tolusso Mary B.,  se ami stare al mondo fai come l’acero anche mezzo secco si slancia vero il sole, “TuttoLibri – La Stampa”, 15 gennaio 2022.  

Paley G., Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, prefazione di Paolo Cognetti, sur Edizioni, Roma 2022, pp.130, Euro 14,00.

H.D. Le labbra dell’enigma

di Andrea Galgano  1 ottobre 2021

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Hilda Doolittle (1886-1961), prima donna ad essere insignita dall’American Academy of Arts and Letters, dimora in una linea intensa tra vortice (e vertice) raffigurativo e densità espressiva. Il suo legame musaico esprime, attraverso l’enigma, l’estasi ordinata, l’estremità della voce, il nucleo e il codice immaginativo, la fatale e vorticistica tessitura di una tensione simpatetica, poichè

«Attratta dalla psicanalisi e dall’occulto, dai geroglifici e dalla comunicazione con i morti, H.D. fa una poesia piena di mitologia, caratterizzata dal verso libero e dalla precisione pittorica dell’immagine – per tornare all’Imagismo – un’immagine in movimento ed elementare molto vicina ai pittori del Blaue Reiter[1]».

L’immobilità e il movimento, l’Entusiasmo, la trasgressione antinormativa, l’estasi pittorica non inseguono una sincretistica esposizione delle immagini, e, come teorizzato da Pound, bensì la singolarità dell’immagine in quanto unica, e, potremmo aggiungere, archetipica.

La scelta delle iniziali entra in questa dinamica di coltre sconfinata. È marea, fuga, trascina le rocce della scogliera, lavora pietre grezze, canta un lamento infinito nell’onda che irrompe.

Qualcosa di ricercato, vissuto e perduto, insieme, come un giardino protetto che dissipa bellezza e riparo per richiudersi in una lotta verticale di rigenerazione («Poiché questa bellezza, / bellezza senza vigore, / soffoca la vita. / Voglio che il vento spezzi, / sparpagli questi steli rosati, / ne strappi le cime speziate, / le getti via con le foglie morte»):

«La luce passa / da crinale a crinale, / da fiore a fiore – / la distesa di hepatica, / sotto la luce intristisce – / i petali si rinchiudono, / le cime azzurre si piegano / verso il cuore più blu / e i fiori sono perduti. / Le gemme di corniolo sono ancora bianche, / ma un’ombra dardeggia / dalle radici – / scivola nera da radice a radice, / ogni foglia / ne taglia un’altra sull’erba, / ombra cerca ombra, / poi foglia / e ombra sono perdute» (Sera).

Grazie a Interno Poesia, e con la cura e la traduzione di Giorgia Sensi, Poesie Imagiste[2] di Hilda Doolittle, ci restituisce, come si legge nella prefazione, una lingua naturale:

«priva di costrutti artificiosi, ellittica, il verso è libero e i ritmi sono irregolari, seguono la regola imagista del “non rappresentare ma presentare”, combinano immagini nitide, brusche giustapposizioni, un effetto visivo – tutto un inventario di fiori, alberi, rami, rocce, onde, paesaggi marini e terrestri – ben precisi, ricco di movimento e di azioni, spesso energiche, espresse da verbi dinamici, a volte anche violenti, come calpestare, frantumare, strappare […]» (pp.9-10).[3]

In sea Rose (Rosa di mare), H.D. unisce la violenza della natura alla sua dolcezza, indicando, inoltre, asprezza, pericolosità selvaggia e trasudazione contemplativa:

«Rosa, ruvida rosa, / sciupata, scarsi i tuoi petali, / fiore scarno, sottile, / rade le foglie, / più preziosa / di una rosa umida / sola su un stelo – / sei colta nella corrente. / stentata, piccola la foglia, / sei sbattuta sulla sabbia, / sei sollevata / nella sabbia secca / spinta dal vento. / Può la rosa gialla / trasudare tale acre fragranza / indurita in una foglia?».

