di Andrea Galgano 15 dicembre 2015
leggi in pdf Vassily Kandinsky: Il colore del suono
La poesia di Vassily Kandinsky (1866-1944) assume i segni architettonici di un’improvvisazione pittorica che inventa una lingua che trasfigura e crea il mistero vivente, un’intuizione palpabile che attraverso i segnali della nostalgia per la forma perduta condensa il tempo nel colore puro, che sente la forza e la composizione di un controcanto sentimentale in tutta la sua specifica potenza e palpito e, in questo senso, come sostiene Vittorio Sgarbi, «la pittura astratta non è soltanto sperimentazione ma è pittura psicologica e, in nessun pittore come Kandinsky, questo elemento psicologico è così fortemente presente».
Pertanto, tutta la sua opera, come scrive Roberta Scorranese, «è attraversata da un sentimento vivo, riconoscibile, palpabile: l’insoddisfazione. Mai sazio, prese i colori delle sue terre d’origine e ne fece astrazione: punti, linee, superficie. Ma non era ancora abbastanza: l’arte non riesce a riprodurre, diceva, “l’ora più bella delle giornate di Mosca”. Non era solo una questione di stile o genere: la pittura, da sola, non era sufficiente a raccontare quel mondo che giocava a dadi con la guerra, con le rivolte sociali» e poi, soffermandosi sul valore sinestetico dei versi dell’artista russo continua: «[…] in lui la sinestesia non era soltanto una forma retorica: era una poetica precisa. Dipingere e scrivere versi, comporre musica o imbastire riflessioni teoriche, erano semplicemente la stessa cosa. […] Ecco perché la poesia di Kandinsky non è solo poesia: è, insieme, suono, colore, gesto, linea, punto, superficie».
Il suo punto fiammeggiante si attesta nell’estremo desiderio di cogliere i nessi profondi del mondo, l’anima stremata e segreta, la frantumazione illuminata di una coltre casta, la sinestesia musicale di una linea selvaggia e incrociata, poi Mosca, la duale e mobile, regina che splende nel suo grido intagliato di gioia irraggiungibile che, come dice egli stesso, «si liquefa in questo sole, diventa una macchia che fa vibrare tutto il vostro essere interiore, come lo squillo in una tromba frenetica» (W. Kandisnky, Sguardi sul passato, p. 15):
«Il rosa, il lilla, il giallo, il bianco, il turchino, il verde pistacchio, il rosso fiamma delle case e delle chiese si uniscono al coro con il prato di un verde folle e il mormorio profondo degli alberi; e insieme è la neve dalle mille voci canore e l’allegretto dei rami spogli e infine la cintura della rossa muraglia del Cremlino severo, diritto, silenzioso. E sopra tutto, come un grido di trionfo, come un alleluia immortale scoppia la linea bianca intagliata, rigida del campanile di Ivan Velikij. La testa d’oro della sua cupola tende verso il cielo una nostalgia acuta ed eterna. La sua sagoma slanciata è, tra le stelle multicolori o dorate delle altre cupole, il vero sole di Mosca» (ibid., p. 15).
Ancora il tormento chiaro spodesta il suo limite, il suono vivo di una rinascita che in ogni particolare diventa figurazione riscoperta e istante denso come un volto mostrato, il coro dei colori che invade tutto il sistema percettivo:
«Tutto ciò che era inerte, fremeva; tutto quello che era morto, riviveva. Non soltanto le stelle, la luna, le foreste, i fiori tanto cantati dai poeti, ma anche il mozzicone nel portacenere, il bottone di madreperla che vi fissa dal ruscello, bianco e paziente, il filo di corteccia che la formica stringe con tutte le sue forze e trascina fra l’erba alta, verso mete indeterminate e importanti; un foglietto di calendario che una mano cosciente strappa dalla calda comunità degli altri fogli. Tutto mi mostra il suo volto, il suo essere profondo, la sua anima segreta che tace più spesso invece di parlare. Fu così che ogni punto, ogni linea immota o animata per me diventavano vive e mi offrivano la loro anima. Questo bastò a farmi scoprire, con tutto il mio essere e con tutti i miei sensi, le possibilità dell’esistenza di un’arte da determinare e che oggi, in contrasto con l’arte figurativa, è chiamata “arte astratta”». (ibid., p.16).
La scoperta della “divisione” dell’atomo introduce, nell’artista, lo spasmo di un crollo, di una vaghezza incerta e improvvisa, destinando la fatalità di un vacillamento mitico che elabora lo stremo dell’irregolare traduzione geometrica lirica, dei contrasti giustapposti e infine delle lontananze delle terre magiche, percorse da un’oscurata dimensione sognante dell’oggetto assorbito che crea il mondo, si appropria delle screpolature cromatiche, isola il suo stupore selvatico.
