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La luce di Roberto Mussapi

di Andrea Galgano 19 dicembre 2014

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Procede attraverso una eleganza di aliti e rinascite la poesia di Roberto Mussapi (1952), come un mondo di architetture che «dissolve entità separate, personae, eventi ed esperienze – tramonti, temporali, un faro, alberi, continenti, rocce, calura e neve – in una fluida tavolozza di rappresentazione degli elementi: luce, spazio, oscurità, terra e acqua. Impressionista, eppure dinamico nel suo trasmettersi. L’oscurità ambigua di una caverna prende forma – e paradosso – attraverso la graduale coerenza di frammenti di luce, persino nel modo in cui le screziature definiscono la “scurità” di un bicchiere di vino. Tali frammenti di luce, evocativi di illusioni ottiche o cose inafferrabili, divengono gli agenti di trasmissione che portano l’oscurità a fondersi con gli orizzonti, le gallerie, le onde dell’oceano. Lo stesso procedimento informa di sé un viaggio in treno che muove oltre la semplice narrativa o l’evocazione di un incontro per divenire la dimora liminale della memoria, dove la vita e la morte raggiungono una consolante unità, proprio come – dice il poeta – il sonno». (Wole Soyinka).

È una poesia che non preferisce l’erosione ma si apre alla rinascita “grave”, al grido degli accenni, alla tabula itinerante del tempo e alla conoscenza trascendente: «Perché rinascere a quest’ora / perché accendersi ancora in questo vento? / Tutto riposa, adagio / resta un nucleo disperso / roccia silicea e povera, / tempo forato dal tempo, anni / che abbiamo lambito ognuno perso / nel suo grido, perso a un accenno».
Scrive Piero Boitani: «Mi piace pensare a quel nucleo disperso, a quella roccia silicea e povera come al fondo dal quale nasce la poesia, che, germinando da questo fondo lirico inorganico (e metafisico) fiorisce in narrativa e drammatica […]».
La ricostruzione liminale, appunto, assorbe una intonazione potente e indeterminata, recupera il fondo assorbito e disseppellito della materia vivente, ritrova l’epica nascosta del mondo, la sua profondità e il suo scavo che innalza il respiro e lo sostiene: «Poi torna il respiro originario / si chiude il tempo: / eppure niente tra fibra e condanna, / nessuno spazio che giura / niente, il vuoto perso, e l’anima / che oscilla e nasce, il buio».
La mitologia del tempo diviene rappresentazione ed espressione di una attesa primordiale, di una transitoria, eppure concreta, gemma recuperata che sonda la modernità in tutto il suo spazio di figure ed emblemi e in tutto il suo riconoscimento di avvenimenti e declivi di ombre.
Afferma, ancora, Wole Soyinka:

«L’immagine complementare dell’indefinitezza, ugualmente priva di sostanza, sembra rimanere l’ultima nota di consolazione di Mussapi. Forse un appagamento – o quantomeno una riconciliazione – si raggiunge quando, a sua volta, l’io impara a identificarsi con l’anima che pare «fumigare e andarsene dal corpo», l’essere «d’incorporea caligine» o «l’uomo obliato» che «cammina nell’ombra che lo accosta, scarnificato» in una distesa atemporale. Allora, anche l’esperienza più evanescente può essere accettata come un rito di passaggio assolutamente appropriato, che è quanto il viaggio umano in definitiva concede».

L’ordine del viaggio si impossessa del mito, «l’argine aspetta / la notte straniera» mentre «Dietro la tenda di neve / cresce la forma del paesaggio / respira / una disperata serenità» e l’apertura antica del suo tempo arricchisce il gesto di una metafisica serena e archeologica, di un fascino di ombre che indicano la trama eroica dei gesti e della quotidianità.
È un’architettura che sosta sullo «sgocciolio fermato a mezz’aria / un orizzonte di palpebra, liscio […]» che trapassa gli astri: «Il primo vento è il mattino / che porta luce e segue una sua immagine celeste / di sonno, trapassata dall’astro, / quando il suo nome trema e l’insonnia dimentica / le attese sulle terrazze col corpo attraversato dal vento».
Il suo centro trafitto dalla luce insegna pienezze di foce, danze cieche, sogni nuovi dell’inverno, dove appare la vivezza di un canto bianco e la poesia ritroverà le sue cromature e il suo avvenimento, come arcane linfe stremate.
La rivelazione rarefatta si confonde e si fonde con la tradizione, affiora il confine acceso degli aloni dove «tutto entra / e sfascia le porte e appolpa l’ugola ai cani», attraverso una lucidità che è materia che circonda, uscita di senso, tremore impalpabile: «Chi scrive poesia non parla da se stesso, ma attraverso se stesso, e la voce gli appartiene solo nella durata della scrittura. Poi si stacca da lui, e resta nella sua luce di compresenza, tra gli uomini e tra i tempi. Ed è la ragione e il prodotto del tempo presente, del consumarsi in atto del tempo».
La luce frontale (1987/1998) viene dominata da una coltre incantata, in cui i barbagli celesti incontrano la conoscenza di una stupefazione avvinta, e lo sguardo, come sostiene Giancarlo Quiriconi, «implica la fuoriuscita dell’io da se stesso in un luogo-non-luogo dove l’occhio incontra la visione, il segno di qualcosa che in un attimo accade assolutamente e gratuitamente, coinvolgendo e superando insieme gli elementi del reale, i dati possibili della soggettiva biografia. […] Tutto si concentra nell’occhio, origine e approdo, senso dell’esistere – la nascita – e sua sospensione infinita nell’eterno dell’assenza».
La visione è premessa all’avvenimento visivo e mira a «levare gli occhi dagli accidenti della propria specifica condizione per abbracciare con lo sguardo l’intero orizzonte umano. Il che non vuol dire liberarsi dai vincoli della vita vissuta, privarsi delle percezioni, degli affetti, delle gioie o dei dolori che sono, nella scrittura, il solo respiro veramente profondo dello spirito, quanto piuttosto allargare questa esperienza rimasta fondamentale grazie all’esame di ciò che, nella società, nella storia, declina gli avvenimenti dell’esistenza particolare, talvolta perfino suscitandoli. Una poesia in grado di vivere in modo non solo spontaneo, ma anche riflessivo ed esplicito tale identità di universale e di singolare, quale le poesie più autentiche sempre stabiliscono». (Yves Bonnefoy):

«E vide i mossi riflessi nella pozza / (i mossi, i lunghi labbri del soffio che riscuote / le nebbie delle anime, ricordò i pallidi / risvegli dei corpi sciolti nei canneti, / il sospiro di pelle che solleva / le pleure dei muschi aprendo verdi plaghe / stagni gelatinosi dimenticati dalla tempesta)».
L’epifania del mondo abbraccia il magma esistenziale, e il sonno, il risveglio, l’epifenomeno del reale divengono tracciato di immagini e testimonianza mediata, come voce di luce in cui «l’impronta dei tratti si discioglie / trasuda l’aspetto rispecchiato nella vela di fuoco / torpido covo notturno».
Laddove l’io afferma la propulsione del suo sguardo di terre incerte, lo strappo del dono sostiene l’alterità, il rapporto con le cose, il dettato amoroso. L’oggettualità mussapiana non strappa le tele dell’essere ma accarezza gli specchi delle concrete esperienze e presenze, coniuga la misura espressionistica per sollevare le tracce memorative in vigorie semanticamente plurime, come fuochi di transito: «[…] Passerà secoli di viaggio nel cunicolo / buio guardando le ombre transitorie come d’oblio / di chi le ha conosciute ed amate / proverà un brivido strano nella portineria / e guarderà l’amato all’improvviso alle spalle/ chiunque sarà, quel fuoco transitorio / e perenne che un giorno fu in lei / nel fiore di geranio come nei tulipani / di Van Gogh, lei non ricorderà, / lei non saprà, lei tornerà nei cunicoli / tra i fratelli addolorati e ignari, / ma il suo cuore non cambierà più ragione / e i suoi occhi guarderanno per sempre con un altro / inconsapevole, sovrano amore».
La mitopoiesi diviene amore irriducibile, figura che tocca l’esistenza e la morte come fusione e lotta, gesto poetico che coglie il presupposto di diventare «punto di partenza per un viaggio nell’umano teso a scandagliarne le peculiarità più resistenti: una sorta di preliminare accertamento delle radici, dei segni ricorrenti di una antropologia del profondo attraverso cui sia possibile rivolgere uno sguardo più consapevole al presente dell’esistere, coglierne la pienezza evidente e insieme misteriosa anche nei minimi eventi, nei gesti più consueti, nelle figure in apparenze meno significative» (Giancarlo Quiriconi).
Il tempo di Mussapi tocca la traccia immanente del sublime, lo innerva nella dimensione quotidiana, frammentandolo in uno stupore attonito e in un contatto compatto con la realtà vivente, ridisegnando persino la scrittura dickensiana, come archetipo di infanzia, nei volti e nelle maschere condotte e prese dal sogno e dalla visione (Racconto di Natale).
In Gita meridiana (1990) la scena memoriale diviene, come scrisse Geno Pampaloni, «originaria, metafora della nascita; e perciò non precipuamente lirica; piuttosto tesa all’epicità; essendo il mondo e la vita segnati da una ininterrotta creazione, di cui la parola poetica è insieme testimonianza, maieutica, viatico alla morte».
La sua vertigine recupera e percorre l’evidenza sensibile dell’ «alto centro / dell’impervia durata sillabante» dell’orizzontalità del mondo e la sua poesia «finisce per configurarsi, con il suo tono tra profetico e orgiastico, come una sorta di canto civile, canto di tutta una civiltà dell’uomo, recuperata dal buio del tempo e dell’oblio a testimoniare una durata e un senso che non possono essere cancellati. E qui, sulla scorta di una memoria che attiva meccanismi di recupero non elegiaco, immerse nel giro eterno di una dimensione orfica, come scolpite nel basalto le figure assumono il passo e il respiro autentici del mito, di un mito che si forma per propria evidenza paradigmatica, per la propria intrinseca forza di indicazione, per la sua stretta connessione con tutti i dati della vicenda umana ed esistenziale […]».
La gita raccoglie lo zenit di una memoria unica e di una circolarità cosmica, altrimenti perdute. L’aurora antica preannuncia la genesi di un ritorno, la verticalità del nome che sottentra ferite e grumo circolare di affetti, l’oscurità e la nascita immemore iscrivono, fragili e primigenie, passato e presente, come una rivelazione, che nel passaggio de Il Cimitero dei Partigiani, Fenoglio indicherà: «Chi li visterà, i perduti? Scaglie di sole, / brandelli di memoria raggiungeranno il loro silenzio, / come accade ai dormienti, i miei morti / avranno visite incorporee, fuggite dal giorno? […]» (Enea guarda gli accampamenti alla sera).
I paesaggi delle ombre, dalle antiche (Enea, Plinio il Vecchio) ai contemporanei (Scirea, Tardelli), l’incanto percorso delle ore, in cui la mescolanza e la conservazione delle voci riverberano nell’incombenza della sera, il nudo ascolto «nel breve unisono oltre l’attimo», fanno convergere il tempo in una disposta unità di senso e in un dialogo che riempie la memoria udita, immaginata e pensata, in un soggetto non eroso, in una disposizione biografica che si fa esilio e ricordo e indica, ancora una volta, «il nostro unico margine, / confine e fuoco», il positivo proscenio di un’urgenza lucente, «Dove la terra fu inutilmente arata / e i campi fumano ancora, e le ombre / lontane chiamano inascoltate dai passanti / o dove qualcuno si fermò per un istante e poi scomparve, / linea rovente, rasoterra del tempo, / traccia, impronta di vita che comunque fu, / in qualunque ora e in qualunque modo, / lì guardano, e lo chiamano orizzonte, / da cui nasce il tempo, il viaggio, l’avventura / oltre la siepe, il meridiano, il magico / confine dell’atlante».
Il poemetto epico-drammatico Antartide (2000), opera incentrata sulla vicenda della spedizione al Polo Sud di Schackleton con la nave Endurance, sonda la tradizione della modernità, aiutato dalle voci e dagli echi elotiani e danteschi (ma anche pascoliani e luziani), facendo prevalere l’assolutezza del dato metafisico, in un quadro che appartiene non più alla singolarità o alla scompaginata traccia memoriale, ma alla storia dell’uomo.
È epica autentica e teatrale, non solo per i richiami infratestuali, ma per la materia che non si risparmia, si sostiene, attinge all’energia vivida dell’esistere, per ritornare alla traccia dei vivi e al segno risorto e profetico.
La sfida poematica, per Mussapi, come scrive Raffaele La Capria, è partire dal fatto che la poesia pura, «essendosi sempre più rarefatta, sia finita in un cul de sac, proprio come l’ Endurance, stretta dalla morsa dei ghiacci, stritolata, il fasciame che geme e si lamenta con sinistri scricchiolii, nell’immenso universo astratto, bianco e allucinante del Polo Sud. Forse è qui la vera metafora sottesa al racconto di questa agonia. Il bianco che circonda la nave fa pensare più a quello del Gordon Pym di Poe che alla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge. Qui non c’è nessun romanticismo, è il dato metafisico che prevale e tutto assorbe. E anche l’ angoscia di chi si è ficcato in una situazione senza uscita, un’angoscia che noi uomini in questo secolo conosciamo bene. Angoscia mortale, dunque, e allucinazione, e in questo senso in Antartide non c’ è distacco epico, come quello di un poema antico. Si addice più a questo poema e al nostro secolo la registrazione analitica, la concretezza di uno slancio lirico che si attiene ai fatti, e con quelli – come fa Kafka – costruisce la sua architettura metafisica, o se si preferisce, l’ allegoria».
Il ghiaccio rappresenta la genesi di una iniziazione, un’uscita dal repertorio quotidiano per un’appartenenza e un’adesione a qualcosa che scompare, defluisce, ritorna, e infine, trasla lo svelamento poetico, «dove per traslazione si passa dall’idea di una possibile conquista alla prigionia dell’Essere in una glaciazione attenuata, se non spezzata, solo dal calore del possibile ritorno» (Francesco Napoli).
È la possibilità di risurrezione ad affermare la forza di questa poesia dispersa (di prede e notti polari, attese e lanterne, e camere intenebrate), che comunica il vivere inciso della sua terra incerta e della sua rinascita, ad aggiungere, poi, nuovi e antichi richiami coscienti al dramma del tempo e alla stoffa delle cose.
Afferma Bonnefoy, infatti: «Mussapi ascolta il sé profondo, muove perfino, coraggiosamente, verso di lui in pagine che sono come un assopimento, ma per un risveglio in un altrove; ed egli non sa dove. Perché non bisogna credere che questa apertura del sé ai suoi arcani si accompagni in lui all’illusione di poter penetrare i loro sensi ultimi: questo vorrebbe dire censurare la parola incessantemente eruttiva dandole espressione. Non sono questi né il pensiero né gli auspici di questo poeta, anche qui assolutamente moderno, consapevole che la verità è un dislivello senza fine tra il piano del concetto, della rappresentazione, e quello del simbolo, della presenza».
La voce si concede agli eroi, alle piante, agli animali, alle pietre, all’acqua, come traliccio di sogni e dimensioni. Il periglio sottentra al Ritorno. Ed è nel nostos che il poeta vive le sue fonti, il viaggio verso le stanze interiori, appropriandosi di quel «genere di verità che perdiamo sempre di vista, quella che la poesia ricerca per lo più invano, quella stessa che forse la morte rivela, in modo evidente ma incomunicabile, perché giunta troppo tardi: e cioè che l’amore, il semplice amore tra persone, si rivela all’ultimo momento come la sola verità» (Y. Bonnefoy): «Ricordi il buio, la grotta, la paura, / la paura che ci mutò in specie, specie abbracciata, / e il fuoco, e oltre il fuoco i primi confini? / Ricordi come piangevamo vedendo un cavallo, / sentendo nella sua corsa la forza del dio? / E come volevamo correre in lui, / e superare la vita, non morire?».
La coralità di passato e presente vive nelle circolarità perenni dei ricordi trasmutati (la madre) e delle rievocazioni (la casa). Nelle effigi egli incastona il dramma del tempo inconsunto, ritrae, archetipicamente, l’anima del tuffatore di Paestum, dipinto su una lastra tombale del V secolo a. C., che si slancia da un trampolino e che, simbolicamente, rappresenta il passaggio all’oltretomba. È il tramite a qualcosa che promette eternità e tempo risorto al tempo filiale: «Io non sono tuo padre ma la sua anima, / non so quello che vivo ma ricordo, / la riva, la piscina, i colori che formano / lo strano disegno della vita mortale. / Vivi in quella ceramica smagliante e attendi / quanto saprò dirti più avanti, alla fine del viaggio. / Ma ora che dormi come quando in una culla / sembravi cercare i segreti del mondo, / ora che hai spalle più larghe e più radi i capelli, / ascolta le parole della mia anima: / non so molto di lei – di me stessa – / (è presto, figlio, non conosco abbastanza, / ho appena iniziato, sto nuotando), / non pensare al mio corpo (è tardi, / perle, quelli che furono i miei occhi, e le mie labbra contratte in corallo), / ma ho conoscenza del loro matrimonio, / di quando vivevano all’unisono nel mondo / e io, anima di tuo padre, il tuffatore / ti consegno solo questa esperita certezza / (dal fondo dell’abisso, nel brivido del tuffo): / che anche l’uomo può amare eternamente».
Scoprire il linguaggio degli uccelli, dei pesci, scoprire la loro segreta comunicazione dona il fondo di canto e silenzio (l’usignolo che sembra annullarsi quando intona l’infinito o il passero che conosce i pianti e le pene e «cinguetta timido ma indefesso al mattino / portando all’uomo che si sente solo / come in un sogno la vita del giardino»), come «parole mute / che narrano storie lontane e perdute / e il canto degli uccelli, l’inno gioioso / alla vita nel cielo, a quel mondo radioso».
Il capitano del mio mare scopre, invece, il nuovo mondo, racconta l’esito di una stupefatta memoria di un viaggio inaspettato, fatto di gallerie «Buie e improvvise come lunghe scie / che la notte avesse dimenticato/ su quell’asfalto lucido e assolato», di strade nuove, di estati lontane, di limpidezze trasognate e, infine, di una sequela paterna che invita e fa vivere («Mio padre: guidava calmo e sicuro in un percorso tortuoso, si arrampicava sulle montagne fino al mare, e oltre c’era altro mare. Era uno stregone. Giocava col fuoco del camino, con i suoi sortilegi faceva nevicare, portava bene»), come una traccia che resiste ed esplora il mondo.

MUSSAPI R., Le poesie, a cura di Francesco Napoli, prefazione di Wole Soyinka e saggio introduttivo di Yves Bonnefoy, Ponte alle Grazie, Milano 2014.
ID., Luce frontale, postfazione di Giancarlo Quiriconi, Jaca Book, Milano 1998.
BIGONGIARI P., In gita meridiana nell’età dell’ansia, “La Nazione”, 10 marzo 1990.
BOITANI P., Canto degli eroi, da Enea a Scirea, in “Il Sole24ore”, 7 settembre 2014.
BRIGANTI A., I ricordi d’infanzia di Mussapi, in “La Repubblica”, 19 giugno 2012.
CARIFI R., I segni del nuovo, «Leggere», n.32, giugno 1991.
LA CAPRIA R., Mussapi, odissea nell’inferno dei ghiacci, in “Corriere della Sera”, 21 febbraio 2000.
PAMPALONI G., Ambizioni classiche e libertà fantastiche,“il Giornale”, 9 settembre 1990.
PAGNI F., Roberto Mussapi poeta, edizioni Noubs, Chieti 2004.
QUIRICONI G., Tra canto e profezia: “Gita meridiana”, in Luoghi dell’immaginario contemporaneo, Bulzoni, Roma 1998.
RONDONI D., Due lettere a Roberto Mussapi, in Non una vita soltanto,. Scritti da un’esperienza di poesia, Marietti, Genova 2002.

Commentario1 di Irene Battaglini* e Andrea Galgano** a L’ESSENZIALE CURVATURA DEL CIELO RACCOLTA DI POESIE DI ADRIANA GLORIA MARIGO

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Il Commentario sul sito della casa editrice La Vita Felice

L’ EQUAZIONE ESSENZIALE DI ADRIANA GLORIA MARIGO
di Irene Battaglini  29 novembre 2014

La poesia di Adriana Gloria Marigo è un fiume che sgorga e nel contempo include. Mentre s-gorga dal suo cuore immaginale, in-clude attraverso una catena di membrane linguistiche il materiale psichico e relazionale che ella ritiene necessario e utile al compito generativo, che assomiglia molto all’espressione di un gene dello stupore, quasi che si attivasse una catena epifenomenica dell’Esser-ci. Il verso: «[…] nell’ora più confusa / sciolti e ricomposti / i miei nervi issarono vele alla carne / incisero il canto bruno dell’abbraccio […]»2, sembra quasi snodare questo stampo originario.

Il processo creativo di Adriana Gloria Marigo – già in Un biancore lontano ma in modo ancora più marcato in L’essenziale curvatura del cielo – è di fatto ricerca di una Lichtung della parole nitida tra gli ingarbugliati sentieri della memoria delle cose: un discernimento di dritto e rovescio nel suburbe disorganizzato delle parole scomposte e vacue, occultate nell’ambiente protolinguistico delle emozioni. In questo gioco serio la sua scrittura arretra, in alcuni casi, nell’extrema ratio della sofferenza d’amore, quando scrive: «Di questo sogno tocco le sponde mobili / l’acqua che non si fa golfo e / ogni erba declinante il verde // il riverbero dell’ora dentro la / pupilla che sazia il mondo di ogni / tuo mondo, semplice e assente. (A Francesco M.)»3, a mitigare quel che altrimenti sarebbe un intarsio di filigrane in guerra con la perfezione apollinea di un inchiostro di Animus, come nei versi potenti e fieri di “3 febbraio 2012”: «Benedico la sottile luce / levantina / il graffio di gelo / l’eterna aria dissimile / la stirpe dei Reti che / mi arde d’intelletto, / di non fragile cuore»4.

