Cosa rimane di noi se non la passione, e come penseremo di sopravvivere quando questa passione romperà gli argini e si riverserà nel mondo circostante tramutandosi in sangue?
Chiedetelo ad Herman Marshall e forse otterrete risposta.
Marshall è il dissacrante antieroe letterario tratteggiato con rude grazia dalla straordinaria vena di un romanziere caduto nell’ oblio e riscoperto in Italia soltanto nel 2016.
Di Don Robertson ( 1929-1999), nativo di Cleveland, Ohio, autore di diciotto libri, Nutrimenti edizioni ha pubblicato cinque dei suoi romanzi.
In vita ha goduto per più di un decennio di un grande successo, al punto che uno dei suoi romanzi divenne nel 1997 un film per la televisione americana.
L’attività di scrittore gli valse il Putnam Award e il Cleveland Arts Prize for Literature.
Senza mai smettere di scrivere, si è allontanato progressivamente dall’ambiente letterario, anche a causa di gravi problemi di salute, fino a venirne dimenticato.
L’uomo autentico è ambientato nella torrida bava acida del Texas, dove il grande sogno americano è soltanto un fantastico epiteto, e la vita scorre su autostrade protese verso verità indicibili e pensieri logoranti che confluiscono all’unica arteria dell’individualità e del riscatto: il sangue.
Herman Marshall è un uomo veemente senza freni inibitori, figlio della grande depressione ed incarnazione del retaggio culturale violento americano.
Quest’uomo autentico e genuino è stato martoriato dalla vita, ha combattuto i tedeschi in guerra, ha visto morire quello che credeva sangue del suo sangue ed infine ha visto sua moglie spegnersi poco dopo una scioccante confessione su cui ruota il perno del romanzo.
“I treni tagliavano in due col loro suono la densità della notte, e le cicale si strofinavano le zampe e cantavano.
Il traffico sibilava sulla Gulf Freeway, e un auto passò rombando; la radio era accesa a tutto volume.
Lo skyline di Houston, che sembrava una collana di pietre preziose, incombeva sulle cime degli alberi, e Herman Marshall si disse: E’ tutto un mare di cose senza senso, che danno può fare se provo a cambiarle un po’? O parecchio a seconda di come si vuole vederla.”
Gli uomini che popolano l’uomo autentico sono vecchi ed incontinenti, come lo stesso Marshall, bevono birra Shiner e indossano cappelli sbiaditi mentre percorrono le fumose strade texane a bordo di utilitarie vecchie quanto loro.
Sangue, birra e urina sono i liquidi che lubrificano gli ingranaggi narrativi dell’opera e che ne scandiscono il ritmo.
L’uomo autentico è l’empito di un canto di dolore narrato con maestria ed ironico cinismo, nell’ultimo e lancinante tentativo di ridare dignità e senso alla propria vita attraverso un elogio alla follia.
Robertson ripercorre la vita di un uomo scevro di ogni qualità, attraverso una prosa elegante in cui allo stesso tempo coesistono volgarità e sentimentalismi, e che porterà il lettore ad uscire fuori dalle solari certezze della vita.
In fondo Herman Marshall è un bravo ragazzo di Hope, Arkansas.
Nell’articolo scritto da Harvey Shapiro sul New York Times, il 22 ottobre 2004, pochi giorni dopo la morte del grande poeta statunitense, Anthony Hecht (nato a New York nel 1923, da genitori ebrei tedeschi e vissuto da docente universitario a Washington fino al 2004), la cui compiutezza formalista lega l’indocile raffinatezza e soavità al trauma, alla preghiera, al bruciore della cronaca, si fa riferimento a un’intervista del poeta, dopo aver ricevuto nel 1997, il Tanning Prize (uno dei suoi innumerevoli premi, assieme il al Bollingen Prize, al Ruth Lilly Prize, al Librex-Guggenheim Eugenio Montale Award e al Wallace Stevens Award, nonché primo vincitore del Prix de Rome, dall’American Accademy a Roma), in cui egli afferma: «Formalista, ironico Oh sì: c’è una certa quantità di oscurità in molte mie poesie, a volte si tratta di aspetti terribili dell’esistenza[1]».
Gli aspetti terribili (e ultimi) dell’esistenza, dunque, si rintracciano nella prima antologia italiana di Hecht, Le ore dure[2] (The Hard Hours, premio Pulitzer, 1967), edita da Donzelli, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, con l’introduzione di Joseph Harrison, toccando ciò che J.D. McClatchy ha chiamato «arte responsabile che risponde alla storia, alle sue tragedie politiche e domestiche e ai suoi problemi persistenti […] e la sua stessa abilità, che plasma il suo materiale, proietta in una luce ancora più forte e patetica l’isolamento e l’impotenza della condizione umana, che divengono l’oggetto della sua poesia[3]».
Soldato durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo aver completato l’ultimo anno di studi al Bard College di New York, in cui maturò la passione per la poesia attraverso la lettura di Stevens, Auden, Eliot e Dylan Thomas, partecipò alla liberazione del Campo di concentramento Flossenbürg, con il compito di interrogare i prigionieri francesi[4]. Le scene durissime del campo (vide, ad esempio, un gruppo di madri tedesche e bambini piccoli falciati dalle mitragliatrici americane mentre cercavano di arrendersi), i racconti dei prigionieri che destarono incubi per anni fecero «slittare dentro di lui una faglia della coscienza», aprendo
«a una tormentosa doppiezza della vista, che si dispose ad accogliere il perenne sospetto di una verità a più dimensioni. Ne venne probabilmente quella tipica contiguità col disastro, quella porosità del reale e presenza nascosta dell’inquietante che percorre tutta l’opera di Hecht, capace di esprimere il fondo brutale che spunta dietro le apparenze, come di un numero elevato a potenza che inglobi la propria radice quadrata».[5]
Dopo la guerra, grazie alla legge G.I. Bill, studiò al Kenyon College con John Crowe Ransom, entrando in contatto con Lowell, Randall Jarrell, Elizabeth Bishop e Allen Tate. Joseph Harrison, infatti, scrive:
«Anthony Hecht è stato uno degli esponenti più autorevoli della straordinaria generazione di poeti statunitensi nati negli anni venti del secolo scorso. Questa generazione è cresciuta e maturata in un’epoca difficilissima: bambini e adolescenti durante la Grande depressione e giovani durante la seconda guerra mondiale – nella quale molti di loro sono stati chiamati alle armi vivendo e testimoniando, ancora negli anni formativi, la povertà estrema e, in alcuni casi, atrocità impensabili. Questi giovani sono maturati in fretta: sono stati costretti a maturare. […] Anche nella folta schiera dei suoi talentuosi contemporanei, Anthony Hecht si è sempre distinto per diverse ragioni. […]Ha sempre avuto, fin dall’inizio, un orecchio sopraffino perle sfumature musicali del verso inglese; persino le sue primissime poesie dimostrano una spontanea padronanza delle complessità del metro e della rima, e pochi poeti americani lo hanno eguagliato nella costruzione di intricate forme strofiche. Godeva anche di una qualità complementare ma parimenti rara: l’occhio preciso del pittore sul mondo che lo circonda, così che nelle sue poesie – sia quelle brevi che le più lunghe – spesso sono incastonati passaggi descrittivi di un’accuratezza mimetica strabiliante. Il suo vocabolario era immenso, e lo spettro della sua dizione molto ampio: anche un lettore esperto ed erudito dovrà ricorrere al dizionario quando legge Hecht, ma insieme ai termini di derivazione latina e a quelli iper specifici del linguaggio tecnico si trovano, impiegati in modo impeccabile, le frasi e le inflessioni del discorso quotidiano. Era anche naturalmente portato all’uso di strutture sintattiche elaborate, quasi labirintiche, ma sapeva scrivere semplici periodi dichiarativi di grande forza retorica. Possedeva, in abbondanza, quella che Aristotele identifica come la più importante qualità che un poeta possa avere (perché, diversamente dalla dizione o dall’abilità metrica, non può essere imparata, essendo dipendente da doti innate): il potere di creare metafore, di scoprire somiglianze in oggetti dissimili».[6]
Ma se di materia inquietante, ossia immersa nella inquietudine e nella ultimità, si tratta, la sua flessibilità si sposa con il rigore e la dizione erudita, con la vis tragica, con la oscurata limpidità che sfiora il destino, immergendovi la memoria, il limite, la morte e la cronaca della disumanità. Ma è anche il poeta della visione della luce e della sua discissione che è materia immaginativa, integrità chiara e intensa concentrazione prospettica. La poesia iniziale, Una collina, si apre con un riferimento all’Italia e a Dante. Attraverso lo sguardo e il lacerto mnesico, Hecht compie un à rebours oscuro e negativo che mette in luce l’incisione del dettaglio nella scena, la sua perturbazione e la sua rivelazione:
In Italia, dove cose così sanno accadere, / una volta ho avuto una visione – ma, capirete, / in nulla come quelle di Dante, o dei santi, / forse per niente una visione. Con amici / procedevo adagio in una piazza calda di sole, / di primo mattino. Una radiosa tarsia d’ombre dagli ombrelloni si spargeva sul selciato, faceva / lucenti bassifondi dove una flottiglia / di carri era ormeggiata. Libri, monete, mappe / antiche, paesaggi da due soldi, orribili stampe / religiose erano in vendita. I colori, i rumori, / come le mani in volo, erano gesti di giubilo, / così che anche le contrattazioni / giungevano all’orecchio come volubile religiosità. / Poi, quando accadde, i rumori caddero improvvisi, / si fece scuro; svanirono carretti e gente / e perfino l’imponente Palazzo Farnese / era scomparso, con tutti i suoi marmi; al suo posto / una collina color topo e brulla. Faceva assai freddo, / quasi gelava, e prometteva neve. / Gli alberi erano ferrivecchi affastellati / contro un muro d’officina. Niente vento, / e il solo suono per un po’ fu lo scrocchiare fino / del ghiaccio rotto nel fango dal mio passo. / Vidi una striscia di tela impigliata a una siepe, / non altro segno di vita. E poi udii / come lo schiocco di una schioppettata. Un cacciatore, / pensai; almeno non sono solo. Ma subito / seguì il soffice schianto cartaceo / di un grosso ramo che crollava a terra non visto. / Fu tutto, se non per il gelo e il silenzio / che promettevano di durare in eterno, come la collina. / Poi riaffiorarono i prezzi, le dita, venni restituito / al sole e agli amici. Ma per più d’una settimana / restai sconvolto dalla nuda asprezza di ciò che avevo visto. / Accadde circa dieci anni fa, / e da allora non mi ha più turbato, ma infine, oggi, / ho ricordato quella collina; sorge appena a sinistra / della strada a nord di Poughkeepsie; da ragazzo / vi trascorsi ore e ore lì davanti, d’inverno».
Joseph Harrison commenta:
«La poesia ruota attorno al contrasto tra la scena iniziale posta in Campo de’Fiori, pieno di colori e rumori, e la «visione» che la interrompe – che ci capirà poi essere un ricordo profondo dell’infanzia – con una scena desolata di una collina «color topo e brulla», a «nord di Poughkeepsie», una località nello stato di New York. Si tratta della più non-visionaria visione che si possa immaginare, e che esplicita l’assunto grazie al quale Hecht capovolge ironicamente il concetto di ciò che è «poetico»: dove ci si aspetterebbe trascendenza si trova l’opposto, la consapevolezza dell’ineluttabile desolazione e tenebrosità che si trova al cuore di ogni cosa».[7]
Il senso di gravitas, già apparso in nuce nelle sagome radunate e artificiose di A Summoning of Stones (Un raduno di pietre) nel 1954, qui raggiunge l’acme del dilemma, specie nella lotta tra memoria volontaria e involontaria, nell’agone indefinito tra la noia e la vita improvvisa ed ebbra. Come accade in Guardate i gigli del campo, in cui un paziente in analisi rivive, con gli occhi di un soldato romano, obbligato a guardare, il terribile supplizio dell’imperatore Valeriano, morto in prigione persiana. A tal proposito, Roberto Galaverni scrive:
«Hecht è un poeta della storia (personale) e della Storia (pubblica e civile), che anzi sono impensabili l’una senza l’altra. Ed è pertanto un poeta del retaggio, delle scelte, della responsabilità. Eppure una sua virtù va senz’altro riconosciuta nel far nascere le situazioni da dentro, dagli abissi della psiche e dell’animo umano, dalle scissure che non sono mai del tutto sotto il nostro controllo, da quella parte di noi che non vorremmo essere e da cui pure non riusciamo a liberarci. Di qui l’inquietudine, il turbamento profondo, a volte persino il malessere, che spesso accompagnano la lettura. Si avverte ogni volta la presenza di un rovello oscuro, di un non detto terribile che condiziona il presente e che presto infallibilmente esploderà. Di qui anche la necessità che il poeta avverte di spiegare, di riflettere, di riportare a ragione, di far scaturire dalla rappresentazione un giudizio morale, almeno implicitamente».[8]
Riti e cerimonie, affronta il dolore dell’indicibile esperienza dell’Olocausto (come accadrà anche in altri testi finali della raccolta, dove la furia della morte prosciugherà l’anima nelle ore che diventano anni: «Non una preghiera, non incenso, s’alzò in quelle ore che divennero anni; e venivano ogni sera muti spettri dai forni, filtrando nell’aria frizzante, posandosi sui suoi occhi come fuliggine nera»), iniziando con un’invocazione che mescola le allusioni al Libro di Giobbe, ai Salmi, alla prima strofa del poema catastrofico e abissale di Gerard Manley Hopkins Il naufragio del Deutschland.
Il dramma di Hecht non si svolge soltanto nella cronaca, bensì nelle fenditure oscure delle sovrapposizioni, nel dramma della sopravvivenza, nelle frastagliate possibilità della lingua, in ciò che può essere salvato e sopravvivente[9]. È la caratteristica ontogenetica della sua poesia che ricrea il mondo, raschiando il proprio spazio e le relazioni ferite con l’alterità inaudita, che si lega alla preghiera umana ed elementare di un mondo in apprensione[10]. La religione non mitiga il dolore nella distanza delle stanze senza finestre, nelle lettere innominate del blu insepolto e del sangue sussurrato. Resta un tentativo duttile e ombroso di recuperare l’umanesimo intonso e perduto che tenta di elevarsi in una pace quasi tracimata:
«Padre, Adonoi, autore di ogni cosa, / dei tre stati, / della luce soffusa dell’alba sulla stalla, / vento che canta / nel felceto, fuoco sul ferro delle grate, / del corno dell’ariete, / arredatore, perno del paradiso, che hai legato / le amabili Pleiadi, / penetrato i perfetti tesori della neve, / che il corso hai disegnato / tondo del mondo, nascita, morte e malattia, / e che le vene / hai sviluppato, cervello, ossa in me, per cantare e respirare / l’aria hai modellato, / Signore che, governando nube e fonte, / o mio Re, / me che vivo fino a questo 43° anno hai preservato – / in cui noi dubitiamo – / chi era il bimbo di cui narrano / nelle laudi e trenodie? / il cui santo nome tutti pronunceranno / Emmanuel, / che interpretato significa «Gott mit uns»?».
Nel 1977 Hecht pubblicò Millions of Strange Shadows (Milioni di ombre arcane), in cui la pienezza e la ricchezza immaginativa esplorano il trauma in parallelo della coscienza «nell’aggressiva luce del sole» e nell’aria rarefatta, come accade in Verde: un’epistola, in cui «l’interno di una notevole metafora protratta, le crescenti afflizioni di una coscienza in via di maturazione – «risentimento, malizia, odio» – vengono viste in corrispondenza alla maturazione botanica del pianeta, in modo tale che l’ontogenesi ricapitola la filologia nel modo più inquietante[11]».
Come il ricordo della governante teutonica con un «gusto particolare per il dolore inflitto» assurge a trauma e dramma universale di vacuità cinerea, di buio della coscienza, di riverberazioni che nascono da un particolare e penetrano nei sussurri interiori: «Quando Fräulein scomparve, non ricordo / esattamente. Continuammo a incontrarci / grazie ad appuntamenti segreti nei miei sogni / in cui, per stadi, la nostra relazione / crebbe a proporzioni internazionali / mentre i ghetti dell’Europa si svuotavano, i carri bestiame / viaggiavano verso spazi terminali e osceni, / e forni avvampavano come nelle acciaierie di Pittsburgh». O il sipario del sogno interrotto dello spettatore a teatro, le divinazioni di innocenza, l’inintelligibile preghiera di Santo Stefano.
Vi è, dunque, in Hecht, un elemento che perturba la scena, la dilata negli spazi mentali e memoriali, fa emergere un rimosso perduto e infine, riporta il tempo a una dimensione presente, quasi raddoppiata ed esiliata, allucinatoria ed indefinita, catatonica e vitale.
I pentametri giambici di The Venetian Vespers (1979) recano l’acume dell’immaginazione portata al trionfo: L’uva, confessione di una cameriera di un hotel, che nella valle dell’ombra è pervasa dall’epifania negativa delle illusioni e della sorte davanti all’uva («E tutte quelle piccole borse di vitrea trasparenza, / quei grappoli di pianeti, porgevano la guancia orientale / alla luce del sole, ciascuna con un morbido / gonfiore meridiano dove la luce più sottile / misteriosamente scemava nell’ombra»), l’atroce enigma de L’offerta espiatoria che segue le linee di Renoir, la drammatica staticità della natura morta, narrata nei cambi di colore e nella immota permanenza dell’universo. E poi le persistenze, le maledizioni si immergono nell’anima dei vespri veneziani, in cui l’armonia friabile di questa città raffigura lo strappo di un limbo, il rifugio del tempo presente e l’anima imbevuta. La chiarità magnificente unita all’epifania chiaroscurale del tempo, in un’unica deriva di colori:
«Sullo sfondo di un diorama del celeste più tenue / cagli di nuvole, cumuli di nuvole, cespugli di nuvole s’assolano. / Enormi torte nuziali, meringhe impossibili, / soffici barriere coralline e tumuli friabili / passano in anguste processioni e calme greggi. / Immensi stadi, tribune e anfiteatri, / sembrano le opulente lettighe ornate di nappe / degli dei; o fasce da neonato lavate, parrucche bien coiffées, / raccolti bianco-latte, peonie cinesi / che virilmente rimproverano la nostra grettezza. / Nonostante tutte le loro presenze spettrali, esse / di sera assumono una nobiltà multicolore. / Verso est il cielo comincia a volgere / a un lilla così esangue da sembrare un umore del grigio, / per gradi, come quietamente i giusti spirano. / Strie di argentana bordano sfarzose / le lente chiglie a fondo piatto, quei lobi ondeggianti / tra i quali piume e fasci di luce sventagliano / rossi e arancio-pesca sfumati in cornalina, / che approssimano al centro un fulgore cedrino, / la fornace ardente nella gola del forno / che infuoca e fonde nuvole di moscatello / con pennellate d’oro».
In The Transparent Man (L’uomo trasparente, 1990), il particolare ampio e minimo si lega alla impenetrabilità, al segno unitivo, allo sguardo pervasivo dell’oltre, fatto di stendardi di luce che si dispiegano e si avvolgono, dove, come in Vedi Napoli e poi muori, ciò che accade porta con sé la sua maestà precaria, racchiusa in un fatto quotidiano, o dove ciò che è idillico scurisce nella metamorfosi:
«Quasi riluttante d’esser giorno / il mattino sciorina un repertorio / di rarità ferrigne, / e l’inverno indossa l’armatura, / trionfante su legioni di rosso e oro. / Le pietre dalle anime fumose, / pennellate opache di piombo, / riducono il mondo a un monotono pallore / di clima cimiteriale, vapori di acquitrini / che ci sentiamo penetrare nei pori. / Se non per gli spazzini, / i nostri figli sono i primi a uscire fuori. / Carichi di libri e imbacuccati, da bocca e naso / fantasmi vengono evocati: / di George Washington e di Poe, di Banquo / miriadi di soldati, dell’Unione e Confederati. / E loro stessi sono i fantasmi, grigio-casellario, / di noi defunti in un’altra era, / che rinunciamo per iscritto alle nostre vite / sulle felci e i prezzemolo gelati del finestrino di una corriera» (Curriculum Vitae).
