La limpida luce di Ezio Settembri – Nota

di Andrea Galgano

30 agosto 2023

D’altra luce di Ezio Settembri, pubblicato da Pequod, dona un ritrovamento di tempo come salvazione e, come afferma Giancarlo Sissa, nella prefazione: «è la sua una scrittura in versi colta e umile al tempo stesso […] attentissima alle possibilità del dialogo intertestuale con scrittori e poeti importanti della tradizione italiana e marchigiana – dall’amato e compianto Francesco Scarabicchi a Ferruccio Benzoni, da Vasco Pratolini a Guido Garufi a Sandro Penna e altri – poeti tutti letti e studiati par coeur con lucida passione e la cui comune lezione di limpida esposizione del dato umano sia storico che autobiografico sa qui concertarsi in una compiuta rapsodia di ritratti, istanti, miraggi».

Il respiro lieve si accompagna alla sicura destinazione del sangue, in cui il tempo d’anima, per usare un lessema di Sissa, apre una vastità di piano e di bellezza. Le figure genitoriali, i volti cari, gli accenti familiari divengono sipario e preludio di un attraversamento di stanze, di una limpidezza accentuata che riporta il mito, la stanza, la colta libertà di un piano a farsi penombra, in cui guardare le cose, riappropriarsene, varcarle.

L’altra luce esprime, dapprima, una provenienza e un’appartenenza, allo stesso tempo, che non solo rappresentazione memoriale dell’io ma cammino di «zolle fraterne».

Le incrinature paterne attingono a un’immersione nella ferialità del ricordo, nel fresco sorriso, nel guado di una sproporzione di incanto, con il cuore lieto: «Sogni e ricordi / dalla campagna / hanno la stessa materia, / abbiamo gli stessi panni vecchi / per sporcarci di terra / e dare acqua ai vasi. / Nient’altro che / gironzolare sul prato e / gustarci il sole».

È un moto onirico che ritorna alla sua stoffa per tagliare l’assenza, stonare le terre desolate, le sparizioni segrete e la durata del dolore: «Posso ritrovarti / nei mille volti che incrocio / ogni giorno, / l’euforia contagiosa, / un dopobarba troppo forte / per la mia pelle bambina. / Ma la voce che riempiva le stanze? / Ti rivedo al tavolo del Tresette / con “Gli animali”. / Sono tue le mie bestemmie / contro il televisore, / il gol fallito. / È fraterno al mio / il tuo dolore / il giorno del mio compleanno».

I dettagli e le inserzioni degli istanti racchiudono intensità che procedono come per abbagli, detriti di ombra, segni sul tempo che fracassano l’aria, come se si ripercuotessero sul presente, divenendo l’abbraccio e la carezza di un affetto spietato.

Poi la figura materna. Settembri non si appropria di un lessico familiare per riscriverlo. Egli condensa vicinanze nel respiro, nella pazienza dell’abbandono, nel dramma crudele dell’assenza, come un silenzio, un’attesa generosa, una mancanza di altura che si fa erranza: «Appoggiavo spesso la testa / sulle tue braccia scoperte, / anche da grande, / abbandonato come un infante. / Con non altri che te / era il colloquio, / un tacere di sguardi / prima della partenza. / Mi mancano i tuoi dolci silenzi, / pieni di consapevolezza, / l’attesa leale / del mio turno di parola, / una pazienza invincibile. / Un filo di rediviva tenerezza / mi lega ai compleanni / della mia infanzia, / ora che è notte / e rari lumini affiorano / dal ponte di nebbia».

La declinazione materna affresca sipari antichi, tocca l’inizio e la fine e l’opaca violenza incisa nel cuore. La destinazione familiare e il suo scorcio avvengono per recupero non per sottrazione, dove la sostanziale interezza della pienezza perduta, il fondo chiaro dei giochi, la lotta del tempo assediato destinano le linee dell’io a una gioia elementare.

Il tempo antico è scandito per particolari riversati, visioni, rapidità essenziali che ricamano il vento come lontananze e limpidi chiarori di soglia: «Vorrei lasciare un segno di rimando / di quelle estati interminabili, / scendendo i greppi / che mettono nell’uliveto / ascoltare il vento / modulare la nostalgia / di quelle voci bambine. / Posso sentirle gelare nel sangue, / attraversare il respiro, / penetranti dal buio / farsi luce».

Il grumo della nostalgia è un’apertura, sonda la solitudine, divenendo grafia interiore di uno sguardo e di una bellezza lucente, come una città, l’essere insegnante, una casa, una terra, un pezzo di luce che insegna a concepire silenzi e a diventare prima e unica tenerezza accesa.