Versi scolpiti e sottili, stagliati, intagliati, decisivi. Parole che decidono il destino di un universo di alberi, bruma, vento, orti conchiusi in un vaso che conserva immortali pianure di fiori incolti, che aspettano una luce che benedice, nomina, assegna identità. Vi è come una scheggia che vien fuori da questi versi, una scheggia che ferisce perché non chiede eco, ma una risposta fresca e chiara, come in una radura che si apre alla Lichtung ma che non consegna al vuoto, se mai raccoglie un seme in un palmo di mano per farvi germogliare mondi intrisi di mito, come qui: «[…] – memoria tenue di universi – / mentre io sgranavo giorni nei miei occhi di ninfa / mi feci vertigine d’ala / intesi l’ammanco originale / la tua nascita sotto un graffio di vento»5.

Potrebbe essere paragonata alla scultura di Giacometti, alla pittura di Morandi, se non fosse per quella delicatezza delle immagini che si svincolano dal cuore e che aprono all’orizzonte di una lettura mercuriale quando non dionisiaca. S-gorgare come a voler uscire dall’ingorgo, vincendone l’inganno di forma con l’astuzia del segreto di Anima. Ci si senti liberati e offerti alla vita, come in questi versi: «Precipita la luce nel mattino. / Impallidisce l’ombra nel mare delle rifrazioni. Emerge una filigrana eretica d’amore»6.

Una poesia che ti mette spalle al muro perché non ha paura, non ha bisogno di nascondersi dietro alla tecnica di assemblaggio delle parole. I segni, i suoni, restano lì scarniti, elementari, magri e sostenuti da un tratto deciso, che afferma anche senza dire dell’oltre, senza raccontare. Con l’ausilio di una punteggiatura che fa emergere le idee come il chiaro-scuro le divergenze tra due petali di uno stesso fiore. Una tensione grafica che possedeva lo stesso Morandi, un ritmo del quotidiano che si appropria a pieno titolo del metafisico, come nelle acqueforti, minime e meditate, ma distese nell’ovvio potente di un quadrilatero di carta.
Una poesia che non sa il tradimento dell’arte, ma che conosce il dolore dell’attesa, il fuoco argenteo di un parto che fa i conti con l’illusione. Scrive Cristina Campo a Maria Zambrano: «In nessun modo Maria, e da nessuna circostanza, tu devi lasciarti indurre a tornare a Roma se prima non hai finito il tuo libro. Hai freddo, sei triste, sogni poco, non hai la forza. Non importa. Tutto questo fa parte del tuo libro, mentre la vita di Roma non ne fa parte, e ti dividerebbe da esso ancora una volta – e questa volta forse per sempre. Che tu scriva o non scriva, che tu sia triste o allegra, non tornare. Aspetta il tuo libro là dove gli hai dato appuntamento. Non lo tradire»7.

Per questo occorre soffermarsi sulla genesi di quest’opera, perché anche Adriana Gloria Marigo ha aspettato, ha scritto e ha dovuto assentare la sua voce dalle cose di ogni giorno per esplorare il cielo di questa sua “essenziale curvatura”. La bellezza di questa poesia non sta tanto nel suo equilibrio tra forme, colori, immagini, spessore, sapienza compositiva – tutte qualità inequivocabilmente espresse al massimo grado della poesia contemporanea – quanto nel sapersi astenere dalla seduzione della parola data. La parola in Gloria Marigo non è data. È pesata e pensata. Vi sono studio e ricerca; il biancore non è candore, il cielo è incurvato ma non curvo sotto il peso del suo azzurro di sperdimento. Ella conosce la trappola del talento, e non vi indulge. Sa che la poesia, quando è scritta, acquista una sua precipua soggettività e di conseguenza sa ben misurare il potere che ha la facoltà, per mezzo del talento e della passione di poeta, di conferire all’espressione arricchitasi di senso compiuto.
Pensiamo, per esempio, alla pienezza di: «Qui cadono tutti i vaticini / […] / Impera solo l’essenziale curvatura del cielo»8. Il rimando è a immagini che oscillano tra il desiderio di elevarsi nella sintesi e la ricaduta del rosso del cuore che precipita dentro se stesso, che ama. Nuvole in movimento che rifondono ogni giorno la volta celeste, ma pur sempre fatte di ossigeno e di idrogeno. Si scalda l’aria al passo di donna, come quando dice: «Io fui lontana / non per mio volere […]», e dunque si avvicina ancheggiando prima di decidere: «[…] un potere / retrogrado indusse la scelta – / distanza che unì l’ammaliante differenza»9.
Adriana Gloria Marigo ha imparato la lezione dei Maestri nel dosare e nel fare, sa spendere e sa confinare le sue creature in una saggia spartitura di note, lasciando come in una jam-session al lettore la libertà di improvvisazione emozionale. La sua poesia è quindi adatta ai gusti di un pubblico colto, ma vivamente raccomandata per i palati più esigenti, perché è una poesia autentica e consapevole. Come dire: so di piacervi, ma mi interessa che sappiate che qualora decidessi, potrei tornare a me stessa, alla mia meditazione sulle cose più grandi, senza tema di solitudine. Come in “Impermanenza”, ai versi: «Mi stanca il volo d’ape / […] / Tra fiore e ape sarebbe / l’estate, se non fosse / la corolla votata al suo destino»10, in cui vi è alternanza di giorno e di notte, di assertività per il proprio compito e di perdono per il proprio destino, ed in misura più sottile e implicita di amore che non esclude, ma determina con il peso di chi sa il proprio valore nella relazione.
Infine, Adriana Gloria Marigo – poeta, ha compreso la differenza tra equilibrio ed equazione, sapendo calibrare i suoi gesti in questa ultima dimensione, alimentando la danza tra significato e segno, tra quantità e numero, e approfittando della sospensione per farne un vuoto che conosce il suo contrario: «Tutto si consuma nell’autunno, / anche quest’alba che disincarna / il mattino devoto al richiamo dei tigli / nel frammento di brina, […]»11, dove tutto diventa frammento, il mattino si trasforma nell’autunno, che è la sera consumata dell’anno, l’alba disincarna al pari della brina, come se una molecola di ghiaccio – con la sua articolazione originale – avesse la stessa qualità categoriale di un movimento di luce come l’alba nel cielo. L’equazione di una curva che invade il cielo di accensioni ancora da realizzarsi.

L’ESSENZIALE CURVATURA DI ADRIANA GLORIA MARIGO
di Andrea Galgano

La poesia di Adriana Gloria Marigo si confronta con la stoffa del tessuto amoroso, non come slancio intellettuale o sintassi concettosa, bensì come forza e spasmo.
La sua posa non ama la frenesia spasmodica, per quanto brillante e sfuggente di un attimo conclamato, ma si appropria del richiamo della realtà, della salmodia del tempo e dello spazio e non cede al ricatto di una energia fine a se stessa, ma comunica al mondo il ritmo del suo divenire esistenziale e metafisico.
La brillantezza dell’essenziale, se da un lato si offre come possibilità di tempo liberato e non ricattato, dall’altro percepisce la “lentezza” della libertà, e quindi, l’apertura del pensiero.
La stagione poetica di Gloria Marigo ha la fecondità-primizia di uno spazio esplorato, di un cosmo raccolto e infine dell’incisione del contatto.
Poiché il contatto con la stoffa della realtà è il suo ornato, il rigore esatto e lucente di una obbedienza: «Precipita la luce nel mattino. / Impallidisce l’ombra / nel mare delle rifrazioni. / Emerge una filigrana eretica d’amore».
L’io che si dona, si pone in ascolto, celebra il barlume della quotidianità vivente e condivisa, è disposto a perdere il proprio fondo, per restituire il mistero, il cuore disvelato, la domanda di se stessi e la sproporzione: «Per felice intuizione compitai / la sintassi del tuo cuore / gli ossimori del tuo volto quando / nell’ora più confusa / sciolti e ricomposti / i miei nervi issarono vele alla carne / incisero il canto bruno dell’abbraccio / da palpito a palpito / per la mistica della rosa».
Scrive Eros Olivotto nella postfazione: «[…] il linguaggio assume una profonda valenza simbolica, si carica cioè di una tale riferibilità da divenire evocativo e, quindi, rivelativo; nel senso che come caratteristica specifica trova in sé la possibilità di evidenziare gli angusti limiti di un modo di sentire che tende ad escludere l’accettazione di quel rischio che rappresenta la vera sfida dell’amore, tutta la sua forza più autenticamente rivoluzionaria. Solo se siamo disposti a perdere, a perderci, l’amore si trasforma in quel qualcosa che ci permette di cambiare […] ed è ancora l’amore che, misteriosamente, ci rende presenti alla vita e agli altri, restituendoci di conseguenza a noi stessi».
L’essenziale di Gloria Marigo diviene, pertanto, il territorio del respiro, o meglio, diventa compito del respiro conoscerlo e riconoscerlo.
È nell’amore, con la sua misteriosa linea dura e vivente, che il dispiegarsi del “Tu” rivela e disvela il colore profumato della grazia e della gioia, la sofferenza solitaria, la mancata declinazione e il dono proteso, come indagine di metamorfosi: «Mi metterò nel silenzio / bianco dei meli ora che / (assassinato dalle tue stesse mani) / tu vivi nella morte del mare / dove le tempeste flagellano / il tuo sorriso / pallido più dell’ombra dell’inverno» o ancora «Quando la stagione si alzò in canti / fin dentro la notte e / l’aria fu mutamento / mi scheggiai come selce: / lame al limine / di ogni mia fattezza».
La materia creativa della realtà invoca l’attraversamento della libertà, che si lascia penetrare dall’intimità essenziale e immediata dell’essere, e, attraverso tocchi ripidi e rapidi, restituisce un’emergenza, una conoscenza di sguardo: «Vedo la terra nella mano del sole / Ogni profumo è incandescenza d’aria».
Ma questa curvatura e questo spasmo non si limitano a dire il limine d’amore e il suo ritmo, ma anzi tentano di riavvolgere le mappe e il piegarsi della terra, per la promessa di un eterno principio: «Riavvolgo le mappe. / Riconosco la terra dal piegarsi / dei rami, dal gioco del vento – / viene la primavera a darci / l’eterno principio».
La sorpresa dello sguardo, lo stupore di quel che rimane quando tutto sembra crollare, il desiderio oltre-limite e il sapore del giorno celebrano l’orizzonte ventaglio dei viaggi, il punto che si curva per restare, l’epifania che conosce prossimità e avvenimento: «M’assesto i pensieri / come un cappello di fiori/ così che per un’aria bizzarra / s’involino petali fino ai segni / del tuo viaggio di vela / fino alla lamina dell’orizzonte / prossimo al tuo sguardo / che addensa le rose».
Questa poesia che conosce e sconfina, morde la grazia per vivere, si affianca al dato dell’esistenza per celebrarne il sofferto e lucente accadimento e verso cui farsi «libellula di parola / per la fuggevole tua presenza / il nominare all’infinito futuro / e il vocativo che non / sapesti declinare».
È con l’avvenimento della realtà che la poesia di Gloria Marigo fa i conti. Ed è con la sua trama misteriosa e la sua lingua duttile che l’amore, che in essa proclama tutto il suo bagliore, sogna e tocca «le sponde mobili / l’acqua che non si fa golfo e / ogni erba declinante al verde / il riverbero dell’ora dentro la / pupilla che sazia il mondo di ogni / tuo modo, semplice o assente».
Il prezzo della parola è la libertà di qualcosa che cerca la vita, come perla d’aria e memoria tenue: «S’inclusero le tue parole / in una perla d’aria / – memoria tenue di universi – / mentre io sgranavo giorni / nei miei occhi di ninfa / mi feci vertigine d’ala / intesi l’ammanco originale / la tua nascita sotto un graffio di vento».
La capacità di decifrazione del segreto del mondo e l’ulteriorità della parola testimoniano una vertigine metafisica in cui lavora il silenzio, la sua geografia, il fraseggio del suo bagliore (o biancore, per usare un termine caro alla poetessa).
I toni di cui si impossessa l’intimità poetica di Gloria Marigo trascina in profondità, ed è nella proprietà della rarefazione che essa puntella il verso, lo scalfisce, lo modella per conoscere la gemmazione «dalle oscure radici, / il contrasto apparente del rigore / verde scioglie nel cristallo che / magnifica le linfe».
Le lamine dell’orizzonte poetico hanno rimbalzi specchiati, domanda continua e addensata. Ed è proprio l’addensarsi, l’oscura e vibrante parola che sconfina nella sua poesia, forse la traccia immemore che si ricompone naufraga: «così io resto immemore / impigliata dove s’addensa / l’alga nata tra la roccia e / l’acqua» (Il corsivo è mio).
La lotta, allora, tra inclusione ed esclusione non ha vincitori. Anzi, semmai, queste due forme umane sembrano fondersi sia nei paesaggi di luce sia nelle barene dell’oscurità.
È il contrasto umano che si abbandona per vivere, che incontra «il grumo incandescente / della tua corta follia», per rivelare poi «il vento / l’altezza della notte abbandonata / sulle rapide del giorno / nel duplice destino / di corolla e spina».
È l’approdo lucido e remoto alla pienezza dell’essere che intaglia la terra, cesellandola e ornandola, che nulla esclude o censura, spingendosi in un abbandono ricolmo e in una umida trafittura di pianure.
Il paesaggio della sua poesia non si misura con il vuoto, anzi, nella sua percezione sensoriale, avviene l’attesa del prodigio, «l’orbita rovesciata / nella gravità dei corpi, l’urto / scomposto della letizia».
Scrive Rita Pacilio: «Lo spazio-tempo in cui l’autrice errante diventa peregrina intellettuale è destinato a diventare uno spazio cosmico-riaccolto, mai immaginato, bensì definito dall’analisi degli elementi conoscitivi fisici e mentali sempre in tensione. L’attesa, l’incontro, l’illusione, l’incanto, il ricordo, il disincanto, l’ostinatezza costituiscono la colonna vertebrale di questa raccolta poetica che sorprende per le dinamiche metaforiche descritte, originali e possibili come unica via di scampo alla fuggevole e insoddisfatta sensibilità del mondo».
Ciò che accade, quindi, scontorna l’incontro di cielo e terra ed è per questo che il posarsi dell’amore si fa coltre radicale e matura e orizzonte di gioia precisa.
Il germoglio della natura (e le sue stratificazioni), che si spinge fino al «delta del vibratile verde», rappresenta la preda e l’intuizione dell’io («Della stagione prediligo / il sortilegio terra-cielo / i cantori delle fronde / l’aria di vela azzurro Tintoretto / l’arancia della notte / tra l’albero e il tetto»), il dato vivente, il gioco oltre-tempo («Fuori dai tuoi occhi cadono / tutte le nebbie del mondo») e la dismisura sbrecciata, per farsi, agostinianamente, carnale fino allo spirito e spirituale fino alla carne: «Qui cadono tutti i vaticini. / La tua voce di oracolo soave / s’infrange contro l’alloro. / Impera solo l’essenziale curvatura del cielo».

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«Colui che il gran commento feo» è l’appellativo con cui Dante Alighieri chiama Averroè nella Divina Commedia (Inferno, IV, 144).
– In età ellenistica e successivamente medioevale, il termine commentario passò a designare anche un lungo ed erudito commento riguardante un’opera di particolare importanza, specialmente dell’antichità: esso consisteva quindi in un’interpretazione o esegesi dell’opera trattata per renderla accessibile ai contemporanei. Ad esempio il filosofo arabo Averroè compose un poderoso Commentario ai libri di Aristotele, che lo rese noto nell’Europa cristiana.
– Commentari sono anche chiamate le memorie dello scultore fiorentino Lorenzo Ghiberti, una delle fonti primarie più antiche sul Rinascimento.
– Si chiamano Commentari le memorie di papa Pio II.

* Pittrice, Docente di Psicologia dell’Arte e Coordinatrice della Formazione alla Scuola Quadriennale di Specializzazione Post Laurea in Psicoterapia Erich Fromm di Prato, riconosciuta dal MIUR.
** Poeta, Scrittore e Critico Letterario, Docente di Letteratura alla Scuola Quadriennale di Specializzazione Post Laurea in Psicoterapia Erich Fromm di Prato.

2 A.G. Marigo, L’essenziale curvatura del cielo, La Vita Felice. Milano: 2012, “Per felice intuizione”, p. 46.
3 Ivi, “Di questo sogno”, p. 32.
4 Ivi, “3 febbraio 2012”, p. 18.                                                                                       5 Ivi, “Senza titolo”, p. 53.
6 Ivi, “Giorno”, p. 26.
7 Cristina Campo, dalla lettera a Maria Zambrano del 25 luglio 1962, in Se tu fossi qui. Lettere a Maria Zambrano 1961-1975, p. 27.                     8 Ivi, “Senza titolo”, p. 59.
9 Ivi, “Io ti fui lontana”, p. 58.
10 Ivi, “Impermanenza”, p. 42.                                                                                      11 Ivi, “Tutto si consuma nell’autunno”, p. 9

L’insufficienza nitida di Giovanni Giudici

di Andrea Galgano 13 novembre 2014

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giudici-giovanni-447x387Il laboratorio poetico di Giovanni Giudici (1924-2011) ha l’esito fertile di una biografia mirata, di uno scoperchiamento che tende alla pienezza della metafora, come corpo e della lingua e materia testuale: «Farsi di te non ci fu dato mia parola / Scrittura di scrittura e vanità».
Il dato biologico e biografico condensa la frammentarietà di uno spazio autentico che, come scrive Silvio Ramat su «Poesia» del gennaio 2001:

radicalizza, cioè sospinge verso le radici, l’autobiografia: senza contraddirla ma integrandovi elementi più oscuri e profondi, ed elaborando un mito inesauribile: quello che in Giudici nasce dalla, e nella, sua più acuta lacuna, l’assenza della madre, perduta nel novembre del ’27 e tuttavia nella costruzione del ricordo, accreditata dalla capacità di fornire al figlio i fondamenti di quella “educazione cattolica” di cui recan traccia più o meno visibile tante poesie. […] Il “sublime, venga salutato con un “Ciao” confidenziale o misurato nel suo “prezzo” è storicamente ingrato e ambiguo: comportando di necessità, a secolo così inoltrato, la coscienza di quanto sia arduo spenderlo pubblicamente. Non a caso, di qui in avanti, Giudici s’imporrà come il massimo parodista del nostro Novecento, in poesia […].

L’elezione dell’istante secerne il suo rito quotidiano, il gesto della sommessa esperienza che si impone di colorare il fulcro impiegatizio, come un lampo o un avvenuta partecipazione di anni affluenti: «Eppure sempre a ricominciare / frugare un minimo vero / Al di qua della fine individuale / sempre / consumati a vigilie lente / noi sempre a non osare / promettere paradisi – ma / Un vedere per enigma / nella insidiata convivenza -» (Da un tempo di nessuno).
Esiste pertanto nella sua poesia, come sostiene Raboni, «una svolta, una scoperta che ne segna il vero principio» e «consiste nell’abbandono dell’io lirico-autobiografico a favore di un io-personaggio, un intellettuale di estrazione e destino emblematicamente piccolo-borghesi che assume su di sé – ma deformandole, distanziandole, ironizzandole – vicende, aspirazione e amarezze dell’autore» laddove «lo scambio delle parti arriva a punte di quasi inafferrabile e ineffabile (e poeticamente assai produttiva) ambiguità».
È sulla materia del sublime che il suo fulcro poetico tocca il fulcro della perplessità e della contraddizione, verso cui giustificare la sponda della sua insufficienza che «è fuori, o fuoriesce, si oggettiva, nel mascheramento, in un eletto apparato di ritmi e metri, timbri e, ovviamente, toni, insomma un sistema variabile, ma sempre impetuoso e cogente, da cui trapelano a un tempo il sublime […] e la consapevolezza che lo si può esporre (o montalianamente “contrabbandare”?) solo per travestimenti e parodie» (Silvio Ramat): «Non io che per mancanza di eroismo ti deludo / Mia umiliata via al sublime / Ma almeno voglio dirti che lo sapevo / Quel che dovevo – mentre guardavo al fondo della fine» (Noi).
Scrive Goffredo Fofi:

C’era in lui una forma di narcisismo sottile, che cercava complicità e condivisione, e la sua capacità di auto-ironia lo portava fin quasi all’auto-denigrazione su quelli che riteneva suoi difetti (da confessione cattolica e però pubblica, di chi tollera e si tollera nella comune coscienza dei limiti dell’umano, dell’imperfezione di tutti). Questa era una caratteristica del tutto insolita nell’ambiente culturale del tempo, che lo faceva resistere assai bene all’austerità fortiniana e che mi servì forse di modello per resistervi anch’io.