«L’arte, per molti punti, è simile a una religione» perché, scrive, «il suo sviluppo non dipende da invenzioni nuove che cancellano vecchie verità per consacrare nuovi errori, come avviene per la scienza. Il suo sviluppo procede per illuminazioni repentine, simili al lampo; per esplosioni, come i razzi di un fuoco d’artificio esplodono nel cielo per comporre il mazzo finale di stelle multicolori. Queste illuminazioni rischiarano di una luce abbagliante nuove prospettive, nuove verità, che, in fondo, non sono che lo sviluppo organico, la crescita organica della saggezza prima […]» (ibid., pp.40-41).
Nel 1913, Kandinsky pubblica la sua prima raccolta di poesie Suoni, trentotto testi in versi liberi, accompagnati da 55 xilografie che cercano la percezione visiva della sonorità. Ogni pronunciamento verbale è costituito, secondo Kandinsky, da tre elementi che si intrecciano e si intersecano nel calco figurativo, nel mero suono e nella rappresentazione ecoica del reale: «1) da una rappresentazione puramente concreta o reale (per esempio il cielo, un albero, l’uomo); 2) da un suono che si potrebbe dire fisico, ma che non si presta a una definizione verbale chiara (si può esprimere come agiscono su di noi le parole “cielo”, “albero”, “uomo”?); 3) da un suono puro, poiché ogni parola possiede la propria sonorità, peculiare a essa soltanto».(cfr.W. Kandinsky, Tutti gli scritti: vol.II: Dello spirituale nell’arte, scritti critici e autobiografici, teatro, poesie).
In Colline, l’incipit rimanda a un calco stereotipato della collina, prosegue attraverso una personalizzazione di territorio, si chiude nella definibilità dell’eco umana:
«Una quantità di colline, in tutti i colori che uno può e vuole immaginarsi. Tutte di diversa grandezza, ma di forme sempre uguali,ossia solo una: grosse in basso, gonfie ai lati, piane e tondeggianti in alto. Dunque colline semplici, abituali, come uno le immagina sempre e non le vede mai. Fra le colline serpeggia uno stretto sentiero semplicemente bianco, ossia né azzurrastro né giallino, né tendente all’azzurro né al giallo. Un uomo che indossa un lungo mantello nero, senza pieghe, che gli copre persino i talloni, va per questo sentiero. Ha il volto pallido ma con due chiazze rosse sulle guance. Anche le labbra sono rosse. Porta a tracolla un gran tamburo e lo suona. L’uomo cammina in modo assai buffo. Talvolta corre e percuote il tamburo febbrilmente, con colpi irregolari. Talvolta procede con lentezza, forse assorto nei suoi pensieri, e suona il tamburo quasi meccanicamente, con un ritmo molto lento: uno…uno…uno…uno…Talvolta addirittura si ferma del tutto e batte come il coniglietto bianco dal pelo morbido, il giocattolo che noi tutti amiamo. Quest’immobilità non dura però a lungo. L’uomo ricomincia a correre e percuote il tamburo con colpi febbrili, irregolari. Come del tutto sfinito, l’uomo nero giace lungo disteso sul sentiero bianco, fra le colline di tutti i colori. Accanto a lui sono i tamburi e anche i due mazzuoli. Ma eccolo già in piedi. E riprenderà a correre. Tutto ciò l’ho visto dall’alto e prego anche voi di volerlo osservare dall’alto» (ibid.).
Le interne polarità cromatiche si esprimono in coppie di opposti, in cui il blu e il bianco segnano quiete e distanza, come in Visione: «Blu, blu si alzò e cadde. / Appuntito, sottile fischiò e s’introdusse, ma non passò da parte a parte. / In tutti gli angoli è rimbombato. / Grassobruno rimase impigliato apparentemente per tutte le eternità. / Apparentemente. Apparentemente. / Devi solo stendere di più le tue braccia. / Di più. Di più. / E devi coprirti il viso con panno rosso. / E forse non c’è ancora stato uno spostamento: soltanto tu ti sei spostato. / salto bianco dopo salto bianco. / E dopo questo salto bianco di nuovo un salto bianco. / E in questo salto bianco un salto bianco. In ogni salto bianco un salto bianco. / Non è certo un bene che tu non veda il torbido; poiché nel torbido c’è davvero. / Perciò anche tutto comincia…..È scoppiato…..».
