di Sylva Batisti Prato, 30 gennaio 2013
Mediazione Familiare
“Carnage”, un film di Roman Polanski del 2011, è a mio avviso un vero capolavoro, sia dal punto di vista della sceneggiatura sia dal punto di vista attoriale e registico. Il setting è quasi simile ad un setting teatrale: il salotto di casa di Penelope (Jodie Foster) e del marito Micheal, dove questa prima coppia coniugale dei padroni di casa ricevono l’altra interessante coppia formata da Nancy (Kate Winslet) e il marito avvocato. Si incontrano per discutere del litigio violento dei rispettivi figli, uno visto come l’effettiva vittima visto che ha perso gli incisivi ed è stato sfigurato a detta di Penelope, l’altro il picchiatore.
La discussione si trasforma ben presto in un dramma a quattro voci, dove il conflitto, seppur verbale ed espressivo (attraverso una significativa gestualità e comunicatività corporea fra cui il vomito di Nancy per fare solo un esempio) diventa protagonista e dove tutti e quattro contribuiscono, ovviamente ognuno a suo modo, ad alimentarlo, esprimerlo, drammatizzarlo, tirarlo fuori. Ogni personaggio è contrassegnato da una doppia identità, quella che esprime e quella che vorrebbe esprimere più consapevolmente. La contraddittorietà di ognuno è estrema di fronte al conflitto, il quale mette a nudo in modo palese l’antinomia fra ciò che si crede di essere e quello che miserabilmente si è, umani, pieni di contraddizioni, imperfezioni e debolezze: mai all’altezza delle migliori intenzioni che talvolta motivano ad affrontare una discussione con altre persone divergenti.
In particolare il personaggio mirabilmente interpretato da Jodie Foster, Penelope, incarna al meglio il suddetto punto di vista interpretativo: perché si pone come salvatrice, scrittrice pacifista, dice di credere alla cultura come forza per la pace e poi si rivela nello scontro una delle voci più estreme e violente, picchia il marito, rovescia la borsa di Nancy e insulta a gran voce.
L’altro personaggio apparentemente agli antipodi di Penelope, il ricco e cinico avvocato padre del bambino aggressore, che sembra essere inizialmente poco interessato stando tutto il tempo al cellulare per business della sua azienda farmaceutica e che fino alla fine rivela una visione ben precisa della violenza, dicendo che il suo Dio è il Dio del massacro: la sua violenza è il cinismo, la cattiveria e aggressività verbale, sostenendo che è nella natura umana da sempre e non si può eliminare semmai esprimere sotto forme più accettabili.
La discussione degenerando costringe tutti a scoprire le carte della propria miseria e infelicità, dei propri limiti e l’alcool di troppo allenta i limiti del comune buon senso: un film grottesco tragicomico appunto, sulla coppia, sulla famiglia, sulla cosiddetta società civile del primo mondo (siamo A New York nel film). Non si può assolutamente interpretare con la veste giudicante, anzi è un film che fa riflettere su una violenza nascosta nelle pieghe della nostra società del “benessere” pronta ad esplodere proprio perché forte è il malcontento e l’infelicità nascosta nella coppia e nella famiglia, soprattutto in quelle che si ritengono perfette, migliori delle altre. Come succede proprio alle coppie del film, che si sentono migliori, addirittura ogni personaggio anche individualmente è affetto da questa presunzione quasi ridicola, che il film fa poi via via emergere, di considerarsi il migliore, il portatore della verità, dei giusti valori.
Forse dal punto di vista proprio della mediazione familiare la visione di questo film bellissimo mi suscita una precisa riflessione conclusiva che vorrei qui esporre: il conflitto viene esasperato proprio quando siamo di fronte a mentalità egocentriche, presuntuose che, al di là dei valori e dei principi a cui si ispirano, credono comunque di possedere la visione ottimale delle cose, del mondo e di conseguenza sanno quali comportamenti siano più giusti. Viceversa, una mentalità convinta ma flessibile, aperta al dubbio, all’interrogativo, alle infinite possibilità di ridimensionare una tematica o un oggetto di discussione, possono più sperare di affrontare diatribe in modo sereno e arricchente, cercando di cogliere non solo il limite dell’altro ma il proprio limite, che realmente esiste e riguarda tutti, nessuno escluso.
Nella mediazione familiare l’obiettivo del ridimensionamento del conflitto è centrale, la rilettura, la rinarrazione: per poter ridimensionare e rileggere un conflitto però bisogna essere disposti ad ascoltare l’altro, ci piaccia o no, anche drammaticamente.
Nel film c’è un ascolto forzato, goffo, drammatico ma anche nella vita questo avviene: perlomeno i quattro riescono a buttare fuori il veleno, di cui il vomito di Nancy è emblematico in quanto incarna il rifiuto dell’altro, il rigetto della verità dell’altro.
Il film è pirandelliano per lo svolgimento della tematica dei valori, di ciò che si è e si crede di essere e di cosa invece vedono gli altri di noi ed anche perché mette in luce che “la verità è una , nessuna, centomila”. Una coscienza pirandelliana dell’identità e delle relazioni ci fa capire le potenzialità da un lato delle relazioni, dall’altro i limiti complessi ed intricati.
Rimane la responsabilità dell’uomo il terreno della decisione e della svolta a mediare, la sua libertà, che alla fine consiste in questa scelta di responsabilità quando si relaziona agli altri in una situazione conflittuale.
Questa responsabilità però non può assolutamente prendere forma senza una consapevolezza profonda della complessità del conflitto dentro la mente umana e fuori di essa, nella società dove l’uomo vive e comunica. Il film Carnage ha un significato pedagogico importante, nel farci capire ancora una volta quale intreccio nasconda una lite violenta di due ragazzi: intreccio che scende nel retrobottega della famiglie perbene, dove stanno le radici nascoste del “male” dietro le borghesi apparenze dove tutti fingono una perfetta verità. Il film finisce con l’immagine del parco che è stato teatro della violenza all’inizio del film e che ora vede i due ragazzi di nuovo amici, riconciliati nonostante le famiglie. Le famiglie borghesi molto più dei figli tendono ad acuire i conflitti, arroccandosi nella loro pretesa di possedere la verità delle cose ed incarnarne il giusto modello. Le relazioni interpersonali si irrigidiscono e si esasperano i contrasti, che assumono una forma drammatica quando esplodono dopo tanta repressione e nascondimenti.
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