Il trapasso liturgico alla litania diviene occasione per raccogliere la possibilità di un reperto lucente di quotidianità, un saluto, appunto, che si allunga sull’illimitatezza e sulla reversibilità del tempo, sull’avvenimento della parola e sulla totalità della deposta insufficienza della propria fragilità: «Tu, cosa della cosa / o Sublime. / Al di là della fine / e senza fine. / Senza principio» o ancora «Ciao, Sublime. / Ciao, Sublime. / Sublime che non si volta. / Sublime che non si ascolta. / Sublime senza prima / né ultima volta», «Io no – che sempre aspetto / il cominciare, l’apertura. / Io no – per poca fede. / Per poca paura. / Io – senza occhi per contemplarti. / Io che non ho ginocchi per adorarti».
In O beatrice, il raggiungimento autobiologico del sublime convoglia verso una pacata sicurezza e una desinenza linguistica e temporale, destinate a un prezzo decisivo: «Mi domandi se potrai, / Mi domando se potrò. / Io sarò – non sarai. / Tu sarai – non sarò. / Per noi sarà quello che non potremo. / Quello che non saremo su noi potrà. / Non-tu non-io noi -remo. / Ma contro la specie che siamo orgoglio estremo / verbi avvento al cliname[n] / che ci rotola a previste tane / umanamente inumane / persone del futuro seconde e prime. / Io -rò. / Tu -rai. / Il niente / è il prezzo del sublime».
Commenta Giulio Ferroni: «Nel confronto col sublime appare insomma in atto la paradossalità dell’esperienza, viene come a scavarsi la dimensione interna, oscura e contraddittoria del reale, della grammatica che tenta di fissare il tempo in una misura umana, che, nell’atto stesso di quel proiettarsi nel tempo, rotola verso il niente».
L’intreccio sabotato di vita e morte, il proprio essere concreto divenie slancio oltre il dicibile, immediatezza esistente, imprevedibilità sfuggente che squaderna le prigionie del sé per riappropriarsi in una fragilità senza riparo.
Il limbo «delle intermedie balaustre» richiama un’ulteriorità che è corporea e metafisica, e allo stesso tempo, aspirazione e furtiva umanità.
La consequenzialità e la prossimità del suo dettato poetico certifica l’istanza e l’ironia chiaroscurale come purità pulviscolare, come apertura dell’esistenza e biologia smarrita, in cui l’ironia e l’integralità del suo limite si trasferiscono e tendono a una chiarità inattingibile e sperduta.
È la coltre della sua onirica teatralità, il barlume di una sincronia che espone il suo umano travestimento al suo umido chiaroscuro, alla liturgia spezzata che misura i limiti del suo laboratorio cittadino (Milano, Roma) e il crepuscolarismo della sua vertigine.
Laddove la gestione dell’universo privato affolla la scena in cui la scrittura vive, Giudici descrive i volti, le maschere, l’atomo urbanizzato degli anni Sessanta, la cupezza del decennio successivo, le contraddizioni della sinistra «vivendo questa dialettica storica da una specola di morale cattolica e comunista, intesa in senso tutto cittadino, entro un esercizio di valori, turbamenti, colpe, illusioni e contraddizioni maturati per le strade della città, nei luoghi di ritrovo pubblici o negli interni casalinghi» (Giulio Ferroni).
Aggiunge ancora Ferroni:

Nei suoi esiti ultimi […] la poesia di Giudici dà voce per vie indirette, per appassionate tangenze, attraverso i suoi scatti esistenziali, teatrali e linguistici, a questa ansia per la situazione del mondo e il suo destino: ma questa ansia sembra spesso provvisoriamente sospendersi in un severo incauto musicale, in misteriose e ambigue percezioni di luce che si proiettano sulla storia individuale: sempre in un affidarsi al ritmo, a un impulso ritmico che sembra quasi portare i versi a farsi da sé, con una possibilità di esiti direttamente colloquiali e di diversioni verso un’oscurità come sospesa, in bilico tra lo svelare e il nascondere.

La sua perpetua riduzione, se da un lato si impadronisce della scena nella minima disposizione quotidiana, dall’altro conosce gli spigoli ebbri dell’esperienza sociale, in attesa di una epifania salvifica e attraverso la modestia salutare della pura grammaticalità biografica.
È l’esito di un rapporto semplice, di una autenticità che disarma e propende al segno della storia: «Nomino i nomi – / Quanto di storia mi è transitato addosso / a me che non sono un privato / uno che incontri puoi anche capirlo / Chi è – non quel che è per diventare».
La scena onirica, la passione sotterranea, la presenza e l’occorrenza casalinga, la suggestione elitaria e la proficuità di massa, lo squarcio dell’essere e la sfida al sublime, rappresentano l’esito di una ascensione che, dapprima, si impossessa dell’invocazione per poi cercare il punto di fuga e lotta con il dio del foglio per un ultimo e infinito scarto di senso: «Poi non scorgo che via d’uscita / Nel lume di questa vita / In te rifugio il triste orgoglio / Spessore di questo foglio / E nella mente mi assottiglio / Microbo figlio di figlia d’un figlio / Specchio del nostro doppio io / Ti do del tu ti chiamo dio».
La liturgia cadenzata e il recitativo battente culmineranno poi in Lume dei tuoi misteri (1984) e in Salutz (1986), dove l’inaudita parodia e il profumo medievale contribuiranno allo scatto ironico e ossimorico del limite, come accensione ed eccesso, formulazione ed espansione amorosa.
L’io che tenta (invano?) di possedere il suo universo calcolato, ingarbugliato nelle colpe, nelle speranze, nei segreti, che cerca di proteggersi nelle sue abitudini quotidiane, dopo la guerra nefasta, non coincide propriamente con l’autore, bensì, come annota Giulio Ferroni: «è piuttosto una recitazione di sé, non priva di suggestioni letterarie, che convoca intorno a sé altre maschere recitanti, tra gioco e disagio, tra divertimento e malessere, come nell’impossibilità a uscire da sé, pur nell’aspirazione a un’altra vita di cui, da quello spazio, non si può nemmeno figurare l’immagine»: «Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura / che dice: domani, domani… pur sapendo / che il nostro domani era già ieri da sempre. / La verità chiedeva assai più semplici tempre. / Ride il tranquillo despota che lo sa: / mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo. / C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà» (Una sera come tante).
L’associazione di cadenze e suoni traspongono il tempo dell’attesa in una prigionia- aspettativa che invoca l’altrove, come una gioia rattrappita e negata.
È un “oltre” proclamato ed escluso, visitato nei reperti onirici e in un altro da sé trasognato e immaginato: «Parlo di me, dal cuore del miracolo: / la mia colpa sociale è di non ridere, / di non commuovermi al momento giusto. / E intanto muoio, per aspettare a vivere. / Il rancore è di chi non ha speranza: / dunque è pietà di me che mi fa credere / essere altrove una vita più vera? / Già piegato, presumo di non cedere» (Dal cuore del miracolo).
L’immaginazione di trasformarsi, per sfuggire all’imminenza burocratica della morte, è l’esito di un’immersione inafferrabile e di un rilievo intangibile, come strana resurrezione di abiti: «Abiti che sopravvivrete / Al niente dell’eterna quiete […] Abiti – e non già corpi / Di quel resurgere, o risorti / ai quali estremo soprassalto / lasciò ogni vita un po’ di caldo: / Che vani e stretti in Giosafàt / su voi di noi respirerà».
Scrive Daniele Piccini: «Ecco, da Autobiologia a O beatrice e oltre, il poeta immagina e sbozza figure ed emblemi di una compiutezza e integrità vitale che non può ch esprimersi in forma allusiva, cifrata, quasi onirica, con un senso di inadempienza ormai sollevato sul piano dell’esistenza».
Ma è una improvvida insufficienza. La poesia di Giudici fa i conti con la irreperibile sceneggiatura del testo. La cura dell’essere, invece, con l’impalpabilità linguistica e con la carta sottratta: «Lei che ha potuto accedere ai più gelosi manoscritti / Non darà troppo peso a ogni variante del testo / Altro è filologia altro è la vita né mai / Presume la propria maestria il maestro / Che faticò e stentò sulle carte sottratte / da una fatua speranza familiare / Alla sorte del fuoco che abolisce e perdona / Stipate nell’angustia di quella casa sul mare / Egli che spesso si era basato sul parere / Di frastornati parenti di passaggio / Vocante uxore ad cenam e di un fautore / Troppo devoto all’incerto messaggio / Però al di sopra del corrivo consenso / se stesso infine vagliando allo specchio / se non avesse inteso la sua parola / Coprire di vano suono uno spazio vuoto / O dubitando nel declinante intelletto / Se il partito più saggio non fosse lasciare la cosa / Così com’era venuta d’emblèe / Essendo nostra scienza l’esatto del press’a poco».
Il convenuto richiamo ai fantasmi, le soste inerti, l’orizzonte approssimato (Quanto spera di campare Giovanni) figurano il procedimento e la retrocessione di un ritmo che fonde lingua e dispiegamento dell’esperienza, come implacabile nudità.
È la maternità della lingua che ritorna alla poesia e si offre, vitale e spontanea, abbracciando il vivente e il molteplice, come illusione e durezza, come umiltà lucente e calore, che levigano la vita presente e la casa che abitano in una estremità assoluta: «Mia lingua – mia vita / dolcezza flatus vocis che m’hai tradito / tuo servo che t’ho servito / anch’io perduto per poco / di calda madre / in letto con noi per gioco / Mia lingua – italiana / variante umile tosco-genovese / lingua del mio bel paese / guastata nei futili suoni / di vacue clausole / e perfide commozioni».
Commenta Giulio Ferroni: «Per lui la vera poesia è quella che fa della lingua, anche di quella più intimamente conosciuta e praticata, qualcosa di strano: cattura tracce di possibilità sconosciute, segni di un prima o di un oltre rispetto alla normalità del linguaggio e dell’esperienza».
La distillazione forgiata dai millimetri dell’esistenza, il dizionario che richiama e raschia il fondo delle cose, come «morse di voci nel freddo», nel «Chiuso idioma e apertissimo / Dei due veglianti nel quale / carpisco nitido il suono / E perdo il significare».
Il silenzio roco, il balbettìo di una lingua più che muta («Balbetto il parlare di un altro / Io fatto di persona non vera / Mi riascolto compitando / pensieri di lingua straniera»), che unisce idiomi e assedia lo spazio onirico, conosce il vero che sovrasta, la sua voce difficile da comprendere e, ancora una volta, l’insufficienza di proiezione, il limite degli inizi, la contraddittorietà delle stagioni.
Commenta ancora Ferroni:

Il fuggire del tempo suscita inoltre una tensione a concentrarne e superarne la fuga nella percezione di un punto definitivo, nella fissazione di un attimo in cui si risolva tutta l’insufficienza dell’esistere. Il personaggio sognato e immaginato, le molteplici maschere e dislocazioni teatrali che si danno in questa poesia, tendono sempre a collocarsi in un “altro” tempo, sospeso tra cominciare e finire e in continua investigazione dell’attimo-punto in cui si afferma lo sfuggente senso della realtà, l’inafferrabile essenza dell’io, con tutte le sue passioni, i suoi desideri, le sue colpe.

Contro la cancellazione del tempo, l’avvicinamento come negazione, la costruzione che implode, sembra schiudersi lo sguardo della domanda e il futuro, pertanto, rischia di apparire incerto e sconcertato: «Noi guardiamo / E si chiude / Il volto a lungo a noi negato. / Come sarà – ci domandammo. / Ci domandiamo – com’è stato / E tutto l’amore che amiamo. / Tutto l’odore che odoriamo, / Tutto il patire che patiamo: / Sei tu che ami e odori e patisci, / O Futuro che ti demolisci. / O Futuro che entri / dentro le nostre porte. / O Futuro che ci costruisci. / O Futuro che Sali a noi / Tua morte».
La convergenza delle immagini si sofferma sulla franta quotidianità, in cui ripararsi, ed ecco la fortezza che allontana la brevità consumata e la risposta tardiva dell’io alla realtà.
Forse il nuovo inizio è dimensione e sovrapposizione di un rivelamento di oggetti e vertigini che sottentrano a una perdita inguaribile: «E dunque ho amato l’inizio / La voglia di essere accolto / nei bei luoghi diversi invidiati / Nell’aldiquà del gelido cristallo quotidiano / La balbettata lingua silenziosa / Plaghe remote le mie mani brancolando / Oggetti fuor della vista / A ogni scoperta tu sai / ride e fa festa l’infante rassicurato / passo a passo movendo al suo adempiersi – / Si distrugge così nel costruire / L’animale adulto / Che mai più ricomincia: / Io invento questo inizio al mio finire».
Scrive Maurizio Cucchi:

Ciò che appare evidente, in Giudici, è la consapevolezza dell’inevitabilità di una condizione. Una condizione di esibita mediocrità, espressa nell’adeguarsi dei gesti e delle parole a tale realtà, nell’assumere un atteggiamento e un gestire conseguente che è quello di una commedia spesso grottesca, condotta per episodi narrati e momenti di acuta sintesi definitoria. Un collocarsi prudenziale del personaggio, dell’io narrante-lirico, dietro una maschera remissiva (ma, appunto, una maschera), di accettazione del grigiore quotidiano, inteso come l’autentica dimensione, o quanto meno l’unica dimensione possibile concessagli, di cui il fare poetico diviene in fondo la forma più alta di smentita e di riscatto. Anche perché un atteggiamento, proprio in quanto tale, suppone o sottende un diverso sentire, magari persino opposto, magari intimamente inteso come liberatorio, come possibile via di fuga.

Empie stelle (1996) e Eresia della sera (1999) ripercorrono l’esistenza dell’io, affermano la lotta dell’inizio e della fine e la loro «vanificazione», come afferma Giulio Ferroni.
La notte sul «cuscino sempre asciutto» è come l’orma della fuga inabitata della quotidianità minima e del nido senza piume, «di quel bar luminare io appena uno / Separato persisto se tu mai / A frugarti infinita / In me ti posi e sposi e vieni e vai».
Il perenne transito mostra non l’ignavia ma, ancora una volta, il segmento della vita imperfetta, la mancanza di coraggio che non ha armato gli aerei corpi di letizia, il caro prezzo dell’apparenza, il tardo amore, sospeso nel silenzio, che fu «nella diversa lingua / E non mai forse accaduto».
Ora il nostro avvento che permane nell’ «essere chi non siamo stati / Essere un tempo che non siamo», ricerca ancora il balzo della sosta perduta, al cospetto dell’eterno, per essere dove non viviamo e forse proclama il taciuto addio all’infanzia, come consueta sovrapposizione di memoria: «Addio, addio giuochi dorati / Da voi di nuovo incominciare / Alla palla a nascondino / Quasi fossimo oggi nati / Cullati da una lenta storia / Nel cuore di un sonno bambino», o ancora come l’inerme esiguo volo dell’amica Grazia Cherchi che non allinea più distanze ma dice: «Vivo per essere vivo / Quando che sia raggiunto / dal fine del mio nascere / dal fine del mio nascere / Dove remoto scrivo – / il Vero il Nulla il Punto».
Il «dormiveglia di spine» di Eresia della sera (1999) confluisce ne Frammenti dal comunismo e nel suo reiterato profumo illuso, finisce per arretrare e lasciare la scena.
Il repertorio di Giudici si apparta nella remota condizione del tempo affiorato dal disordine memoriale, come un ritaglio o un approdo che dilaga sui lindi smalti e sulle sbilenche figure dei ricordi di guerra.
La solida e sghemba scena, descritta dal poeta, si accompagna alla sensazione della precipitazione del tempo della vita «nell’attimo risolutivo in cui si fissa la fine, sulla spinta del fulmineo invito a sentire la temperatura del latte con il dito, per evitare che nel bollire vada fuori: irrisoria e insieme stupita risoluzione di ogni esperienza nel punto del suo dissolversi» (Giulio Ferroni).
L’aria raggrinzita accompagna l’esistenza tracimata: «Come in quest’aria si raggrinza / Il tempo della vita che tracima / Ciò che fu immenso preso stretto in una pinza – / Un passo ed è finito: / Senti il latte se è caldo / Mettici il dito».
Il tempo confluisce ancora nell’amore-non amore dei ventiquattro frammenti del Primo amore che impongono la vertigine della nostalgica coltre lontana e conclusiva. Però, di contro, racchiudono l’indizio di una storia personale che si risolve e si chiude nel tempo disfatto e irraggiungibile, come sigillo iniziatico e come ironia di una giusta gloria: «Uno che in versi a un suo deschetto invano / Di te scriva serale eppure c’è / Nella disfatta pancia di milano / AI margini del sonno e sembra me / Se nel remoto cuor e il dubbio insista / Non altri esser che te della mia storia / Di non amore la protagonista / credi che è vero e ti dà giusta gloria».

GIUDICI G., Tutte le poesie, con introduzione di Maurizio Cucchi, Mondadori, Milano 2014.
CORTELLESSA A., Qualcosa che c’è. Giudici e Zanzotto, in Due poeti, due amici, due uomini comuni: Giudici e Zanzotto, Atti della giornata di studi di Roma, 16 dicembre 2011, sezione monografica a cura di Giulio Ferroni de «l’immaginazione», XXVIII, 268, marzo-aprile 2012.
FERRONI G., Gli ultimi Poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto, Il Saggiatore, Milano 2013.
FOFI G., Ricordo di Giovanni Giudici, in «Lo Straniero», 2011.
PICCINI D., La vita mancata in versi, in «Poesia», settembre 2004.
RABONI G., Poesia degli anni Sessanta, Editori Riuniti, Roma 1976.
RAMAT S., Giovanni Giudici / I versi della vita, in «Poesia», gennaio 2001.

Culture mediterranee e dimensione donna: alcune (personali) considerazioni sul tema delicato della violenza

di Vinicio Serino            17 ottobre 2014

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Immagine2Metodologia

Con questo intervento, ispirandomi anche a posizioni della antropologia funzionalista (cfr. i lavori di E. Leacock), cercherò di sfatare ovvero ridimensionare un mito: quello della “marginalità femminile” e quindi del presunto, ridotto o addirittura inesistente “potere” della donna nell’ambito delle passate culture mediterranee.
Paradossalmente, come d’altra parte avviene spesso nel corso della storia, la violenza esercitata ha, in qualche modo, funzionato da “levatrice” di “aliquid novi” che, nei caso specifici qui sotto riportati, anziché “schiacciare” il soggetto colpito ha prodotto l’effetto opposto. Dando luogo a quello che potrebbe essere definito modello culturale ad effetto inverso … Storie di donne che la violenza non ha affatto annientato ma che, anzi, ha contribuito ad innalzare al rango di modelli ideali, forti, condivisi seppure alternativi, ispirativi di comportamenti altrui, spesso divenuti, nel tempo, dominanti.
La Grande Madre, la generante
“Nell’Europa del Neolitico e in Asia Minore … nell’arco di tempo tra il 7000 ed il 3000 a. C.”, sostiene l’antropologa lituana M. Gimbutas, “ la devozione religiosa si rivolgeva alla ruota della vita e alla sua ciclica rotazione … il punto focale della religione comprendeva nascita, nutrimento, crescita, morte e rigenerazione, parallelamente alla coltivazione delle messi e all’allevamento degli animali. I popoli di questa era ritenevano imponderabili le forze naturali … e adoravano molte dee, o forse una sola dea in molte forme. La dea manifestava le sue innumerevoli forme attraverso varie fasi cicliche che vigilavano sul buon andamento di ogni cosa …” (Gimbutas, 2005).La donna, non l’uomo, era l’asse portante di questa società. Ma poi altri popoli, popoli guerrieri, imposero, secondo la Gimbutas, un nuovo ordine, quello della supremazia del maschio: non più, allora, maternità ma paternità; non più generazione, ma distruzione; non più amore ma violenza …
Penelope, la fedele ed astuta tessitrice
Penelope rappresenta bene l’idea di donna del mondo omerico. “… la saggia Penelope”, “donna bellissima” tra i pretendenti, straziata dal canto di Femio, che intona la storia (penosa) del ritorno degli Achei da Troia … Essa è il simbolo stesso della fedeltà coniugale. Ma nell’immaginario collettivo, per via della celebre tela, è diventata anche il simbolo della astuzia femminile, in grado di tener testa efficacemente ai maschi, opponendo la sua intelligenza costruttiva alla forza sciocca e brutale. “Allora di giorno la gran tela tesseva/ e la sfaceva la notte, con le fiaccole accanto … “ Così l’ha immortalata Omero nella sua Odissea.

Cornelia, l’educatrice
Haec ornamenta mea”: questi sono i miei gioielli, è la frase attribuita alla matrona romana figlia di Publio Cornelio Scipione l’Africano, il vincitore di Annibale, sposa del Tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco e madre dei due tribuni della plebe, grandi riformatori della Repubblica romana, Tiberio e Gaio Sempronio Gracco. Tacito seppe cogliere bene , nel suo “Dialogus de oratoribus, la grandezza di questa donna che nel suo seno e nel suo grembo aveva educato quei due figli a grandi ideali, spingendoli coraggiosamente a riformare la società romana, anche al costo della propria vita.
Maria di Nazareth, Virgo et Mater
La Madonna dei cristiani, personaggio, come è noto, molto amato anche dalla cultura islamica – non ultimo per la pia tradizione che la vuole soggiornare, nella fase finale della sua vita terrena in Efeso, insieme con l’evangelista Giovanni – è, da due millenni, il simbolo mediterraneo della dolcezza dell’amore materno. Un amore che si coglie sempre, in ogni momento della sua esistenza, ma soprattutto nella struggente sofferenza subita durante la passione del figlio. Mater dolorosa et lacrimosa, sed semper suavis et dulcissima … Senza essere irriverente Maria rappresenta una sorta di “continuum” ideale con le storie narrate dalle antiche mitologie mediterranee della Grande Madre generante di ogni forma di vita …

Ipazia, la martire pagana
“ Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue parole, vedendo la casa astrale della Vergine,
infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura.”
Così canta, in uno dei suoi Epigrammi, il poeta Pallada di Alessandria (IV-V secolo d.C.) a proposito di Ipazia (da Upatos, il più elevato?), figlia del matematico alessandrino Teone, matematica ed astronoma lei stessa, nonché, capo della celebre Scuola Alessandrina, centro della ricerca medica e ascientifica, dal 393 dell’e.v. Perché, allora fu uccisa e fatta a pezzi da monaci Cristiani nel 415? Perché coltivava ancora il culto degli antichi dei? O perché, con la sua “tanta cultura”, rappresentava un (pericoloso) modello alternativo di donna?