In Aperto, invece, Kandinsky crea un’ossessione recitativa, attraverso un ritmo al contrario, definito nello schema eco-gestalt-calco, spogliando le canne dal verde: «Ora nell’erba verde lente dileguanti. / Ora nascoste nella grigia mota. / Or nella bianca neve lente dileguanti. / Ora nascoste nella grigia mota. / Giacquero a lungo: grosse lunghe nere canne. / Giacquero a lungo. / Lunghe canne. / Canne. / Canne».
La forma acquista sintesi, si spinge verso una forte dinamica grafica che discioglie il dato reale nel contrasto e nella tensione, e il dizionario cromatico, messo in atto dall’artista russo, rappresenta il termine libero di un’esplosione di confine: «I primi colori che mi fecero grande impressione sono il verde chiaro e brillante, il bianco, il rosso carminio, il nero e il giallo ocra. Avevo allora tre anni. Quei colori appartenevano a oggetti che non rivedo più chiaramente, come rivedo, invece, i colori» (Sguardi sul passato, p. 11).
O come scrive nel volume Lo spirituale nell’arte, a cui lavorerà alacremente dal 1904 al 1909, tra i boschi di Murnau in Baviera: «Chi ha sentito parlare di cromoterapia sa che la luce può avere effetti sull’organismo. Più volte si è tentato di adoperare la forza del colore per curare varie malattie nervose, e si è osservato che la luce rossa ha un effetto vivificante e stimolante anche sul cuore, mentre la luce azzurra può portare ad una paralisi temporanea. [….] Questi fatti dimostrano comunque che il colore ha una forza, poco studiata ma immensa, che può influenzare il corpo umano, come organismo fisico. […] In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente un’anima. Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. E’ chiaro che l’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire principio della necessità interiore» (p.46).
È lo spirituale che rende possibile la costruzione di una grammatica pittorica che è profezia oracolare, incisione assoluta del tempo interiore, svegliata dopo il periodo del materialismo, protesa e rivestita dalla ricerca della libertà. L’illuminazione kandiskiana rinuncia alla mimesi naturale per appropriarsi della semantica cromatica e del frantume dei suoni che oltrepassano il linguaggio: «Partiamo dall’idea che l’artista, al di là dell’impressione che riceve dal mondo esterno e dalla natura, accumuli continuamente un tesoro di esperienze nel suo mondo interiore. La ricerca di forme artistiche che esprimano la compenetrazione di tutte queste esperienze, la ricerca di forme che eliminino il secondario per esprimere il necessario, insomma la tendenza alla sintesi ci sembra la caratteristica che in questo momento unisce un sempre maggiore numero di artisti».
«L’arte», come annota Elena Pontiggia, «è una creazione della storia. E dunque l’arte spirituale che sta per manifestarsi è il segno di un’età nuova: l’età dello spirito. Il soggetto del suo libro non è l’arte, è la spiritualità. E se la situazione della pittura è analizzata con particolare attenzione […] i continui riferimenti alla poesia, alla musica, al teatro, alla danza, l’aspirazione a un’arte monumentale che sia una sintesi delle singole espressioni dimostrano che Kandinsky si interessa alla pittura solo perché è un aspetto dell’arte. E si interessa all’arte solo perché è un aspetto dello spirito».
La parola che si dispone come puro suono interiore, è la Stimmung di una percezione evocativa che accosta suoni e segni grafici, rumori e figure geometriche, in una dinamica sonora e visiva che attrae e distanzia. La sua opera rappresenta l’esito di una vita interiore, ricollegata con l’esigenza di un’esperienza di epifania mistica, perché la forma, in un movimento ascensionale progressivo, nasce con lo Spirito e creata per esso: «Notai allora con mio grande stupore che questa esigenza è sorta sulle basi che il Cristo erige a fondamento dei valori della Morale, che questa visione dell’Arte è una visione cristiana e contiene in sé al tempo stesso gli elementi necessari per ricevere la terza rivelazione, la rivelazione dello Spirito». (ibid., pp.42-43).
La cromestesia rappresenta il trait d’union con l’anima, laddove, come suggerisce Elena Pontiggia: «La scelta di un colore o di una linea, di una parola o di un suono non dipende dall’arbitrio dell’artista. L’abbandono dell’imitazione verista non comporta una libertà soggettiva assoluta. L’adozione di una certa forma avviene anzi in base a una legge fondamentale, che Kandinsky chiama principio della necessità interiore. Necessaria è quella forma che sa parlare all’anima e sa raggiungere l’anima delle cose. La necessità coincide allora con l’efficacia espressiva, nel duplice senso di una capacità di comunicare con l’interiorità e di comunicare l’interiorità. L’artista sceglie la forma interiormente necessaria, cioè quella più adatta a rivelare la divinità».