Nella lunga sequenza di Flight Among the Tombs (Volo tra le tombe, 1996), la luna sequenza in cui la Morte parla in prima persona o prende le sembianze dell’alterità. Il gesto poetico di Hecht qui compie una lunga parabola ironica, sinistra e acrobatica, in cui il vertice del sublime diviene timore e tremore di sillabe, lamento creatore, carne tremula e tempo finito.
La sintassi sinuosa di Hecht è frutto di un infinito corpo a corpo con le sfumature idiomatiche, l’intensità visionaria e l’elegia. In The Darkness and the Light (La tenebra e la luce, 2001), ultima raccolta del poeta, la sequenza feroce della malinconia, dell’ode, del monologo e della traduzione, vibrati attraverso il selvaggio sipario delle rime, la pantomima barocca dei paesaggi e degli scrigni, molti dei quali inseguono trame bibliche, rilasciando una stoffa di eclissi e mancanze («[…] la luce che rischiara / è l’eclissi di loro stessi: / sale mentre vengono a mancare»), suoni limpidi e sfarzi nell’ira in cui il sole imporpora il mondo o i lapislazzuli triturati del cielo inventano Eden perduti, indorati agli orli e remoti agli angoli. E dove la tenebra e la luce si fronteggiano in un’unica salmodia (soprattutto nel riferimento al salmo 139) finale e sospesa[12]:
«Incisi sul vetro i barbari cardi del gelo / si espandevano ubiqui nella docile luce invernale / con pavè di diamanti ed esili aghi di ghiaccio / da cui un fascio luminoso del tardo pomeriggio / filtrava nella stanza per far risaltare la deriva, / il fluttuare del pulviscolo come minuscole vite acquee, / poi riverberava sulla teiera d’argento, suscitando / chiazze d’oro che strisciavano come lumache sul soffitto / e finalmente s’immergeva nel secchio della risciacquatura / dove altre vite acquee, ugualmente lente, / ruotavano sulle loro tristi, involontarie rotte, vortici / nella broda verde-anguilla. Chi avrebbe mai pensato / a un qualsiasi altrove? Perfino al di fuori, dove / cataste di legna brillavano in panneggi di brina / e accecavano il sole stesso con quel furto esultante, / il levigato bottino gelido di fuoco celestiale?».
[1] Shapiro H., Anthony Hecht, a Formalist Poet, Dies at 81, in “The New York Times”, October 22, 2004.
[2] Hecht A., Le ore dure, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, introduzione di Joseph Harrison, Donzelli, Roma 2018.
[3] Cfr. ID., Selected Poems, edited by J.D. McClatchy, Alfred A.Knopf, New York 2011.
[4] Cfr. Anthony Hecht in Conversation with Philip Hoy, Btl, London 1999.
[5] Febbraro P., Lo “stravedere” del colorista, in “Il Sole 24ore”, 9 settembre 2018.
[6] Harrison J., «Una policroma nobiltà serale»: la traiettoria poetica di Anthony Hecht, in Hecht A., Le ore dure, cit., pp.11-13.
[8] Galaverni R., Racconta la tua storia, sembra la storia, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 12 agosto 2018.
[9] Cfr. Sinclair P.M., Trauma and Prayer in Anthony Hecht’s The Hard Hours, (https://www.academia.edu/5192733/Trauma_and_Prayer_in_Anthony_Hechts_The_Hard_Hours).
[10] Alter R., “Psalms.” The Literary Guide to the Bible, editors Robert Alter and Frank Kermode, Harvard University Press, Cambridge 1990.
[12] Harp J., On Hecht’s Darkness and light, (https://www.kenyonreview.org/2007/11/on-hechts-darkness-and-light/), november 22, 2007.
Hecht A., Le ore dure, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, introduzione di Joseph Harrison,Donzelli, Roma 2018, pp. 208, Euro 17.
Hecht A., Le ore dure, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, introduzione di Joseph Harrison, Donzelli, Roma 2018.
Anthony Hecht in Conversation with Philip Hoy, Btl, London 1999.
Selected Poems, edited by J.D. McClatchy, Alfred A.Knopf, New York 2011.
Alter R., “Psalms.” The Literary Guide to the Bible, editors Robert Alter and Frank Kermode, Harvard University Press, Cambridge 1990.
Febbraro P., Lo “stravedere” del colorista, in “Il Sole 24ore”, 9 settembre 2018.
Galaverni R., Racconta la tua storia, sembra la storia, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 12 agosto 2018.
Shapiro H., Anthony Hecht, a Formalist Poet, Dies at 81, in “The New York Times”, October 22, 2004.
Sinclair P.M., Trauma and Prayer in Anthony Hecht’s The Hard Hours, (https://www.academia.edu/5192733/Trauma_and_Prayer_in_Anthony_Hechts_The_Hard_Hours).
Il libro Frontiera di pagine II (Aracne editrice-2017) è un contributo critico di due autori e docenti della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm del Polo Psicodinamiche di Prato, Irene Battaglini e Andrea Galgano. Il volume raccoglie gli articoli, le recensioni e i saggi scritti dai due autori tra il 2013 e il 2016.
Una raccolta di saggi critici di psicologia dell’arte, poesia e letteratura che fa seguito al primo volume pubblicato nel 2013.
Il Testo si suddivide in cinque sezioni.
Le prime due sezioni, strettamente collegate all’arte figurativa, sono curate dalla Professoressa Irene Battaglini.
La prima sezione “L’IMMAGINALE” raccoglie tributi critici ai maestri della pittura in un viaggio di colori attentamente analizzati per lo più da Irene Battaglini ( e in minima parte da Andrea Galgano) con la lente dell’analisi psicoanalitica. Si alternano i miti della pittura come Rembrandt, Picasso, Paul Klee, Boldini, Magritte, con saggi strettamente psicoanalitici che offrono uno sguardo non comune a problematiche contemporanee come lo stalking .
La seconda sezione IL NARCISISMO NELL’ARTE CONTEMPORANEA affronta invece il rapporto tra il mito di Narciso e la pittura. Vi troviamo Andy Warhol, Francis Bacon, Lucio Fontana e altri pittori contemporanei.
Come sostiene l’autrice nell’articolo introduttivo “ Il mito di narciso e il conflitto estetico”( Pag. 163)
la psicoanalisi e tutta la psicologia moderna, senza dimenticare il contributo della sociologia e dell’antropologia, mettono a disposizione teorie e opere interamente spese a favore di una indagine il più possibile ampia e accurata del mitologema celebrato da Ovidio nella “Metamorfosi”.
L’approccio scientifico – psicoanalitico diventa quindi fondamentale per approfondire e comprendere meglio autori che hanno profondamente influenzato l’arte pittorica moderna.
Infatti, in un passaggio efficace, Irene Battaglini sostiene che
Narciso possiede l’immagine di sé come unica via della conoscenza. Egli spicca la melagrana infetta di un doloroso desiderio non di amore, ma di una gnosi della morte e della vita: dell’estremo sacrificio di sé. Guardarsi da fuori, come fosse estraneo a se stesso, o vivere nella limitazione dell’amore che è conoscenza dell’altro come condizione di conoscenza di sé attraverso l’altro? Fa ammenda della possibilità di raffigurare con religiosa aderenza al Vero, al Dio, al Mondo e all’Uomo per restare nel gioco di rimandi della rappresentazione illusoria che è, in definitiva, la sua unica “visione”: il suo orizzonte multiplo, che si moltiplica ad ogni gesto, ad ogni battito di ciglia. E il suo dolore sta nel doversi rapportare a questo orizzonte nel tentativo di scalfirlo e guardarvi dentro come uno scenario di forze anatomiche nel tentativo estremo di restituire sulla tela il mistero che sta dentro la realtà (Bacon); placarne la silenziosa inutilità resa dagli oggetti sviliti del quotidiano e celebrati nella loro immortalità (Warhol), ferire il campo proiettivo come una tela tesa e chiusa (Fontana), combattere contro quella figura che è simulacro e immagine di sé agitandone e sfocandone i contorni come un allievo privo di maestro (Twombly), ma non mai sfiorando la veste degli dei e di una qualche verità esperienziale, oltrepassando la logica della percezione e della sensazione, in un gioco di forze che stanca, che invita al “senza titolo”.
Le sezioni successive sono curate dal Professor Andrea Galgano.
La sensazione che si prova nel leggerle è molto simile a quanto riportato dall’autore in un passaggio del libro
D. Thoreau scrisse che Walt Whitman (1819-1892) «con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni »(pag. 587).
Andrea Galgano oltre ad essere un eccellente critico letterario è anche un poeta (molto apprezzata la sua silloge Downtown, pubblicata da Aracne editore nel 2015, impreziosita dalle tavole pittoriche di Irene Battaglini). Di conseguenza questo libro è anche una ricerca di se stesso da parte dell’autore, attraverso punti di riferimento letterari che sicuramente hanno influenzato il suo modo di scrivere e di concepire la letteratura. Non è solo una attenta analisi degli scrittori proposti ma uno slancio pieno di passione. Che colpisce il lettore invitandolo a leggere gli autori meno conosciuti e ad approfondire quelli più noti. Sono mattoni, appunto, lanciati da ogni lato che colpiscono la nostra immaginazione e il nostro intelletto.
Per comprendere quanto sia compartecipata l’analisi critica di Andrea Galgano, a titolo esemplificativo, si potrebbe leggere il passaggio tratto da “John Keats. L’ultimo canto dell’Usignolo“ ( Pag. 695):
“L’assedio delle immagini di Keats compie l’entusiasmo del suo miracolo di incanti verbali, di giochi di fantasia espressiva e di placide invocazioni alle divinità, alle quali porge il suo desiderio e i suoi simboli, e le esperienze diventano intimità fisiche e gesti creati dal tempo sensibile: gli steli affusolati sollevano i diademi delle stelle, tra le ombre inclinate nelle lontananze di cristallo e i sentieri interminabili dei boschi, il «suono senza suono» che scivola tra le foglie, le campanule e le calendule, le rugiade e i ruscelli, la gloria delle fonti e la carne della frescura del destino che enumera ogni infinità cosmica (Ero in piedi, sulla vetta sottile d’un colle)”.
Come si vede il taglio degli articoli, tutt’altro che professorale, è una analisi attenta di ogni autore attraverso la lente dello studioso che non vuole solo spiegare ma anche capire e che guida il lettore in questo percorso di conoscenza.
Le sezioni curate da Galgano partono dalla ”PARTE III, IL FUOCO DELLA CONTEMPORANEITÀ”
E già qui troviamo un mosaico di autori che chiunque ami la poesia non può non conoscere e non amare.
Si inizia con Clemente Rebora e la sua poetica espressionista; si procede con Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano dell’epoca Latina legata alle corti imperiali del IV secolo; si va avanti con salti temporali (che potrebbero creare sconcerto ma che in realtà fanno sì che il lettore non si annoi come se fosse di fronte ad una antologia scolastica), per approdare a Vittorio Sereni con il suo ermetismo sui generis; poi Giovanni Giudici, Roberto Mussapi, Dario Bellezza, Franco Fortini, Giancarlo Pontiggia, Umberto Piersanti, Giorgio Orelli, Italo Svevo, per concludere con un omaggio a Mango, il cantautore recentemente scomparso.
Il tutto per dimostrare che la letteratura è un flusso continuo che attraversa la poesia, la prosa e la canzone senza spazio temporale o di genere
Ogni autore è attentamente analizzato con rimandi a note esplicative di altri critici letterari, a estratti poetici o letterari degli autori stessi, ai rapporti epistolari , a intuizioni dello stesso autore. Il risultato è un profilo completo di ogni scrittore. E proprio perché tale profilo risulta così ben espresso spinge il lettore alla curiosità di approfondire ulteriormente le opere degli scrittori e dei poeti citati.
La parte IV, “CONTINENTI”, è indubbiamente quella più ponderosa. Uno splendido viaggio tra Europa ( comprendendo in essa anche la Russia), America Latina e , soprattutto, Nord America.
Un viaggio che non è solo culturale, ma che dimostra come la letteratura sia interconnessa pur nelle differenze. Splendido il triangolo che si viene a formare tra Anne Sexton, Sylvia Plath e Ted Hughes incrociando i testi di Andrea Galgano relativi ad ogni autore.
Illuminanti le differenze che si colgono tra gli autori Europei strettamente legati alla loro plurimillenaria storia e quelli Americani votati al futuro. E’ esemplare un verso di Billy Collins (classe 1941) che sfacciatamente si pone in rottura con la poesia europea : “Qui non ci sono abbazie né affreschi che si sbriciolano o cupole / famose, e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione di re”.
Quasi tutti gli autori, forse non è un caso, vivono in periodi storici di confine. A partire da Alexander Blok (1880-1921) che vive sulla propria pelle il trapasso dal regime zarista a quello della rivoluzione d’Ottobre, o quello di John Steinbeck (1902-1968) e William Faulkner (1897-1962) che subiscono e descrivono la spaventosa crisi del ’29; Miguel Hernández (1910-1942), combattente antifranchista e vittima del regime; o gli autori dell’esilio come il poeta Hans Sahl (1902-1993) costretto a vagabondare tra Praga, Zurigo, Parigi e New York a causa delle persecuzioni della Germania Nazista; la poetessa Hilde Domin (1909-2006), pseudonimo di Hilde Löwenstein, poetessa ebrea rifugiatasi, sempre durante il periodo nazista, nella repubblica Domenicana ( da qui lo pseudonimo); o i poeti “viaggiatori”, come il premio nobel Octavio Paz.
Come se Andrea Galgano volesse sostenere implicitamente che l’arte, quella che fa la storia, deve nascere dalla rottura, dal tormento non solo interiore ma anche del corso degli eventi. E che la frontiera non ferma la parola, così come non la ferma la repressione.
L’ultima sezione (“PARTE V:SOSTE”) rappresenta un momento di riposo. Dopo il sudore della ricerca, finalmente Andrea Galgano può sedersi in poltrona e rilassarsi. Gli articoli che fanno parte di questa sezione conclusiva sono meno perfusi di rimandi bibliografici. Rinviano ad una lettura di puro piacere.
Così troviamo il poeta e critico letterario Davide Rondoni; la recensione del romanzo The touch di Randall Wallace (già sceneggiatore di Braveheart (1995) e Pearl Harbor (2001) oltre che regista della La maschera di Ferro con Leonardo Di Caprio e We were Soldiers con Mel Gibson); l’articolo sul libro Poesie 1986-2014 del poeta “metropolitano” Umberto Fiori, edito da Mondadori; una attenta analisi della silloge Il posto (Mondadori 2014) della poetessa e Premio Pulitzer Jorie Graham; l’articolo su Leif Enger ( romanziere del Minesota , classe 1961), all’interno del quale troviamo riportata una splendida intervista rilasciata ad Andrea Monda su “L’Osservatore Romano” che tratta dello “scrivere” e di cui si consiglia caldamente la lettura; la recensione al libro Tersa morte del poeta Mario Benedetti, edita da Mondadori, tutta incentrata sulla memoria; la nota critica alla raccolta poetica di Valerio Magrelli “Il sangue amaro”, al cui interno troviamo richiami della grande poetessa contemporanea Maria Grazia Calandrone e del giornalista del “sole 24 ore “ Gabriele Pedullà che, assieme al contributo dell’autore, aiutano a comprendere a pieno la silloge.
Pregevolissimo l’omaggio al critico letterario e poeta Giuseppe Panella, peraltro spesso utilizzato da Galgano a supporto di molti suoi scritti critici; e poi gli articoli sui poeti Thomas Merton e Michel Houellebecq che meritano una lettura attenta in quanto “poeti del silenzio”. E cosa si intenda per “poeti del silenzio” trova in questo testo una spiegazione mirabile.
Verso la fine di questo lungo viaggio letterario troviamo un articolo su Francesca Serragnoli e il suo ultimo libro Aprile di là edito da Lietocolle. Questo testo, come si comprende fin dall’inizio, è una vera e propria dichiarazione di amore letterario:
La nuova silloge di Francesca Serragnoli (1972), tra le più importanti poetesse italiane, Aprile di là, edita da Lietocolle, nella preziosa collana curata da Gian Mario Villalta , apre la conoscenza del tempo in una accensione vitale e scoperta. È incontro,tessuto, vita che scorre, dolore che apre le vene, grazia che incombe, terrena partecipazione alla realtà ma anche librata trascendenza di forma.
Il ponderoso lavoro di Andrea Galgano si conclude con l’articolo sul libro di poesie “Sinopie smarrite” di Diego Baldassarre edito da Lietocolle ( pag. 867). Ringrazio infinitamente l’autore di avermi posto come sua ultima sosta. L’attenta analisi del libro è per me motivo di grande orgoglio.
A conclusione di questa breve nota, che mi auguro serva comunque da invito a leggere un così importante lavoro critico, vorrei riportare un passaggio citato nell’articolo relativo a Leif Enger ( Pag. 805) affinché possa essere di augurio per un nuovo lavoro: «è strano, quando raggiungi la tua meta: pensavi di arrivare lì, fare quello che ti proponevi e andare via soddisfatto. Invece, quando ci sei, ti accorgi che c’è ancora altra strada da fare».
Non una parola s’è mai dissolta in gloria, non una.
Continuiamo a mandarle in alto, comunque,
così come il sole piove giù.
Charles Wright
La antologia di Charles Wright (1935), Poeta laureato e unanimemente considerato uno dei più grandi poeti americani, Italia, edita da Donzelli, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, non è un intervallo solo rammemorativo. Non vi è decorazione o celebrazione inusitate, bensì piuttosto il richiamo a una profonda passione epica, all’incisione salutare della fisicità dei luoghi, alla loro umbratile consistenza che diviene intreccio che rivela ciò che è nascosto, attraverso il legame incarnato e la profondità contemplativa.
È un’attitudine meditativa e spirituale a raccordare la vertigine e la struttura del verso, in cui la vertebra prospettica non è l’occasione ma il tempio dello sguardo, il respiro che affiora dalla percezione e dal fiato. Possedere questa vista significa, in definitiva, corrodere ogni forma pittoresca, affermando la bellezza del movimento e dei segni cronologici, pedinando l’inquieto permeare dello strazio arrestato, fissandone, infine, i contorni nel gesto che diventa ferita e tenerezza.
Essi nascono sin da quando nel 1959 egli, soldato americano, di stanza a Verona (nella patria di Catullo dove «i fiori schiusi scorrono / verso ponente nel vento che soffia verso ponente») o quando si troverà a Sirmione, sfiorata in un bellissimo notturno: «Le erbacce si sono infoltite nei frutteti e le foglie pendono inascoltate sotto le arcate […] Accordi sparuti da un liuto spettrale, è vero, scendono talora sulle ali dello stesso vento alpino che come un pastore continua a guidare le piccole onde sulla sponda […]»), tocca lo spazio fondativo della poesia e la lingua che ristruttura il mondo, leggendo una raccolta di Ezra Pound, «padre dal sangue freddo della luce».
Venezia è smarginata e intrisa di splendore, in cui la luce segreta della laguna si veste di respiri posati sulle palpebre all’infinito: «Questa è la strada dove abita Pound, / un vicolo cieco / di anfratti catarrosi e pietra sbrecciata, / al cui imbocco le acque / si adunano, i gabbiani stridono; / qui dentro – muto, immoto – egli aspetta, / cernendo gli affretti freddi del sangue» (Omaggio a Ezra Pound).
Attraverso lo studio e l’epifanico magistero di Dante («Dante ti fa pensare seriamente alla vita. Ti costringe a volere una tua vita, a impiegarla nel modo migliore. La sua poesia è un grande modello platonico di vita e arte»), la traduzione di Eugenio Montale e l’«angelo lirico» Dino Campana («la tua bocca è la porta azzurra da cui passo, / la lampada accesa, la tavola apparecchiata»), egli ricompone la lettura fonematica e conclusiva dell’Italia, che nelle note dei notturni, riporta il buio delle scaglie e dell’avviluppo abissale della luce persa e leggera: «Firenze. Un vortice, una bocca, / vertiginoso alveare… / Notturno / Firenze, gola verticillata, / un sibilo d’ali che si chiudono / il fiume tortuoso in fiamme, / acqua come scaglie nella vampa del fuoco…».
O ancora la trasparenza monastica di San Miniato, dove i bordi acquei «lappano l’orlo della notte», apre la chiglia nera in cui «i nostri corpi bruciano come lampioni, / le ossa sonagli in mano alla morte sotto il fuoco lunare».