Teodora, la politica
“… Non appena giunse all’adolescenza e fu matura, entrò nel novero delle attrici e divenne subito cortigiana, del tipo che gli antichi chiamavano ‘la truppa’. Non sapeva suonare flauto né arpa, né mai s’era provata nella danza; a chi capitava, ella poteva offrire solo la sua bellezza, prodigandosi con l’intero suo corpo.” In modo malevolo Procopio di Cesarea, storico della Corte Imperiale ed esponente della potente consorteria del Senato, illustra la giovinezza di Teodora (500- 548 e. v.) , destinata a diventare moglie e (ascoltata) consigliera dell’Imperatore Giustiniano … Fu lei che contribuì, in maniera decisiva, con la sua determinazione e con le sue arti di grande mediatrice, a mantenere l’unità dell’Impero in un’epoca di formidabili tensioni religiose.

Fatima, la madre dei Califfi
Fātima bint Muhammad, Fātima al-Zahrā, (Fātima la Luminosa) (Mecca 605, Mecca 633) fu la quarta e ultima figlia di Maometto. Sposò Alī ibn Abī Tālib cugino del profeta e quarto califfo “ortodosso“, nonchè primo imam per lo Sciismo. Fatima fu la sola, tra le figlie di Maometto, a generare una discendenza, con al-Hasan ibn Alī e al-Husayn ibn Alī.
In vita subì molti torti, come l’ affronto – mancato per l’intervento di Maometto – di un’altra moglie per suo marito Alī ibn Abī Ṭālib Alī.. Dovette anche affrontare l’opposizione del califfo Abū Bakr, per altro amico di Maometto, contrario a che lei, la figlia del Profeta,che incamerasse alcuni dei beni acquisiti dal padre nella prima fase della espansione islamica.
Fatima, colei che allatta, che dà il nutrimento, rimane una sorta di icona esemplare della sofferenza e della rassegnazione, elevata, da questo punto di vista, ad esempio della straordinaria fortezza d’animo del giusto: una (tranquilla) fortezza al femminile …
Sherazade, l’intrattenitrice
La vicenda dell’origine de “Le mille e una notte” è nota: ogni notte la bella Sherazade, andata sposa al re Shāhrīyār, lo intrattiene con una storia. In questo modo evita la morte perchè il sovrano, per vendicarsi del tradimento di una delle mogli, è uso uccidere sistematicamente le sue spose al termine della prima notte di nozze. Per mille e una notte Sherazade riuscirà nel suo intento, fino a quando il re, innamoratosi di lei, recederà dal suo insano proposito. Come in Penelope, sua ideale progenitrice, l’inventiva, la creatività, ma anche la pazienza, virtù molto comuni tra le donne, premiano. E salvano, la vita …

Beatrice, la Fede secondo Dante
Della Beatrice dantesca non si sa praticamente nulla. Se davvero non è ancora possibile identificarla con certezza con la figlia del banchiere fiorentino Folco Portinari e la sposa bambina di Simone de’ Bardi, a sua volta rampollo di una famiglia di grandi banchieri , è comunque fuori di ogni dubbio che seppe incidere, in maniera indelebile, sulla poesia e, soprattutto, sulla architettura filosofica di Dante. Dio è amore, ci dice appunto Dante, attraverso Beatrice : e per comprendere la natura di questo amore è necessario l’abbandono totale delle cose di questo mondo. Delle sue convenzioni, delle sue banalità, dei suoi pregiudizi, della sua vanagloria. Beatrice è la Fede, quella autentica, che innalza l’essere davvero libero alle vette del divino … Dagli occhi della mia donna si move / Un lume si gentil, / che dove appare / Si veggion cose ch’uom non può ritrare / Per loro altezza e per loro esser nuove … dice di lei Dante ne Le Rime. Quel lume è, appunto, la fede, come sapeva l’iconologo Cesare Ripa che rappresenta la prima delle virtù teologali con una donna recante nella mano destra una candela accesa, posta alla sommità di un cuore.
Caterina, l’innamorata di Cristo
“In altro non sta la pena nostra, se non in volere quello che non si può avere. “ “Nella amaritudine gusterai la dolcezza, e nella guerra la pace”. Sono due tra le affermazioni più significative della santa senese, poi diventata dottore della Chiesa romana e Patrona d’Italia e d’Europa.Una innamorata di Cristo che avrebbe, pesantemente, inciso sul grande corso della Storia degli uomini, convincendo il Papa a ritornare a Roma, dopo il tempo di Avignone … Ci riuscì con un “santo inganno” che servì a restituire il Pontefice alla sua domus naturale, la Sedes Petri romana.

Giovanna, la vergine guerriera
Vissuta in un periodo di immensi travagli – tra il 1412 ed il 1431 – indotta dalle voce di San Michele, di S. Caterina e di S. Margherita, Giovanna d’Arco, la Pulzella d’Orleans, si consacrò a Dio, facendo voto di castità. Quelle stesse voci le ingiunsero di correre in soccorso del delfino di Francia, Carlo, in guerra con gli inglesi ed i loro alleati borgognoni. In un clima di violenza, non sottostò alla violenza, ma impose alle sue truppe un modello di tipo monastico – forse ispirato a quello dei cavalieri Templari ? – vietando ogni saccheggio e prevaricazione; imponendo la preghiera quotidiana e la confessione; obbligando a mantenere con la popolazione civile un rapporto di collaborazione e non di rapina, come era consuetudine negli eserciti del tempo. Secondo i suoi persecutori per avere salva la vita non avrebbe dovuto riprendere le armi; né portare i capelli corti, come gli uomini ; né indossare vesti maschili. Ma lei rifiutò: e le fiamme del rogo la avvolsero, dopo essere stata riconosciuta come eretica, ad appena diciannove anni.

Artemisia, l’emancipatrice
Chiudo queste mie riflessioni con il caso di Artemisia Gentileschi, figlia ed allieva di Orazio, pittore caravaggesco presso cui condusse il proprio apprendistato. Era l’unico modo per imparare ed esercitare l’arte, essendo impedito, all’epoca, alle donne di svolgere lavori fuori della propria sfera domestica e tali da assegnar loro un qualche ruolo sociale. Salvo quello della cortigiana e/o della prostituta … Era stata troppo in anticipo sui tempi per poter presentarsi come un modello di riferimento per le donne della sua epoca: anche per questo – non solo per la sua avvenenza – fu stuprata dal pittore Agostino Tassi … E forse si vendicò idealmente con il suo “Giuditta uccide Oloferne” dove il volto del generale nemico degli ebrei sembrerebbe riprodurre proprio quello del suo violentatore …

Uno zodiaco al femminile
Ho giocato. Ma solo per raccogliere, da questo personale florilegio delle culture mediterranee, dodici fiori che simboleggiano altrettante peculiarità della condizione femminile. Ossia:
La maternità naturale, propria della Grande Madre;
L’astuzia “positiva”, propria della fedele Penelope;
La capacità educativa, propria della romana Cornelia,
La disponibilità al sacrificio di sé, propria di Maria, Vergine e Madre;
La libertà di affermare posizioni anche scomode e pericolose, propria di Ipazia, la martire pagana;
L’intelligenza politica , propria di Teodora imperatrice;
La forza d’animo, propria di Fatima, diletta figlia del Profeta;
L’inventiva creativa, propria di Sherazade, la giovane intrattenitrice;
L’abbandono di se, proprio della Beatrice dantesca;
La forza persuasiva, propria di Caterina, la mistica di Siena;
Il coraggio cavalleresco, proprio di Giovanna, vergine guerriera;
La propensione emancipatrice, propria di Artemisia, la dipintora.
– Uno zodiaco fatto di dodici, straordinarie gemme …

In fine
Che la bellezza irradi e compia i nostri lavori … Bellezza è donna …

BIBLIOGRAFIA
D. Alighieri, Rime, Note di Gustavo Rodolfo Ceriello, Milano 1952;
La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 2009;
F. Cardini, Giovanna d’Arco, Milano 1999;
R. Contini e G. Papi ( a cura di), Artemisia, Roma, 1991;
F. Gabriel ( a cura di ), Le mille e una notte, Torino 1964;
M. Gimbutas, Le dee viventi, Milano 2005;
E. Leacock, Women’s Status in Egalitarian Society: Implications for Social Evolution, in Current Anthropology, vol. 33, no. 1, supp. Inquiry and Debate in the Human Sciences: Contributions from Current Anthropology, 1960–1990 (Feb., 1992 (ISSN 00113204 & E-ISSN 15375382)), p. 225 ff. (essay originally appeared in Current Anthropology, vol. 19, no. 2 (Jun., 1978),
P. Misciattelli, Lettere di S. Caterina da Siena, Firenze 1939;
Omero, Odissea, nella versione di Rosa Calzecchi Onesti, Torino 1963;
F. M. Pontani ( a cura di), Antologia Palatina, Libro IX, Torino 1979;
Procopio di Cesarea, Storie Segrete, a cura di F. Conca e P. Cesaretti, Milano 1996;
C. Ripa, Iconologia, a cura di Piero Buscaroli, Milano 1992;
Muhammad ibn Jarīr al-Tabarī, History of the Prophets and Kings, V.2, Albany, NY, 1987-1996;
P. Cornelio Tacito, Dialogus de oratoribus, Napoli 2009.

Le immagini di Giuseppe Panella

di Andrea Galgano 8 ottobre 2014

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9788884102027Scrive Andrej Tarkovskij:

«L’immagine artistica è un’immagine che assicura a se stessa il proprio sviluppo, la propria prospettiva storica. È un seme, un organismo vivente in evoluzione. È il simbolo della vita, ma è diversa dalla vita stessa. La vita include in sé la morte. L’immagine della vita o la esclude oppure la considera come l’unica possibilità di affermare la vita. L’immagine artistica è di per sé espressione della speranza, grido della fede, e ciò è vero indipendentemente da cosa essa esprima, foss’anche la perdizione dell’uomo. L’atto creativo è già di per sé una negazione della morte. Ne consegue che esso è intrinsecamente ottimista, anche se in ultima analisi l’artista è una figura tragica. Per questo non possono esserci artisti ottimisti e artisti pessimisti. Possono esserci solo il talento e la mediocrità» (da Martirologio-Diari 1970-1986).

Il poderoso saggio di Giuseppe Panella, docente di Estetica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, edito dalla fiorentina Clinamen, indaga, in nome dell’immagine, descritta o reale o mentale, lo stretto rapporto tra le discipline volte alla formulazione del discorso, alle imagines memoriae, al legame tra visualizzazione e composizione.
La reale incompatibilità tra parole e immagini, partite dall’analisi di Foucault, punta all’origine della comunicazione, alla sua versatilità, e all’atto linguistico: «La poesia è, dunque», scrive lo studioso, «lo spazio in cui è possibile collegare immagini e parole, in cui si esalta e si definisce l’esperienza dell’identità coniugata attraverso le differenze dei suoi segni (o viceversa), il luogo in cui le similitudini nascoste all’interno dello strato roccioso dell’oblio emergono grazie all’azione corrosiva di succhi poetici sotterraneamente distillati e operanti in segreto» (p.16).
In un saggio, dal titolo L’arte della memoria, Francis Yates, soffermandosi sull’atavica e sostanziale uguaglianza tra poesia e pittura, confluita nella formula oraziana ut pictura poësis, così sintetizzava: «La teoria dell’equazione poesia-pittura poggia anch’essa sulla supremazia del senso della vista: il poeta e il pittore pensano entrambi per immagini, che l’uno esprime poetando, l’altro dipingendo. Le sottili e sfuggenti relazioni con le altre arti che percorrono tutta la storia dell’arte della memoria sono così già presenti nella fonte leggendaria, nei racconti attorno a Simonide, che vide poesia, pittura e mnemonica in termini di intensa visualizzazione».
La stuporosa fascinazione di Walt Whitman, che inaugura i prodromi della modernità, apre il catalogo del mondo alla sua composizione e le immagini «di cui il mondo esterno è composto si incontrano e si scontrano con le idee interiorizzate e introiettate in profondità nella mente del poeta, fino a realizzare un cortocircuito lirico continuo e travolgente che produce alla fine l’emergenza della poesia. […] Il poeta non può fare a meno del contatto con la materia della sua scrittura e con la concretezza dell’esperienza di vita che ne è il sostrato imprescindibile».
L’immagine illuminata di Whitman si staglia ed emerge come trionfo visibile e come elemento dinamico, con cui la poesia si appropria della pienezza delle immagini per compiersi e addentrarsi nel magma della realtà.
Laddove Hopkins fa ondeggiare la fresca profondità del reale con l’imperiosa potenza delle sue epifanie, «il gradiente sonoro delle parole utilizzate si fonde così con la descrizione dell’evento facendo emergere dallo sfondo indistinto della natura la forma privilegiata del canto libero» (p.26).
La raccolta delle immagini dà corpo alla sua campitura, al moto composito che si esprime ed emerge nella sua fosforescenza.
Il saggio percorre le linee di un mosaico che diventa preludio. Se D’Annunzio ha espresso la carnalità umbratile della parola e il suo fuoco, la totalizzazione (e tragicità) dell’io, l’incoscienza dello stile: è la dischiusura delle immagini a far nascere la germinazione poetica, Joyce percorre la selezione e collezione epifanica, come coniugazioni del Sublime «con l’idea catartica (e , quindi, aristotelica) della scrittura come espressione di “momenti di essere” che solo la loro (apparente) riuscita e perfezione potranno redimere dall’oblio e salvarli dall’essere confinati nella stanza buia della dimenticanza» (p.35).
Lo spostamento dell’imagismo di Pound, nato dagli stimoli teorici di Thomas E.Hulme, tocca il culmine breve dell’esattezza e della densità nuova del linguaggio dell’immagine («ciò che presenta un complesso intellettuale ed emotivo in un istante di tempo»), che sovrappone i livelli simbolici e letterali, inventando un verticale superamento visuale, un’ appropriazione del flusso metamorfico dell’esistente, e in questa ricerca «di valorizzazione della parola come “forma naturale” dell’immagine, il poeta americano cercava di liberarsi dal carico “filologistico” che aveva caratterizzato talune sue prime prove […] e di produrre un soffio rivitalizzante […]» (p.43).
Con Apollinaire la poesia inizia a farsi allusione ed espansione, condensa la sua lampante manifestazione in una scena visiva che «proprio per questo motivo e proprio perché accetta l’idea della fine della comunicazione artistica come evento esclusivamente verbale, rappresenta una forma ulteriore dell’utilizzazione delle immagini come parole e al posto delle parole».
Nei suoi successivi passaggi il saggio si snoda in tre direttive, che mettono a fuoco le analisi delle immagini all’interno del dispositivo di scrittura e di interpretazione critica.
L’istanza fenomenologica di Bachelard, analizzata nel volume, fa luce sullo spazio immaginato e sullo spazio in figura dell’immagine. Le fascinazioni (rêveries) elementari approdano al superamento della realtà che, se da un lato, sconfinano nell’esperienza onirica, dall’altro, diventano fenomenologia cosciente.
Bachelard, pertanto, come scrive Giuseppe Panella, «cerca di riscontrare (e di ritrovare di conseguenza) nell’azione dell’inconscio i segni più significativi ancora accessibili del loro processo di trasformazione in registro consapevole delle intuizioni e delle sospensioni di immagini che popolano la pagina scritta. Le immagini si fanno realtà nel momento in cui vengono riconosciute come tali» (p.62).
L’Arte come perfetta sintesi di “intuizione”ed “espressione”, come prospettato da Benedetto Croce, si richiama alla vichiana logica poetica, saldamente ancorata all’autonomia e alla fantasia dei suoi lumi sparsi.
Croce fa coincidere l’Arte con la conoscenza intuitiva, l’Armonia come suo segno distintivo, e conseguentemente, «ciò che è libero dai condizionamenti (concettuali e/o concreti) della pratica artistica perché è essa stessa una delle forme “autentiche”della pratica […] Certamente, la poesia non è solo espressione lirica e non è soltanto arte o letteratura, non è pura forma né grossolano contenuto, non è oggetto dell’attività singola di un singolo staccato dal proprio contesto storico, non è eternità congelata nell’atto dell’ispirazione come una sorta di folgorazione in decrittabile e/o ineffabile, non è solo tecnica o poiesis […], non è rilettura “in pensieri” del proprio Zeitgeist né anticipazione dello stesso, non è attività concettuale né pura e semplice espansione dell’Io in forme prescritte dalla tradizione o dalla convenzione letteraria o dal gusto o dal mercato delle lettere» (p.76).
L’indagine sulla traccia filologica di Contini prima, e Muscetta, poi, si sofferma sul rapporto della filologia come lettura, riscoperta e trasmissione di segni e studio di strutture.
Lo «scandaglio genetico» dell’opera, come nel caso della riscoperta dei Sonetti di Belli, mira a ricostruire il fulcro dei suoi passaggi e delle sue peculiarità espressive, attraverso l’impegno storiografico, e la sua forza antipopolare.
Il rapporto tra immagini e parole, nei diversi momenti della storia letteraria tra fine Ottocento e Novecento e nelle ipostasi delle avanguardie, analizza il lavoro scavato (direbbe Heaney) della parola poetica, come un limite sovrabbondante, che in esso trova forza e abbandono, capace di presentare la provocazione della realtà, la sua meraviglia e il suo assurdo.
Persino il silenzio diventa, come nel caso di Rimbaud, compiutezza e conclusione: «La poesia realizzata in termini di pura rappresentazione trova proprio nelle sue immagini la sua ultima metamorfosi in un diverso progetto di vita: dalla poesia si passa all’amministrazione coloniale e senza soluzione di continuità. Dalla lirica come rappresentazione “colorata “ del mondo (è il caso “pittorico” di Voyelles) non si può che giungere al mondo come caleidoscopio di colori, quale scomposta asimmetria di frammenti poetici che non si possono afferrare se non per un attimo» (p.131).
Il sogno e l’epifania poetica della città, poi, condensano il teatro di una totalizzante e suprema arsi immaginale, in cui rapportarsi al proprio inconscio (Aragon), all’inventario della sua topografi (Benjamin), al suo moderno teatro (Schnitzler), alla non località inestesa dei suoi passaggi e paesaggi e infine ai simulacri forgiati dalla sua identità (il dandy).
Il volume studia tutti gli scenari e i sentieri possibili: dal paradosso come costruzione della soggettività fino al suo rovesciamento nel feticismo che pertiene alle fondamenta della prospettiva borghese.
Paul Klee scrisse che il compito dell’arte non è riprodurre il visibile ma rendere visibile l’invisibile. Ciò che noi vediamo materialmente, non è detto che sia ciò che è oggetto di attrattiva, come testimonia l’incompiutezza della Pietà Rondanini, che esprime questo doppio movimento: usa il visibile come porta d’accesso all’invisibile e così realizza il Bello.
Il libro di Giuseppe Panella condensa nella sua pienezza d’insieme, non soltanto il rapporto segreto della parola con l’immagine, ma permette di vivere appieno il fascino della relazione e dell’ermeneutica, che sono traccia, ineludibile, di un canto mai svanito.
PANELLA G., Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, Clinamen, Firenze 2014, Euro 49,00.

La soglia di Susan Stewart

di Andrea Galgano             25 settembre 2014

leggi in pdf LA SOGLIA DI SUSAN STEWART

Susan Stewart Poet Writer Critic

Susan Stewart (1952) esprime la vitale vertigine di un nutrimento che attinge dal repertorio dei classici latini e greci e dalla coltre concettuale sedimentata dei poeti metafisici inglesi del Seicento, ma manifesta una pura e sostanziale ricerca espressiva che si sporge sulla conoscibilità del reale, sulla sua calorosa meraviglia e, infine, sulla concretezza che si fa immagine primordiale ed eco inscindibile.
Poetessa, membro dell’American Academy of Arts and Sciences, critico, traduttrice (ha tradotto l’Andromaca di Euripide), insegna storia della poesia ed estetica presso l’università di Princeton e nel 2005 ha ottenuto il titolo di Chancellor dall’Accademy of American Poets.
Il suo sguardo si afferma nella densità dell’essere. In essa la realtà emerge nella sua datità, nella sfrontatezza di una cosalità mai ridotta, ma vibrante nella profondità e nell’intensità di una «ambiguità instabile tra le profondità intime dello’io e, d’altra parte, il fondo misterioso della realtà che ci circonda, fino ad esiti solo apparentemente paradossali» (Antonio Spadaro):

«Lascia che ti parli del mio meraviglioso dio, di come si nasconda negli esagoni / delle api, di come la siccità che strofina le sue mani coriacee / sopra il mondo sia una sua creazione, così come la pioggia nei minuti silenziosi / che lasciano soltanto pensieri di pioggia. / Un atomo che lavora e lavora, un atomo che lavora nella notte / più profonda, poi esplode come la stella più lontana, molto / più piccolo di una puntura di spillo, molto più piccolo di uno zero che non ha / nessun desiderio, nessun desiderio verso di noi».