Ecco allora che il dominio della forma si adatta al contenuto per diventare urgenza, narrazione della lotta dei toni che nascono dalla necessità interiore, vivono in essa e sfociano nella totalità espressiva che arriva persino all’ “eliminazione” degli oggetti, scovandoli nell’ultimità della loro presenza, per farsi “penetrazione” di stile e personalità nella trama oggettiva dell’arte, dove il punto dell’anima è il respiro al quale rimanere fedeli: la forma, pertanto, addensa non solo l’estremità delle superfici ma rappresenta la risultante di una vibrazione celata nell’interiorità: «Se [… ] ci accontentassimo dell’accordo di colori puri e forme autonome», dice Kandinsky, «creeremmo solo delle decorazioni geometriche paragonabili, grosso modo, a una cravatta o a un tappeto». Scrive in Inno: «Dentro culla l’onda blu. / Panno rosso lacerato. / Cenci rossi. Ondate blu. / Vecchio libro accantonato. / Sguardo noto in lontananza. / Piste oscure dentro il bosco. / Tenebrosa si fa l’onda. / Dove il panno rosso affonda».
Lo sguardo dell’artista, allora, posa la tela degli occhi sulla vita interiore, sull’apocalisse che cerca la germinazione sacra, appropriandosi di una ierofania del sentimento che destina la luce a un firmamento polifonico e segreto di colori «I tubetti sono come esseri umani, di grande ricchezza interiore, ma dall’aspetto dimesso, che improvvisamente, in caso di necessità, rivelano e attivano le loro forze segrete».
In Campana, Kandinsky sperimenta la vibrazione prodotta da un suono indipendentemente dalla sua connotazione: «Disse una volta un uomo a Bela Crkva: “non lo farò mai, mai.”
Esattamente nello stesso tempo una donna diceva a Mühlhausen: “carne di manzo con salsa di barbaforte”. Entrambi hanno detto ciascuno la propria frase, e proprio così e non altrimenti andò la cosa. Ho in mano una penna e con essa scrivo. Non potrei scrivere se fosse scarica.
L’animale grande e forte che aveva provato molta gioia a masticare e a ruminare, fu stordito con rapide mazzate, dal suono cupo sul cranio. Stramazzò. Una ferita apertagli nel corpo lasciò via libera al sangue. Un sangue denso, viscoso, dall’odore forte scorse via per un tempo che parve infinito. Con quale meravigliosa abilità fu strappata via la pelle spessa, calda, vellutata, ricoperta da peli bianchi e bruni ben disposti. Pelle scuoiata e carne rossa odorosa, fumante.
Paesaggio molto piatto, che si perde alla vista in tutti gli orizzonti. In fondo a sinistra un piccolo boschetto di betulle. Fusti, ancora molto giovani, di un bianco delicato; rami spogli. Solo campi bruni, arati a piccole strisce rettilinee. Al centro di questo cerchio gigantesco c’è un piccolo villaggio, formato da poche case di un bianco grigiastro. Esattamente in centro un campanile. La piccola campana obbedisce al movimento della fune e fa: deng, deng, deng, deng, deng…».
La poesia diviene un’associazione di script mentali che vengono uniti in una sorta di lungo recitativo immaginifico, laddove il segno grafico, il brandello onirico, il suono affilato si uniscono a una variante cromatica che strappa la vita, come in Primavera: «[…] La vecchia casa scivola lentamente giù dalla collina. Il vecchio cielo azzurro si nasconde disperato fra i rami e le foglie. / Non chiamarmi! / Il suono rimane disperatamente sospeso nell’aria, come il cucchiaio in un minestrone compatto. I piedi rimangono incollati all’erba. E l’erba vuole trafiggere l’invisibile con le sue punte. / Solleva alta l’ascia sopra il tuo capo e colpisci! Colpisci dunque! Le tue parole non giungono fino a me. Esse pendono dai cespugli come stracci bagnati. / Perché là al bivio non cresce nulla, e solo c’è questa putrida croce di legno? Le braccia hanno trafitto l’aria a destra e a sinistra. E l capo ha forato il cielo. Dai bordi strisciano sofferenti nubi rosse e blu. E fulmini le lacerano e le fendono là dove meno te l’aspetti e risanano senza lasciar tracce le loro punture e le loro spaccature. E qualcuno parla, parla — parla — / Sei di nuovo tu, tu uomo frivolo? Di nuovo tu?».