L’immagine che oltrepassa la realtà è un allarme di luce, in cui lo scuotimento deriva dal fulcro feroce e indocile del tempo e del reale. Vi sono scricchiolamenti primari, foglie spezzate, dispersione di vortici ed emersione creaturale di Eros:

«La tua statura è modellata / con colpi precisi: / sei cesellato come rocce / erose dal mare. / Nella torsione e presa del tuo polso / e nella tensione delle corde, / c’è un bagliore di ottone levigato. / Il colmo del tuo petto è teso, / e l’ombra è nitida al di sotto / e tra i muscoli errati / delle anche snelle. / Dal contorno dei tuoi capelli serrati / viene luce, / e intorno al tuo torso msachile  / e all’arco del piede e la caviglia diritta».

H.D., la cui cultura proviene dai grandi autori del passato e dalla mitologia greca, che rimodella e ricompatta attraverso le disposizioni immaginifiche dell’io (Adonys, ad esempio, «Ciascuno di noi come te / è morto una volta, / ciascuno di noi come te / è passato tra il flusso delle foglie boschive, / screpolate e piegate / e torturate e spiegate / nel gelo invernale, / poi bruciate in punti dorati, / riaccese, / rigida ambra, / scaglie di foglia d’oro, / oro trasformato e di nuovo saldato / nel calore del sole» e poi Pygmalion, Eurydice), entra nella luminosità inseguendola, espone i dettagli frangibili e protesi, laddove la precisione, il segreto eleusino, la percezione ideogrammatica recano la geografia di un vocabolario senziente e percettivo, in cui l’atto creativo diviene esattezza che deborda: «I pensieri mi lacerano, / temo la loro febbre. / Sono dispersa nel suo vortice. / Sono dispersa come / i semi caldi rinsecchiti».

La sua poesia si riempie di dettagli e vitalità come se fosse seme sparso, e allo stesso tempo, diventa fragranza, perdita e trafittura, aratura dell’anima e orlo di dune. Il portale dell’essere è combattimento per l’esistenza, grido e lancio squarciato, vissuto tra piante e monti, dove la tempesta della natura è partecipata e ostile: «Turbina, mare – / turbina i tuoi pini appuntiti, / schizza i tuoi grandi pini / sui nostri scogli, / gettaci addosso il tuo verde, / coprici con le tue pozze di abete».

L’ossimorica e onirica floridezza produce annunci ed evocazioni nel nudo cuore e polvere d’estate («La sabbia dura si frantuma, / e i suoi granelli / sono limpidi come vino. / Molte leghe più lontano, / il vento, / che gioca sull’ampia riva, / ammassa piccole creste, / e le grandi onde / vi si frangono sopra»), domanda al dio nel colore scuro del ciclamino:

«Giunco / squarciato e strappato / ma doppiamente ricco – / le tue grandi cime / fluttuano sui gradini del tempio, / ma tu sei spezzato dal vento. / La corteccia del mirto / è punteggiata da te, / le squame sono distrutte / dal tuo stelo, / la sabbia spezza i tuoi petali, / la solca con lamina dura, / come selce su pietra brillante. / Eppure benché il vento / frusti la tua corteccia, / sei sollevato, / sì – benché sibili / per ricoprirti di schiuma».

Dopo la saga imagista, come ella stessa la definì, si occupò di cinema ma anche di un lungo lavorìo su Pound e al tributo a Freud, come una linea di segni sul muro.

[1] Farnee R., Ricordando Hilda Doolittle (www.minimaetmoralia.it/wp/approfondimenti/ricordando-hilda-doolittle/), 28 settembre 2020.

[2] H.D., Poesie imagiste, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2021. 

[3] Sensi G., H.D. Imagista, in H.D., Poesie imagiste, cit.,  pp.9-10.

H.D., Poesie imagiste, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2021, Euro 15.

H.D., Poesie imagiste, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2021. 

Bianchi R., Imagismo, in Modernismo/Modernismi, Principato, 1991.

Farnee R., Ricordando Hilda Doolittle (www.minimaetmoralia.it/wp/approfondimenti/ricordando-hilda-doolittle/), 28 settembre 2020.

“Non esiste grande arte senza grandi amanti”. Storia brutale di H.D. (www.pangea.news/hilda-doolittle-storia/), 18 settembre 2021.