L’uxoricidio

uccide-mogliedi Emanuele Mascolo

25 febbraio 2014

Poiché le fonti non sono molte a riguardo e, perchè il caso in essere è stato abrogato con la Legge numero 422/1981, parleremo, in maniera essenziale, dell’uxoricidio, che, sostanzialmente, è l’omicidio della moglie causato per gelosia o per onore.

Ma alla luce di una Sentenza della Corte di Cassazione del 2012, possiamo comprendere  che è dato incontestato che il delitto de quo ebbe a maturare in condizioni molto particolari, visto che a stimolare l’azione delittuosa fu certamente la condotta della parte offesa, affetta da una forma psicotica ingravescente, con disturbi paranoici, resasi autrice di condotte, da un lato provocatorie nei confronti del marito, accusato ripetutamente – quanto del tutto pretestuosamente – di furti di vestiti, dall’altro di contrapposizione “a prescindere” su qualsivoglia scelta della vita quotidiana. E’ emerso che tale situazione era risalente nel tempo e che la carica di esasperazione si era accumulata, fine a che non occorse un fattore scatenante, che produsse nell’imputato l’esplosione, allorquando la donna, non contenta della sistemazione del televisore, buttò il telecomando a terra e lo ruppe. Questa situazione, così come rappresentata, delinea senza forzatura alcuna quella forma peculiare di “provocazione”, c.d. da accunulo o sedimentazione (Sez. I 13.1.2011, n. 4695), che presuppone sempre e comunque lo “stato d’ira” ispiratore dell’azione offensiva, che a sua volta rappresenta la ragione giustificatrice del riconoscimento di una minore gravità del fatto. La particolarità del caso di specie sta nel fatto che il fatto scatenante l’ira trova origine nella malattia della persona offesa. A fronte di questa realtà peculiare, la corte territoriale ha ritenuto di escludere che la condotta tenuta dalla vittima possa essere considerata obiettivamente ingiusta, poiché derivante dalla malattia di cui la vittima era sofferente, malattia che l’imputato ben conosceva, con la conseguenza che la reazione avuta dal ricorrente non poteva che valutarsi del tutto inadeguata.Tale modus operandi si discosta nettamente dalla linea interpretativa segnata da questa Corte di legittimità, che ha affermato che il “fatto ingiusto” può essere costituito da ogni comportamento, intenzionale o colposo, legittimo o illegittimo, purchè idoneo a scatenare la reazione altrui, presupponendo esclusivamente la volontarietà dell’atto, nel senso chi viene meno solo quando la reazione iraconda sia determinata da un fatto del tutto accidentale (Sez. I, 17.2.1999, n. 6285). In altre parole, l’ingiustizia del fatto deve essere valutata alla luce di parametri oggettivi, a nulla rilevando le condizioni psicologiche di colui che provoca o vessa, poiché ciò che deve essere considerato è l’attitudine del comportamento a provocare lo stato d’ira: anche il comportamento di una persona non sana di mente è idoneo a provocare un turbamento nell’animo di chi lo subisce, a cui non si può fare carico di una capacità di autocontrollo tale da portare a resistere non ad uno, ma ad una serie di atti similari ripetuti nel tempo, capaci di potenziare la carica offensiva e provocatoria e tale da incidere sul funzionamento dei freni inibitori.” ( Cass. n. 14270/2012)

La moderna scienza penalistica insegna, tuttavia, che il desiderare, il volere un determinato risultato non esclude per ciò solo l’esistenza del dolo concernente un diverso, più grave evento prodotto dalla condotta dell’agente.

Invero, proprio in tema di omicidio la Suprema Corte ha specificato che il criterio distintivo tra omicidio volontario e omicidio preterintenzionale consiste nell’elemento psicologico, nel senso che nell’ipotesi della preterintenzione la volontà dell’agente è diretta a percuotere o a ferire la vittima con esclusione assoluta di ogni previsione dell’evento morte, mentre nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è quella di uccidere la vittima. Tale volontà deve ritenersi sussistente non soltanto quando l’agente abbia agito con l’intenzione di uccidere, ma anche quando egli si è rappresentato l’evento morte come conseguenza altamente probabile della sua condotta che, ciò nonostante, ha posto in essere (Cass. pen., Sez. I, 03/03/1994, Mannarino; Cass. pen., Sez. I, 14/12/1992, Di Grande; Cass. pen., Sez. V, 28/05/1990, Moschetti).

La domanda che, dunque, occorre porsi nel caso di specie è se la morte dell’aggredito possa ritenersi come evento non voluto dall’imputato neppure nella forma eventuale ed indiretta della previsione e del rischio. Ed a tali fini occorre avere come parametro di riferimento la risolutiva statuizione delle sezioni unite della Suprema Corte  (Cass. pen., Sez. un., 14/02/1996, n. 3571 Mele), secondo cui “Sussiste il dolo eventuale quando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, agisce accettando il rischio di cagionarle; quando invece l’ulteriore accadimento si presenta all’agente come probabile, non si può ritenere che egli, agendo, si sia limitato ad accettare il rischio dell’evento, bensì che, accettando l’evento, lo abbia voluto, sicchè in tale ipotesi l’elemento psicologico si configura nella forma di dolo diretto e non in quella di dolo eventuale.” È quanto sostiene chiaramente il Tribunale di Rossano del 04/10/2002.