Seguendo le guide ispirative di Dante Gabriel Rossetti, il simbolismo estremo e tragico di Stefan George, lo spunto complesso di Maurice Maeterlinck, Kandinsky ricerca la cattura dei suoni in forme («L’universo risuona e solo l’artista è capace di catturare questi suoni e di tradurli in forme»), il punto («Nello scorrere del discorso, il punto è il simbolo dell’interruzione, del non essere (elemento negativo), e, nello stesso tempo, è un ponte da un essere a un altro essere (elemento positivo). Questo è il suo significato interno nella scrittura») come legame di silenzio e segno («Il punto geometrico è un ente invisibile. Esso dev’essere definito anche un ente immateriale. Dal punto di vista materiale il punto equivale allo zero. In questo zero sono però nascoste varie proprietà “umane”. Ai nostri occhi questo punto zero – il punto geometrico – è associato alla massima concisione, al massimo riserbo, che però parla. Così il punto geometrico diviene l’unione suprema di silenzio e parole»), la linea come traccia dinamica («La linea geometrica è un ente invisibile. Essa è la traccia lasciata dal punto in movimento, quindi un suo prodotto. Essa è sorta dal movimento – e precisamente attraverso l’annientamento della quiete suprema in sé conchiusa nel punto. Qui ha luogo il salto della staticità al dinamismo. La linea costituisce dunque la massima opposizione dell’elemento pittorico primigenio – il punto») e, infine, la spodestata dimensione oggettuale: «Volto. / Lontananza. / Nube. / …. / …. / C’è un uomo in piedi. Impugna una lunga spada. La spada è lunga e anche larga. Molto larga. / …. / …./ Egli cercò spesso di trarmi in inganno e, lo ammetto, gli riuscì anche, di ingannarmi. E forse troppo spesso. / …./ ….. / Occhi, occhi, occhi…occhi. / …. / …./ Una donna magra e non giovane, ha in testa uno scialle che le sta sul viso come uno scudo e lo fa rimanere in ombra. / La donna tira con la fune il vitello, che è ancora piccolo e non si regge con sicurezza sulle gambe sbilenche. Talvolta il vitello corre dietro di lei con buona voglia, talaltra non vuole. Allora la donna lo tira con la fune. Il vitello inclina la testa e la scuote e impunta le gambe- Ma le gambe sono deboli e la fune non si strappa. / …./ …./ Occhi guardano da lontano. / La nube sale / …. / …../ Il volto. / La lontananza. / La nube. / La spada. / La fune» (Suoni).
Nel 1925 disegna la Linea curva libera verso il punto, un disegno a inchiostro su carta, «come un pezzo di ghiaccio entro cui brucia una fiamma», esprime l’irriducibilità delle cose e la «perfetta esemplificazione del suo intento: rendere chiara e pura una dinamica pienamente reale e umana. Questa dinamica è l’attrazione esercitata sulla linea (la nostra vita) da un punto (l’altro, l’ospite inatteso). Un qualcosa che, per quanto smaterializzato nella rappresentazione di Kandinsky, produce, come lui stesso aveva scritto, «una vibrazione del cuore». E forse le curve che accompagnano la traiettoria potrebbero essere proprio lette come la rappresentazione di questa vibrazione…» (Giuseppe Frangi).
In Canto, egli dipinge le percezioni frante e chiastiche del mondo plastico: «Seduto è un uomo / nel cerchio angusto, / nel cerchio angusto / un uomo ossuto. / È soddisfatto. / È senza orecchi. / È privo d’occhi. / Del rosso suono / del solar globo / non sente traccia. / Ciò ch’è crollato / pure sta in piedi. / Ciò ch’era muto, / intona un canto. / Sentirà l’uomo / che non ha orecchi / e privo è d’occhi / del rosso suono / del solar globo / fievoli tracce» o in Bianco-corno, in cui la rarefazione del bianco sovrasta la compattezza del viola e l’interno della figuralità.
In questa contrazione di linee, dove solo apparentemente l’io sembra essere rilevato dalla geometria e dallo sperdimento astratto, l’insorgenza umana si ritrova in tutto il suo vitale vigore, come una linea convessa (dalle braccia di Dio ad Adamo), misteriosa e assoluta, che chiama alla purificazione e alla salvazione del proprio manto di frammenti: «Il contatto dell’angolo acuto di un triangolo con un cerchio non ha un effetto minore di quello dell’indice di Dio con quello di Adamo in Michelangelo. E se le dita non sono anatomia o fisiologia, ma qualcosa di più, ossia mezzi pittorici, il triangolo e il cerchio non sono semplice geometria ma qualcosa di più: mezzi pittorici. Accade così che talvolta il silenzio parli più alto del rumore e che il mutismo abbia una voce eloquente».
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