Una lettura interiore che esplora la sua geografia visionaria, attraverso la distanza generativa della fisica di un mondo che si porge e si sporge nei sospiri della trascendenza, «dentro la stessa pelle della lingua», come «una necessità interiore» e una «haeccitas», nei flussi di voce, nelle preghiere-fulgori e nei salmi di luce, fino al cielo delle ali bagnate come fenditure:
«E quando, quella sera, una pioggia esagerata per la stagione (grandine che risuona dilacerante sui limoni) picchiò sul movimento lento della baia, in agosto, infestando la tenebra con un querulo biancore, egli si ritirò nella stanza del seminterrato sotto la casa, a studiare i diversi aspetti dell’acqua, le navi in improvviso contrappunto sulle scale ascendenti del mare, e ad aspettare l’irruzione, al di là delle colline infeconde del suo cervello, dei soldati di bronzo, il lievito del lampo dei loro coltelli». (Temporale).
Caterina Ricciardi afferma:
«I sacred places italiani, i sacred landscapes della sua America dei caribù, dell’Appalachia e del Blue Ridge, visibile dalla collina del Monticello di Jefferson a Charlottesville, sono la haeccitas che respira nello «stile» di Wright, anche nel rovescio genialmente sovversivo della voce orfica i Campana. Ma tutto avviluppato nella lingua, e dentro la sua (di Wright) «pelle», tutto interiorizzato verso l’espressione devozionale tesa alla trascendenza, all’oltre dell’hic et nunc, perché i monumenti dell’ «intelletto che non invecchia», quelli dell’arte (e della natura, se nessuno la distuba) sono eterni».
Il ricordo, per Wright, è la distillata e calibrata radiazione che illumina ciò che c’è. La frammentazione apparente gli serve per affrescare la pagina, alzare le immagini dove cade la luce, e dove l’ora orfica, che sbanda sull’acqua, si ritrae distendendosi.
Scrive Roberto Galaverni:
«Si tratta di un poeta mai acquiescente, ma mosso invece da inquietudini radicali, di natura esistenziale e insieme metafisica, che fa reagire volta a volta con l’occasione particolare. Wright è a caccia del proprio destino, niente di meno. Attraverso un intreccio di piani sequenza e di continui dislivelli temporali («ricordo», dice tante volte), in cui accanto alle percezioni dirette tanto spazio hanno la riflessione e il giudizio, si rivolge ai luoghi come a una costellazione da interrogare in vista di un orientamento, di una consistenza, più generalmente della propria identità personale».
Sono le vene familiari che esplorano la compagine sapienziale del suo gesto, l’indirizzo confessato delle penombre (Ricordando San Zeno), il sigillo orfano oltre il guanto della finestra, quando i propri accordi spezzati, in uno sfilato noumeno di striature d’aria, avranno il sostegno del sole e della tregua sdraiata dell’indicibile.
La lunga nota è la sua trafittura musicale, l’istantanea tradotta di un rapporto ricolmo che forgia gratitudine e chiede l’oscillazione dell’ immaginazione e della misura, rilasciando poi tracce, ricordi, significati di onde e buio purpureo e inscritto, boccioli di luna allontanati e luci diverse nell’intarsio del cielo.
Moira Egan e Damiano Abeni, nella Postfazione, si soffermano sul legame dei testi con i luoghi, sia come lascito e sia come concrezione trascendente, finendo per includere il bordo dell’infinito, la sua maestà e la sua suggestione che spreme ogni chiarore e punto di fuga: «Wright ricerca costantemente la trascendenza nel quotidiano, e sa trovare il sublime negli angoli più bui e nascosti del nostro mondo, rendendolo in una musica che- senza farcelo pesare – spesso parla di se stessa e del modo in cui viene costruita» (p. 345).
È la Venezia che si stende come seta «sull’orlo del mare e del cielo notturno, / albescente alla luna», la Milano, nitida e asciutta del ’59, dove i viali finiscono in lotti non edificati o Roma, smalto ocra al tramonto su via Giulia, come quando «ricade la luce dalle finestre affacciate a oriente sulle sedie di vimini»:
«A Garda, su Punta San Vigilio, il lago / a primavera è come il mare, / vento che smuove le foglie d’ulivo come sciamo di pescetti di palude sotto i vigneti, / flusso e riflusso del tramonto oltre Sirmione, / voce piatta delle acque / Che ri-raccontano la propria storia, ininterrottamente, come per scaricarsi / di una colpa non dimenticata, / e non alleviata / sotto la consolatrice mano del buio, / le nubi su Bardolino che dragano il cielo in cerca dei corpi / morti di chi si rifiuta di risorgere, / con le vestaglie arancione e i corsetti fiammeggianti che rotolano lungo le colline, / vento notturno ormai tra gli ulivi, / nessun suono se non vento dal nulla / sotto le stanche stelle italiane…».
Il suo nodo dispiega la figura con una densità indomita, unisce tutto gli elementi della realtà, fornendo una visione elencata e potente di ultimità («E le iridescenti bluse di luce che indossano gli alberi. / E i cerchi-sutra degli aironi guardabuoi che ruotano via oltre i piovaschi. / E le marimba chiodate dell’alba che scuotono i loro amuleti… / Presto sarà ora della lunga passeggiata sotto terra verso il mare»).
O questo ritratto prezioso e tragico che affiora, indissolubilmente, come un oggetto d’arte:
«I fiori d’arancio hanno lasciato cadere le loro trame / sul pavimento di pietra del cuore / più di una volta / tra le stelle di ieri sera e le stelle di ieri sera. / E I Preludi hanno lasciato i loro anelli / sul gesso bianco delle pareti. / E l’armonica ha suonato e suonato. / E adesso, sotto gli alberi da frutto, / gli ulivi argento e poi non argento, il vento / dentro loro e poi no, il vecchio / seduto nel sole calante, / del tutto rilassato su una sedia nel sole che cala, foglie smosse dal vento. / Il mondo non è niente per lui. / E la musica non è niente per lui, né il sole di mezzogiorno. / Solo il vento importa. / Solo il vento quando si muove nel lucore di latta delle foglie. / E i fiori d’arancio, / sparsi come poesie sulle pietre levigate» (Paesaggio con figura seduta e ulivi).
I colpi di attenzione di Wright sono, invece, autoritratti tra i nomi diretti: «Madonna dell’Ortolo. San Giorgio, arco e pietra. / Le pendici collinari alte sul Piave. / Luoghi e cose che mi hanno colpito, Walt, / In Italia. A piedi, Gran Catalogatore, vent’anni e passa fa. / San Zeno e il Caffè Dante. Il sedile di Catullo. […] Sulla tomba di John Keats / scende la sera invernale, dall’abito senza stelle e bordato di ghiaccio, / puri respiri di coloro che risorgono dai morti. / Dino Campana, Arthur Rimbaud. / Hart Crane e Emily Dickinson. Lo Château Nero», o lagune in cui, nell’immagine dantesca, il sigillo delle labbra dilavate incontra l’acqua limpida, brillando nelle stelle fisse come una fiamma astrale, o come la lingua perduta del ricordo di Hart Crane diviene la matita di pioggia e l’orologio che si ripiega nel petto.
Questa forza attesta il rinvenimento dello «spiritus loci abitante lo spazio italiano e, più tardi, dei paesaggi delle sue origini, stabilendo una continuità di sguardo fra mondi diversi, cosa che non fa di lui un semplice poeta “del viaggio” e della notazione diaristica ma una mente inseguita da una quête metafisica, anche quando si ferma a osservare «insetti luminosi» o a commentare un dipinto» (Caterina Ricciardi).
Come se ci fosse una fine indecifrabile al linguaggio che conosce la meraviglia stupita dell’altezza immobile e della dura eternità:
«Parlo della quiete, il riserbo / di un centrotavola di porcellana, un vaso lacrimale, una brocca. / Parlo dello spazio, che ha una sola faccia, / inesaudita, lasciata a essiccare. / Parlo della tempera, della forma, del vuoto / a cui questi oggetti stanno di sentinella, e da cui scaturiscono. / Parlo del peccato, goccia rossa, goccia bianca, / della sua deformazione e curvatura, che è azzurra. / Parlo di bottiglie, di rovina, / e di quello che usiamo per illuminare la tenebra, e del perché …» (Morandi).
O ancora: «Ora senza stelle, senza Madonne, Morandi / pare arcanamente confortato dall’assenza di conforto, / una cosa giusta al posto giusto, / paesaggio sussunto, linguaggio sussunto, l’ombra di Dio / liquida e indiscernibile» (Giorgio Morandi e il blues del parlare dell’eternità).
Scrive Irene Battaglini:
«La poetica di Morandi si inscrive nella lirica di Wright alla stregua di una “esperienza non formulata”[1], il cui senso si traduce alla coscienza non soltanto interpretandolo come la negazione di un’ Ombra pantoclastica, ma anche come un ground zero in cui gli oggetti verticalizzati sono posti in assetto orizzontale – in una tela, come al suo interno a costituirla come scena interiore del Sé e non come scena di natura morta, quindi non su una tela come un qualsiasi dipinto – si frappongono come scudo alla confusione di un mondo arcaico e inesplorabile, nel rispetto dei tempi di quegli oggetti, gravidi di nostalgia e struggimento, oggetti che vanno a costituire l’orizzonte di una cultura greca, dotata di forma con infinite qualità tonali, contro cui la confusione si frange inesorabilmente incontrando il limite di un logos che non si esperisce mai a sufficienza.
I vasi e le bottiglie dalla composta postura ieratica, si fanno simbolo di una pulsione di morte naturale, una poetica dell’ovvietà contro l’angoscia, come principio di sospensione di ogni stimolo negativo: e perciò la natura morta si traduce still life, poiché la pulsione di morte naturale in Morandi altro non è che l’opaco fondo biancastro delle ampie campiture di appoggio, che è più luttuoso e controsole di un pozzo atro, ma che per la sua stessa caratteristica si rifà ad un modello generale della mente umana in cui il lutto è un processo che attacca il fondo della psiche ma che sempre si situa dentro la vita. Il simbolico di Morandi non vive per se stesso, ma per qualcos’altro, e trova non solo eco ma anche segno ad esempio in Wright, poiché è il segno di quella fusione di orizzonti di cui parla Donnel Stern, tra ieri e oggi, tra memoria e inganno».
La ricerca di Wright è una voce lavoratissima e senza disfacimenti. Affronta il segreto della realtà risuonando di dolcezza struggente e di visione. Per cui anche la cesellatura fonetica, l’aria ironica, il dolore disperso come carta bruciata, le parole «su quella croce in cemento», la memoria compìta che raddoppia la dislocazione dei luoghi, non spezzano né disperdono la gioia tenuta.
Mantova, sperduta di nuvole e parole smemorate e intagliate, «Metà del cielo colmo di pioggia, metà no / canne spinte dall’acqua a restare immobili, / il fiume che scende in piena ma senza tracimare, / tutto capovolto, / il cielo a riposo sotto i piedi. / Parole, ma chi si ricorda? / Che parole sanno il cielo, le nuvole? / Sulla parete della residenza estiva, / dove lo lasciò Giulio Romano, / il leone beve sulla sponda del fiume, e gli alberi accudiscono», i giorni italiani nei grembi dell’Adriatico, le infinite gallerie, le incisioni di Vicenza e il Palladio acuiscono un processo di gloria memoriale, dove le impronte delle forme vivono di associazioni mentali splendenti che eccedono ogni natura temporale. Tutto si muta in questa giacenza di illuminazione irradiante. In Wright, la rievocazione è un incombenza composita, una soglia che affranca le miglia della sua inner vision «che raduna la luce come fa il vetro», facendole ricomparire e ritrarsi nel loro isolato raccoglimento, attraverso «l’oscura allegoria dell’anima / nella luce bianca dell’eternità»:
«Certe sere, quando le stelle emettono i loro segnali in codice come bande rivali, / e la nebbia scende a distendersi cauta come una sposa novella / sui gradoni degli alberi / che salgono dal mare / e il lampione che attrae zanzare comincia a rapprendersi / come una crosta sulla foglia di palma e sul falso pepe, / e il profumo delle giunchiglie / aleggia come un giardino di giugno / sul tavolo in cucina, / Scuderi chiama ad alta voce il mio nome / mentre salgo i sei piani verso la sua stanza / e mi ripresento sulla soglia, / elettrico e redivivo nel mondo della luce […]» (Giorni Italiani).
È la parola dipinta (si pensi ai grumi di tempera e ai cambiamenti cromatici di Roma, vissuta in una veste celeste) sui vortici di acqua di Pavese («I tuoi occhi saranno parole vane, un silenzio / che vedrai nel chinarti verso lo specchio / ogni giorno, / l’unico sguardo che ha per chiunque») o le riscritture di Leopardi, vissute e amate nei suoi interminati spazi che risuonano come vento («l’oceano senza orizzonte che manda segnali, / comincio a esumare dal marmo / interminati spazi, oltre, / silenzi così immensi da risuonare come vento») nei nascondimenti di mezzogiorno («Lo so che sei lassù, nascosto dietro la luce del mezzogiorno / e il cristallo dello spazio.»), nei passi delle stelle voltate alla luna, con la sua vita unita allo sguardo del cielo («Mezzogiorno, e tu sei di nuovo lì sull’altra faccia del cielo. / Due aquiloni hanno fatto il nido nella gonna secca / della palma / e graffiano la loro voce come unghie / sulle finestre dell’aria»):
«Se sei diventato un’idea eterna / che rifiuta ogni investitura nei nostri stracci rosa, / saggio al di là di corpo e forma, / o se dispensi altrove l’ostia di un diverso sole / in uno degli altri eteri, / da quaggiù / dove i nostri anni hanno fauci onnivore, / ascolta ciò che dicono queste parole di uno che ti ricorda […] Non volevo dire altro. / Pensami di tanto in tanto, come io penso a te / quando la luna è una zecca dorata nel cielo estivo / gonfia di luce: / tu sei parte delle mie parti del discorso. / Pensami di tanto in tanto. Io penserò a te».
Annota Gianni Montieri:
«Questa è la grande capacità di Wright nel suo racconto di mezzo secolo d’Italia, di mostrare e lasciare campo alla nostra immaginazione, di accendere i ricordi e di destare curiosità. Wright è poeta che conosce a fondo il nostro paese per averci vissuto, averci soggiornato a più riprese. Lo conosce perché lo ama e, questo è evidente, lo ha amato da subito. Qui non leggiamo solo del paesaggio, delle colline, dei laghi o delle città. I versi di Wright ci portano da Verona a Mantova, da Milano all’Umbria, da Venezia a Positano, eppure non si limitano, naturalmente, a descrivere un luogo, ma dicono che il luogo è di chi lo sa guardare, il luogo è fatto delle opere d’arte che ospita, il luogo è la gente che passeggia e lavora, il luogo sono gli inverni e le estati, sono i profumi che avvertiamo fortissimi. I luoghi di Wright sono ponti di dialogo con i pittori e i poeti che lo hanno preceduto. I luoghi sono Pound, sono Leopardi, sono Morandi, sono Oscar Wilde, sono Dino Campana, sono Cesare Pavese. I luoghi di Wright siamo noi, ed è stupendo che ce li mostri come se fosse la prima volta uno che chiameremmo, sbagliando: straniero».
La nominanza esuberante come inconoscibile supplica e la sceneggiatura dell’impossibile trama che legano i luoghi alla smisurata esistenza e, allo stesso tempo, alla loro calibratura immaginifica. Le parole vivono la loro scena, anche quando sono disfatte o sperdute, e celebrano, indomite, la vocazione della realtà a farsi confine dell’essere e vita insorta, come accade in un testo sul suo pellegrinaggio ad Arquà, sospesa dimora di Petrarca: «Passo fantasma di stanza in stanza e cerco in ogni modo / di riamalgamare tutto ciò che continua a mancare, / di ricomporre ancora / gli arazzi e i focolari invernali, / le lunghe passeggiate e la solitudine / prima che i danni della storia e una fama malintesa / scompaginino tutto tranne il mero nome e uno schema di rime».
Questa insurrezione mobilita gli interstizi del dicibile come un gesto di attesa ascoltata e concentrata, dove la luce porge il suo diario, filtrando ciò che l’io genera, «come incastonato per caso nel ricordo, / incandescente e tenuto stretto».
L’ascolto e la fuga nella radice della rosa, in una limpidità di gioia, rivendicano un’ampiezza nuda che riportano la nascita delle cose all’indecifrato segreto dell’esistere e al gremito gemito del linguaggio, per risplendere e non abbagliare, poiché «tutto arriva fermarsi»:
«Dal mio balcone, l’azzurro intenso del sotto-cielo, / zaffireo e anodino, / fa da fondale alla corona della Madonna. / Più tardi, un lembo arcuato di nube, / come la scia di un jet o la coda di una cometa, vi volteggia più sopra, / anello medievale di Paradiso. / Oggi è di nuovo lo stesso azzurro, azzurro di redenzione / sul quale, tra i filari di vite, / il verde abbraccia forte la terra. / Non ancora, pare dire, oh, non ancora».
In un luminoso diario della notte, Wright ripone la sua ricerca assoluta come profondità affamata e nomade: «La notte assoluta si ritrae. / Brezze dure gelano sotto le mie palpebre. / La luna, corno di mica stampigliato, / risponde per me nelle arterie delle querce. / Desidero ardentemente acqua limpida, il silenzio / del rischio e dello splendore profondo, / la quiete dentro la solitudine. / Voglio la sua goccia sul labbro, la sua fredda impresa» (Diario della notteII).
Il forte e lucente abbraccio alla vita presente, che si sporge dai dettagli, è l’incommensurabile ampiezza di un abisso chiaro, dove persino l’oscurità è visibile, catturata dall’alone di ogni cosa dorata che lambisce il “tempio”, per dare significazione al reale (non solo le grandi città ma anche l’indocile provincia), per infrangere le cose e accoglierle, persino nei negativi di attrito, diventando stupore di vertigine: «Là fuori non c’è altro che luce, / disse l’artista mancato / con ragione, come al solito, a metà: / c’è anche un nonnulla di buio, lo sanno tutti, su entrambi i lati di entrambi gli orizzonti, / prescritto e in dipingibile, / che ci tocca i polpastrelli, in qualsiasi direzione decidiamo di saltare» (Vite degli artisti).
Le parole della poesia inseguono il dialogo inesauribile che scopre i netti recessi, i nessi, le scoperchiate miniature della realtà, non per possederle ma per perpetuare il senso di una leggera gratuità che trasfigura la molteplicità in nitore e nostalgia azzima, bisogno ultimo e alternativa vitale disegnata dalle stelle.
L’aggregazione delle immagini si espongono nei ritmi che tratteggiano l’ombra disvelata e i lunghi fili del visibile nell’invisibile, ordinati in una sorta bellezza difficile:
«Ascolta, la memoria ha il cuore duro e la testa tenera. / Qualsiasi luce l’occhio veda, il cuore ripete buio, buio, buio. / Nulla è mai perso, dissi una volta. / Non era vero, / lo so adesso, con il passato che è un nascondiglio / oltre ogni possibilità di ricordo e recupero, a dispetto del nostro / desiderio e della nostra diligenza. / Quello che è andato è andato, / e si posa come gusci di riccio di mare sotto la palpebra della memoria, / giù nella tenebra dove non si muove nulla, / nulla tranne il cuore / quel pesce senza occhi, portato da correnti lente, invisibili / sotto un gioco della campana di isole azzurre dove, in superficie, / un giovanotto dallo spirito intatto riunisce alcuni amici / su un frangiflutti al sole / Poi uno di loro tira fuori una macchina fotografica».
Scrivono Moira Egan e Damiano Abeni nella Postfazione:
«Il filosofo-poeta degli Appalachi ha passato una vita a tradurre i segni del tempo e della natura in parole: parlando di noi stessi descrive la sensazione del caldo del sole sulla pelle, gli interminati viaggi delle nubi, la musica dell’acqua, le masse imponenti dei monti in poesie disegnate con la grazia di un calligrafo orientale, venate di metafore fini e sorprendenti. Al cuore delle sue poesie, spesso interpretabili come discorsi sull’ars poetica, c’è il tentativo di governare il linguaggio come mezzo per poter governare la vita, perpetuare il ricordo, sopportare la nostalgia, sempre nella speranza di trovare parole che non siano effimere» (p. 343).