Scrive Roberto Mussapi:

«La Stewart […] restituisce un binomio di felicità visionaria e potenza rivelante su cui si innesta innanzitutto la poesia americana, e una dimensione metafisica, di origine europea, dove metafisico non indica una astratta speculazione nelle sfere celesti, ma la rappresentazione di realtà invisibili e incorporee attraverso immagini concrete, azioni, insomma la traduzione dell’ invisibile in visibile che è uno dei sogni e degli impulsi originari che muovono ogni artista. Come molti poeti americani del passato, è legata al mondo presocratico, vale a dire al pensiero greco delle origini, quando filosofia, cioè ragionamento logico, e poema, cioè cosmologia, canto della natura, si intersecano e a volte si fondono. Paesaggi, luoghi e figure elementari di un mondo percepito nel suo nascere: foresta, stelle, acqua, deserto, prato, lampo, rosa. Il mondo delle cose prime, rivelato dallo stupore del poeta che quanto più è immediato tanto è sapiente e sapienziale: «Io mi addormento in onore della pioggia, / in onore dell’inquietudine delle foglie, / e un gran fremito passa / sopra la terra; è la musica / del nostro dimenticare».

E ancora: «In Susan Stewart il mondo quotidiano, in cui la natura non è marginale ma onnipresente, si accende di lampeggianti rivelazioni, la vita è svelata in piccoli miracoli ininterrotti, continuamente celati nel mistero, cifra principe della realtà. Una poesia della soglia, continuamente al confine tra umano e divino, visione e meditazione filosofica. Immaginazione e pensiero trovano nella sua opera una formulazione nuova di un binomio cardinale della poesia d’Occidente». Pertanto il pieno brusio del suo magma cerca l’oscurità delle superfici, la sorgente primordiale e primaria di un luogo, «una fila di alberi, una fila di stelle. / Cercalo dunque: troverai che potresti perdere / il senso della profondità, / una foglia, un fascio / di carta, una federa / o una faccia / a forma di cuore, / un sibilo che infuria, / come i venti, come / la morte, in un groviglio / là nei rami».

È una danza avvinta che incontra i libri del buio («Buia la stella / fonda nel pozzo, / luminosa nell’acqua») e il silenzio muschioso, per premere contro l’oscurità, «andando più a fondo nell’acqua, nero nella nerezza, / la fonte dell’acqua che aspetta là, lontana sotto l’acqua / e l’acqua nera come carbone, / nera come qualsiasi cosa estratta dalla terra; / allora portala alla luce del giorno e schiarirà / ancora, trasparente nel bicchiere trasparente, invisibile / sulle mani, benedizione, / che scende, felicità che balena».
La grammatica delle sue linee ha radure luminose e sospensioni di anima. Il verso frastagliato, dislocato e franto condensa le punte iconiche della riflessione, della percezione del reale e del suo contrappunto esperienziale, quest’ultimo forgiato dall’intuizione e dall’immaginazione.
Il risveglio celebra la soglia dei contorni e la loro nitidezza condivisa, laddove la scena invernale e brinosa porge il suo nero solco impenetrabile.
Il dopo-immagine ghiacciato raccoglie il volo improvviso e nitido che precipita e discende, come un empito di fiato che unisce sacro e profano, nel suo sibilo che infuria, lasciando l’impronta di una notizia splendente e impossibile: eppure «la verità rimane / che non posso sapere solo quel che ho visto e se / viene ogni notte, ogni sogno, ogni stella o per niente». Il gufo, che in questo poema è, allo stesso tempo, invocazione, notturno ed esplorazione, – ossia «troubled-recognition topos», secondo la felice definizione di Randall Couch, diventa, come commenta Maria Cristina Biggio, «nell’istante della poesia e per sempre, meravigliosa creatura che sposa il paesaggio e redime il tempo-di-ora bloccato nell’attesa di fare “un sogno invernale”».
L’abbandono e la forza epistemologica della mobilita la sua ricerca di significato, si compromette con l’allungamento delle ombre e con la profondità della indeterminatezza dello slittamento della percezione visiva. Essa diventa, pertanto, il luogo della creatività e della fantasia, come finalità della forma.
In un’intervista rilasciata a Roberto Mussapi, su “Avvenire”, del 28 dicembre 2013, Susan Stewart traccia la sua vitale e meravigliosa stele poetica, affermando che

«La bellezza di ogni poesia è costruita sulla musica dei suoi suoni e intervalli misurati, sulla vividezza delle immagini, l’immediatezza e la tessitura del suo eloquio, e la sua evocazione di presenza. Le poesie sono vive, e la loro vita è più lunga di ogni nostra vita individuale. Il pensiero poetico è capiente, perché esalta non solo tutti i nostri poteri mentali (la ragione, l’immaginazione, le memoria e l’emozione insieme), ma anche i nostri ritmi fisici, il battito dei nostri cuori, il ritmo del respiro, gli occhi che si chiudono o si aprono. Nel leggere e scrivere poesia noi portiamo il nostro intero se stesso a significati condivisi. Come forma d’arte, la poesia ha valore in se stessa, il linguaggio attraverso il quale la poesia si compie non si esaurisce nell’esperienza o nei desideri del momento. No, la poesia vive oltre il contesto del suo farsi e la sua storia procede».

L’orbita immaginale e il colombario della sua anima lucente di buio fiutano e tentano di appropriarsi della vita piena e della sua realizzazione, come l’atto di fede che arreda la transizione e la liminalità. Esse interrogano, come scrive M. C. Biggio,

«l’idea di trascendenza (la luce, il volo, gli uccelli, le ali, le api, il vento, il “fuoco vivente”, il divino, la fuga, il paradiso, la bellezza lirica, il vorticare) e la realtà della discesa (l’oscurità, la cenere, il bruciare, la caducità, il radicato, il sotterraneo, il mondo fisico e i suoi elementi, ecc.). Sono motivi costanti anche la riflessione sul farsi e sulla forza epistemologica dell’invenzione poetica – capace di estendere la nostra imperfetta conoscenza del mondo e di tracciare una nuova mappa di mondi possibili rivelando il sacro e il misterioso di realtà trasfigurate dall’arte – e sull’ossimorica potenza della “memoria umana”, intesa come abisso, fondo incommensurabile in cui il tempo si fa quasi infinito nella vita breve e mortale dell’uomo che la possiede. Ad essi si accompagna l’interesse di Stewart per la perduta condizione edenica dopo la cacciata dei nostri mitici progenitori: il tema della caduta offre alla sua poesia la possibilità di farsi struggente ripetizione del giardino e, nel contempo, lamento dell’esperienza profondamente umana del limite, senza che in essa vengano mai meno né la capacità di confrontarsi con la tragedia e il male come parti del tutto, né la speranza e lo stupore per l’incommensurabilità dell’esistenza».

La poesia cerca l’ineffabile tangibilità e percepisce l’attesa e la lotta contro le soglie tenebre, l’osmosi dei passaggi, l’enigma, l’alchimia del linguaggio, per folleggiare «con il nonsense e l’ironia (intesa in senso romantico e in quello socratico di dissimulazione nella struttura discorsiva) per sottolineare il dubbio e l’incertezza che l’accompagnano, e che usa il mito come prezioso collante alle interrogazioni della cangiante e multiforme realtà. Per poter infine dire, al di là di quinte e sipari e con la più vasta gamma possibile di domini del reale, il favoloso mondo sognato in cui «nessuna morte è naturale» (Maria Cristina Biggio): «Una volta eri addolorato / e loro ti vennero incontro nell’aria bianca. / Entrarono in / una musica infinita, / il pavimento del tempio / era muschio calpestato. / Hai vegliato / per una fessura / nella pietra / che poteva aprirsi e / chiudersi liberamente, come / una mano. / Hai vegliato / nella verdezza mentre colmava l’aria bianca».
La densità ermetica della poesia di Susan Stewart si concentra sull’allusione, sull’incontro tra l’io e chi riceve, divenendo esplorazione d’infanzia e giovinezza del mondo.
La realtà si svela e compie il suo linguaggio e lo sguardo della Stewart, come visione binoculare, intuisce risvegli smossi, la nostalgia del passato trasferito e in transito, la frizione della vita e della morte e «tremare argento dell’elemento».
La sovrapposizione della memoria percorre le scapole della poesia in un contrasto metafisico e conoscitivo, vive di un trasalimento felice che illumina l’inizio per figurare la specificità dell’altro, ricalcarne le forme, conoscerne la fecondità.
L’erranza della materia, «Dove l’aria è intessuta di muschio che s’asciuga, / (in quel posto dove son cresciuta) la foresta in un groviglio, / un aroma di muschio dai funghi e dalle trine di muffe, / dolce-stellato andare, in un groviglio di rovi, di felci», permette di trapassare gli oggetti, di conoscere le stratificazioni, il limitare della foresta simbolica, che è «risorsa della natura, di tutto ciò che è oltre i fatti della storia, oltre i nostri concetti di spazio e tempo e le categorie e il nostro modo di conoscere e che, in quanto tale, precede la memoria e l’invenzione. La natura è l’indefinibile, l’illimitata risorsa al di sopra della quale la conoscenza si innalza – proprio come l’invisibilità sta al di là del visibile – non in senso mistico ma come un reale riconoscimento del limite dei nostri poteri analogo alla finitudine sancita dalle nostre morti individuali».
La chiarità e l’esatta precisione delle immagini di Susan Stewart si appropria delle trame e delle simmetrie dei giochi, come spostamento di forze (come lo spirito che vaga tra le foglie scosse di red rover) e ripiegamento svelato, riflessione sulle passioni e sui mali del mondo: «colui che si è riversato / nel suono, si è fatto parola del silenzio; / mandato in mezzo al tempo, si è fatto tempo che emerge. / Mentre il passato si accresce, il futuro diminuisce / e la paura assume i tratti dell’amore».
Fare precipitare la visione poetica tra le radici nascoste, lo stupore, gli abissi, tra le presenze vitali incise nella memoria fantasma e nella luce, nei vecchi dolori, è il genio dello scarto e della visione, situata nella «profonda mezzanotte del giorno e dell’anno».
Scrive ancora Maria Cristina Biggio:

«La Stewart accoglie, in una fantasmagoria di specchiata luce e ombra, le contraddizioni e i dubbi della realtà, allo stesso tempo accogliendo il progresso e l’avanzamento che nasce dal loro contrasto e scontro, lasciando entrare una variazione, formale e/o tematica nel verso ripetuto, che così slitta verso un significato di problematica discordanza, più cupo o perturbante che, appunto, disorienta il lettore […] Metafore e metonimia, metafore-metonimiche, giochi di parole e giochi con le parole […] sono la logica conseguenza di una metafisica instaurata con il senso (della vista, dell’udito, del tatto e di un senso vestibolare della vertigine o dell’equilibrio nell’attraversamento delle varie soglie), che viene poi necessariamente rappresentata in parole. Davanti all’eterno, all’invisibile, al non razionale, la parola umana prova a dire i cortocircuiti della razionalità, mentre il poeta sale e scende dalla mitica catena d’oro del linguaggio, tentando di avvicinare terra e cielo».

Persino il male, la caduta, il dolore diventano traccia meridiana ed eco di una possibile redenzione e di una nuova costruzione di mondo, come antifone che nominano e conservano le cose, come colonie perdute a punta di freccia e come litanie ripetute di uno shock ripetuto e continuo, che però non ha paura di richiamare i nomi di un mondo spezzato che riporta indietro il tempo, rallentato e pastorale (Elegia contro il massacro alla Amish School, west Nickel Mines, Pennsylvania, autunno 2006): « Lena, Mary Liz, e Anna Mae / Marian, Naomi Rose / quando il tempo si è fermato / dove il tempo ha rallentato / i cavalli portavano la pioggia. / Mary Liz, Anna Mae, Marian / Naomi Rose and Lena / le lanterne accese / nel buio mezzogiorno / nel processionale del dolore».
Il potere incantatorio del mito, laddove celebra la drammatizzata soglia dei vasti panneggi, va alla ricerca del linguaggio della memoria prenatale, celebra l’incisione dei luoghi e del tempo e, nelle sue prominenze lessicali, inscena una parola gravitata, «alla base immobile del mondo che gira», che non ammette eclissi, ma scava il suo sfioramento della visione presente, gli incontri trans temporali come riscrittura e connessione di qualcosa che non c’è ancora, ma trova la sua trama di inizi rianimati nel «sonno orlato di raso».

STEWART S., Columbarium, Ares, Milano 2006.
ID., Red Rover, Jaca Book, Milano 2011.
COUCH R., On the art of Susan Stewart (http://jacket2.org/article/art-susan-stewart)
MUSSAPI R., Quello stupore primordiale di Susan Stewart, in “Il Giornale”, 26 novembre 2014.
ID., Stewart, versi come atti di fede, in “Avvenire”, 28 dicembre 2013.
SPADARO A., Nelle vene d’America. Da Walt Whitman a Jack Kerouac, Jaca Book, Milano 2013.
BIGGIO M.C., Susan Stewart, due poesie (http://poesia.blog.rainews.it/2012/01/19/susan-stewart-due-poesie/)

La rilevanza della letteratura nella formazione dello psicologo

di Andrea Galgano             7 luglio 2014

*intervento alla Prima Conferenza Internazionale di Psicologia Dinamica, Cenacolo di sant’Apollonia, Firenze, 27-28 ottobre 2012

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de chirico

Un buon libro lascia al lettore l’impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. Quando la letteratura è al suo apice ci sembra che d’improvviso ricordiamo qualcosa d’importante che sapevamo ma abbiamo scordato.

O.Lagercrantz, da L’arte di leggere e scrivere

In un breve scritto dal titolo Poesia, filosofia, psicoanalisi Umberto Saba afferma che una persona «guarita dalla psicoanalisi non scriverebbe più poesie, neanche qualora avesse sortito dalla nascita il felice ingegno di Dante»[1]. Secondo Saba, e Rilke più tardi,  l’attenuazione del narcisismo, la cancellazione dei demoni, perseguita dalla psicoanalisi, attenuerebbe anche la fecondità e la fertilità poetica.

Ma se ogni poesia, come direbbe Wittgenstein, può assurgere a gioco linguistico e una moltiplicazione delle regole del linguaggio, ecco che determina un «arrest of disorder», ossia una sospensione del disordine, come si rinviene nelle affermazioni del grande poeta americano Robert Frost, in un’intervista con John Ciardi (1959). Altrove, in un altro passaggio, Frost si rivolge al legame che nasce tra autore-poeta e poesia, che prende forma durante il processo figurativo:

Se è una melodia selvatica, allora è poesia. Il nostro problema quindi, come moderni astrattisti, è di raggiungere la selvaticità pura; essere selvaggi con nulla, essere selvaggi verso qualcosa. Ci solleviamo come aberrazionisti, cedendo ad associazioni indirette e facendoci scalciare in ogni direzione dalla possibilità di un’associazione all’altra, come una cavalletta in un caldo pomeriggio. È solo il tema che può mantenerci fermi. Così come il primo dei misteri è il modo in cui una poesia può avere una melodia dentro la piattezza della metrica, così il secondo è come una poesia può essere selvatica e, al tempo stesso, avere un soggetto da soddisfare. Sarà il piacere che ci dà una poesia a dirci come questo sia possibile. La figura che una poesia crea.

E ancora:

Comincia in gioia, si inclina verso l’impulso, con il primo verso assume direzione, percorre un tragitto di eventi fortunati e finisce in una chiarificazione della vita – non necessariamente una grande chiarificazione, come se ne trovano nelle sette e nei culti, ma in un momentaneo riparo dalla confusione. […] È solo una poesia truccata, una poesia che non è tale, se la parte migliore è stata pensata prima e serbata per la fine. (Frost, 1939, p. 440)[2].

È l’indizio di una sospensione del disordine, non un’illuminazione che tutto chiarifica e che tutto rende ampio.  I neuroscienziati e gli psicologi cognitivi che studiano le relazioni tra cervello e linguaggio, considerano la poesia uno degli eventi del cervello, che, per così dire, costruisce la realtà in cui viviamo. Hans Magnus Ezensberger, in Omaggio a Gödel, , scrive:

«Teorema di Münchhausen, cavallo, palude codino/ è una delizia, ma non dimenticare: / Münchhausen era un bugiardo. / Il teorema di Gödel a prima vista appare / poco appariscente, ma rifletti: Gödel ha ragione. / «In ogni sistema sufficientemente complesso si possono formulare frasi / che all’interno del sistema / non sono né dimostrabili né confutabili, / a meno che il sistema/ non sia di per sé inconsistente». / Puoi descrivere la tua lingua/ nella tua propria lingua: ma non del tutto./ Puoi analizzare il tuo cervello/ col tuo stesso cervello: ma non del tutto. Ecc. / Per giustificarsi / ogni sistema pensabile / deve trascendersi, / ossia distruggersi. / «Sufficientemente complesso» o no: / la libertà di contraddire / è un fenomeno di carenza / o una contraddizione. (Certezza = inconsistenza). / Ogni pensabile uomo a cavallo, / quindi anche Münchhausen, / quindi anche tu, è un sub sistema / di una palude piuttosto ricca di sostanze. / E un sottosistema di questo sottosistema / è il proprio codino, / questa specie di leva / per riformisti e bugiardi. / In ogni sistema piuttosto ricco di sostanze / quindi anche in questa palude, / si possono formulare frasi / che all’interno del sistema / non sono né dimostrabili né confutabili. / Prendile in mano, queste frasi, / e tira!»[3].

Nella loro attività la poesia e la letteratura condividono la funzione terapeutica del linguaggio, la sua forza, il suo orientamento, la sospensione del disordine, appunto, per cui, come scriverà Paul Celan, nel suo «cristallo di respiro», luogo cercato, forma racchiusa di una testimonianza mai rinnegata e irrefutabile: «In fondo / al crepaccio dei tempi, / presso il favo di ghiaccio/ attende, cristallo di respiro, / la tua irrefutabile / testimonianza»[4].

La poesia nasce in un segno fragile e solenne e nella perfezione del cristallo dà forma al silenzio, toglie fiato e parola, ma, allo stesso tempo, offre il suo itinerario umano, la sua tensione. Avere un ritmo nella lingua, che ostinatamente, si muove alla ricerca del punto fermo del mondo, sollecita maggiormente l’interesse e l’impulso del clinico, per il contatto con i sogni, la memoria, i ricordi e la conoscenza, in quel che James Hillman chiamava la «base poetica della mente»[5].

Nello spettacolo del reale, per accedere al simbolico, il poeta deve saper trasformare, separando con la sua attitudine povera e ricca allo stesso tempo, il reale dal fantastico. È nel preconscio che avviene questo lavoro di commutazione.

La parola diviene la traccia di un’apertura, che attraverso la scrittura, transita nel confine tra dicibile e non detto, rivelazione e ignoto. Perché il poeta, con le sue ossa spezzate in segreto, prima di rivelarsi in pubblico (Baudelaire), è, per usare le parole di Josif Brodskij «qualcuno per cui ogni parola non è la fine ma l’inizio di un pensiero».

Per indagare il mondo e i suoi oggetti, e salvare il «volto comune di ciascuno individuo», egli usa il linguaggio, le sue vaste campiture e le sue potenzialità. La parola rappresenta uno degli spazi di salvezza del bene della individualità e della personalità.

Nel frammento noto come Il primo programma sistematico dell’Idealismo tedesco, del 1795-96, Hölderlin, Hegel e Schelling attribuiscono alla poesia la missione di preparare il regno della libertà, con i suoi dispiegamenti individuali, i destini che trasformano e incarnano la loro precipua singolarità, i loro demoni. Parlano di religione del sensibile, caratterizzata da ciò che Giorgio Antonelli chiama «monoteismo della ragione e del cuore e politeismo dell’immaginazione dell’arte».[6]

Il farsi della poesia e dell’analisi conduce l’epifania degli dei a manifestarsi, a rivelare la loro intima natura, in ciò che Coleridge chiama co-adunaton, come l’immaginazione che si presentifica, offrendo la sua sponda silente. La teo-epifania di Rilke, Yeats, Pound è esibizione materica di una lunga e inevitabile arsi interiore.

Scrive Angelo Maria Ripellino nella sua nota a Sulla Poesia di Osip Mandel’ŝtam

Come il Pasternak del Salvacondotto, anche Mandel’ŝtam punta tutto sulla metafora, accostando in misture inattese opposti campi semantici, rendendo tangibili con virtuosistici intarsi di abbaglianti similitudini e suoni, gli odori, le «meraviglie» dei versi altrui, dei paesaggi, di eventi lontani e dell’ambiente giudaico della sua infanzia. Per cogliere l’identità delle cose distanti, egli tende la vista «come un guanto di pelle di daino» (e riesce così a percepire e ad immettere nella densissima sigla d’una metafora tutto quello che sta fuori campo, attorno al punto focale, il contiguo), quasi il suo sguardo, asimmetrico come gli occhi di certi pesci, potesse simultaneamente imbricare differenti assi ottici.[7]

Gli fa eco il grande poeta francese Yves Bonnefoy, citato da Armando Massarenti, in un interessante articolo de “Il sole24 ore” del 16 luglio 2011:

A ogni istante due vie s’aprono nel cuore della parola; e la poesia si decide a questo bivio: essa deve lasciare la grande biblioteca, andare sino allo sprone che s’inoltra tra cielo e terra, e continuare ancora, più lontano, declinando verso appuntamenti dello sguardo ove s’accoglie ancora il calore appena mitigato della notte d’estate.[8]

L’intensità della parola poetica costruisce i circuiti neuronali più solidi, sostanziali e profondi, e  ci parla del carattere sempiterno dell’espressione poetica, che, nella sua concretezza e ricchezza, come testimoniato anche da un recente saggio in tedesco del neuropsicologo Arthur Jacobs e del poeta Raoul Schrott[9], può offrire un valido strumento di analisi e indagine nelle strutture interne del paziente. La lettura di sostantivi, verbi e aggettivi (guerra, nazismo, torturare, distruggere, morto) e positivi (amore, libertà, ridere, baciare, grandioso) provocano la modificazione opposta delle pupille, della frequenza del polso e del colorito della pelle, mentre parole ad alto tasso emotivo possono rallentare la lettura.

Leggere e ascoltare permette di trasmettere ai centri cerebrali, segnali visivi e acustici che arrivano alla coscienza con un significato, un ritmo, un senso, un’immagine. Una poesia può esprimere l’intensità di ciò che altrimenti sarebbe impossibile dire, un romanzo o una novella e persino un racconto (si pensi allo sguardo sulla nevrosi americana di John Cheever) possono entrare nel magma vitale più di qualunque testimonianza. L’intensità dei centri dell’affettività sollecitati ne è fervida conferma. Scrive il poeta americano Mark Strand in un suo elzeviro:                                                                             

È una cosa curiosa: la vita che conduciamo ci consente solo di rado di fermarci a riflettere su ciò che abita nel nostro corpo e, di conseguenza, possiamo diventare così estraniati da noi stessi da aver poi bisogno della poesia per ricordarci che cosa si prova a esser vivi. La nostra abitudine a pensarci in relazione agli altri e a giudicarci in base a come agiamo in un contesto sociale ci rende più vicini allo spirito della narrativa: il comportamento esteriore è più facile da osservare, può essere percepito immediatamente, ed è quindi più semplice giudicarlo. (…) Una poesia, tuttavia, avrà necessariamente un’esistenza nel tempo, se non altro per il modo in cui si relaziona alle opere precedenti, assieme alle quali viene a formare un lungo specchio ininterrotto che, nel fluire dei secoli, ritrae la soggettività umana. È curioso notare come i sentimenti, pur accompagnandoci sempre, siano così difficili da cogliere da sembrare qualcosa di effimero. In genere vi prestiamo attenzione quando si fanno avanti con impellenza, nei momenti critici, quando è più forte l’esperienza della perdita: durante una separazione, per esempio, o in seguito alla morte di una persona cara. È allora che ci rivolgiamo alla poesia perché ci dica quali sono i nostri sentimenti, per mettere in parole ciò che supera la nostra capacità di articolazione. Inoltre, la poesia ha la capacità di conservare il senso di urgenza di tali momenti, permettendoci di riviverli più e più volte: anche quando una poesia è incentrata sulla perdita, il suo scopo è quello di conservare, di trattenere. Vogliamo serbare ciò che sentiamo nel profondo ma in un modo tale da trasformarlo in piacere.[10]

La letteratura, esperienza di lingua accesa, spesso ai margini della formazione e della professione psicologica, crea uno spazio di incontro in cui le individualità si sentono e in cui si sperimentano le gradazioni affettive dell’uomo, esplorate precipuamente da Dostoevskij ad esempio, nelle cui opere emerge il mistero insondabile dell’uomo, il suo essere una creatura in perenne confine tra bene e male, paradiso e inferno.[11]

Ne Il Sosia egli, ad esempio, descrive l’inizio di una psicosi, il senso di una alienazione, mai altrimenti visibile, afferrato da un nuovo sistema sconosciuto e ignoto.

Dostoevskijj parla dell’uomo all’uomo, affascina e reca timore e tremore, poichè raggiunge, anche nel buio e nelle tenebre, la positività ultima del reale, il suo disegno umano e divino e la sua grazia potente.[12]

L’esperienza poetica consente il ristabilimento di un rapporto con la realtà. Tale attività risulta, pertanto, decisiva, come  scrive T.S.Eliot, a portare in superficie le reazioni della nostra personalità dinanzi al visibile e toccabile, verso un’alterità, misteriosa e infinita, che esprime il punto di fuga della nostra esperienza avventurosa.

L’esperienza della poesia si dà innanzitutto come incontro. Qualcosa di nuovo, di sconosciuto e forse di insolito entra a contatto con la nostra vita. Anzi qualcuno, una persona nel momento in cui esprime una sua urgenza. Può tratatrsi di qualcuno che non conosco affatto, o solo per nome (come certi autori ‘famosi’), o di cui ho già letto qualcosa. Potrebbe essere addirittura un vecchio amico, che, però, fermandomi in quel modo lungo il corso, di fatto chiede di essere reincontrato di nuovo. Ogni incontro, ogni testo letto per la prima o la millesima volta è, di fatto, un avvenimento nuovo nell’ambito di ciò che ha costituito fino a quel momento il retroterra e l’orizzonte della mia conoscenza e della mia esperienza.[13]

L’esperienza della poesia è legata allo stupore di fronte alla presenza dell’esistenza, uno stupore che si attesta sul riconoscimento di qualcosa d’altro che, per così dire, compie il reale, fino al suo punto infinitesimo che è l’io. Leopardi in un appunto dello Zibaldone dell’agosto 1823, descrive la coscienza di un’attitudine poetica autentica

Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’é minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale rinchiusa in sí piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere[14]

Ecco il movimento della poesia, come segno di non contraddizione, come gesto ineliminabile dell’uomo, nel riconoscersi «quasi nulla» prediletto dall’essere, che gli ha dato la possibilità di abbracciare tutto con stupore vero.

Il suo avvenimento aiuta a giudicare in modo più umano la vita, riconoscendo l’adeguatezza del suo rilievo. L’incontro con questa materia viva permette una com-prensione, salva la possibilità di un’esperienza adeguata del mondo, introduce a un altro avvenimento e permette, infine, il giudizio che la realtà esprime su di sé.

A poco più di vent’anni nel 1938, Mario Luzi e poco prima T.S.Eliot,  notavano come il presupposto della poesia moderna fosse una sorta di disincanto deluso verso l’esperienza del visibile. Far emergere in superficie le reazioni della nostra personalità dinanzi a ciò che è visibile e toccabile è il suo dono, il suo crinale più vero.

Lo scopo della poesia e della letteratura, in senso lato, è esprimere la realtà della vita e suggerirne la conoscenza in modo non pregiudicato. Una tensione che spinge a trovare il legame di forme e parole più adeguate alla realtà che si intende comunicare, per mettere a fuoco il mistero della verità che ci tocca e ci rende vivi, suscitando, da un lato una risonanza personale, dall’altro una rievocazione intertestuale. La memoria viene sollecitata, come una sorta di esperienza primordiale, come scrive J.S. Bruner, secondo il quale i generi letterari «sono espressioni convenzionali di rappresentare le vicende umane, ma sono anche modi di raccontare che ci predispongono a usare la nostra mente e la nostra sensibilità in un senso particolare»[15]

L’intuizione di Vygotskij (1930 circa – 1978) sulla natura culturale e sociale delle «funzioni psicologiche superiori» e del carattere “mediatore” di strumenti e segni, per cui le funzioni cognitive “superiori” tendono a svilupparsi attraverso attività compiute come il linguaggio, la scrittura, ad esempio, divengono strumenti cognitivi che forniscono un meccanismo formale, per padroneggiare i processi psicologici, ha trovato eco nelle rielaborazioni di Bruner (1965) sugli strumenti intesi come “amplificatori culturali” o al modello dell’intelligenza adattiva di Olson (1976), fino a Michael Cole.

Cole (1994, 1995, 1996), riprende la configurazione triangolare tra individuo e ambiente di Vygotskij, per applicarla al processo di lettura, ridefinendone la relazione  fra mente e cultura e il carattere intersoggettivo e contestuale della cognizione, poiché

«gli esseri umani si distinguano dalle altre creature per il fatto che essi vivono in un ambiente trasformato dai prodotti (artefacts) delle generazioni precedenti, sin dagli inizi della specie […], la cui funzione fondamentale è quella di coordinare gli esseri umani con l’ambiente e fra di loro».[16]

In uno studio del 1994 di R.W.Gibbs[17] è emerso che la mente umana è modellata non solo da processi poetici o figurati, ma le stesse figure retoriche, scheletro di ogni componimento,  costituiscono gli schemi attraverso cui gli uomini concettualizzano la loro esperienza quotidiana e “il mondo esterno”. L’amore, ad esempio, come scrive in un interessantissimo articolo Laura Messina[18]

sembra che nella cultura occidentale sia concettualizzato attraverso un limitato numero di metafore, tra cui, più frequenti, “amore è una forza naturale”, “amore è un’unità”, “amore è una risorsa preziosa”, “amore è insania”, “amore è calore” Da queste metafore può derivare un numero pressoché infinito di espressioni che è possibile rendere in modi più o meno creativi. Ciò che solitamente viene inteso come un’espressione creativa di una certa idea in una poesia, (…) è spesso solo una sorprendente instanziazione di specifiche strutture metaforiche, che derivano da un limitato set di metafore concettuali condivise da molti individui all’interno di una cultura. Alcune di queste instanziazioni sono il prodotto di un pensiero altamente divergente, flessibile, ma la loro esistenza è determinata da “soggiacenti schemi di pensiero che limitano, o addirittura definiscono, i modi in cui pensiamo, ragioniamo, immaginiamo”.

Il gesto poetico, non solo contribuisce a una accensione a una tensione infinite, ma sono l’indizio di una esperienza e di un nome alle cose e alla pienezza del reale.

Eugenio Montale descrive il rapporto di associazione  di vita-arte-vita  come un  «pellegrinaggio attraverso la coscienza e la memoria degli uomini, il suo totale riflusso alla vita donde l’arte stessa ha tratto il suo primo alimento»[19]

La creazione delle immagini, che portano scritto «più in là», rappresentano la traiettoria di una domanda e di una visione dei propri desideri costitutivi, l’intuizione dei modi con cui si educa a vedere la realtà come segno. Pur in ogni variabilità individuale, guardare la realtà come segno, ci porta a sostare, riflettere, trattare le persone con prospettiva umana e a non smettere mai di indagare, con cura e stima, il «misterio eterno dell’esser nostro».

L’arte risulta allora una lente particolare in grado non solo di osservare  la realtà, ma di analizzarla e di elaborarla, definendone le prerogative e i limiti e realizzando una vera e propria Weltanschauung.

L’opera d’arte  rappresenta, quindi, l’esito di un processo inconscio che acquista senso plastico e bellezza nelle immagini e nei simboli, e scaturendo da profondità, diversamente, insondabili.

Sklovskij, infatti, afferma che l’arte esiste «per risuscitare la nostra percezione dell’esistenza, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra. Il fine dell’arte è di darci la sensazione delle cose così come esse vengono percepite, non così come vengono conosciute. La tecnica dell’arte consiste nel rendere gli oggetti strani, complicare le forme, accrescere la difficoltà e la durata della percezione, perché il processo della percezione ha un fine estetico in sé e per sé e deve essere protratto (1917)»[20].

Analogamente, la riflessione di Jung[21] penetra sì la personalità creativa dell’artista, portatore di un disagio e di una peculiarità non comune,  ma lo riconosce capace di attingere dalle risorse primordiali e originarie dell’umanità e di offrire la possibilità di un superamento della dimensione della sofferenza psichica.

La forza delle immagini primordiali, si pensi a tal proposito alle delicate e vitali immagini della fanciullezza leopardiana, germinano l’opera d’arte, come una sorta di “complesso autonomo” che esprime la sua forza di espressione, imponendosi alla coscienza.

Nell’introduzione del suo saggio, qui preso in esame, Jung assegna alla psicologia i compiti di chiarire «la struttura psicologica dell’opera d’arte» e le «condizioni psicologiche che creano un’artista».

L’intuizione poetica permette di cogliere la strada verso l’ignoto, le lande occulte, il notturno dei voli e dei volti, risale alle figure mitologiche, la primigenìa di un enigma e la pienezza delle sue visioni: «In opere d’arte di questo tipo (che non si debbono mai confondere con la persona dell’artista) è indubbio che la visione è un’autentica esperienza primordiale, checché ne pensino i razionalisti. Non è cosa derivata, secondaria, sintomatica, ma simbolo vero, cioè espressione di un’essenza sconosciuta».[22]
Secondo Jung è possibile rintracciare tali visioni in un nutrito elenco di opere, tra cui Hoffman, Dante, Blake, Goethe. Tutte culminano in un confine quasi epocale, in quanto espressioni larghe del genio profetico e del suo disvelamento:

Perciò il Faust tocca una corda presente nell’anima di ogni tedesco […], perciò la gloria di Dante è immortale e il Pastore di Erma è diventato quasi un libro canonico. Ogni epoca ha le sue unilateralità, i suoi pregiudizi e il suo malessere psichico. Un’epoca è come la psiche del singolo, ha la sua limitata specifica situazione cosciente e ha perciò bisogno di una compensazione; questa le è fornita dall’inconscio collettivo; di modo che un poeta o un veggente esprime l’inesprimibile della sua epoca e dà vita, nell’immagine o nell’azione, a ciò che tutti attendevano, nel bene o nel male, per la salvezza di quell’epoca o per la sua rovina[23].

La formazione intellettuale di Jung inizia con la lettura della Bibbia di Lutero; poi continua con i testi di teologia, ma trova nel Faust di Goethe, un orizzonte possibile di richiamo e di domanda

La sua lettura fu per la mia anima come un balsamo miracoloso “Ecco finalmente” pensai “qualcuno che prende sul serio il diavolo, e conclude persino un patto di sangue con lui – con l’avversario che ha il potere di frustare il proposito di Dio di fare un mondo perfetto” […] Finalmente avevo trovato conferma che vi erano, o vi erano stati, uomini che vedevano il male e il suo potere universale, e – cosa più importante – il compito misterioso che esso ha nel liberare l’uomo dalla sofferenza e dalle tenebre. Pertanto Goethe diventò, ai miei occhi, un profeta.[24]

 

«In qualche luogo c’era una volta un Fiore, una Pietra, un Cristallo, una Regina, un Re, un Palazzo, un Amante e la sua Amata, e questo accadeva molto tempo fa, in un’isola nell’oceano cinque mila anni fa… Questo è l’Amore, il Fiore Mistico dell’Anima. Questo è il Centro, Il Sé…”.

Jung parlava come se fosse in trance.

“nessuno comprende ciò che voglio dire; soltanto un poeta potrebbe iniziare a comprendere…”.

“Lei è un poeta”, dissi, spinto da quello che avevo udito»[25]

Lo studio della psichiatria rappresenta, pertanto, il trait d’union fra la scienze naturali e quelle umanistiche. Si pone l’obiettivo di conoscere l’uomo e le sue relazioni, deviazioni[26] e tensioni.

Una psicologia che non si riduca a psicofisiologia deve attenersi a «ciò che significa esser uomo»[27], alla sua presenza nell’originario essere-nel-mondo.

Anche l’aspetto psicoanalitico che ha interessato le caratteristiche precipue della psicologia della letteratura[28], da Petrarca, a Borges, fino al teatro quale psicodramma e al «ruolo modulare dell’immaginazione», sta piano piano facendo emergere una sintesi attenta di alcune dinamiche di studio, che qui brevemente abbiamo enunciato.

Gli artisti sembrano precedere gli psicologi nei territori profondi della psiche. In alcune pagine di uno dei romanzi più intensi, sebbene incompiuto, di Hugo von Hoffmansthal Andrea o i ricongiunti[29], nel quale si sviluppa una sorta di immaginario che si spinge fino a frequentare il linguaggio dell’invisibile e nell’ignoto che appare, o  ne I quaderni di Malte Laurids Brigge[30], come nelle rabdomantiche e oscure Elegie Duinesi[31] di R.M.Rilke, è possibile rintracciare dense strutture di significato, altrimenti difficilmente distinguibili dalle esperienze psicotiche in senso stretto.

Karl Jaspers in un suo famoso saggio Psicopatologia generale[32] ha affermato che non esistono né psicologie né psichiatrie degne di questo nome, che non cerchino confronti e correlazioni in modo permanente con analisi, ricerche, letteratura, narrativa, poesia e creazioni, che abbiano la capacità di rendere meno drammatico il solco interrotto e, per così dire, bruciato, che separi l’anima, la conoscenza della vita affettiva e la disperazione degli altri.

L’esperienza letteraria, come si evince dagli ultimi acutissimi studi di Eugenio Borgna[33], può permettere l’uscita dalle separazioni delle discipline e una prova di indagine incisiva e profonda tra noi e coloro che ci chiedono aiuto.

I testi letterari riescono a farci comprendere come gli enigmi dell’esistenza possano trovare un varco segreto e un trasloco, attraverso la frequentazione assidua e piena di soste della coltre poetica.

L’apertura umanistica nei confronti del paziente, della sua “mitologia” personale e del suo romanzo autobiografico, trova negli strumenti letterari e poetici il riflesso, non solo di grandi stati d’animo e di grandi angosce, ma soprattutto di altezze estreme, anche perchè, come scriveva la grande scrittrice americana Flannery O’Connor: «Se la vita ci soddisfacesse, fare letteratura non avrebbe senso».

La ribellione e la fiamma contro ogni cosificazione di studio e prassi, permette a tutti coloro che si accingono a rapportarsi all’altro, di sostenerne la fragilità, la debolezza radente e coglierne i particolari singolari.

Occorre, infatti, ciò che Simone Weil chiamava l’ «educazione all’intuizione», affinchè ogni terapia possa permearsi di una conoscenza profonda e maggiormente incisiva.

Il rapporto con il testo non tende a una “psicoanalisi” dell’autore, non cerca di sollevarsi dal perimetro ampio e vasto della sua narratività, ma grazie al solco vivido di una lingua accesa, consente un ulteriore contributo, talvolta decisivo, alla comprensione del paziente, alla sua peculiare esperienza esistenziale e comportamentale e alle sue istanze originarie. L’incontro costituisce l’inizio di tutto:

L’avventura incomincia quando la persona è destata dall’incontro […]. E l’avventura è lo sviluppo drammatico del rapporto tra la persona risvegliata e la realtà intera da cui essa è circondata e in cui vive[34]

perché

Quanto più uno ama la perfezione nella realtà delle cose, quanto più ama le persone per cui fa le cose, quanto più ama la società per cui fa la sua impresa, di qualunque genere, tanto più è per lui desiderabile essere perfezionato dalla correzione. È questa la povertà del nostro possedere le cose, che in ogni lavoro, in ogni impresa rende l’uomo attore, artefice, protagonista.  Ma libertà vuol dire anche, oltre che coscienza del proprio limite, impeto creatore. Se è rapporto con l’Infinito, essa mutua dall’Infinito questa inesausta volontà di creare. […] Tutto è correggibile e tutto deve essere creabile. Questo istinto creatore è ciò che qualifica la libertà in un modo più positivo e sperimentalmente affascinante.[35]

L’immagine poetica, nella sua funzione prima espressiva (ossia le immagini mentali e le forme del pensiero e del linguaggio) e poi elaborativa (ossia il generare immagini impresse), esprime il valore conoscitivo del logos, che non si situa nell’astratto, ma vive della concretezza del reale, recuperata grazie al mondo delle «belle apparenze»[36].

Tolstoj, nella sua splendida epopea russa che è Guerra e Pace, coglie con semplicità estrema la divaricazione tra essere e apparire, tra comprensione d’abisso ed esperienza di angoscia:

Oggi mi hanno portato al consiglio di governatorato per farmi esaminare, e i pareri sono stati discordi, hanno discusso e hanno deciso che non sono pazzo, ma lo hanno deciso solo perché durante l’esame mi sono trattenuto dall’esprimere ciò che penso, e non ho espresso ciò che penso perché ho paura del manicomio, ho paura che lì mi impedirebbero di compiere il mio pazzo compito. Hanno dichiarato che sono predisposto all’emotività o qualcos’altro del genere, ma sano di mente. Questo è quello che hanno dichiarato, ma io so che sono pazzo, il dottore mi ha prescritto una cura assicurandomi che se seguirò scrupolosamente le prescrizioni allora tutto ciò che mi agita passerà, cosa non darei perché passasse. È un tormento troppo grande. (…) Tutto il giorno avevo lottato contro la mia angoscia e l’avevo vinta, ma nell’anima c’era una terribile sensazione come se mi fosse successa una qualche disgrazia e io potessi dimenticarla solo temporaneamente, ma era essa lì nel fondo dell’anima e mi dominava[37].

A tal proposito lo studio dell’opera di Elsa Morante si riconnette in modo preciso alle incursioni nel romanzo dell’inconscio, che nella comunicatività e raffinatezza del suo  linguaggio, si spingono verso una densa attività onirica, collegata in maniera tumultuosa e angosciosa con la veglia notturna e le crisi nervose. Ida è il personaggio del romanzo La storia, molto vicino alla scrittrice, solita prendere appunti dei suoi sogni.

Era un mondo ricco, contorto e intriso di angoscia, rivissuto attraverso una vivida tensione[38].

Forse, fu anche l’interruzione della cura a provocare una simultanea trasformazione della chimica del suo sonno. Difatti, è incominciata da allora la crescita rigogliosa dei suoi sogni notturni, che doveva accoppiarsi alla sua vita diurna, fra interruzioni e riprese, fino alla fine, attorcigliandosi alle sue giornate più da parassita o da sbirra che da compagna[39].

«Amare la verità che giace al fondo», pertanto, come scriveva Umberto Saba, è un richiamo a sorprendere quell’azione dell’aria, a notarla, a farne memoria e lasciarsi stupire, come spalancamento più largo possibile ai fattori del reale e dell’esistenza.

Diceva Hannah Arendt che purtroppo l’uomo moderno ha sostituito lo stupore che gli antichi ponevano alla base di ogni conoscenza con la dubitosità (e George Steiner aggiungerebbe: con lo scetticismo nemico dell’arte). L’uomo dubitoso e scettico mette in crisi ogni rapporto perché non crede ai suoi occhi, mette in dubbio la forma e quindi vive l’arte come una illusione, e non come quella «magia vera» di cui parlava Giuseppe Verdi. Non ha più visione, ma una sensibilità labirintica, come richiamava Flannery O’Connor. Invece nella poesia che amo tutto procede dallo stupore verso l’alterità presente, misteriosa e infinita, che costituisce il punto di fuga nella nostra avventurosa esperienza. Così che tra percezione elementare e visione non c’è più differenza.[40]

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[1] Saba U., Poesia, filosofia, psicoanalisi, in Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, Meridiani Mondadori, Milano 2001.