La lingua, che definisce l’umano, non ha solo l’urgenza di dire ma spinge alla contemplazione e alla sacertà di ciò che si annuncia, che occorre conoscere e poi raschiare e cancellare, per raggiungere la nitidezza oggettuale, il carattere della sua floridezza, del suo raggio di fiamma e, infine, del suo tessuto cicatriziale. La grazia oscura del mondo, allora, è il territorio su cui lasciare il segno, per diventare mattino.
[1] “Oggi siamo particolarmente interessati all’emergere del senso di un’esperienza che prima non aveva significato, e sempre meno interessati a quella che Bollas ha efficacemente definito «la decodificazione psicoanalitica ufficiale» “ (Donnel Stern, in: Hoffman I. ,1998, p. 48).
WRIGHT C., Italia, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, Donzelli, Roma 2016, pp. 160, Euro 18,50.
WRIGHT C., Italia, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, Donzelli, Roma 2016.
Italia sua, in “La Voce di Romagna”, 18 gennaio 2017.
BATTAGLINI I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato 2017.
BRULLO D., L’avventura di Charles Wright l’ex soldato americano che rubò la poesia a Pound, in “Libero”, 31 gennaio 2017.
GALAVERNI R., C’è un americano in Italia ma, attenti, non è un turista, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 15 gennaio 2017.
The Rita Dove’s poem (1952) has the deep nature of experiences that sweep the depth of the past. In the radicalism of existence, her poetry marks, in a complementary way, the integrity and dimension of the possibility, as a category that establishes the existence, shapes it remaining in the affirmation of the human being, enriches it for the profoundness and plasticity of perception, «through the overlapping points of view: that of the “official” history and, indeed, the counterpoint of another story, more lateral. For Rita Dove the identity is the personal access to the experience, but an experience that is immediately halved between the need to know and outdo herself, towed along by a force recasting every social and cultural value, and in that discovery and free apprenticeship of the world of which carrier is the poem, “language at its most distilled and most powerful”, according to the definition of the poet», as claimed by Federico Mazzocchi.
Born in Akron, Ohio, the Pulitzer Prize for poetry in 1987, for a collection of poems Thomas and Beulah, in 1993 and until 1995 was named Poet Laureate of the United States by the Library of Congress, and was the first African American and Poet Laureate the second to receive the Pulitzer, with the addition, in 1999, the post of Special Consultant in Poetry to the bicentenary of the Library of Congress.
The poetry of Rita Dove, therefore, doesn’t confine itself only to the verticality of the original roots, but rather explores the world as a confrontation and openness, poetic habit and substance of redemption. The ineliminable evidence of the reality is the result of the keynote of human music which it transmits, perception, dream-like vision of the layout that sounds the everyday miracle through the accuracy of a union: between memory and imagination, unveiling of belonging and detail achieved by the proportion and rigor, between individual and collective destiny that join the wide range of historic element and private memory, negotiating, as claimed by Pat Righelato, «her artistic space with grace and determination».
Today it’s possible to learn about her magnetic and vertiginous poetry, with her personal choice, published by Passigli, entitled The discovery of desire. Personal Anthology, edited by Frederick Mazzocchi, that gives back to us her shiny minimum threshold and her intense journey chasing its imaginative filament to understand, reconstruct and discover the human tension to ultimateness, understood as meaning and sense of wonder.
Roberto Galaverni writes: «The nature of her commitment is indeed deep, never one-sided. The sacrosanct claims of ethnic equality, social, sexual, in her verses there are only because there is initially the reality, and not vice versa. She starts from the reality, not from the need for redemption; looks and recognizes the sanctity of life, for this she knows what are human rights and freedom».
Her debut collection, The Yellow House on the Corner (1980), draws the bow of the lived «more domestic and natural, indeed the “yellow house on the corner”; it’s in this minimum lab of emotions that the poet ripens her sense of identity. A debut book but already in the border: the house is on the corner, ready to temptation of the journey. They are, in fact, the years of the first stay in Germany (in Tubingen, from 1973 to 1975, for a scholarship) and the meeting with the German writer Fred Viebahn, whom she married in 1979 “(F.Mazzocchi).
The heart of her endeavour overlaps two alternate and juxtaposed universes, whose crevices of meeting mess the imaginative dispositions in a contemporary intimacy of roots and speculative itinerary, substantiated in the focused imagination of experience, and in which the intensity of the expressive forms discloses the curtains of childhood, adolescence and the present life through a symbolic expressive geometry.
The expanded dilation of reality hinges in color ellipse of destinations and dyes drifting up, proposes in an abstract and figurative transparency which frees the score of spirit.
«Nature and mind are in harmonious abstraction», Pat Righelato says, «even the scent of flowers would bea an encumbrance to this transparency, the clearing and expansion of space. The transcendence, the sense of open space, takes place within the space of the room: «jerked free, hinged into butterflies», transformed and expanded yet remain incisively angled»:
«I prove a theorem and the house expands: / the windows jerk free to hover near the ceiling, / the ceiling floats away with a sigh. / As the walls clear themselves of everything / but transparency, the scent of carnations / leaves with them. I am out in the open / and above the windows have hinged into butterflies, / sunlight glinting where they’ve intersected. / They are going to some point true and unproven».
The sorrowful memorial density that seeks the fullness of a refuge, the meeting-clash of cultures, the wound of urban geography as resilient spasm of unfortunate and afflicted sounds destine the living matter of rolled up memory in an hook of sky and agonal and detailed metaphor, as «split / pod of quartz and lemon», where there isn’t consolation but is found the weight of the re-harvested memory moving: «When morning is still a frozen / tear in the brain, they come / from the east, trunk to tail / clumsy ballerinas. / How to tell them all evening / I refused consolation? Five umbrellas, five / willows, five bridges and their shadows!/ They lift their trunks, hooking the sky / I would rush into, split / pod of quartz and lemon. I could say / cthey are five memories, but / that would be unfair. / Rathers pebbles seeking refuge in the heart. / They move past me. I turn and follow, / and for hours we meet no one else» (Five elephants).
The last poem of the book “Ö”, vocalic expression of awe and wonder, also becomes the word in Swedish means “island” and that «has changed the whole neighborhood», transforming and revealing the estrangement of ordinary in acute portion of elsewhere («When I look up, the yellow house on the corner / is galleon stranded in flowers. Around it / the wind. Even the high roar of a leaf-mulcher / could be the horn-blast from a ship / a sit skirts to the misted shoals»), trespassing and adhering to the exact word that trembles in an extensive and precise pleasure («the present extends its glass forehead to sea / (backyard breezes, scattered cardinals)»).
At the height of precision, the measure gives form to boundless: it’s the artistic rigor to give vitality to the exploration, is the power of word to shape the language, such as outstanding flow which provides a new language to the things: «and if, one evening, the house on the corner / took off over the marshland, / neither I nor my neighbour / would be amazed. Sometimes / a word is found so right it trembles / at the slightest explanation. / You start out with one thing, end / up with another, and nothing’s / like it used to be, not even the future».
Museum (1983) innervates all the facts of history in a sort of raised relief. Here, says Federico Mazzocchi, «Rita Dove seems to look beyond their own experience, but seemingly distant and remote events are still interrogated and in a sense “authenticated” by her own experience».
The history of the submerged smallest details provides the fiber of an emblem fixed in consciousness, individual and collective narration that makes up the silence of a museum recalling that, on the one hand, welds the event in a meticulous detail line, and on the other outlines figures (Catherine of Alexandria, Catherine of Siena, the greek subject, Shakespeare, Boccaccio and Fiammetta, Nestor, Christian Schad, the pianist Champion Jack Dupree) in confined conditions, in a figurative and old context as evidence of life, to enter, sympathetically, in a perfect game of dialogues and vitality.
Here too, the memory doesn’t cover with dust but returns, with care, the outcome of a regenerated time, the temporary projection of a consciousness bud and cramp shining. The memory of grape sherbet, that her father was preparing for Memorial Day, is the held reminiscence that transpires in his «gelled light» of losts, in the taste of lavender and in the grassed-over mounds, like the miracle of enjoyed existence that illuminate its presence and its clarity of gelatin and grace: «After the grill / Dad appears with his masterpiece – / swirled snow, gelled light. / We cheer. The recipe’s / a secret and he fights / a smile, his cap turned up / so the bib resembles a duck. / That morning we galopped / through the grassed-over mounds / and named each stone / for a lost milk tooth. Each dollop / of serbe, later,/ is a miracle, / like salt on a melon that makes it sweeter. […] We thought no one was lying / there under our feet, / we thought it / was a joke. I’ve been trying / to remember the taste, / but it doesn’t exist. / Now I see why / you bothered, / father».
Parsley commemorates the massacre of twenty thousand blacks, by order of the dictator of the Dominican Republic, Rafael Trujillo, because they cannot pronounce the letter “r” in perejil, the Spanish word for parsley. Rita Dove performs here a choral drama with image precision, alternating the perspectives and points of view: from the scurrilous pronunciation of the executioners, embodied in their disquieting abyss of compulsion and obsession, to the innocence of the victims in the rain that punches the cane fields: «For every drop of blood / there is a parrot imitating the spring. / Out of the swamp the cane appears».
The Rita Dove’s imaginative symbolism even reveals its uncensored opposite of death sentence, as stated Therese Steffen, describing the abyss of colorless crumbs of a blackened language that contrasts with the outside landscape. The parrot and dismayed tear of the general for a dark memory like black light that kills the shattered human rim and sweets dusted with sugar on a bed of lace. So the language follows the image, takes possession of horror and drama in an original perception, as claimed by Helen Vendler, but turns at the point where the poem «widens the reality from within, finding its measure in this “sense more wide”, that is what animates it and with flatters it. That’s how Rita Dove shows us how the historical duration can be perfectly combined with the perception of individuality, and how the time can suddenly move to a plan that certainly doesn’t transcend, but that reveals the real hidden face» (Federico Mazzocchi).
The story of Thomas and Beulah (1986) is dramatized and reformulated, inlaid rebuilding the life of grandparents to trace «the essence of my grandparent’s existence and their survival, not necessarily the facts of their survival. […] One appropriates certain gestures from the factual life to reinforce a larger sense of truth that is not, strictly speaking, reality». (Conversation with Rita Dove, edited by Ingersoll E. G, University Press of Mississippi, 2003, p. 66).
The fusion of the lyrical moment with the broader narration comprises the stage of history, under different perspective angles which act as glue between the experiences. The depth and symbolic density connect the color scent of a universal point to interstitial of a story, in which «Thomas and Beulah are the warp of the cloth, while national and international events are the woof» (Moving Through Color: Rita Dove’sThomas and Beulah in Kentucky Philological Review 14 (1999): 27-31).
Dove joins in a chromatic consistency situations and actions. The act of an individual becomes the universal matrix and contrast of existence: the transparent objectivity, mandolin and straw hat, two Negroes leaning and silver falsetto, the mud and the moon, the yellow bananas and still the Thomas’ ruffled silver and his yellow scarf, the Beulah’s loving blanket and pearly, the brown chestnuts and green island gathered in a torrid night of thickening and gently shirred waters describe the fullness which is announced in the drama that finds the desire and it generates unfinished gestures, until then the halo of poetry enters modifying history, lightening it, and the note of pain could be brushed.
The epiphany of the promises of love beneath the airborne bouquet, «was a meadow of virgins / urging Be water, be light. / A deep breath, and she plunged / through sunbeams and kisses, / rice drumming / the both of them blind», the dusted everyday life, the morning saturated by beauty and dream of eyes, the death that huddles, stroke and recovery («She stands by the davenport, / obedient among her trinkets, / secret like birdsong in the air»), the engraved clearness of memory awaken the time of the lacks, figures and and the tragic distances and reveal the sudden and fragmented height of being.
The rapid and relational imagination of Grace Notes (1989), (the musical notes that embellish and adorn the main melodic line), underscores the warning of grace in the freedom of every detail and extensive collection of expectations, every embellishment underlying the hidden and secret rhythm of real that leads back to a live event: the singular stars and trees like horses in their ascent and bright lymph, the women of the islands that move through Paris and inventing their destinations, the evening of the bees fleed in a old folk’s home in Jerusalem, where in the minimum air “a needlepoint / with raw moon as signature. / In this desert the question’s not / Can you see? but How far off? / Valley settlements put on their lights / like armor; there’s finch chit and / my sandal’s, / inconsequential crunch. / Everyone waiting here was once in love».
The love that pervades and bedews Mother Love (1995), in which is transposed a modern version of the myth of Demeter and Persephone, involves and keeps the myth waiting hanging around for a symbolic and pervasive sense, places the autobiography (the relationship with her daughter Aviva) in a incited suggestion of protection, freedom and achieved destiny.
Counterpoint the memory of the Sonnets to Orpheus, the poet made his circumnavigation of salvation of vital fragments from disintegration and the violation: It’s the charm that protects days, the door that transforms the myth in a contemporary presence of breath and punctuation that aligns the images.
The parenthetical voice of the mother warns her daughter to go straight to school and not to talk to strangers but when Persephone picks up a narcissus, sees the earth opening up in its source of kidnapping and terrible abyss of light, «as a knife easing into / the humblest crevice».
The violence of the trauma («Who can tell / what penetrates?»), the shutdown of the dark, lost brilliance that becomes the phrase-abuse and terrified gloss of dark sheen («It was as if / I had been traveling all these years / without a body, / until his hands found me – / and then there was just/ the two of us forever: / one who wounded / and one who served»), change of points of view, Persephone’s estrangement, in her footfall that hovers pass the Demeter nuclear relationship crossed by a rich and inconsolable tension as dispersed harvest, «Nothing can console me. You may bring silk / to make skin sigh, dispense yellow roses / in the manner of ripened dignitaries. / You can tell me repeatedly / I am unbearable (and I know this): / still, nothing turns the gold to corn, / nothing is sweet to the tooth crushing in. / I’ll no task for the impossibile; / one learns to walk by walking. / In time I’ll forget this empty brimming, / I may laugh again at / a bird, perhaps, chucking the nest – / but it will not be happiness, / for I have known that» (Demeter mourning).
Often it happens that myth streghe out in the sunken story of daily epic, as becomes in On the Buswith Rosa Parks (1999), in which it’s faced «a cameo of characters and events» where, as stated Federico Mazzocchi, «Rita Dove points some joints of the battle for civil rights of black people, but to prevail are still the invention and drama; not a claim perspective, but rather a “meditation on the history and the individual”, an approach that well frames the phrase of Simon Schama that opens the eponymous section: “All history is a negotiation between familiarity and strangeness”. Rosa Parks is the woman that in 1955 she refused to give up her seat to a white man on the bus and therefore she was arrested, triggering the reaction of the Martin Luther King community. Yet the inspiration of the book seems to be of a different kind: “We are on the bus with Rosa Parks” is the phrase said for fun by the daughter of the poet during a move. No contradiction, because to investigate what is out of history also means for Rita Dove take an interest in the primordial and innocent look in which the nature is not yet the culture».
Her poetry seems to bring out, once again, two proportions and disproportions, as if the single time, the call of the past and return, the ghosts, the Rosa’s simple flame, the portrait of childhood at the time when «the earth was new / and heaven just a whisper, / back when the names of things / hadn’t had time to stick; / back when the smallest breezes / melted summer into autumn / when all the poplars quivereded / sweetly in rank and file …», can be revisiting the dawn of glorious shadows on the open blank page, as in a his sweet and profound poetry, for «If you don’t look back, / the future never happens. / How good to rise in sunlight, / in the prodigal smell of biscuits – / eggs and sausages on the grill. / The whole sky is yours / to write on, blown open / to a blank page».
It’s the everyday life calling, the cutting of landscape glimpsed from this bus of affection and history, with all its ellipses and expansions, which allows the minutiae of detail to discover the secret and universal side of reality, its motion hidden , its belonging and the intensive relationship between music and words: «I was pirouette and flourish, / I was filigree and flame. / How could I count my blessings / when I didn’t know their names? / Back when everything was still to come, / luck the leaked out everywhere. / I gave my promise to the world, / and the world followed me here».
The Edenic scene of the All Souls’, taken from American Smooth (2004), shows Adam and Eve held out to appoint the voices of animals and the time of paradise and, from that moment, Mazzocchi said, «the words break the “music” of silence, leaving man and woman in a kind of perennial nostalgic dance»: «Before them, a silence / larger than all their ignorance / yawned, and this key walked into / until it was all they knew. In time / they hunkered down to business, / filling the world with sighs – this anonymous, / pompous creatures, / heads tilted as if straining / to make out the words to a song / played long ago, in a foreign land».
The American Smooth is a form of ballroom dancing in which the partners are free to be released each other and allow improvisation and individual expression. Therefore, Rita Dove performs its dance of nostalgia and elevation, kneading and doing live the lyricism with a new rhythm, a new piece of history that is revealed, such as the Hattie McDaniel’s black moon crossed, the first African American actress to win an Oscar .
The thin line of verses moves through this polyphony of grace and form, independence, opposition and soft sinuosity of spells, which are absorbed by the dance, from the face and gestures. The gesture of the dance is proportional to the poetic gesture, following both the dance of things, which are modeled in the air of «achieved flight» and «that swift and serene / magnificence, / before the earth / remembered who we were / and brought us down».
The Sonata Mulattica (2009), centered about the figure of the mulatto violinist George Bridgetower, remembered for being the first performer and the initial dedicatee («the lunatic mulatto») of the Kreutzer Sonata by Beethoven, that he revoked and attributed the dedication to Rodolphe Kreutzer, presumably to a dispute concerning a woman.
The Rita Dove’s work chases omitted existence, plumbing the inner fold of the removed Other and his exotic childhood («I am the Dark Interior, / that Other, mysterious and lost; / Dread Destiny, riven with vine and tuber, / satiny prowler slithering up behind / his dorme and clueless prey»), the monologue and muster intimacy of the characters (as in Haydn leaves London: «I close my eyes / and I feel it, a bass string plucked at intervals / dragging our bilge out to the turgid sea – / a drone that thrums the blood, that agitates / for more and more…») and animated and living symbology of reality through the nature of public and private memory, such as cropping plush green and the squandered score in the fury of Beethoven’s Eroica, transcribed in the air and breathed in the cool of pure sound. Here too, the human gesture is the gesture of the book, as the Billy Waters’ crippled angle («Crippled as a crab sugary as sassafras») or the symbolic and living gesture of the Moor sculpture with emeralds.
Humanizing and dramatizing her material footprint, the author aligns unusual and rare pictures, blends, in five movements, the genres, touching the precariousness in the note that prevails, and creating another time in the time, she opens continuously rhythmic cracks to the forgotten sounds and finally, drawing the unspeakable in a collection of targeted grace and primitive syllables. Accurate.
DOVE R., The discovery of desire. Personal anthology, edited by Federico Mazzocchi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2015, pp.157, Euro 18.50.
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Il canto di Rita Dove (1952) possiede la natura profonda di esperienze che percorrono la vastità del vissuto. Nella radicalità dell’esistenza, la sua poesia segna, in modo complementare, l’integrità e la misura della possibilità, come categoria che fonda l’esistenza, la plasma permanendo nell’affermazione dell’umano, l’arricchisce per la profondità e la plasticità della percezione, «attraverso il sovrapporsi dei punti di vista: quello della storia “ufficiale” e, appunto, il controcanto di un’altra storia, più laterale. Per Rita Dove l’identità costituisce il personale accesso all’esperienza, un’esperienza che tuttavia si trova subito dimidiata tra l’esigenza di conoscersi e superarsi, al traino di una forza che rifonde ogni valore socio-culturale e in quella scoperta e libero apprendistato del mondo di cui è vettore la poesia, «il linguaggio al suo massimo di distillazione e potenza», secondo la definizione della poetessa», come sostiene Federico Mazzocchi.
Nata ad Akron, Ohio, premio Pulitzer per la poesia nel 1987, per la raccolta Thomas and Beulah, nel 1993 e fino al 1995 è stata nominata Poet Laureate of the United States dalla Biblioteca del Congresso, ed è stata il primo Poet Laureate afroamericano e il secondo a ricevere il Pulitzer, a cui si aggiunge, nel 1999, la carica di Special Consultant in Poetry per il bicentenario della Biblioteca del Congresso.
La poesia di Rita Dove, pertanto, non si confina solo nella verticalità delle radici originarie, bensì esplora il mondo come confronto e apertura, abitudine poetica e sostanza di riscatto. L’evidenza ineliminabile della realtà è l’esito della nota fondamentale della musica umana che essa trasmette, la percezione, la visione onirica del layout che scandaglia il prodigio della quotidianità attraverso l’esattezza di una unione: tra memoria e immaginazione, tra svelamento di appartenenza e dettaglio raggiunti dalla proporzione e dal rigore, tra destino singolo e collettivo che congiungono l’ampio raggio dell’elemento storico e la privata memoria, negoziando, come sostiene Pat Righelato, «il suo spazio artistico con la grazia e la determinazione».
Oggi è possibile conoscere la sua poesia magnetica e vertiginosa, con la sua scelta personale, edita da Passigli, dal titolo La scoperta del desiderio. Antologia Personale, curata da Federico Mazzocchi, che ci restituisce la sua baluginante soglia minima e il suo viaggio intenso che insegue il suo filamento immaginativo per comprendere, ricomporre e scoprire la tensione umana all’ultimità, intesa come significato e meraviglia di senso.
Scrive Roberto Galaverni: «La natura del suo impegno è infatti profonda, mai unilaterale. Le sacrosante rivendicazioni di eguaglianza etnica, sociale, sessuale, nei suoi versi ci sono solo perché esiste dapprima la realtà, e non viceversa. Parte dalla realtà, non dal bisogno di riscatto; guarda e riconosce la sacralità della vita, per questo sa cosa sono i diritti dell’uomo e la sua libertà».
La sua raccolta d’esordio, La casa gialla sull’angolo (1980), tende l’arco del vissuto «più domestico e naturale, appunto la “casa gialla sull’angolo”; è in questo laboratorio minimo di emozioni che la poetessa matura la propria percezione identitaria. Un libro d’esordio ma già di confine: la casa è sull’angolo, pronta alla tentazione del viaggio. Sono, infatti, gli anni del primo soggiorno in Germania (a Tubinga, dal 1973 al 1975, per una borsa di studio) e dell’incontro con lo scrittore tedesco Fred Viebahn, che sposerà nel 1979» (F.Mazzocchi).
Il cuore della sua impresa sovrappone due universi alternati e giustapposti, le cui fenditure d’incontro scompigliano le disposizioni immaginative in un contemporanea intimità di radici e di itinerario speculativo, sostanziato nella fantasia concentrata dell’esperienza, e dentro cui l’intensità delle forme espressive dischiude i sipari dell’infanzia, dell’adolescenza e della vita presente attraverso una simbolica geometria espressiva.
La dilatazione espansa della datità della realtà si incardina in un’ellissi cromatica di mete e tinte fino alla deriva, si propone in una trasparenza astratta e figurativa che libera lo spartito dello spirito. «La natura e la mente sono in armoniosa astrazione», afferma Pat Righelato, «persino il profumo dei fiori sarebbe un ingombro a questa trasparenza, rimozione e espansione di spazio. La trascendenza, il senso dello spazio aperto prende posto dentro lo spazio della stanza: «si sono incardinate su farfalle», trasformate ed espanse rimangono ancora incisivamente angolate»:
«Dimostro un teorema e la casa si espande: / le finestre in un balzo si librano sino al soffitto, / il soffitto con un sospiro va alla deriva. / Appena le pareti si sono spogliate di tutto / ma non della trasparenza, l’odore dei garofani / se ne va con loro. Io sono fuori, all’aperto, / e sopra di me le finestre si sono incardinate su farfalle, / dove si congiungono un raggio di sole riluce. / la loro meta è un punto vero e indimostrato».
La non consolata densità memoriale che ricerca la pienezza di un rifugio, l’incontro-scontro di culture, la ferita della geografia urbana come spasmo resiliente di suoni disgraziati e afflitti, destinano la materia vivente della memoria avvoltolata in un’arpionatura di cielo e in una metafora agonale e dettagliata, come «gusci scissi di quarzo e limone», dove non avviene consolazione bensì si rinviene il peso della rievocazione franta in movimento: «Quando il giorno è ancora una lacrima / congelata nel cervello, giungono / da est, code nelle proboscidi, / maldestre ballerine. / Come dir loro che per tutta sera / ho rifiutato ogni consolazione? Cinque / ombrelli, cinque salici, cinque ponti e la loro ombra! / Sollevano le proboscidi, arpionano il cielo / nel quale mi getterei, gusci / scissi di quarzo e limone. Potrei dire / che sono cinque ricordi ma / ciò non sarebbe giusto. / Piuttosto sassolini che cercano rifugio nel cuore. / Mi passano oltre. Io mi volto e li seguo, / e per ore non incontriamo nessun altro» (Cinque elefanti).
L’ultima poesia del volume “Ö”, espressione vocalica dell’esclamazione di stupore e meraviglia, diventa anche la parola che in svedese sta a significare “isola” e che ha «cambiato l’intero vicinato», trasformando e rivelando lo straniamento dell’ordinario in acuta porzione di altrove («Quando alzo lo sguardo, la casa gialla sull’angolo / è un galeone arenato sui fiori. Tutt’intorno / il vento. Persino l’acuto rombare di un trita foglie / potrebbe essere la sirena di una nave / che lambisce banchi di pesci nebulizzati»), sconfinando e aderendo alla parola esatta che freme in un piacere esteso e preciso («il presente porge la sua fronte di vetro al mare / (nel cortile brezze, sparpagliati cardinali rossi)»).
Nel momento più alto della precisione, la misura dà forma allo smisurato: è il rigore artistico a dare vitalità all’esplorazione, è il potere della parola a forgiare il linguaggio, come flusso sospeso che offre una nuova lingua alle cose: «e se, una sera, la casa sull’angolo / decollasse sopra alla palude / né io né il mio vicino / rimarremmo stupiti. A volte / si trova una parola talmente esatta che / freme alla minima spiegazione. / Cominci con una cosa, finisci / con un’altra, e nulla più / come era prima, nemmeno il futuro».
Museo (1983) innerva tutti i fatti della storia in una sorta di bassorilievo raccolto. Qui, sostiene Federico Mazzocchi, «Rita Dove sembra guardare oltre la propria esperienza, ma eventi apparentemente lontani e remoti sono ancora interrogati e in un certo senso “autenticati” dal proprio vissuto».
La storia sommersa dei dettagli minimi fornisce la fibra di un emblema fissato nella coscienza, la narrazione individuale e collettiva che compone il silenzio di una rievocazione museale che, da un lato, salda l’evento in una meticolosa linea di dettaglio, dall’altra delinea figure (Caterina d’Alessandria, Caterina da Siena, il soggetto greco, Shakespeare, Boccaccio e Fiammetta, Nestore, Christian Schad, il pianista Champion Jack Dupree) in condizioni circoscritte, in un ambito figurale ed antico come evidenza di vita, per entrare, simpateticamente, in un perfetto gioco di dialoghi e vitalità.
Anche qui la memoria non si impolvera ma restituisce, con scrupolo, l’esito di un tempo rigenerato, la proiezione temporanea di un germoglio di coscienza e crampo splendente. Il ricordo del sorbetto di uva, che il padre preparava per il Memorial Day, rappresenta la trattenuta reminiscenza che trapela nella sua «luce agglutinata» delle sperdutezze, nel sapore di lavanda e nei cumuli ricoperti d’erba, come il miracolo dell’esistenza gustata che illumina la sua presenza e il suo nitore di gelatina e grazia: «Dopo la grigliata / ecco Papà con il suo capolavoro – / neve vorticante, luce agglutinata. / Lo acclamiamo. La ricetta è / un segreto e lui reprime / un sorriso, col cappello all’insù / così che la falda sembri un’anatra. / Quel mattino galoppammo / tra cumuli ricoperti d’erba / e ad ogni lapide demmo il nome / d’un dente da latte perduto. Ogni cucchiaiata / di sorbetto, più tardi, / è un miracolo, / come sale su un melone che lo rende più dolce. […] Ci sembrò che là, sotto i nostri piedi, / non giacesse nessuno, / ci parve tutto / uno scherzo. Ho provato / a ricordare il sapore, / ma non esiste. / Ora capisco perché / ci tenevi tanto, / padre».
In Prezzemolo (Parsley), viene rievocata la strage di ventimila neri, per ordine del dittatore della Repubblica Dominicana, Rafael Trujillo, perché incapaci di pronunciare la lettera “r” in perejil, la parola spagnola che significa prezzemolo. Rita Dove compie qui un dramma corale con precisione di immagini, alternando le prospettive e i punti di vista: dalla scurrile pronuncia dei carnefici, calati nel loro inquietante abisso di compulsione e di ossessione, alla innocenza delle vittime nella pioggia che trivella i canneti: «Per ogni goccia di sangue / c’è un pappagallo che fa il verso alla primavera. / Fuori dalla palude spunta una canna».
Il simbolismo immaginativo di Rita Dove rivela persino il suo contrario non censurato di sentenza di morte, come afferma Therese Steffen, descrivendo l’abisso delle briciole incolori di una lingua annerita che contrasta con il paesaggio esterno. Il pappagallo e la lacrima sgomenta del generale per un ricordo scuro come luce nera che uccide l’orlo umano disastrato e i dolci spolverati di zucchero su uno strato di pizzo. Così la lingua segue l’immagine, si appropria di orrore e dramma in una percezione originaria, come sostiene Helen Vendler, ma si volta nel punto in cui la poesia «allarga la realtà dal suo interno, trovando la propria misura in questo “senso più largo”, che è ciò che la anima e assieme la lusinga. È così che Rita Dove ci mostra come la durata storica possa essere perfettamente congiunta alla percezione dell’individualità, e come il tempo possa d’improvviso spostarsi su un piano che di certo non lo trascende, ma che ne svela il volto più vero e nascosto» (Federico Mazzocchi).
La vicenda di Thomas e Beulah (1986) viene drammatizzata e riformulata, ricostruendo a intarsi la vita dei nonni materni per rintracciare «l’essenza dell’esistenza e della sopravvivenza dei [propri] nonni, non necessariamente i fatti della loro sopravvivenza. […] Ci si appropria di certi gesti della vita fattuale per rafforzare un senso più largo della verità che non è, strettamente parlando, realtà» (Conversation with Rita Dove, a cura di Ingersoll E. G., University Press of Mississippi, 2003, p. 66).
La fusione del momento lirico con la narrazione più ampia compone il palcoscenico della storia, sotto le diverse angolazioni prospettiche che svolgono il ruolo di collante tra le esperienze. La profondità e la densità simbolica connettono il profumo cromatico di un punto universale a quello interstiziale di una storia, in cui «i personaggi sono tessuto mentre eventi nazionali e internazionali sono la trama» (Moving Through Color: Rita Dove’sThomas and Beulah in Kentucky Philological Review 14 (1999): 27-31).
La Dove unisce in una consistenza cromatica situazioni e azioni. Il gesto di un singolo diventa matrice universale e contrasto di esistenza: l’oggettualità trasparente, il mandolino e il cappello di paglia, i Negri appoggiati e il falsetto argenteo, il fango e la luna, il giallo delle banane e ancora l’argento crespato di Thomas e la sua sciarpa gialla, la coltre amorosa e perlacea di Beulah, il marrone delle castagne e il verde dell’isola raccolti in una notte torrida di acque ingrossate e dolcemente increspate descrivono la pienezza che si annuncia, nel dramma che scopre il desiderio e genera gesti incompiuti, finchè poi l’alone della poesia entra nella storia modificandola, rischiarandola, e la nota di dolore possa essere lambita.
L’epifania delle promesse d’amore sotto il bouquet in volo, «una prateria di vergini / che intonano Sia l’acqua, sia la luce. / Un respiro profondo, per gettarsi / nel sole, in mezzo ai baci, / sotto uno scroscio di riso / che li acceca entrambi», la quotidianità spolverata, il mattino saturato di bellezza e sogno di occhi, la morte che rannicchia, l’infarto e la guarigione («Lei è in piedi davanti al divano, / docile tra i suoi ninnoli, / nell’aria i segreti come un canto d’uccelli»), la tersità incisa del ricordo destano il tempo delle mancanze, delle figure e delle distanze tragiche e palesano l’improvviso colmo frammentato dell’essere.
L’immaginazione rapida e relazionale di Abbellimenti (1989), in inglese grace notes (le note musicali che abbelliscono e ornano la linea melodica principale), sottolinea l’avvertimento della grazia nella libertà di ogni dettaglio capillare e collezione di attese, di ogni abbellimento sotteso al segreto ritmo nascosto del reale che riporta a una tensione di avvenimento: le stelle singolari e gli alberi come destrieri nella loro linfa ascesa e luminosa, le donne delle isole che planano, percorrendo Parigi e inventando le mete, la sera delle api volate via nella casa di riposo a Gerusalemme, dove nell’aria minima «un ricamo ad ago / con la firma tersa della luna. / Qui nel deserto la domanda non è / Lo vedi? Ma Quanto è lontano? / Gli insediamenti nella valle indossano le loro luci / come armature; c’è il parlottio dei fringuelli / e i miei sandali, / con il loro irrilevante scricchiolio. / Chiunque qui attende, un tempo fu innamorato».
L’amore che pervade e irrora Amore materno (1995), in cui viene trasposta una versione moderna del mito di Demetra e Persefone, coinvolge e fa sospirare il mito in una accezione simbolica e pervasiva, dispone l’autobiografia (la relazione con la figlia Aviva) in una suggestione sobillata di protezione, di libertà e di destino che si compie.
Contrappuntando la memoria rilkiana dei Sonetti a Orfeo, la poetessa realizza il suo periplo di salvazione dei frammenti vitali dalla disintegrazione e dalla violazione: è l’incanto che protegge i giorni, la porta che trasfigura il mito in una contemporanea presenza di fiato e la punteggiatura che allinea le immagini.
La voce parentetica della madre avverte la figlia di andare direttamente a scuola e di non parlare agli sconosciuti ma quando Persefone raccoglie un narciso, vede la terra aprirsi nella sua scaturigine di rapimento e terribile chiarore di abisso, «come un coltello che cala / nella più umile fenditura».
La violenza del trauma («chi può dire / che cosa penetra?»), lo spegnimento del buio, la brillantezza perduta che diventa sintagma sopruso e atterrito splendore di cupa lucentezza («Fu come se / in tutti quegli anni avessi viaggiato / senza un corpo, / finchè le sue mani non mi trovarono – / nulla sarebbe più esistito / all’infuori di noi due: / l’uno che feriva / e l’altra che serviva»), lo spostamento dei punti di vista, lo straniamento di Persefone, nel suo rumore di passi che aleggia varcano il rapporto nucleare di Demetra attraversata da una tensione ricca e inconsolabile, come messe dispersa: «Niente può consolarmi. Potete portare seta / per far sospirare la mia pelle, dispensare rose gialle / come fa qualche vecchio dignitario. / Potete continuare a ripetermi / che sono insostenibile (e questo lo so): / eppure, nulla tramuta l’oro in granoturco, / non vi è nulla di dolce per il dente che vi si frantuma. / Non chiederò l’impossibile; / a camminare si impara camminando. / Col tempo scorderò questo mio traboccare di vuoto, / potrò sorridere ancora a / un uccello, forse, che abbandona il nido – / ma non sarà felicità, / poiché quella, io, l’ho conosciuta» (Demetra in lutto).
Spesso accade che il mito si distenda nella storia sommersa dell’epica quotidiana, come succede in Sull’autobus con Rosa Parks (1999), in cui viene affrontato «un cameo di personaggi ed eventi» dove, come afferma Federico Mazzocchi, «Rita Dove evidenzia alcuni snodi della battaglia per i diritti civili dei neri, ma a prevalere sono ancora l’invenzione e il dramma; non una prospettiva di rivendicazione, bensì una “meditazione sulla storia e l’individuo”, un approccio che ben inquadra la frase di Simon Schama che apre la sezione eponima: “Tutta la storia è una negoziazione tra familiarità ed estraneità”. Rosa Parks è la donna che nel 1955 rifiutò di cedere il posto a un bianco sull’autobus e perciò fu arrestata, scatenando la reazione della comunità di Martin Luther King. Eppure lo spunto del libro sembra essere di tutt’altro genere: “Siamo sull’autobus con Rosa Parks” è la frase detta per gioco dalla figlia della poetessa durante uno spostamento. Nessuna contraddizione, perché indagare ciò che è fuori dalla storia significa anche per Rita Dove interessarsi di quello sguardo primordiale e innocente in cui la natura non si è ancora fatta cultura».
La sua poesia sembra far affiorare, ancora una volta, due proporzioni e sproporzioni, come se il tempo singolo, la chiamata del passato e il ritorno, i fantasmi, la semplice fiamma di Rosa, il ritratto dell’infanzia al tempo in cui «la terra era nuova / e il paradiso solo un bisbiglio, / al tempo in cui era troppo presto / perché i nomi delle cose attecchissero; / al tempo in cui le più tenui brezze / scioglievano l’estate nell’autunno / quando tutti i pioppi stormivano / dolcemente nei loro ranghi e schieramenti…», possano far rivisitare l’alba di ombre gloriose sulla pagina bianca spalancata, come recita una sua poesia dolce e profonda, poiché «Se non ti guardi indietro, / il futuro non accadrà mai. / Quanto è bello svegliarsi con il sole, / in un prodigo odore di biscotti – / uova e salsicce sulla griglia. / L’intero cielo è tuo / per scriverci sopra, spalancato su una pagina bianca».
È la vita di ogni giorno a chiamare, il taglio del paesaggio intravisto da questo autobus di affetto e storia, con tutte le sue ellissi e dilatazioni, che permette alla minuzia del dettaglio di scoprire il lato segreto e universale della realtà, il suo moto nascosto, la sua appartenenza e il rapporto intensivo tra musica e parola: «Fui piroetta e ghirigoro, / fui filigrana e fiamma. / Come avrei potuto contare le mie benedizioni / quando nemmeno sapevo il loro nome? / Al tempo in cui tutto doveva ancora venire, / la fortuna trapelava da ogni luogo. / Feci la mia promessa al mondo, / e il mondo mi seguì sino a qui».
La scena edenica di Giorno dei morti, tratto da American Smooth (2004), mostra Adamo ed Eva protesi a nominare le voci degli animali e il tempo del paradiso e, da quel momento afferma Mazzocchi «le parole infrangono la “musica” del silenzio, lasciando uomo e donna in una sorta di perenne danza nostalgica»: «Dinanzi a loro, un silenzio / più vasto di tutta la loro ignoranza / si spalancò e in esso si addentrarono / finchè non fu tutto ciò che sapevano. Col tempo / si rintanarono negli affari, / riempiendo il mondo di sospiri – queste creature anonime, / boriose, / le teste inclinate quasi nello sforzo / di carpire le parole di una canzone / cantata tanto tempo fa, in una terra straniera».
L’American Smooth è una forma di ballo liscio, in cui i partner sono liberi di rilasciarsi a vicenda e permettere l’improvvisazione e l’espressione individuale. Pertanto, Rita Dove compie la sua danza di nostalgia e elevazione, impastando e facendo convivere il lirismo con un nuovo ritmo, con una nuova porzione di storia che si palesa, come la nera luna solcata di Hattie McDaniel, prima attrice afroamericana a vincere un Oscar.
La sottile linea dei versi si muove attraverso questa polifonia di grazia e forma, di indipendenza, di opposizione e di sinuosità morbida di incantesimi, che vengono assorbiti dalla danza, dal volto e dai gesti. Il gesto del ballo si proporziona al gesto poetico, seguendo entrambi la danza delle cose, che si modellano nell’aria del «compiuto volo» e della «repentina e placida / magnificenza / prima che la terra / ci ricordasse chi fossimo e ci riportasse giù».
La Sonata Mulattica (2009), incentrata sulla figura del violinista mulatto George Bridgetower, ricordato per essere il primo esecutore e l’iniziale dedicatario (“il mulatto lunatico”) della Sonata a Kreutzer di Beethoven, il quale revocò e attribuì la dedica a Rodolphe Kreutzer, presumibilmente per un litigio riguardante una donna.