[2] Bromberg P.M., L’ombra dello tsunami. La crescita della mente relazionale., edizione italiana a cura di  Vittorio Lingiardi e Francesco de Bei, Raffaello Cortina editore, Milano 1998, pp. 5-6.

[3] Ezensberger H M., Gli elisir della scienza. Sguardi trasversali in poesia e in prosa, Einaudi, Torino 2004.

[4] Celan P., Poesie, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, pp.551.

[5] Hillman J., Scritti sull’Umanesimo, a cura di Paola Donfrancesco, Moretti & Vitali, Bergamo 2001, p.29.

[6] Antonelli G., Origini del fare analisi, Napoli, Liguori 2003.

[7] Mandel’ŝtam O., Sulla poesia, con due scritti di Angelo Maria Ripellino e una nota di Fausto Malcovati, Bompiani, Milano 2003, p.8.

[8]  Massarenti A., Bonnefoy, «A Silvia» e le neuroscienze, “Il Sole24 ore”, 16 luglio 2011.

[9] schrott R.- jacobs a., Gehirn und Gedicht Wie wir unsere Wirklichkeit konstruieren (Cervello e poesia. Come costruiamo la nostra realtà), Hanser Verlag, Monaco di Baviera 2011.

[10] Strand M., Ritrovarsi sull’isola dei poeti, “Il Sole24 ore”, 3 luglio 2011.

[11] Kasatkina T., Dal paradiso all’inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij, a cura di Elena Mazzola, Itaca, Castel Bolognese 2012.

[12] Id., Dostoevskij. Il sacro nel profano, Bur Rizzoli, Milano 2012.

[13] Rondoni D., La parola accesa, una mappa di letture, Bari, Edizioni di Pagina, 2006, p.7.

[14] Leopardi G., Zibaldone, 12. VIII 1823

[15]Bruner J. S., La costruzione narrativa della “realtà”, in Ammaniti e Stern (1991), p.31.

[16]Cole M., Culture and cognitive development: From cross-cultural research to creating systems of cultural mediation, Culture & Psychology, 1, 1995, pp.25-54.

[17]Gibbs R.W., The poetics of mind: Figurative thought, language, and understanding, Cambridge University Press, Cambridge 1994.

[18] Messina L., Psicologia della letteratura: alcuni aspetti educativi, Università virtuale – Spazio editoriale: i quaderni della SSIS – Università Ca’ Foscari di Venezia, pp.1-22.

[19] Montale E., Auto da fè, Il Saggiatore, Milano 1966, p. 135.

[20] Sklovskij V., Una teoria della prosa. L’arte come artificio. La costruzione del racconto e del romanzo, De Donato, Bari 1966.

[21] Jung C.G., Psicologia e poesia, in Opere vol. 10-I, Civiltà in transizione: Il periodo fra le due guerre, Bollati e Boringhieri, Torino 1985.

[22] Id., cit., p.367.

[23] ivi, p.371.

[24] Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung. Raccolti ed editi da Aniela Jaffé, edizione riveduta e accresciuta, Rizzoli, Milano 1978, pp. 90-91.

[25] Serrano M., Il cerchio ermetico. Carl Gustav Jung e Hermann Hesse, Astrolabio, Roma, 1976, p.60.

[26] Borgna E., Di armonia risuona e di follia, Feltrinelli, Milano 2012.

[27] Binswanger L.,  Sogno ed esistenza in Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1984, p.67.

[28] Tomassoni R., Psicologia e letteratura alle soglie del terzo millennio, Edizioni Franco Angeli, Roma 1998.

[29] Hoffmannsthal Von H, Andrea o i ricongiunti, a cura di Giovanna Bemporad, Adelphi, Milano1970.

[30] Rilke R.M., I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di F. Jesi, Garzanti, Milano 2002.

[31] Id, Elegie duinesi, a cura di M. Ranchetti, Feltrinelli, Milano 2006.

[32] Jaspers K., Psicopatologia generale, Il Pensiero scientifico, Roma 2000.

[33]borgna E., L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano 2005. Id., Come in uno specchio oscuramente, Feltrinelli, Milano 2007. id.,  La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Milano 2011.

[34] Giussani L., L’io rinasce in un incontro (1986-1987), Bur, Milano 2010, pp.206-207.

[35] Id.,  L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, p. 117.

[36] Zambrano M., Filosofia e poesia, a cura di P. De Luca, Pendragon, Bologna 2002.

[37] tolstoj L., Guerra e Pace, Garzanti, Milano 2007.

[38] Bernabò G., La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci, Roma 2012, pp. 212-215.

[39] Morante E., La storia, Einaudi, Torino 2005, p. 291.

[40] Rondoni D., Non una vita soltanto Scritti da un’esperienza di poesia, Marietti,Genova 2002, pp.19-20.

Il paradiso e l’inferno di Stefánsson

di Andrea Galgano             4 giugno 2014*

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Ex insegnante e bibliotecario, passato alla narrativa dopo tre raccolte di poesia e dopo aver ricevuto il Premio Islandese per la Letteratura, Jón Kalman Stefánsson conosce la terra e l’identità, il valore profondo e alto della parola, non solo suono e punto di fuga, ma nome di esperienza per chi la vive: «Bene è, senza dubbio, la parola più importante in islandese, in un attimo ha la capacità di creare un legame tra due persone sconosciute».

In Luce d’estate ed è subito notte[1] il ritratto di un villaggio islandese di quattrocento abitanti interseca la storia abitando le stelle, disigilla i precipizi, scorge il bagliore dalle labbra.

C’è la Cooperativa, il Deposito, la Latteria, i Macelli, il benzinaio nel chiosco, una realtà in dissolvenza e carnale della comunità che si spia e crea tessuto: «L’essere umano non si mantiene bene come il titanio, e la sua storia potrebbe essere riassunta così: quello che ha nel cuore, quello che ha nelle ossa, nel sangue, e poi il movimento di una mano una sera d’ottobre».

Il firmamento che colora gli astri e inanella la terra, sfocia nel cuore che chiede la vita prodiga di luce e tenta di fermarla nella sua luce tenera e dura, per comprenderla:

Nelle storie antiche si dice che l’uomo non possa guardare Dio, equivarrebbe alla morte, e senza dubbio vale lo stesso per quello che cerchiamo — la ricerca che ci insegna le parole per descrivere lo splendore delle stelle, il silenzio dei pesci, il sorriso e lo sconforto, la fine del mondo e la luce d’estate. Abbiamo un compito, a parte baciare labbra; sai per caso come si dice “ti desidero” in latino? E come si dice in islandese?.

Il territorio prediletto di Stefánsson è la polifonia siderale, l’attimo in cui il singolo appartiene a un movimento più grande, laddove il presente si unisce e si forma sul passato, come la bellezza e la sventura che disarcionano.

È la passione per l’umano a solcare la scena: dai capelli rossi di Solrún che si immerge nella baia, dove è «tutto un altro mondo, è come andare al fondo dei propri sogni», e lascia sospiri agli uomini, al velluto nudo di Elisabet che sbriciola il tempo o la coltre di Kristín, fino al direttore del Maglificio, che dopo aver sognato in un imprecisato latino («Tu igitur nihil vidis?»), abbandona il suo mestiere per studiare le stelle, grazie all’attrazione per Galileo e al Somnium di Keplero, in cui si narra la spedizione verso la luna dalle rive islandesi.

Il teatro umano dei fiordi sporge il suo indaco, ritrova fantasmi che non hanno pace dove la vita, in quel momento, consuma il suo spazio, come scrive Silvia Cosimini:

E così conosciamo la vita, le passioni, le bassezze, l’amore, la quotidianità delle persone del paese, scopriamo i loro pensieri e i loro desideri, le speranze, le aspettative, la paura, l’amore, il sesso, la rabbia, l’indignazione […] è un mondo minimalista, partecipe e sentito, per accorgersi una volta di più che tutti abbiamo lo stesso cuore, che siamo tutti ugualmente nudi e impreparati di fronte all’amore, al dolore, alla morte.

La stessa vita che tocca la morte, come una brezza sulle sponde, diviene la pienezza di un segno nascosto che traluce «mentre fuori il tempo turbina», che non disdegna l’ironia, che prolunga le sue linee, salvate dall’oblio, grazie alla lingua e all’esperienza della letteratura.

Insegue, così, la «voluttà che tiene insieme i giorni e le notti» e trae «la propria forza dalle profondità dell’universo, dai giorni che vanno e vengono, dal canto degli uccelli e dall’attimo estremo», per finire «sull’aia di una campagna del nord», dove si legano felicità, solitudine, dignità, incoerenza e sogni, rivolti al cielo.

L’Islanda è terra selvaggia e spopolata («briciolo di terra sotto il cielo che si spalanca infinito»), altura lunare e lavica, come un paesaggio proteso al silenzio delle maree, all’epica del sogno, alla a–temporalità del paradiso.

Marta Morazzoni, in un articolo su “Il sole24 ore” del 18 maggio 2014 scrive:

«Nell’isola dei ghiacci e delle saghe, protagonista è l’uomo, frantumato in mille sfaccettature e caratteri, osservato da tanti angoli visuale, e simboleggiato nella figura centrale del ragazzo che non ha un nome, quasi fosse una sorta di Jederman che attraversa la vita […] La sua elegiaca, virgiliana meditazione sulla morte nasce dallo stupore; quel subitaneo passare dall’essere al non essere più lo convince di avere solo un compito ancora nella vita, mettersi in cammino per restituire il poema di Milton al capitano che l’aveva prestato a Barthur e quindi morire a sua volta, per raggiungere l’amico nella nebbia del mondo dei non vivi, in cui gli sembra di sentirlo soffrire di una fredda solitudine».

La tristezza degli angeli[2] fonde il suo orizzonte di terra lieve, il crepaccio del cielo che si impone.

Il ragazzo che accompagna il grosso e taciturno postino Jens, cerca il sentiero della sua esistenza, beve alla sorgente dei libri e cerca le parole che dispiegano il tempo, perché «sono una delle poche cose di cui disponiamo davvero, quando tutto sembra prendersi gioco di noi».

Il viaggio degli uomini scava la loro immagine, tentano transiti e passaggi verso la scoperta di sé e verso la stoffa del proprio essere, in una carta di stupore e dignità.

Sono nevi eterne come un deserto bianco, battiti e inquietudini estreme di donne che scandiscono la voce della loro vita, conoscono le promesse e «sanno destare il fuoco dal sonno e lo fanno ogni mattina da molte centinaia di anni».

In questa estremità il fiato tra i denti si sporge sull’urlo del mare, dove le cadute e i rialzi, in mano al vento, tolgono il respiro ma non la vita che richiama, la parola che incendia e sta dietro al mondo, con una delicatezza feroce, come camminare su una chiesa di neve:

Adesso sarebbe bello dormire finché i sogni non diventano cielo, un cielo sereno e senza vento, qualche piuma d’angelo che scende volteggiando a terra, per il resto nient’altro che la beatitudine di chi vive ignorando se stesso. Ma il sonno fugge i defunti. Quando chiudiamo i nostri occhi fissi, sono i ricordi ad aggredirci, non il sonno. Prima arrivano isolati, e perfino piacevoli e argentei, poi però non tardano a mutarsi in una nevicata scura e soffocante, e così è da oltre settant’anni. Il tempo passa, la gente muore, il corpo sprofonda nella terra e altro non sappiamo. Del resto qui c’è poco cielo, le montagne ce lo rubano, e le tempeste, amplificate da quelle stesse cime, sono nere come la fine del mondo. Ma a volte quando il cielo si schiarisce dopo una tormenta, ci sembra di vedere la bianca scia degli angeli, lontano, al di sopra delle nubi e dei monti, sopra gli errori e i baci degli uomini, una scia bianca come la promessa di un’immensa beatitudine. La promessa ci riempie di una gioia infantile e risveglia un ottimismo datempo sopito, ma acuisce anche lo sconforto e la disperazione. È così, una luce intensa genera anche ombre profonde, una grande gioia cela in sé, da qualche parte, una grande malinconia, e la felicità umana sembra destinata a tenersi sul filo di una lama. La vita è piuttosto semplice ma l’uomo non lo è, quelli che definiamo gli enigmi dell’esistenza non sono che le nostre complicazioni e le nostre selve oscure. […] Abbiamo percorso una lunga strada, più lunga di chiunque altro, i nostri occhi sono come gocce di pioggia, pieni di cielo, di aria tersa e di nulla. […] Da qualche parte nel profondo delle regioni dello spirito, di questa coscienza che rende l’umanità sublime e maledetta, si nasconde comunque una luce che tremola e rifiuta di estinguersi, rifiuta di cedere il passo al peso delle tenebre e alla morte che soffoca. Quella luce ci nutre e ci tortura, ci costringe ad andare avanti […] I nostri movimenti sono senza dubbio incerti, esitanti, ma il loro fine è chiaro — salvare il mondo. Salvare te e noi stessi con queste storie, questi brandelli di versi e di sogni che da tempo sono precipitati nell’oblio. Siamo a bordo di una barca che fa acqua, e con le reti marce vogliamo pescare le stelle.

Paradiso e inferno[3], pubblicato da Iperborea nella traduzione di Silvia Cosimini, è un libro maestoso, ambientato in un imprecisato periodo del tardo Ottocento «negli anni in cui di sicuro eravamo in vita».

Nella prima parte si narra la vicenda di Bárthur, giovane pescatore innamorato di Sigridur e lettore appassionato, a tal punto da rimanere avvinto dal Paradiso perduto di Milton, nella versione islandese del reverendo Thorlàksson e dimenticarsi la cerata prima di uscire in mare. Morirà assiderato.

Suo amico è un ragazzo senza nome e orfano. Assieme cercano di guadagnarsi da vivere con la pesca del merluzzo, viaggiano nella freschezza profonda dell’essere, per toccare l’avamposto del paradiso e «scoprire se c’è un’essenza».

Nella seconda parte, il ragazzo è in viaggio verso il fiordo di Plássio –«il nostro inizio e la nostra fine, il centro del mondo»– dove vive Kolbeinn, il capitano cieco di una sorta di trinità che governa la locanda del villaggio, con i numi femminili, Helga e Gerithruour, che custodisce una biblioteca di quattrocento libri dalla quale proviene il volume di Milton.

Ma in questo piccolo villaggio vi sono regole incomprensibili, un linguaggio strano per cui la parola sembra contraddirsi, fino all’apparizione, quasi amletica, dell’amico al ragazzo che afferma un dolore racchiuso, che nessuna parola vera riesce a sbrogliare.

Un poema sull’amore e sull’origine della totalità dell’essere: il destino e il compimento dell’esistenza. La forza della letteratura non risiede nello straniamento, ma nell’accensione di un tumulto acceso sull’esistenza, sul risveglio della luce che lucida la realtà che si rivela e in essa pronuncia il destarsi del desiderio, l’appartenenza, la parola.

È nel nome di un’esperienza che il bagliore numinoso dell’essere uomini si fa luce di taglio: «Or scende la sera / a deporre il manto / greve d’ombre / su ciascuna cosa, / la scorta il silenzio».

Afferma Marta Morazzoni:

«Su una tonalità in particolare si estende, mi sembra, la voce di Stefànsson, sulla compassione che coinvolge uomini e animali, e lo strumento privilegiato, cui dedica parte della sua cura è appunto quell’elegia in cui si rifugia anche nel pieno dell’epos prosastico, a volte con indulgenza sentimentale. Così l’Islanda feroce della sua narrazione è ingentilita, custodita dalla vena di una malinconica fiducia».

La ragione ultima di buio e luce, sugli squarci d’inverno, diviene un’attesa di compimento. «Nulla mi delizia tranne te». La promessa della realtà, raccolta in un mare infinito di chiarore e ghiaccio di terra, sembra non mantenersi quando un amico muore, quando il tempo è inerte e l’inferno si impadronisce del vuoto. Quel paradiso perduto racconta la luce degli occhi chiusi.

Il lessico dell’anima è assoluto e stringe, per raccontare e calmare, il buio dell’universo: «Ci sono parole che hanno il potere di cambiare il mondo capaci di consolarci e di asciugare le nostre lacrime. Parole che sono palle di fucile, come altre sono note di violino. Ci sono parole che possono sciogliere il ghiaccio che stringe il cuore, e poi si possono anche inviare in aiuto come squadre di soccorso quando i giorni sono avversi e noi forse non siamo né vivi né morti», e ancora:

Le parole possono avere il potere dei troll e possono abbattere gli dei, possono salvare la vita e annientarla. Le Parole sono frecce, proiettili, uccelli leggendari all’inseguimento degli dei, le parole sono pesci preistorici che scoprono un segreto terrificante nel profondo degli abissi, sono reti sufficientemente grandi per catturare il mondo e abbracciare i cieli, ma a volte le parole non sono niente, sono stracci usati dove il freddo penetra, sono fortezze in disuso che la morte e la sventura varcano con facilità.

Scrive Emanuele Trevi: «La geografia di Stefánsson è sobria e autorevole come una carta geografica, una mappa disegnata su una pergamena: un mare infido e gelido, sterminate pianure innevate, catene inviolabili di antichi vulcani che sovrastano i fiordi e forniscono alle barche in cerca di merluzzo gli unici punti di riferimento, come un’immensa bussola di pietra e lava».

Nel sublime di Stefánsson, la vita si arresta sull’uscio di un ventaglio identico di spazio e tempo e, attraverso la polifonia della voce, conosce la migrazione della metafisica e l’epica dell’esistere.

Il ragazzo e l’eroe della storia sono la coltre di un movimento luminoso e oscuro, assaporano entrambi le sponde dell’essere, le linee di confine delle nostre tenebre e della nostra lucentezza di stelle.

Dopo la morte dell’amico, il ragazzo voleva uccidersi, ma una volta che il libro viene riconsegnato, due donne nordiche compiono definitivamente la sua quest, impedendogli di commettere il gesto estremo, tranne quello di una iniziazione al mistero profondo dell’esistenza, alle sue viscere, al suo bisogno di domanda. Il sublime, pertanto, diviene l’avamposto di una umanità in lotta, la rotta d’Eterno che tocca la vertigine del mare e delle stagioni, per domandare salvezza e resurrezione, dinanzi alla caduta e al proscenio della morte: «La gioia, la felicità, l’amore appassionato sono la triade che fa di noi degli uomini, che giustifica l’esistenza e la rende più grande della morte, eppure non offre riparo contro il vento del polo. Il mio amore per una cerata, la mia felicità e la mia gioia per un altro maglione. […] La felicità è poter mangiare qualcosa, averla scampata nella tempesta, aver scavalcato gli imponenti marosi che mugghiano sulla costa…».

La solitudine arcaica de Il cuore dell’uomo[4] (2014) è destinata a una finalità amorosa: « L’uomo è nato per amare, ecco quant’è semplice il fondamento dell’esistenza. Per questo il cuore batte, questa strana bussola, grazie a lui ci orientiamo tra le nebbie più fitte, a causa sua ci smarriamo e moriamo in pieno sole».

Il risveglio del ragazzo nella sperdutezza di un fiordo affronta la perdita e la ferita del suo amico, la veglia sulle soglie della morte, il destino della sopravvivenza.

Ma è ancora l’amore concreto di Álfheiður a toccarlo, nel suo concreto stupore, a destare la sua «ferita aperta nell’esistenza», come sottile estate, come opzione dinanzi alla morte e al nulla: «Hai deciso se vuoi vivere o morire? gli chiede la donna. […] Non lo so, risponde, non sono sicuro di sapere la differenza, e non sono nemmeno sicuro che ci sia, una differenza».

C’è il cuore che insegue il suo desiderio immenso che inizia alla vita e declina il suo amore in tutta la sua sostanza (Ragnheiður, Rakel).

A tal proposito, scrive, infatti, Luigi Giussani:

«Tutte le esperienze della mia umanità e della mia personalità passano al vaglio di una «esperienza originale», primordiale, che costituisce il volto nel mio raffronto con tutto. In che cosa consiste questa esperienza originale, elementare? Si tratta di un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste. […] A esse potrebbero essere dati molti nomi; esse possono essere riassunte con diverse espressioni (come: esigenza di felicità, esigenza di verità, esigenza di giustizia, ecc…). Sono comunque come una scintilla che mette in azione il motore umano; prima di esse non si dà alcun movimento, alcuna umana dinamica. Qualunque affermazione della persona, dalla più banale e quotidiana alla più ponderata e carica di conseguenze, può avvenire solo in base a questo nucleo di evidenze ed esigenze originali”»[5].

 

In un articolo su “La Repubblica” del 4 maggio 2014, Andrea Bajani commenta:

«È in mezzo a questa solitudine — che in pochi oggi sanno raccontare con la stessa malinconica tensione di Stefánsson — che l’uomo non può fare altro che cercare delle parole. Per questo il ragazzo aspetta le lettere, per questo ne scrive. Sa che non contano niente, nel salvare la vita ad un uomo, ma sa anche che sono l’unica fune che un uomo può lanciare a un altro uomo nella tempesta. Sa che le parole sono la sua condanna, perché sono proprio loro a fargli credere per un attimo che quel niente si possa domare: «Sono state le parole a recidere le radici tra l’uomo e la natura». Ma sa anche che è tutto quello che può fare. Le parole passano da un essere umano a un altro come un sollievo e un’intesa, due luci accese dentro una stessa notte infinita. «Perché la sensibilità è il nocciolo dell’essere umano», e le parole sono le uniche corde su cui può tentare di cercare una qualche armonia: «Presto qualcuno verrà a girare il carillon e forse sentiremo le fievoli note dell’eternità».