Il lavoro di Rita Dove insegue un’esistenza omessa, scandagliando la piega interiore dell’Altro rimosso e della sua giovinezza esotica («Sono l’Interno Oscuro, / sono l’Altro, misterioso e perduto; / Destino Spaventoso, lacerato da vite e tubero, / predatore satinato che sguscia dietro / alla sua preda spacciata ed ignara»), l’intimità monologante e adunata dei personaggi (come in Haydn lascia Londra: «Chiudo gli occhi / e lo sento, una corda grave pizzicata a intervalli, / che trascina la nostra sentina verso il mare rigonfio – / un basso continuo che martella il sangue, / che si agita e non è mai pago») e la simbologia animata e vivente del reale attraverso la natura della memoria pubblica e privata, come il ritaglio felpato di verde e la partitura sperperata nel furore dell’Eroica di Beethoven, trascritta nell’aria e inspirata nella brezza del suono puro. Anche qui il gesto umano è il gesto del libro, come l’angolo sbilenco di Billy Waters («sbilenco come un granchio / dolciastro come birra di radice») o il gesto simbolico e vivente della statua di Moro consmeraldi.
Umanizzando e drammatizzando la sua orma materica, l’autrice allinea immagini inconsuete e rarefatte, mescola, nei cinque movimenti, i generi, toccando la precarietà nella nota che predomina, e creando un altro tempo nel tempo apre di continuo crepe ritmiche ai suoni dimenticati e, infine, adesca l’indicibile in una collezione di grazia mirata di sillabe primitive. Esatte.
DOVE R., La scoperta del desiderio. Antologia personale, a cura di Federico Mazzocchi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2015, pp.157, Euro 18,50.
DOVE R., La scoperta del desiderio. Antologia personale, a cura di Federico Mazzocchi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2015.
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La poesia di Thomas Merton (1915-1968) significa sfiorare la parola scritta nella modalità, come scrive Bianca Garavelli, «più naturale per esprimere emozione e pensiero» e la vitalità dei suoi versi
«è commovente: davvero trasmettono un profondo amore per la vita, e una gioia nel descriverla, capaci di suscitare ispirazione. Una sorta di contagio benefico che induce ad aprirsi alla bellezza, anche attraverso le realtà più tristi o cupe. Tutte le immagini del mondo sembrano fondersi come onde di un unico mare, ogni istante assume la consistenza preziosa di una gemma, il respiro della creazione diventa musica. […] si intuisce come la poesia di Merton tenda a una fluida dimensione poematica, infusa dalla tradizione dei Salmi: ogni movimento umano, ogni frutto, ogni oggetto (le tonache dei confratelli, una bufera, una quaglia) diventa la nota di una sinfonia perenne, che confluisce in una grande preghiera corale, di cui la poesia è anticipazione. Nella duttile sintesi dei versi, echeggiano le intuizioni di un’anima che nel silenzio e nella solitudine ritrova la pienezza, si abbandona all’abbraccio di Dio».
Pertanto, la poesia rappresenta il movimento di una trasformazione spirituale e propedeutica alla preghiera e agli interrogativi del vivere, in tutta l’ultimità estrema, e come «accesso a una “visione altra” della realtà, la quale supera il materialismo, ma che a un certo punto l’uomo di fede deve superare abbandonandosi all’azione di Dio in lui. Nell’artista, invece, tende a prevalere un atteggiamento più attivo, tipico dell’esercizio della creatività» (Christian Albini): «Segrete / Parole vegetali, / Acqua non scritta, / Zero quotidiano […] O pace, benedici questo luogo folle: / Silenzio che non tramonta / Ama l’inverno quando la pianta tace».
Recentemente Papa Francesco, nel viaggio apostolico negli Stati Uniti, ha ricordato Thomas Merton, nel celebre discorso al Congresso del 24 settembre, assieme a Lincoln, Martin Luther King e Dorothy Day:
«Egli resta una fonte di ispirazione spirituale e una guida per molte persone. Nella sua autobiografia scrisse: «Sono venuto nel mondo. Libero per natura, immagine di Dio, ero tuttavia prigioniero della mia stessa violenza e del mio egoismo, a immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il ritratto dell’Inferno, pieno di uomini come me, che amano Dio, eppure lo odiano; nati per amarlo, ma che vivono nella paura di disperati e contraddittori desideri». Merton era anzitutto uomo di preghiera, un pensatore che ha sfidato le certezze di questo tempo e ha aperto nuovi orizzonti per le anime e per la Chiesa. Egli fu anche uomo di dialogo, un promotore di pace tra popoli e religioni».
La parola che sagoma e ricerca, il tempio dell’anima come passaggio e transito verso un respiro che sia cifra d’Eterno e ressa inquieta, destina la sua profondità a ricercare Dio in tutte le sfumature della realtà. Scrive Marco Roncalli:
«Merton è stato soprattutto un monaco inquieto, ma che ha trasformato l’eremo, con la penna, in un pulpito senza confini, e, con la preghiera, in un tabernacolo dove custodire insieme all’Eucarestia ogni fratello; un trappista difensore della vita monastica eremitica e comunitaria, convinto di «tener viva nel mondo moderno l’esperienza contemplativa e mantenere aperta per l’uomo tecnologico dei nostri giorni la possibilità di recuperare l’integrità della sua interiorità più profonda». Sino a trasformare la sua stessa parabola in un racconto incessante della ricerca di Dio, vivendola tra solitudine e comunione, contemplazione e azione».
La tessitura mistica della sua trama poetica diviene l’esito di una stanza interiore che viene ridestata da una vibrazione e da una scoperta che riconcilia. Nato nel 1915 in Francia da genitori artisti, da madre statunitense e padre neozelandese, si trasferisce a Douglaston, vicino New York nel 1916.
Dopo la perdita della madre, ammalatasi e morta di cancro nel 1921, si trasferisce con il padre (morirà nel 1931 di tumore) alle Bermuda e poi di nuovo in Francia, vive la sua esistenza di tormento e inquietudine, pacificandosi dapprima con la conversione nel 1938 al Cattolicesimo e poi nel 1947 pronunciando i voti solenni nell’abbazia trappista di Nostra Signora di Gethsemani, nel Kentucky: «Incominciai a ridere con la bocca nella polvere: senza sapere come e perché, avevo compiuto davvero la cosa giusta, e anche una cosa magnifica».
Nel 19 marzo del 1958, Merton, all’epoca maestro dei novizi del suo monastero, annota nel suo diario: «Fui d’un tratto preso dall’idea che io amavo tutta quella gente, che mi apparteneva come io appartenevo a loro, che non potevamo essere estraniati gli uni dagli altri anche se di razze diverse».
Commenta Enzo Bianchi:
«È lo stupore di scoprirsi appartenente all’unica umanità, senza esenzioni e privilegi, uno stupore che spazza via l’illusione che emettendo i voti religiosi si diventi una creatura di diversa specie, pseudo-angeli, “uomini spirituali”, uomini di vita interiore. […] Ed è lo stupore […] dell’ateo libertino che resta incantato dagli scritti di Etienne Gilson e Jacques Maritain e, dopo pochi mesi di frequentazione della chiesa del Corpus Christi a New York, viene battezzato. È lo stupore del giovane docente universitario che, solo tre anni dopo il battesimo, scopre un’abbazia trappista nel Kentucky rurale e chiede di esservi ammesso come novizio. Sarà ancora lo stupore del monaco provato che cerca un’impossibile conciliazione tra il voto di obbedienza a una comunità cenobitica e il crescente desiderio di una solitudine eremitica. Ma anche lo stupore di chi scopre che, man mano che si ritira dalla frequentazione degli altri – confratelli, amici, frequentatori del monastero – sente crescere in sé una solidarietà cosmica, un farsi carico delle speranze e delle sofferenze della propria generazione».
Il poeta sente vibrare lo stupore, la riconciliazione che assona, la contemplazione che abbraccia il reale come segno, come crittografia sacra che ricerca, senza risparmio e nello spasmo, il compimento, l’abbraccio, il senso nascosto e vitale e la scena in cui il mondo accade dove la terra raccoglie il cielo: «Vento e una quaglia / E il sole pomeridiano. / Cessando di interrogare il sole / Sono divenuto luce, / Uccello e vento. / Le mie foglie cantano. / Sono terra, terra […] Quando avevo un’anima, / quando ardevo / quando questa valle era / Solo aria fresca / Hai pronunciato il mio nome / Chiamando il Tuo silenzio».
Scrive Christian Albini: «Merton contempla i boschi, gli animali, gli uccelli in volo, la notte, ma anche i grattacieli e la vita sfrenata delle città, le guerre, i disordini razziali e sente vibrare in tutte queste realtà il soffio dello Spirito, come presenza o come appello. Invece che metterlo a tacere, cerca di lasciarlo parlare, prestandogli la propria voce».
E questo sentimento inquieto a lasciare, in tutte le sue dieci raccolte di poesia, lo stampo di una Presenza che pervade mito e sogno, il silenzio (Tutti questi alberi / Così trasformati / Stolti / Si chinano adoranti / Le colline dormono / In trapunte ghiacciate / Mi immergo fino al ginocchio nel silenzio / Dove la bufera solleva nubi e punge), il dolore («Poiché tra le macerie del tuo aprile Cristo giace ammazzato, / E piange tra le rovine della mia primavera: / L’oro delle Sue lacrime cadrà / Nella tua mano debole e abbandonata, / E ti riscatterà a questa terra: / Il silenzio delle Sue lacrime cadrà / Come campane sulla tomba straniera. / Ascoltale e vieni: ti reclamano a casa») e le bufere precoci, l’amore prima dell’alba come nascita e emanazione («E quando le loro voci lucenti, linde come l’estate, / Risuonano, come campane di chiesa sul campo, / Cento Luteri polverosi risorgono dai morti, incuranti, / Scrutano l’orizzonte cercando la smorfia sdentata / delle fabbriche, / E annaspano, nel grano verde, / Verso i richiami sonori del treno merci dell’ovest»), la protesta e l’ironia, il disegno delle linee che chiedono respiro al mondo creato e alle particelle che lo compongono: «Quando nessuno ascolta / Gli alberi quieti / Quando nessuno nota / Il sole nella pozza / Dove nessuno sente / La prima goccia di pioggia / O vede l’ultima stella / O accoglie il primo mattino / Di un mondo smisurato / Dove inizia la pace e termina la rabbia: / Un uccello, immobile, / Guarda l’opera di Dio: / Una foglia che vortica, / Due fiori che cadono, / Dieci cerchi nello stagno. / Una nuvola sulla collina, / due ombre nella valle / E la luce colpisce la casa».
Commenta Christian Albini: «In coerenza con la logica dell’incarnazione, la contemplazione, in quanto consapevolezza della vita autentica, può essere raggiunta solo nell’umanità, non estraniandosi da essa. La poesia, perciò, può consentire di vedere il mondo intero e le vicende della vita come sacramenti, segni di Dio e del suo amore all’opera nella nostra esistenza».
I luoghi, allora, diventano corali dipinti, perforano l’aria del monastero che diventa città di Dio in una minuta di destino e compimento, solleva la panoramica di un’appartenenza alla variegata bellezza che circonda ed entra in comunione, in quanto segno intuito e vissuto della mano di Dio.
Il monaco, come Elia, si mette in cammino e l’io si risveglia in tutte le sue urgenze elementari. È la sua stanza il punto di sguardo. Ma è una stanza che pronuncia la sua appartenenza e la sua dipendenza all’infinita Genesi, a Dio che si incarna e tocca ogni infinitesimo umano, che si introduce in modo non prevedibile e non previsto, facendo luce sulla verità di noi stessi: «Il seme, come ho detto, / Si cela nella zolla ghiacciata. / Modellate dai fiumi, le pietre / Non se ne curano né lo sentiranno mai, / E coprono la terra coltivata. / Il seme, per natura, aspetta di crescere e dare / Frutto. Per questo non è solo / Come le pietre, o le cose inanimate: / Voglio dire, solo per natura, / O solo per sempre».
La vera ascesi non è elevazione sulle dinamiche mondane bensì entra in comunione: con l’umano unico e irripetibile. Ed ecco che la poesia diventa umana questione e preghiera, si fa religiosa, perché la realtà lo, lo annuncia ogni giorno qui e ora silenziosamente: «Io sono l’ora stabilita, / L’«adesso» che taglia / Il tempo come lama. / Sono il lampo inatteso / Oltre il «sì», oltre il «no», / Il presagio della Parola di Dio. / Segui la mia strada, ti porterò / Verso soli dai capelli d’oro, / Logos e musica, gioie senza colpa, / Scevre di domande / E al di là delle risposte: / Poiché io, la Solitudine, sono il tuo sé / Io, il Nulla, sono il tuo Tutto. / Io, il Silenzio, sono il tuo Amen!».
Afferma Albini, «Non perché sia uno scrivere riguardante questioni religiose, ma nel senso di essere una scrittura che è in sé un’attività religiosa, dal momento che produce parole mediante le quali Dio agisce, anche indipendentemente dalla consapevolezza e dall’intenzione del poeta. Sono “parole per Dio” nella misura in cui ci liberano dalle prigioni create dalla nostra mente o dalla società, risvegliandoci alla realtà autentica».
Questa poesia costruita nel silenzio compone le sue fiamme di visione, presentendo e vivendo ciò che accade, prefigurando, profeticamente, ogni crollo e apocalisse, come tensione e vertice di ogni genialità: «Come sono state distrutte, come sono crollate / quelle grandi e possenti torri di ghiaccio e d’ acciaio / fuse da quale terrore? / […] Quali fuochi, quali luci hanno smembrato, / nella collera bianca della loro accusa / quelle torri d’argento e d’ acciaio/ colpite da un cielo vendicatore? […] Le ceneri delle torri distrutte si mescolano ancora alle volute del fumo / velando le tue esequie nella loro bruma; e scrivono il tuo epitaffio di braci: / “Questa fu una città/ che si vestiva di biglietti di banca”».
Scrive, infatti, Luigi Giussani:
«Come mai può accadere quell’avvenimento? Come mai possiamo essere provocati dall’urto di quell’incontro – per cui la vita s’incomincia a illuminare, un baluginare sia pur crepuscolare s’insinua nel nostro orizzonte, e insorge un desiderio di capire di più ciò che ci si è fatto incontro, di esserne più profondamente investiti e di seguirlo? Come mai l’avvenimento accade? Poiché non c’è nessun precedente che lo possa far prevedere; ma accade. Se accade, ha una causa. Essa non si lascia tuttavia includere nell’elenco che nostre analisi di accadimenti antecedenti possono formulare: è qualcosa d’altro. Qual è dunque la causa dell’avvenimento, la causa per cui quell’avvenimento diventa un incontro con una presenza eccezionale, che poi riconosceremo coscientemente divina, cui poi diremo: «Tu, Cristo» – poi, non allora? Nel momento dell’incontro essa è infatti una realtà che semplicemente ci colpisce e ci muove per la sua diversità, perché chi da quell’avvenimento è già stato colpito, e partecipa dunque della sua comunicazione nel mondo, ha una faccia con degli aspetti diversi: ha criteri diversi, una emotività e una affettività diversa, un impeto di gratuità ignoto, una capacità di impegno strana («Chi te lo fa fare?» gli si direbbe guardandolo). La causa di quell’avvenimento, di quell’incontro, e del movimento che suscita in noi, si chiama, nel linguaggio cristiano, Spirito Santo. Si dice Spirito l’energia con cui il mistero di Dio opera nel mondo che ha creato, lo plasma e lo piega, come un grande fiume, verso la sua foce – che è il mistero stesso di Dio. Questa energia viene nel mondo e lo penetra infinitamente di più da quando quell’Uomo cui lo Spirito stesso ha dato vita («… concepì per opera dello Spirito Santo») è morto ed è risorto».
E l’avvenimento allora provoca, insorge, destina il sangue a una domanda di eternità non preclusa, e siamo chiamati a sperimentare questa resurrezione discreta, come crepa di dimore intime e cenno pregato, ultimo indizio di una gioia cara che rende puro i cieli come sorgente.
THOMAS MERTON, Che la mia sete diventi sorgente, Àncora, Milano 2015, pp.96, Euro 12,00.
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Susan Stewart (1952) esprime la vitale vertigine di un nutrimento che attinge dal repertorio dei classici latini e greci e dalla coltre concettuale sedimentata dei poeti metafisici inglesi del Seicento, ma manifesta una pura e sostanziale ricerca espressiva che si sporge sulla conoscibilità del reale, sulla sua calorosa meraviglia e, infine, sulla concretezza che si fa immagine primordiale ed eco inscindibile.
Poetessa, membro dell’American Academy of Arts and Sciences, critico, traduttrice (ha tradotto l’Andromaca di Euripide), insegna storia della poesia ed estetica presso l’università di Princeton e nel 2005 ha ottenuto il titolo di Chancellor dall’Accademy of American Poets.
Il suo sguardo si afferma nella densità dell’essere. In essa la realtà emerge nella sua datità, nella sfrontatezza di una cosalità mai ridotta, ma vibrante nella profondità e nell’intensità di una «ambiguità instabile tra le profondità intime dello’io e, d’altra parte, il fondo misterioso della realtà che ci circonda, fino ad esiti solo apparentemente paradossali» (Antonio Spadaro):
«Lascia che ti parli del mio meraviglioso dio, di come si nasconda negli esagoni / delle api, di come la siccità che strofina le sue mani coriacee / sopra il mondo sia una sua creazione, così come la pioggia nei minuti silenziosi / che lasciano soltanto pensieri di pioggia. / Un atomo che lavora e lavora, un atomo che lavora nella notte / più profonda, poi esplode come la stella più lontana, molto / più piccolo di una puntura di spillo, molto più piccolo di uno zero che non ha / nessun desiderio, nessun desiderio verso di noi».
Scrive Roberto Mussapi:
«La Stewart […] restituisce un binomio di felicità visionaria e potenza rivelante su cui si innesta innanzitutto la poesia americana, e una dimensione metafisica, di origine europea, dove metafisico non indica una astratta speculazione nelle sfere celesti, ma la rappresentazione di realtà invisibili e incorporee attraverso immagini concrete, azioni, insomma la traduzione dell’ invisibile in visibile che è uno dei sogni e degli impulsi originari che muovono ogni artista. Come molti poeti americani del passato, è legata al mondo presocratico, vale a dire al pensiero greco delle origini, quando filosofia, cioè ragionamento logico, e poema, cioè cosmologia, canto della natura, si intersecano e a volte si fondono. Paesaggi, luoghi e figure elementari di un mondo percepito nel suo nascere: foresta, stelle, acqua, deserto, prato, lampo, rosa. Il mondo delle cose prime, rivelato dallo stupore del poeta che quanto più è immediato tanto è sapiente e sapienziale: «Io mi addormento in onore della pioggia, / in onore dell’inquietudine delle foglie, / e un gran fremito passa / sopra la terra; è la musica / del nostro dimenticare».
E ancora: «In Susan Stewart il mondo quotidiano, in cui la natura non è marginale ma onnipresente, si accende di lampeggianti rivelazioni, la vita è svelata in piccoli miracoli ininterrotti, continuamente celati nel mistero, cifra principe della realtà. Una poesia della soglia, continuamente al confine tra umano e divino, visione e meditazione filosofica. Immaginazione e pensiero trovano nella sua opera una formulazione nuova di un binomio cardinale della poesia d’Occidente». Pertanto il pieno brusio del suo magma cerca l’oscurità delle superfici, la sorgente primordiale e primaria di un luogo, «una fila di alberi, una fila di stelle. / Cercalo dunque: troverai che potresti perdere / il senso della profondità, / una foglia, un fascio / di carta, una federa / o una faccia / a forma di cuore, / un sibilo che infuria, / come i venti, come / la morte, in un groviglio / là nei rami».
È una danza avvinta che incontra i libri del buio («Buia la stella / fonda nel pozzo, / luminosa nell’acqua») e il silenzio muschioso, per premere contro l’oscurità, «andando più a fondo nell’acqua, nero nella nerezza, / la fonte dell’acqua che aspetta là, lontana sotto l’acqua / e l’acqua nera come carbone, / nera come qualsiasi cosa estratta dalla terra; / allora portala alla luce del giorno e schiarirà / ancora, trasparente nel bicchiere trasparente, invisibile / sulle mani, benedizione, / che scende, felicità che balena».
La grammatica delle sue linee ha radure luminose e sospensioni di anima. Il verso frastagliato, dislocato e franto condensa le punte iconiche della riflessione, della percezione del reale e del suo contrappunto esperienziale, quest’ultimo forgiato dall’intuizione e dall’immaginazione.
Il risveglio celebra la soglia dei contorni e la loro nitidezza condivisa, laddove la scena invernale e brinosa porge il suo nero solco impenetrabile.
Il dopo-immagine ghiacciato raccoglie il volo improvviso e nitido che precipita e discende, come un empito di fiato che unisce sacro e profano, nel suo sibilo che infuria, lasciando l’impronta di una notizia splendente e impossibile: eppure «la verità rimane / che non posso sapere solo quel che ho visto e se / viene ogni notte, ogni sogno, ogni stella o per niente». Il gufo, che in questo poema è, allo stesso tempo, invocazione, notturno ed esplorazione, – ossia «troubled-recognition topos», secondo la felice definizione di Randall Couch, diventa, come commenta Maria Cristina Biggio, «nell’istante della poesia e per sempre, meravigliosa creatura che sposa il paesaggio e redime il tempo-di-ora bloccato nell’attesa di fare “un sogno invernale”».
L’abbandono e la forza epistemologica della mobilita la sua ricerca di significato, si compromette con l’allungamento delle ombre e con la profondità della indeterminatezza dello slittamento della percezione visiva. Essa diventa, pertanto, il luogo della creatività e della fantasia, come finalità della forma.
In un’intervista rilasciata a Roberto Mussapi, su “Avvenire”, del 28 dicembre 2013, Susan Stewart traccia la sua vitale e meravigliosa stele poetica, affermando che
«La bellezza di ogni poesia è costruita sulla musica dei suoi suoni e intervalli misurati, sulla vividezza delle immagini, l’immediatezza e la tessitura del suo eloquio, e la sua evocazione di presenza. Le poesie sono vive, e la loro vita è più lunga di ogni nostra vita individuale. Il pensiero poetico è capiente, perché esalta non solo tutti i nostri poteri mentali (la ragione, l’immaginazione, le memoria e l’emozione insieme), ma anche i nostri ritmi fisici, il battito dei nostri cuori, il ritmo del respiro, gli occhi che si chiudono o si aprono. Nel leggere e scrivere poesia noi portiamo il nostro intero se stesso a significati condivisi. Come forma d’arte, la poesia ha valore in se stessa, il linguaggio attraverso il quale la poesia si compie non si esaurisce nell’esperienza o nei desideri del momento. No, la poesia vive oltre il contesto del suo farsi e la sua storia procede».
L’orbita immaginale e il colombario della sua anima lucente di buio fiutano e tentano di appropriarsi della vita piena e della sua realizzazione, come l’atto di fede che arreda la transizione e la liminalità. Esse interrogano, come scrive M. C. Biggio,
«l’idea di trascendenza (la luce, il volo, gli uccelli, le ali, le api, il vento, il “fuoco vivente”, il divino, la fuga, il paradiso, la bellezza lirica, il vorticare) e la realtà della discesa (l’oscurità, la cenere, il bruciare, la caducità, il radicato, il sotterraneo, il mondo fisico e i suoi elementi, ecc.). Sono motivi costanti anche la riflessione sul farsi e sulla forza epistemologica dell’invenzione poetica – capace di estendere la nostra imperfetta conoscenza del mondo e di tracciare una nuova mappa di mondi possibili rivelando il sacro e il misterioso di realtà trasfigurate dall’arte – e sull’ossimorica potenza della “memoria umana”, intesa come abisso, fondo incommensurabile in cui il tempo si fa quasi infinito nella vita breve e mortale dell’uomo che la possiede. Ad essi si accompagna l’interesse di Stewart per la perduta condizione edenica dopo la cacciata dei nostri mitici progenitori: il tema della caduta offre alla sua poesia la possibilità di farsi struggente ripetizione del giardino e, nel contempo, lamento dell’esperienza profondamente umana del limite, senza che in essa vengano mai meno né la capacità di confrontarsi con la tragedia e il male come parti del tutto, né la speranza e lo stupore per l’incommensurabilità dell’esistenza».
La poesia cerca l’ineffabile tangibilità e percepisce l’attesa e la lotta contro le soglie tenebre, l’osmosi dei passaggi, l’enigma, l’alchimia del linguaggio, per folleggiare «con il nonsense e l’ironia (intesa in senso romantico e in quello socratico di dissimulazione nella struttura discorsiva) per sottolineare il dubbio e l’incertezza che l’accompagnano, e che usa il mito come prezioso collante alle interrogazioni della cangiante e multiforme realtà. Per poter infine dire, al di là di quinte e sipari e con la più vasta gamma possibile di domini del reale, il favoloso mondo sognato in cui «nessuna morte è naturale» (Maria Cristina Biggio): «Una volta eri addolorato / e loro ti vennero incontro nell’aria bianca. / Entrarono in / una musica infinita, / il pavimento del tempio / era muschio calpestato. / Hai vegliato / per una fessura / nella pietra / che poteva aprirsi e / chiudersi liberamente, come / una mano. / Hai vegliato / nella verdezza mentre colmava l’aria bianca».
La densità ermetica della poesia di Susan Stewart si concentra sull’allusione, sull’incontro tra l’io e chi riceve, divenendo esplorazione d’infanzia e giovinezza del mondo.
La realtà si svela e compie il suo linguaggio e lo sguardo della Stewart, come visione binoculare, intuisce risvegli smossi, la nostalgia del passato trasferito e in transito, la frizione della vita e della morte e «tremare argento dell’elemento».
La sovrapposizione della memoria percorre le scapole della poesia in un contrasto metafisico e conoscitivo, vive di un trasalimento felice che illumina l’inizio per figurare la specificità dell’altro, ricalcarne le forme, conoscerne la fecondità.
L’erranza della materia, «Dove l’aria è intessuta di muschio che s’asciuga, / (in quel posto dove son cresciuta) la foresta in un groviglio, / un aroma di muschio dai funghi e dalle trine di muffe, / dolce-stellato andare, in un groviglio di rovi, di felci», permette di trapassare gli oggetti, di conoscere le stratificazioni, il limitare della foresta simbolica, che è «risorsa della natura, di tutto ciò che è oltre i fatti della storia, oltre i nostri concetti di spazio e tempo e le categorie e il nostro modo di conoscere e che, in quanto tale, precede la memoria e l’invenzione. La natura è l’indefinibile, l’illimitata risorsa al di sopra della quale la conoscenza si innalza – proprio come l’invisibilità sta al di là del visibile – non in senso mistico ma come un reale riconoscimento del limite dei nostri poteri analogo alla finitudine sancita dalle nostre morti individuali».
La chiarità e l’esatta precisione delle immagini di Susan Stewart si appropria delle trame e delle simmetrie dei giochi, come spostamento di forze (come lo spirito che vaga tra le foglie scosse di red rover) e ripiegamento svelato, riflessione sulle passioni e sui mali del mondo: «colui che si è riversato / nel suono, si è fatto parola del silenzio; / mandato in mezzo al tempo, si è fatto tempo che emerge. / Mentre il passato si accresce, il futuro diminuisce / e la paura assume i tratti dell’amore».
Fare precipitare la visione poetica tra le radici nascoste, lo stupore, gli abissi, tra le presenze vitali incise nella memoria fantasma e nella luce, nei vecchi dolori, è il genio dello scarto e della visione, situata nella «profonda mezzanotte del giorno e dell’anno».
Scrive ancora Maria Cristina Biggio:
«La Stewart accoglie, in una fantasmagoria di specchiata luce e ombra, le contraddizioni e i dubbi della realtà, allo stesso tempo accogliendo il progresso e l’avanzamento che nasce dal loro contrasto e scontro, lasciando entrare una variazione, formale e/o tematica nel verso ripetuto, che così slitta verso un significato di problematica discordanza, più cupo o perturbante che, appunto, disorienta il lettore […] Metafore e metonimia, metafore-metonimiche, giochi di parole e giochi con le parole […] sono la logica conseguenza di una metafisica instaurata con il senso (della vista, dell’udito, del tatto e di un senso vestibolare della vertigine o dell’equilibrio nell’attraversamento delle varie soglie), che viene poi necessariamente rappresentata in parole. Davanti all’eterno, all’invisibile, al non razionale, la parola umana prova a dire i cortocircuiti della razionalità, mentre il poeta sale e scende dalla mitica catena d’oro del linguaggio, tentando di avvicinare terra e cielo».
Persino il male, la caduta, il dolore diventano traccia meridiana ed eco di una possibile redenzione e di una nuova costruzione di mondo, come antifone che nominano e conservano le cose, come colonie perdute a punta di freccia e come litanie ripetute di uno shock ripetuto e continuo, che però non ha paura di richiamare i nomi di un mondo spezzato che riporta indietro il tempo, rallentato e pastorale (Elegia contro il massacro alla Amish School, west Nickel Mines, Pennsylvania, autunno 2006): « Lena, Mary Liz, e Anna Mae / Marian, Naomi Rose / quando il tempo si è fermato / dove il tempo ha rallentato / i cavalli portavano la pioggia. / Mary Liz, Anna Mae, Marian / Naomi Rose and Lena / le lanterne accese / nel buio mezzogiorno / nel processionale del dolore».
Il potere incantatorio del mito, laddove celebra la drammatizzata soglia dei vasti panneggi, va alla ricerca del linguaggio della memoria prenatale, celebra l’incisione dei luoghi e del tempo e, nelle sue prominenze lessicali, inscena una parola gravitata, «alla base immobile del mondo che gira», che non ammette eclissi, ma scava il suo sfioramento della visione presente, gli incontri trans temporali come riscrittura e connessione di qualcosa che non c’è ancora, ma trova la sua trama di inizi rianimati nel «sonno orlato di raso».
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Aver amato come accade nelle ore vuote del tardo pomeriggio; lasciarsi andare e concepire un viaggio che alle spalle non lascia traccia di se stesso; affacciarsi dalla casa e vedere una figura che si piega in avanti come per opporsi al vento anche se non c’è vento; vedere i cappelli della gente in paese, gettati via in momenti di passione, sparsi per terra anche se la terra non la si può vedere. Tutto ciò nella vaga luce che ingiallisce, che si fa fioca nell’ora che precede il buio; niente di questo ha valore se non per il piacere che produce, ingigantendo un istante e in fin dei conti facendolo apparire come se fosse vero. E anni dopo imbattersi nella stessa scena — la figura che si piega allo stesso vento, gli stessi cappelli sparsi sulla stessa terra che non si può vedere.
Scrive così il poeta americano Mark Strand (1934), di origini canadesi, nel suo ultimo fulminante libro di prose dal titolo Almost invisible (2012), ora in Italia con il titolo Quasi invisibile (2014) e con la traduzione di Damiano Abeni.
Questo passaggio reca luce non solo sull’immagine modellata come un fascio di passaggi e paesaggi, ma anche sull’essen–zialità delle situazioni, degli oggetti e focus di sguardo e visione:
«Poiché abbiamo attraversato il fiume e il vento offre soltanto un torpido sdipanarsi di freddo cui ci siamo adattati con mansuetudine, senza più aspettarci altro oltre a ciò che ci è stato dato, e senza più chiederci com’è che siamo arrivati in questo luogo, non ci dispiace affatto che niente sia andato come avevamo sperato. Non c’è modo di dissipare la foschia in cui viviamo, non c’è modo di sapere che ci è stato inflitto un altro giorno. La neve silenziosa del pensiero si scioglie senza una sola possibilità di attecchire. Nessuno ha la minima idea di dove siamo. Le porte sull’assenza di luogo si moltiplicano e il presente è così distante, così profondamente distante» (Nasconditi la faccia tra le mani).
Il minimale barbaglio della sua concretezza dilata contorni, si appropria del tempo viaggiante e labile del ricordo e del sogno, diventa disparità di luogo e contorno:
Cara Henrietta, visto che sei stata tanto gentile da chiedermi perché non scrivo più, farò del mio meglio per risponderti. Ai vecchi tempi, i miei pensieri sfavillavano come minuscole scintille nel buio quasi assoluto della consapevolezza e io li trascrivevo, e pagina dopo pagina risplendeva di una luce che dichiaravo tutta mia. Sedevo alla scrivania, sbalordito da ciò che era appena successo. E perfino mentre guardavo le luci affievolirsi e i miei pensieri divenire piccoli mausolei senza alcun senso nel lucore residuo di tanta promessa, restavo ancora sbalordito. E quando scomparivano, com’era inevitabile, io ero pronto a ricominciare, pronto a restare seduto al buio per ore ad aspettare anche un’unica scintilla, nonostante sapessi che non avrebbe quasi per nulla emesso luce. Quello di cui non mi ero reso conto allora, ma di cui mi rendo conto fin troppo bene adesso, è che le scintille portano dentro di sé il desiderio di essere sollevate dal fardello della lucentezza. Ed è per questo che non scrivo più, e che il buio è la mia libertà e la mia contentezza (Una lettera da Tegucigalpa).
Oppure nel Notturno del poeta che amava la luna, la sostanziale affermazione della poesia si ferma come una ferita che sollecita il tempo, affabile e consunta, che tende alla «congiunzione luminosa di niente e tutto»:
Mi sono stancato della luna, stancato di quell’aria attonita, del ghiaccio azzurro del suo sguardo, dei suoi arrivi e delle sue partenze, del modo in cui avviluppa amanti e solitari sotto le sue ali invisibili, senza saperli distinguere. Mi sono stancato di così tante cose che un tempo mi incantavano, sono stanco di guardare l’ombra delle nuvole passare sull’erba illuminata dal sole, di vedere i cigni che scorrono avanti e indietro sul lago, di scrutare nel buio, sperando di trovare l’immagine di un sé ancora non nato. Lasciamo che la semplicità penetri l’occhio, semplicità come un tavolo su cui non è apparecchiato niente, come un tavolo che ancora non è nemmeno un tavolo.
Pertanto, Mark Strand, come si legge nella nota di copertina del testo: «agisce con ironia spesso anche beffarda, esprime una sorta di insoddisfazione quieta eppure dominante, pervasiva, che coinvolge un’ampia serie di personaggi: un banchiere, un ministro della Cultura, un viaggiatore, il padrone di una grande villa e tanti altri, tutti collocati in situazioni ambientali particolari, come fossero elementi dei più disparati luoghi e paesaggi».
È la sospensione della storia, impastata di effimero ed eterno a colpire il suo occhio vigile, come accade ne Gli studiosi dell’ineffabile: «[…] Avevo affittato una casa sul mare. Ogni sera sedevo in veranda e mi auguravo di provare un’ondata di sentimento, un flusso di suono infuocato che mi portasse lontano da tutto ciò che avessi mai conosciuto. Ma una sera salii la collina alle spalle della casa e dall’alto contemplai una stradina serrata dove fui sorpreso di vedere lunghe file di persone che si trascinavano in lontananza», la loro opera, infatti, «ha a che fare con il sè».
Nonostante la polvere del loro cammino veli il cielo, uno di questi “camminatori” risponde all’obiezione del poeta: «siamo solo di passaggio, le stelle torneranno».
L’ansia di Strand non si attesta, quindi, solo sul valore ineffabile della poesia, sulla sua permeabilità quasi invisibile, ma sul valore prettamente conoscitivo ed esperienziale che egli chiama «firelit stream of sound» che porta in grembo la ruvidezza dell’inquietudine e del mistero, come una sorta di infinitesima resistenza che tiene.
È un suono profanato che compie la sua ferita nelle cicatrici e indossa l’estate fuggevole, per fermarlo, assisterlo, improntarlo. In Il desiderio del ministro della Cultura viene esaudito, il suo burocrate «rientra a casa dopo una giornata estenuante in ufficio. Si sdraia sul letto e cerca di non pensare a niente, ma non accade niente o, per essere più precisi, il niente non accade».
Ma in questa propagazione di tenebra e chiarezza futile, egli è paziente, «e pian piano le cose scivolano via – le pareti di casa, il parco al di là della strada, gli amici nella città vicina» e la permanenza del buio, del vuoto e del nulla si affermano in una sorta di amaro divertissement, di ironia sagace e di piacevole contraddizione.
L’incompiutezza è l’abbozzo di una sospensione che attende, protesa, l’ineffabilità di un pronunciamento, il suggerimento di una porta aperta sull’inconoscibile. Il lettore, pertanto, diventa il protagonista di questa sospensione, prossima a dissolversi, ma in tempo per centrare l’andatura dell’essere, come un tramonto spossato o una storia assurda.
In un articolo su “Il Manifesto”del 15 giugno 2014, dal titolo Mark Strand: aspetta, silenzio, Caterina Ricciardi scrive:
Rispetto alle ultime raccolte (dialogate per lo più con il personaggio «Morte»), la ricerca poetico-esistenziale di Strand continua in tale direzione ma in termini sempre più brillanti nell’impiego virtuosistico di un wit, un’arguzia, agghiacciante. Di fronte alla commedia dell’assurdo che è l’esistere nel mondo, e nel mondo di oggi, il poeta, che coraggiosamente discende nei sottosuoli dell’anima e del reale, non è affatto rassegnato a farsi fermare da un silenzio beckettiano. L’intento è quello di interrogare entità inconoscibili, aprire porte proibite, come fecero altri in altri tempi e con altre allegorie, e altri intenti, incluso quello di ritornare a rivedere la luce. L’accostamento non è azzardato: le bufere infernali flagellano anche i suoi ‘dannati’.
Strand mette in scena il suggello di un’epica sparita e sparsa, abitata dalla moltitudine delle identità e dalla sottigliezza dell’invisibile che instaura un lungo processo meditativo irrisolto che indaga la condizione umana e cerca la salvezza fissata, il punto denso, l’istante che si sporge sul vuoto e, come annota ancora la Ricciardi, mira
alla scansione in galleria di una successione di tableaux vivant, riquadri (anche tipografici) animati da una consorteria di personaggi, per lo più appartenenti a un’estenuata classe borghese (un banchiere, un ministro della cultura, un giornalista, un io qualunque), personaggi apparentemente normali e tuttavia ritratti alle prese con situazioni bizzarre in nudi interni (una camera da letto, un bordello, un castello, un boudoir matrimoniale) o, più spesso, in paesaggi esterni inospitali, algidi specchi alla Magritte, iperrealistici e al contempo insondabili e misteriosi. In questi cronotopoi del nulla il soggetto osserva il proprio azzeramento nel mondo, oppure, nell’evitarlo, si lascia trascinare da un incontrollabile impulso verso un viaggio non si sa mai da quale e in quale direzione, un viaggio nell’ignoto che non sembra prevedere arrivi.
Premio MacArthur Fllowship, Pulitzer nel 1999 e poeta laureato, Strand è espressione di un gesto poetico che stanzia i suoi confini tra gli eccessi di presagio e luce (omens of the end), laddove l’aneddoto biografico, la dedica, le immersioni nel buio, manifestano la tensione verso una strana disarmonia e una caccia di istanti:
Non ogni uomo sa cosa canterà alla fine, / guardando il molo mentre la nave salpa, o cosa sentirà / quando sarà preso dal rombo del mare, immobile, là alla fine, / o cosa spererà una volta capito che non tornerà più. / Quando il tempo è passato di potare la rosa, coccolare il gatto, / quando il tramonto che incendia il prato e la luna piena che lo gela / non compariranno più, non ogni uomo sa cosa invece scoprirà (The End).
Attraverso un’istanza con forte eco leopardiana, egli va a caccia delle ombre, delle assenze riformulate, delle confessioni pastorali che dissolvono i nastri temporali e le dislocazioni di identità e di memoria: «Il sole che cala. I prati in fiamme. / Il giorno perso, la luce persa. / Perché amo quel che svanisce?» (The Guardian).
La sua confessione si richiama alla classicità accesa di Teocrito prima e di Virgilio e Ovidio poi, frequenta certa poesia accesa del ‘600, affermando la sua illuminazione e il suo tracciato antimimetico.
È come se il paesaggio della sua anima manifestasse e dichiarasse apertamente una esclusione, una evanescenza vibrante, come scrive Luigi Sampietro su “Il sole 24ore” del 17 luglio 2011, in una interessantissima recensione alle poesie di Strand, apparse qualche anno fa per Mondadori: «è un detective metafisico che si sofferma sulle tracce di chi — o di ciò– che ora, qui, è assente e non si vede, ma che deve pur esserci o esserci stato. V’è un lato enigmatico, per non dire enigmistico — oltre che, ben inteso, umoristico, — in taluni momenti della sua poesia».