La morte rivela la sostanza dell’ampio gesto della vita. C’è un immenso respiro in queste pagine, come il mare che, pur toccando i sipari duri del tempo, offre una dilatazione di senso alla minuzia che si fa domanda, al Paradiso che è tale perché il transito nell’inferno colpisce la natura dell’essere uomini in attesa e bisognosi di qualcosa che salvi e faccia vivere e dove il rapporto con l’infinito è la comune patria degli uomini, che confronta e apre alla vita «per vivere come le stelle»: «Il ragazzo indietreggia involontariamente dalla finestra, la chiude, la stanza si è raffreddata in fretta, più che altro avrebbe voglia di infilarsi di nuovo a letto, coprirsi la testa con la trapunta per il resto della vita, perché che cosa gli riserva il futuro a parte respirare, mangiare, andare regolarmente in bagno, leggere libri, rispondere a chi gli rivolge la parola? Per cosa si vive?».

 leggi in word  IL PARADISO E L’INFERNO DI STEFANSSON

*versione ampliata di Il paradiso e l’inferno di Stefànsson in GALGANO A., Mosaico, Aracne, Roma 2013, pp. 585-591

[1] Id., Luce d’estate ed è subito notte, Iperborea, Milano 2013.

[2] Id., La tristezza degli angeli, Iperborea, Milano 2012.

[3] J.K. Stefánsson, Paradiso e inferno, Iperborea, Milano 2012.

[4]Id., La tristezza degli angeli, Iperborea, Milano 2014.

[5]Cfr. L.GIUSSANI, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997. 


 

Il sangue amaro di Valerio Magrelli

di Andrea Galgano             23 aprile 2014

recensioni Il sangue amaro di Valerio Magrelli

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Il nuovo libro di Valerio Magrelli (1957), Il sangue amaro, edito da Einaudi, fodera la quotidianità in un paesaggio di voci dispiegate, dediche improvvise, riferimenti estesi ad amici e anime interlocutrici, ai vocativi allusi.

Il dialogo si frastaglia in un contatto che riflette e confessa, si allontana dalla figuralità di immagini e apre la sua scena alla simmetria degli specchi e dei suoni, ai chiasmi del timore e del tremore, della convivenza sociale e della lotta civile

In un articolo su «Il Sole24 ore» del 17 marzo 2014, Gabriele Pedullà scrive che: «Questo affollamento ha sicuramente a che fare con l’approfondirsi di una vena civile che nelle prime raccolte sarebbe stato difficile da prevedere. Quando è che l’io incontra il noi? Dietro l’omaggio o il saluto, di là dal vetro i nomi e i referenti particolari sembrano rimandare a una comunità perduta, o a una ipotetica comunità a venire. Nel presente, invece, c’è solo il vuoto. Curiosamente infatti, non appena entriamo nei testi, ci accorgiamo che, esclusa la famiglia, le poche entità collettive evocate si reggono tutte su una privazione originaria: i giovani senza lavoro, gli odiatori disperati che scrivono insulti nei bagni pubblici, gli uomini bruciati assieme nelle Torri Gemelle o, con un altro rogo, gli operai periti nell’incidente della Thyssen. All’impossibilità kantiana di attingere alla cosa in sé si aggiunge ora, dunque, una paralisi storica. Al punto che, nell’età della trasformazione della politica in scienza della governamentalità e della governance, le dediche si rivelano altrettanti tentativi di fare gruppo: se necessario oltre lo spazio e il tempo. Invocazioni di aiuto almeno quanto profferte di affetto ai vivi e ai morti».

L’io, pertanto, vive «l’aria del nostro tempo» (Gabriele Pedullà), come squarcio ferito di ansia, confine che «avvampa e non consuma», come un bisticcio con l’esterno che stritola, annienta, sbilancia la sua malinconia nei paradisi perduti della lettura «Trovarsi a fianco qualcuno assorto nella lettura, / mi porta a domandargli. Dove sei? / per questo cerco di cercarti dentro, / di raggiungerti dentro quel dentro / da cui mi sento irrimediabilmente escluso».

La sua esattezza di figura, se da un lato condensa il proprio residuo interiore, dall’altro esprime la vertigine franta delle cose, articolando la concreta condensazione vista in Ora serrata retinae (1980), attraverso la nominazione e la paura insozzata delle soglie: «Da una finestra aperta non entra soltanto la luce; / a volte può entrare dell’altro che non avresti voluto. / Lo schifo, lo schifo, lo schifo di un animale che vola / in mezzo alle cose di casa violando lo spazio privato, / quell’unico spazio che resta di qua dalla finestra» o ancora adempiere l’infernale ignoto di una tecnologia avara e della burocrazia che sembra lasciare un vuoto estinto: «Natale, credo, scada il bollino blu / del motorino, il canone URAR TV, / poi l’ICI e in più il secondo / acconto IRPEF – o era INRI? / La password, il codice utente, PIN e PUK / sono le nostre dolcissime metastasi. / ciò è bene, perché io amo i contributi, / l’anestesia, l’anagrafe telematica, / ma sento che qualcosa è andato perso / e insieme che il dolore mi è rimasto / mentre mi prende acuta nostalgia / per una forma di vita estinta: la mia».

Commenta Pedullà: «Generalizzando, si potrebbe dire che in questo nuovo Magrelli le parole ripetute alludono a una tragedia (o comunque a un trauma) che si ripresenta rigorosamente in forma di commedia. A essere amaro, in queste poesie, è infatti soprattutto il riso. Il quale non è mai stato così abbondante nelle opere precedenti di Magrelli, ma – contrariamente a quanto asserisce il noto proverbio – qui non “fa buon sangue”. Mai».

Sono oggetti violenti di mete ignote di cittadino, luce orfana di un movimento, come «un vento che soffia da dentro / per scuotere le foglie delle dita / e non si ferma più» e questo stormire di fronde porterà a una tramutazione «in betulla / o in un cipresso sul bordo del fiume, / con quel tremolare di luci / alzate dalla brezza. / mi farò soffio, mi farò soffiare, / panno lasciato al sole ad asciugare».

Il disfacimento disincantato del gesto poetico di Magrelli ha l’amarezza del riso e del sangue, l’esterno che penetra lo sporgersi verso l’abisso («Ecco perché vengo avanti piano piano, / come sull’orlo di un baratro. / Ecco perché mi protendo verso il vuoto / in fondo al quale posso a malapena intravederti»), il diario del tempo che squaderna le ferite e il disincanto escluso, come una smarrita enclave di parola silenziosa («Il vuoto del tuo corpo, / il suo silenzio, / dimostrano che il padrone non è in casa. / resta solo il cappello, posato sulla sedia / per occupare il posto dell’assente. / Quando leggi, vai via, e mi lasci solo») oppure il ritmo della vertigine dell’ansia che «è una domanda più totale, che include l’origine e la fine di ogni nostro «sistema fluviale», cioè di ogni nostra vita, che «nasce dal disgelo delle vette, dov’è il regno del cuore». Non solo una suggestiva immagine, in cui il nostro circuito cardiovascolare diventa una complessa rete fluviale vivente, ma il segno di una profonda richiesta di appartenenza», come scrive Bianca Garavelli su “Avvenire”.

L’estuario di Magrelli si attesta sul suo tempo elicoidale che vela il mondo e descrive la nascita, il suo affidamento, la sua parola segreta, come anello solstiziale: «Cinquanta volte giugno, / e sarei io, l’anello? / l’anello è lui, questo tempo elicoidale / che torna su se stesso / sempre uguale e uguale mai, / mio giugno, anello solstiziale / di sangue, di nozze di addio, / eterna vigilia di quella vacanza / che infine giungerà pura / nudissima luce definitiva, / mio sabato dell’anno, rompendo / finalmente l’anello sisifale».

È spesso il tempo dell’esclusione dal tempo («Riuscire a condividere quello spazio / da cui mi escludi, e che esiste soltanto / perché tu me ne escludi») a ridisegnare lo strappo sgualcito della separazione che genera nostalgia, che implora il corrimano del corpo, che invoca la bellezza dai regni interiori e «dei fondi incantanti del non-io».

Il suo calendario è un brusio che apre il ponte levatoio per varcare le stagioni e gemmare sugli affetti, promettere redenzione, toccando persino il rovinoso suburbano, come un occhio poetante «che intravede la vetta, la bellezza / come promessa di felicità», che soffre «il barbarico barbaglio» di luglio ma «resta il cielo a ricordarci un tempo / in cui la vita respirava piena. / Ma resta un cielo a ricordarci il tempo / in cui respirerà piena la vita».

I ritratti raccolti in questo testo si fondono e si raccolgono in un delta a distanza che mette a nudo, in cui personaggi come Carlo Betocchi, Leon Bloy, Pier Paolo Pasolini, Mircea Eliade, Gian Lorenzo Bernini, Ettore Petrolini, Totò rappresentano il sintagma fluviale di un ponte inesausto che si rivela, l’otobiografia che rumoreggia i passi della vita che attraversa «tutte le forme possibili di esperienza “fluviale”: un simil-Mekong italiano e Piazza Navona con la sua celeberrima fontana, l’autolavaggio e il gran Canyon, i ponti cittadini e la fonte Castalia che rende poeta colui che beve alla sorgente, la Neva ghiacciata e il rompersi di un tubo che porta alla luce il “sistema sanguigno” della casa» (Gabriele Pedullà).

I paesaggi laziali, l’immersione nella lettura con la donna amata irraggiungibile avvertono come una fragile impossibilità esclusa, il segno di un incontro e di una comunione mancata, uno stampo nell’ombra di se stessi: «Invisibile e invincibile / è lo stampo che porto dentro me, / stampo del mondo impresso a me nel mondo / e che mi fa essere al mondo / soltanto nella forma dello stampo. / Dov’è la libertà, se la malinconia / raccoglie le sue nuvole senza nessun perché? / sto qui e subisco il loro lento transito / solo aspettando / all’ombra di me stesso».

Spesso è il fuoco ad accompagnare il ritratto di queste danze amare, una città incendiata di un’ansietà che avvampa e non consuma, come una specie di falso fuoco che brucia e si lascia bruciare, in una sconfitta consustanziale, in un attimo sparuto.

Magrelli ci consegna una ferita esclusa ma non vinta, la precarietà prigioniera (««Non siamo a casa neanche a casa nostra, / anche la nostra casa è casa d’altri, / la casa di qualcuno arrivato da prima /  che adesso ci caccia. / Vengono a sciami / si riprendono casa, / la loro casa, / da cui ci scuotono via, / punendoci per la nostra presunzione: / essere stati tanto fiduciosi / da credere che il mondo si potesse abitare»»), le mattinate apocrife che gocciolano notte, il raspamento di qualcosa che si contrae per «ottenere che lentamente, esile, torni / il moribondo flusso di corrente / ed un nuovo splendore inondi i giorni. / Solo così rinasce quel potente / getto di sole che rimette in moto / ruota, ciclo, marea, nascita, photos».

Ma in quel punto raschiato, in quel segno di ferita rimane l’accorata preghiera clandestina, come una sorta domanda grande e spiata a Dio ultimo e reietto fra i reietti: «Dio delle baraccopoli, Gesù dei clandestini, / nato nella favela, ultimo fra i bambini, / creatura della notte, amato dai reietti, / scintilla nelle tenebre, abisso degli eletti. / Gesù di baraccopoli e Dio dei clandestini, / nell’ultima favela neonato fra i bambini, / amato dalla notte, creatura dei reietti, / abisso nelle tenebre, scintilla degli eletti. / Abisso e baraccopoli, scintilla e clandestini, / quanto amato in favela!, creatura dei bambini, / ultimo nella notte, neonato fra i reietti, / Gesù dentro le tenebre, Dio di tutti gli eletti».

978880621845GRA

Valerio Magrelli

Il sangue amaro       

Einaudi, pp. 149, 13 euro

 

 

Magrelli V., Il sangue amaro, Einaudi, Torino 2014  

 

Il limite terso di Mario Benedetti

di Andrea Galgano             9 aprile 2014

recensioni Il limite terso di Mario Benedetti

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L’ultima opera poetica di Mario Benedetti (1955), Tersa morte, edita da Mondadori, amplia e si appropria di una più chiara visuale memoriale.

La perdita, la mancanza, la morte della madre e del fratello, accresce non il congedo, ma la testimonianza di uno sdoppiamento, in cui l’esperienza estrema si raccoglie in una tessitura densa e netta che concede il senso profondo di una chiarificazione.

L’estremo possibile cerca la sua via dall’abisso, con l’aiuto di una parola scarna ed essenziale che vela e rivela il ritrovamento nascosto di un dolore che specchia la sua fragilità, il passo della luce, il silenzio franto.

Il ritorno alle cose care, già visto in Umana gloria (2004), laddove la rimemorazione dei luoghi e dei passaggi percepiscono la sintesi di stupefazione e nominazione, e in Pitture nere su carta (2008), in cui il gesto reliquiario sollecita paesaggi dilatati, attimi di quiete lenta e di sfarzo, terrore anomalo, sillabando lo stupore, qui racchiude una processione di tempo nel tempo, in una goccia minimale e singola.

La solitudine abbacinante inventa la sua testimonianza e, allo stesso tempo, la sua docile paralisi. Entrambe si affidano a un sosia che possa dettare, scrivere e raggiungere le infinite profondità: «Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero / prendermi i giorni, le settimane, i mesi, il tempo / portato addosso, il sosia a cui chiedo di aiutarmi. / Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco. / adesso è sua. Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi. / Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto. / Sollevare dei pesi, deporli. Lo sguardo s’incuriosisce nella forma / di una porta marcita dove abita una signora anziana da sola. / Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello / o gli scrive. Pensa al protrarsi della vita che mi sopravvive» (Transizione, maggio 2010).

L’ultimità di Benedetti è una perentoria realtà di sopravvivenza e referenza, in cui la parola percepisce il peso dell’ombra delle cose e in quella stilla di dolore estremo conferma il suo pianto miracoloso e vivo: «La porcellana insaporita della cena, / la casa nuova con i contributi della legge / dopo il terremoto. Tutta una vita / per chi vi deve ricordare, per chi vi piange. / E piange la parola che riesce a dire».

Scrive Alessandro Zaccuri: «In Tersa morte, invece, prevale la sdrucitura, il dramma, e così l’intonazione scivola verso la prosa, che in più di un’occasione prevale. Questa volta è la regola ad avere la meglio: il lutto per la morte del fratello sta all’origine della scrittura e intanto la ostacola, impedisce alla forma di articolarsi. Non è, per quanto mi riguarda, un limite. Ho una simpatia istintiva per i libri in cui qualcosa è, o appare, fuori posto. Il magma di Moby Dick, per esempio, ma anche gli esametri sospesi dell’Eneide o Dostoevskij, che lavora di furia alla prima parte dei Fratelli Karamazov, il capolavoro destinato a rimanere incompiuto. E la Bibbia stessa, dove il sublime prevale sul bello. «Dai del tu ai morti, stai al posto di te, anche», scrive Benedetti.  Non  è musica, questa. Non è stile. Ma è la lingua madre del dolore, e chi l’ha parlata – fosse pure per una sola volta – ne riconosce l’esattezza, ne condivide la pena».

In un bellissimo articolo su «Nuovi Argomenti», Giorgio Meledandri afferma che «[…] Mario Benedetti rappresenta un’altra morte e scrive un grandioso ed intenso epitaffio in memoria delle parole. Tutta l’opera non fa che rimarcare l’impotenza espressiva del soggetto, l’indicibilità delle cose, l’esaurimento del linguaggio. […] Solo dentro questa cornice, nell’eco delle parole che muoiono, l’autore può mostrare altre esperienze di lutto. Tenta quindi di recuperare le immagini, i fotogrammi di chi non c’è più: una vera e propria evocazione di luoghi e di date nel corso della quale l’io lirico si diffrange in una molteplicità di soggetti, si mescola con i morti, si sovrappone agli oggetti fino a scomparire».

La diffrazione, il mescolamento, la sovrapposizione e infine la scomparsa sono lande che attestano l’indicibile di impronunciabili scomparse, come «Tra il ferro arrugginito dei vagoni di treni dismessi / la discarica delle parole di poesie che respingono. / Sguardi brevi, arrovellamenti, alberi a caso, afasie».

Le vite pronunciano una stasi scissa che si compenetra nel linguaggio, si appropria nelle parentesi care di ogni vita che sono «interezze create continuamente / per un dopo che non ci sarà più o è già stato».

Tali interezze proclamano la loro tersa continuità, le parole che «sono nelle storie che mi hai fatto vedere», sollecitano una testimonianza di tensione e domanda, per «Stare nelle ore / per altre ore, nei giorni che ci saranno», rievocano l’oscillazione di un martirio testimoniato, «Come testimoniare i morti, / vivere come lo fossimo, / morire come siamo. Per la vita / è la scoperta / della morte e della vita», e, infine, riportano, come sostiene Tommaso di Dio «alla “carne” che siamo, carne mortale».

La nudità lucente della vita che si rivela, il dolore del limite, della carne che percepisce il vuoto bagliore della mancanza reale e vivente, svelano il tempio di una figura che ha generato vita, nella quotidiana altezza del gesto: «Cosa devo guardare per sentire che non è così vero, / e riuscire a spostarti nelle faccende di casa, / a risospingerti lungo le strade. E tra le righe / vicine dei capelli guardo i sentieri del sottobosco / ingiallito. E riesco a vedere i vicoli di Napoli, / gli anni trenta, i gatti, le gonne lunghe di una ragazza. / e tu mi dici: tu lo sai che è vero, tu resta forte e sereno, / quanti giorni hai davanti! Io sono morta di lunedì, / tu sei arrivato a guardarmi, ero una cosa vestita / con l’abito blu che mi avevi regalato e tutto il ricamo / del foulard. Così tanto elegante, così tanto bello».

Il gesto-dimora offre il suo palcoscenico di durezza e dettaglio luminoso: la madre, alla quale appartiene solo lo sproposito e la dismisura, il tempo infinito che sembra concretarsi in uno spasmo di apparizioni e le coltri dense di ricordi frammentati: «Devo tenerlo per mano, / non vedo nessuno tenere per mano i bambini. / Vicino alla manica lunga del braccio /  i suoi occhi liberi, e tante madri, / tanti cuccioli di cagne e mucche insieme ai vitelli / che dormono come bambini».

La morte diviene l’ampio gesto della vita che si spegne e si afferma, in un doppio movimento che appare e scompare, si eclissa nei vertici fenomenici di freddi senza riparo: « Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere /  la pura inconcepibile assenza, non distrarti». L’accortezza di non avere solo vent’anni è lo spazio vergine di una sopravvivenza decisa e assorta, che assolda doppi e sosia per comunicare uno spiraglio di consapevolezza e di voce non rabbiosa, ma accorata e descrittiva di una rarità spettrale che termina nell’ora assente: «È un’ora assente. Mi guardi. Si vive ancora, sì, si vive ancora. / Ma non c’è la mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia».

«Per tutto il libro, Benedetti fa oscillare le proprie immagini in un verso anfibio, debolissimo, raramente inarcato, sempre sul punto di sconfinare in ritmi ipermetri e ipometri, prosastici; fra di essi, a tratti appaiono figure ritmiche incalzanti, che presto però si sfaldano in soluzioni neutrali, sottotono. Il verso rispecchia una ricerca formale inquieta e liberata da schemi di illusionismo metodico. Tutto trema: come i contorni delle bottiglie nei quadri di Giorgio Morandi, ogni cosa è lì, ben visibile, impressa; ma in una forma che non sa stare se non oscillando, crepata da appena percepibili anacoluti. C’è in questi nuovi versi di Benedetti – e segnatamente nelle ultime sezioni – una sobrietà formale che rasenta l’impressione di negligenza; essa enuclea uno stile “a dispetto” di ogni possibile orpello retorico. È come se ci ricordasse continuamente quanto il senso dell’esperienza e il contenuto sopravanzino ogni possibile stilistica; tanto che risulta particolarmente impossibile qui – o quanto meno totalmente inutile – quello che mai dovrebbe accadere di fronte ad un opera letteraria: godere della forma senza aver aderito al messaggio espresso dal libro, senza averlo fatto proprio». (Tommaso di Dio).

Un viaggio nella pena della morte, non dell’annichilimento. Benedetti si sporge nell’abisso dell’assenza della sua «impietrata lava», «il tempo venuto addosso come suo dovere. / I lutti delle case, del vivo chiamarci a colazione a cena. / la panca di un giardino, i tuoi pianti nella macchina a ore, / i torrenti e le pozze dove nuotare. Cosa ti diceva / è bello stare qui?, umiliata, pestata nella macchina a ore», «nell’ora dell’azzurro cupo», nei fotogrammi dei «gualciti / accappatoi rivoltati dal vento ieri notte »raccoglie i cari per aggrapparsi alla vita e, nel vuoto del sangue, delle «parole in fila» che «mostrano la pioggia sulla strada e nei campi. / Gli occhi che guardano scriverle non ci saranno. La strada / ha gli alberi lontani, l’erba è alzata  respirare, a respirare / come uno di noi. È giusto che io non veda questo mai più».

tersamorte1MARIO BENEDETTI, Tersa morte

Mondadori, pp.86, euro 16 

Benedetti M., Tersa morte, Mondadori, Milano 2013.

Id., Pitture nere su carta, Mondadori, Milano 2008.

Id., Umana gloria, Mondadori, Milano 2004.