I suoi paesaggi e i suoi spazi, come i campi, i panorami e diorami marittimi e montani, rivelano una struttura compositiva sommersa e racchiusa in un punto di fuga che consuma il destino delle scene e degli attori della sua pagina, in cui si fondono la malinconia irreversibile delle cose perdute, l’ironia e la narrazione comico–surreale: «Da qui sgorga la poesia: abitiamo in un posto / che non è nostro, e, soprattutto, non è noi».
Ecco l’esito di una via vera e reale, lo spiraglio del cielo aperto. L’esclusione e l’assenza riflettono il moto umano del lutto battente e di quello che sarebbe potuto essere ma non è stato, come «i colori che svaporano» e attendono il breve solco della slabbratura della grazia: «In un campo / io sono l’assenza / del campo. / È / sempre così».
L’assenza che si fa prospettiva, come l’avvenimento dei quadri Edward Hopper o le incisioni di M.C. Escher, grande incisore olandese di distorsioni e prospettive, colorano un’illusione che permette la dilatazione dello sguardo e il rovescio della sua avventura: «l’amore che arriva, / la luce che viene. / Ti svegli e le candele entrano a fiotti nel cuscino, / sprigionano caldi bouquet d’aria. / Perfino così tardi gli ossi del tempo splendono / e la polvere del domani s’incendia in respiro».
La tonalità di ombra con cui il malessere e il dolore si schierano, trova solo in una fissità di sponda derisa e mutata, la sua figura agganciata e prossima che «data l’impalpabilità e la sostanza cinerea di fatti e oggetti e desideri lasciati puntualmente fluire, non gli è possibile nascondere un sorriso (ora amato ora distaccato) quando accade che una qualsiasi “situazione compiuta” presuma di stagliarsi e di durare». (Marco Giovenale, in «Poesia», marzo 2005)
Scrive Rosanna Warren:
il protagonista di Strand è un “io”, un personaggio che si sottrae al paesaggio. È una poesia semplice come un teorema, eppure inesauribilmente misteriosa. Come interpretare la reiterata auto asserzione […] che cancella il sé? Forse l’“io” è incorporeo come l’aria di cui prende il posto […] nel suo connubio di astrazione filosofica e linguaggio americano contemporaneo, il poema modula e incarna la riduzione che onora, spostandosi da un “campo” a “campo”, operando espansioni e contrazioni minime alla lunghezza dei versi e consegnando il proprio vuoto all’aria, perché lo riempia dopo ogni strofa.
La natura mitologica del suo pensiero rivela il rovescio che abita lo spazio poetico del simbolo, giacendo nella separazione, come l’io che rinuncia, uscendo da sé e fermandosi sui detriti di ciò che resta: «Mi svuoto dei nomi degli altri. / Mi svuoto le tasche. / Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada», o ancora «Adagio esco ballando dalla cassa in fiamme della mia testa. / E chi non è nato e rinato di continuo in paradiso?».
L’io, che sta «diventando orizzonte» e invoca an island in the dark, solca il suo respiro tormentato e spezzato, come un rito di assenze tremanti e di “sereniani” vuoti radiosi: «lei guardava fisso… / non me, ma oltre me, uno spazio / che poteva essere colmato da qualcuno / che ancora doveva arrivare». (Specchio)
La realtà, collocata sulle impronte sparse del metafisico, regola il tempo che sfugge ai suoi contorni definiti e definibili, e rende il suo magma ipnotico, diretto, fortemente evocativo, come il tramonto, ora della doppia luce e ingresso calmo e lento al buio inevitabile e dissolto: «l’oscurità si fa desiderio, / quando non v’è nulla che non aneli nascere; / i giorni in cui il destino del presente è pienezza di brezza».
L’evocazione è vigoria di respiro e eco quasi kafkiano, arroventato e perduto; respiro cosmico e malinconia di circonferenze espressive, che mostrano la loro ambiguità e la loro caduta, in un tragitto metafisico, nello spazio quintessenziato:
Dove stava scritto che una sera così si sarebbe dispiegata, / oscuramente incidendosi ovunque, o per quel che importa, dove / stava scritto che io sarei rinato di continuo in me stesso, / come sto facendo perfino ora, come ogni cosa in questo attimo, / e avrei sentito la caduta della carne nel tempo, e l’avrei sentita volgersi / silenziosamente, adagio, come se stesse rimettendosi nel verso giusto?.
La connotazione orfica del paesaggio strandiano è capace di soffermarsi sul crinale di un confine, lo abita, sostituisce le ombre con il vertice della descrizionedi senso e dell’avamposto delle parole strenui, con il colloquio con un elemento che risplende: «descrivere gli occhi di lei, / la fronte su cui si stendeva la luce d’oro della sera, / la curva del collo, il declivio delle spalle, ogni parte / fino giù alle cosce, ai polpacci, lasciando sgorgare le parole, come suscitate dal sonno, controcorrente, alla deriva, / contro il volere dell’acqua, dove ogni affaticarsi / condannato e futile».
Il paesaggio insegue la sua perdita e cerca la poesia che compie il suo atto vivente e il suo sacrificio nella prospettiva dell’azione: incorporea, evanescente, scomparsa e abdicata: «la storia della fine, dell’ultima parola / della fine, quando narrata, è storia senza fine».
In un’intervista di Luigia Sorrentino, Strand sostiene non solo l’indefinibilità della sua poesia ma anche il singolare pronunciamento, persino comico, dell’opera nel suo compiersi:
Non posso definire la mia poesia. Non credo spetti a me. Di certo ci sono certi temi che si ripetono nella mia poesia, aspettative, attesa, delusione, il buio che avanza, tuttavia quando scrivo non ho in mente niente di tutto questo. Non considero il mio lavoro nella sua totalità, mai, ma considero le singole poesie mentre ci sto lavorando. Poi una volta che ho scritto la poesia, non ci penso più. Me ne sbarazzo. E inizio un’altra poesia. Se avessi pensato di avere dei temi sui quali dovevo ritornare ancora e ancora, mi sarei sentito paralizzato. Sarei stato prigioniero di una nozione astratta di ciò che stavo facendo. Sarebbe stata la mia morte. […]
Nella estemporaneità lirica il fasto della poesia coglie la grazia di un’altezza splendida, promuove il canto estraneo delle cose, ma non si annulla, anzi rinviene i processi della sua nascita, in un vocabolario di brume e venti notturni, nell’estrema visione mistica delle luci lunari disilluse: «venne in una lingua / non sfiorata dalla pietà, in versi, oscuri e fastosi, / in cui la morte è rinata e inviata nel mondo come dono, / così che il futuro, privo di voce propria e di speranza».
In una intervista rilasciata a Laura Lilli su “la Repubblica” del 12 luglio 2007, Strand riferendosi a quel «luogo di perpetuo inizio che in sé contiene / ciò che mai occhio ha visto, mai orecchio ha udito, mano / mai ha toccato, ciò che mai è nato in cuore d’uomo», afferma la sostanziale potenza della poesia in un luogo terrestre non soggetto a giurisdizione, a cui il poeta si inchina, consacrandolo, nella sua caducità frammentata.
Altrove su “Il sole 24ore” del 3 luglio 2011, con un elzeviro dal titolo Ritrovarsi sull’isola dei poeti, egli scrive:
È una cosa curiosa: la vita che conduciamo ci consente solo di rado di fermarci a riflettere su ciò che abita nel nostro corpo e, di conseguenza, possiamo diventare così estraniati da noi stessi da aver poi bisogno della poesia per ricordarci che cosa si prova a esser vivi. La nostra abitudine a pensarci in relazione agli altri e a giudicarci in base a come agiamo in un contesto sociale ci rende più vicini allo spirito della narrativa: il comportamento esteriore è più facile da osservare, può essere percepito immediatamente, ed è quindi più semplice giudicarlo. […]
Una poesia, tuttavia, avrà necessariamente un’esistenza nel tempo, se non altro per il modo in cui si relaziona alle opere precedenti, assieme alle quali viene a formare un lungo specchio ininterrotto che, nel fluire dei secoli, ritrae la soggettività umana. È curioso notare come i sentimenti, pur accompagnandoci sempre, siano così difficili da cogliere da sembrare qualcosa di effimero. In genere vi prestiamo attenzione quando si fanno avanti con impellenza, nei momenti critici, quando è più forte l’esperienza della perdita: durante una separazione, per esempio, o in seguito alla morte di una persona cara. È allora che ci rivolgiamo alla poesia perché ci dica quali sono i nostri sentimenti, per mettere in parole ciò che supera la nostra capacità di articolazione. Inoltre, la poesia ha la capacità di conservare il senso di urgenza di tali momenti, permettendoci di riviverli più e più volte: anche quando una poesia è incentrata sulla perdita, il suo scopo è quello di conservare, di trattenere. Vogliamo serbare ciò che sentiamo nel profondo ma in un modo tale da trasformarlo in piacere.
La sintassi, come la sua anima percorre il mito e le sue istanze, il corpo della poesia con il vagabondaggio offuscato che avviene, come un passo disilluso e mortale davanti al buio.
La narrativa di Leif Enger (1961), autore nativo del Minnesota (Osakis), dove vive con la moglie e due figli, è una filiazione di approdi, un’avventura che sollecita sponde come epica salvata.
Il suo primo libro La pace come un fiume (2001) è un dramma di respiro che ama le nascite e le tregue, la speranza di un tempo imprevisto di attesa che ama i confini per superarli, l’origine per vivere.
Il romanzo, ambientato agli inizi degli anni Sessanta, condensa il suo presente vivo e memoriale di nostalgie morbide, la cui stoffa sibila suono e fiato di occhi bambini: «Sin dal mio primo respiro in questo mondo tutto ciò che ho sempre voluto sono un paio di polmoni e l’aria per riempirli […]. Pensate al vostro primo respiro: un vento sconvolgente che con estrema facilità vi si infila giù per i polmoni, mentre voi siete ancora lì che vi rigirate nelle mani del medico. Che urlo avete fatto!».
Il respiro, che deve lottare per liberarsi dai suoi precipizi e aprirsi alle feritoie del vento insperato e sconvolgente, ha nel protagonista, l’undicenne Reuben Land, figlio di Helen e Jeremiah, la destinazione del sangue-fiato, che sin dalla nascita sembra non avere avvii, scaraventata nel mondo senza possibilità.
Se non fosse per suo padre, Jeremiah, che con il soffio indomito della sua preghiera nel vento, invoca inizi: «Reuben Land, in nome del Dio vivente ti sto dicendo di respirare».
Commenta padre Antonio Spadaro: «Non si fa fatica, leggendo le prime tre pagine del romanzo, a cogliere che il primo respiro in questo mondo (first breath in this world) è rinvio a quel «soffio» che aleggia sulle acque della terra informe e deserta di cui si parla nel libro della Genesi (1,1). Il respiro è passaggio dal caos dell’asfissia mortale all’ordine del mondo creato come buono, bello, vitale. Il passaggio qui è garantito da un «miracolo» compiuto dal padre del bambino».
Salvato sul bordo del precipizio, Reuben raccoglie il suo miracolo. Inizia ora l’avventura della famiglia Land, nei termini del mondo: «I miracoli veri danno fastidio alla gente, come quegli strani improvvisi malesseri sconosciuti alla letteratura medica. È vero: confutano ogni legge da cui noi bravi cittadini traiamo conforto. […] Io credo di essere stato salvato da quei dodici minuti senz’aria per diventare un testimone e, in quanto testimone, fatemi dire che un miracolo non è una cosa carina, è piuttosto un colpo di spada».
Ecco lo strappo al nulla in una provincia indenne, che non si allontana mai dal limite dei segni e delle ferite, come Jeremiah abbandonato dalla moglie, i figli Swede e Davy, il tentato stupro di Dolly, la giovane fidanzata di Davy, da parte di due ragazzi, Israel Finch e Tommy Basca, che minacciano vendetta. I due rapiranno la piccola Swede e copriranno di catrame la casa dei Land. Davy li sorprenderà in casa propria e, con feroce determinazione, porrà fine alla loro esistenza.
L’armonia che lotta con il caos, genuflessa ai limiti, apre il corso di esistenze nuove e fuggiasche. Davy viene processato e gli viene imputata la premeditazione, allora inizia il suo tripudio di esilio e ricerca: «Quando fu che Davy Land si rese conto che l’esilio è un paese dai confini mutevoli, difficile da abbandonare ma altrettanto da sopportare, non importa quanto siano larghe le tue spalle, o quanto indurito il tuo cuore?».
Lo spazio aperto delle terre del North Dakota è la frontiera delle badlands, il selvaggio confine dell’ombra e dell’assedio. La sua famiglia si mette alla sua ricerca, a bordo della Plymouth, per cercare di trovarlo prima della polizia. In una inesausta battuta d’aria e di inverni, l’irraggiungibilità esiliata di Davy non ha riparo, mentre la ricerca di Jeremiah non proclama inerzie, ma si compone di fede e preghiera, come la sua Bibbia sfuriata e sfogliata.
Scrive Antonio Spadaro: «Il tema classico della vita on the road – che qui viene rielaborato efficacemente con gli elementi del romanzo poliziesco e della saga familiare – dà vita a un’epica della vita ordinaria illuminata dalla fede, dalla speranza e dall’affetto profondo, al di là di ogni vano sentimentalismo. L’elemento «maledetto» e selvaggio delle storie on the road viene trasfigurato nello stupore del «miracolo» e della speranza contro ogni apparenza», proprio come dice Reuben, narratore di questo viaggio: «Tutto questo, lo capite, traeva ispirazione solo dalla pura fede. […] La fede ci aveva condotto a questo. La fede, secondo papà, ci aveva mandato la roulotte Airstream, e la fede avrebbe guidato il nostro viaggio».
Ma la paolina sostanza delle cose sperate e l’anticipazione delle cose che non si vedono non è una sospesa chiarità, bensì una robusta visione che permette di «vedere le cose, di toccarle, di attenderle» (Antonio Spadaro). Ed ecco che il viaggio inscena la trama vivente del sacrificio, della speranza, della salvezza promessa come una terra, gettata nel dolore e nella domanda, bisognosa e mendicante. È, in sostanza, un esodo di luce.
Il respiro di Reuben, che figura ritmi e viaggi, poggia la sua forza sulla pagina, raccoglie paesaggi e soste di incontri indicibili e viventi, come Roxanna Cowley che indica gli occhi e una meraviglia carnale. Reuben vedrà Davy che vive con il losco Jape Walzer e Sara, la sua donna schiava, ma questi gli impone di non far parola con nessuno. Un peso segreto tremendo che egli porterà con sé. Jeremiah e Roxanna sviluppano il loro cuore e Reuben vedrà «le loro mani toccarsi, non una stretta appassionata, ma uno scambio semplice ed eterno, antico come la Sacra Scrittura».
Le fughe di Davy portano mani fuggiasche e conclusioni estreme: porta con sé Sara nel suo paese d’origine e viene raggiunto da Jape che spara ferendo Jeremiah e colpendo mortalmente Reuben, ma «misteriosamente e miracolosamente avviene una sorta di scambio in un capitolo ambientato in una zona, un aldilà, tra la vita e la morte, dove Reuben gusta la beatitudine. Il ragazzo rinviene e Jeremiah muore, lasciando però al figlio, miracolosamente guarito dall’asma, un messaggio di fiducia e salvezza. Davy riprenderà la fuga. Swede diventerà scrittrice. Reuben sposerà Sara» (Antonio Spadaro).
In un’intervista rilasciata a T.Wiss, in Inside Borders dell’ottobre del 2001, il riconoscimento della sostanza del reale sostanzia la pagina e Leif Enger sostiene che: «Non so come sia possibile scrivere un libro senza che la tua fede appaia. […] La tua fede ha sempre a che fare, io penso, col modo in cui tu vedi il mondo, e dato che il mio modo di vedere le cose è quello cristiano, questo è il modo in cui il mio libro va letto. Detto questo però, il mio libro non è un tentativo di fare evangelizzazione. È realmente la storia di un ragazzo alle prese con la fede che gli è cresciuta dentro e che si gioca in termini di lealtà e sacrificio […]».
Ad Andrea Monda su “L’Osservatore Romano” del 15-16 giugno 2009, risponde che: «Una persona può discutere sul fatto che l’atto dello scrivere sia esso stesso un atto di fede – perché ognuno crede in qualcosa, si affida a un qualche vangelo, quello di Dio o il proprio – e la scrittura è un’espressione di quella fede, ma in fondo alla strada giace la teologia, che è un territorio che mi confonde. Per dirla più onestamente possibile, io scrivo perché amo il linguaggio e le storie e voglio vedere come le cose si sviluppano. Il mio primo obiettivo quando lavoro a un romanzo è scoprire cosa succederà e far girare la storia in un modo tale che il lettore possa salire a bordo, godersi il viaggio, e lasciarlo soddisfatto. Per quanto riguarda il fatto di eternare la bellezza, sicuramente un libro è un modo per provarci, ma ce ne sono migliaia altrettanto buoni o migliori, come allevare figli, costruire navi, riparare tetti, coltivare giardini. Io sto provando a fare qualsiasi lavoro che mi è a portata di mano, e lascio decidere a Dio cosa mantenere e cosa buttare via».
In Così giovane, bello e coraggioso siamo nel Minnesota del 1915. Lo scrittore Monte Becket che aveva scritto un romanzo nel Far West è in crisi creativa, e allora decide di risalire il fiume salendo su una barca a remi, guidata da Glendon Hale, un rapinatore di treni, fuggiasco e ricercato dalla polizia e dal detective Charles Siringo, verso la California, dove questi deve arrivare prima di morire per chiedere perdono alla sua moglie da lui abbandonata. Tra i due nasce un’amicizia profonda che cambierà e renderà autentico il cuore inquieto di Monte, vero alter-ego dell’autore.
Paolo Pegoraro, in un articolo su «Famiglia Cristiana» del 2009 afferma: «Eppure, dietro l’apparenza del racconto volutamente spensierato e melodrammatico, Enger dice qualcosa di più. I suoi personaggi dovranno rinunciare a ciò che più vogliono per poterlo ritrovare, sia esso la libertà o il desiderio di scrivere. E viene da chiedersi se, dietro la storia di Monte Becket, non ci sia un risvolto autobiografico: anche Enger infatti è del Minnesota, sposato, autore di un solo bestseller uscito ben sette anni prima di questo nuovo romanzo. Avrà affrontato anche lui una crisi creativa? e come ne sarà uscito? Forse proprio come il suo personaggio, abbandonandosi senza troppe preoccupazioni alla prorompente e romantica avventura della vita. E in fondo non è questo che c’insegnano, i romanzi d’appendice? G.K. Chesterton li definiva «letteratura a sensazione», «un vangelo più schietto e valido di tutti gli iridescenti paradossi etici… semplice come il tuono del cielo ed il sangue degli uomini».
La frontiera, la terra, il destino, l’epica rappresentano la vita come tensione inesausta verso la pienezza, amore implorato e incendiato, vivezza di carne e radicalità, nulla è come prima, perchè «è strano, quando raggiungi la tua meta: pensavi di arrivare lì, fare quello che ti proponevi e andare via soddisfatto. Invece, quando ci sei, ti accorgi che c’è ancora altra strada da fare» e in cui il fiume rappresenta sempre «un luogo che ha a che fare con la trascendenza. Metti una canoa nell’acqua che fluisce e sei subito spinto rapidamente dalla corrente con nessun impegno da parte tua; diventi così una creatura differente, una creatura del fiume, capace di odorare strane cose, vedere creature viventi al di sotto del livello dell’acqua, sentire il gracidio di invisibili uccelli acquatici. Anche il tempo cambia sul fiume. Non c’è altra esperienza che così rapidamente rimuove la pressione dalle tue spalle, la vita sul fiume si percepisce come un dono forse più che in altre situazioni. Mark Twain ha scritto che “la vita è potentemente libera, tranquilla e comoda su una zattera” e aveva ragione».
Enger L., La pace come un fiume, Fazi, Roma 2009.
Id., Così giovane, bello coraggioso, Fazi, Roma 2009.
Spadaro A., «La pace come un fiume». Un romanzo sulla famiglia, la fede e i miracoli, in «La Civiltà Cattolica», IV, 2002.
Wiss T., «A miracle of a novel», in «Inside Borders», october 2001.