Ezio Settembri, D’altra luce, Pequod 2023

Ritratto di un giovane poeta nel tempo primo della sua poesia

di Carmen Cucinotta

Andrea Galgano, Argini, Lepisma Editrice 2012

E di un tempo rimase il tempo / di un tempo di tempo / secondo spogliato di piani / tempi soggioganti / furiosi come cieche fiere mercati / di sale le ore cavalli sulla rena […]”: la prima raccolta poetica di Andrea Galgano, Argini (Lepisma 2012), comincia con il ritmo serrato di versi che cavalcano liberi e furiosi sulla riva del mare, come tempo che scorre, portando con sé tutto il sale della Terra. I versi della poesia iniziale, Tempi, prendono forse avvio dalla lettura che Galgano svolge dei “Quattro quartetti” di T.S. Eliot, poeta modernista che concepisce il tempo come qualcosa di irredimibile, perché in esso confluiscono già tutte le dimensioni: passato, presente e futuro. Il tempo di Andrea, invece, è redento perché “spogliato di piani”, è una narrazione di tempi dei giochi infantili, di desiderio d’amore nelle sceneggiature dell’adolescenza, un tempo che può essere lentamente indossato, come mare che “scheggia i fiumi”, perché dall’oblio della forza corrosiva di esso ci si salva solo con una forza ancora più potente, quella che l’uomo possiede nello spirito. Bisogna rimanere svegli come dice il Vangelo, tenere gli “occhi schiusi come araldi”, ricreando in modo perpetuo la meraviglia divina di cui l’uomo e la natura partecipano insieme. Già nella prima poesia i segni interiori ed esteriori di questo fronte della resistenza sono dati da un sentimento ciclico del tempo, che con l’alternarsi dell’alba e del tramonto rivela l’eterno susseguirsi dei giorni, dalla dimensione onirica dell’uomo che non è fuga dalla realtà, ma fonte generatrice di senso, e soprattutto dal sussurro dei canneti, che per ora è solo ridotto a mera percezione uditiva, ma nella raccolta omonima del 2019, “Non vogliono morire questi canneti”, diventa emblema di questa resistenza cui è chiamata la fragile fibra dell’essere umano.

C’è poi la presenza fondamentale di un “tu femminile”, “albero sul mare/sposa di leggi illeggibili”, un “tu” in relazione generativa con il poeta, come grembo in cui le parole “a ventaglio” del poeta s’incarnano per farsi ontologicamente altro da sé e un altrove. Andrea ha sempre dichiarato che la sua poesia non è mai autoreferenziale, ma creazione attraverso un “tu” capace di aprire nuovi orizzonti possibili per i lettori. Per questo per lui la parola è centrale nella creazione di immagini, idee, e sensazioni che vanno al di là della siepe, come sponde d’oltremare cui aggrapparsi per scongiurare il naufragio. Parole come “argini” che frenano l’entropia del tempo e del caos interiore, il punto d’incontro tra apollineo e dionisiaco.

La prima silloge di poesie di Galgano si può quindi considerare il suo ritratto di artista da giovane, un poeta trentenne con un’educazione sentimentale ed estetica già forte e consolidata nel tempo.

Fin dalle prime poesie è chiara la sua matura visione poetica. In “Poiesi” leggiamo:

Esistono sceneggiature indigene / nel sangue primitivo e innocente / dopo i tigli e i platani vidi luci / come capoversi di cupole estive / scorsi sogni sui ristagni / su cui scivolò la fioritura / nei tagli di vette tra le fiumane / spesi orizzonti come fronti / cinema di chiusi monti / poi rimase un viso di donna / su cui intagliai le mie preghiere / negli acquitrini degli oblii / si annerì l’inchiostro dei diamanti / quando i melograni si svestiranno / mi vedrò nella cruna dell’oro / nel pavimento di una calendula / dove si inoltreranno i nuovi convogli / ruscelli uccelli di una stagione contadina / fisionomie ribelli / di tessuti lunari”. Gli “argini” di Andrea sono parole provenienti da lontano, apparentemente velate di arcano mistero. Provocano straniamento iniziale nelle molteplici combinazioni possibili, ma, sempre incastonate nel loro significato pregnante, rivelano epifanie di una terra primordiale, selvaggia come sangue primitivo e innocente, ma anche luminosa e splendente nell’interazione di piante e di fiori con la luna, il sole, le stelle e i fenomeni atmosferici. Il discorso poetico è un fiume in piena che lascia il suo fertile limo a nutrimento di una lunga e concitata sequenza di fotogrammi interiori.

Il terreno “creso” di questa scrittura fatta a grappoli di parole è seminato di meraviglia e bellezza di cui il poeta è un tramite come un traghettatore universale dell’invisibile. In “Kallias” leggiamo infatti:

“traghettiamo l’invisibile / perché gli accenti di sponda / graffiano le nostre unghie / ma annunciano l’universo / da uno squarcio di croce / sull’apertura delle palpebre”. Il dolore si fa condizione universale e necessaria per noi essere mortali, da attraversare per ritrovare la luce. Il poeta è vittima sacrificale di questa espiazione e si fa tramite per gli altri perché portatore di verità ultime nascoste nel dono della parola, che è “squarcio di croce”, ma anche scavo, scalpello e cesello. Il più delle volte, però, il tocco del poeta è delicato come un pennello che si posa delicatamente sulla tela, impalpabile come una palpebra o una calendula e impercettibile come il fruscìo di un abito di donna che provoca scompiglio nel cuore innamorato.

Galgano si pone più volte in rapporto con la parola nel suo discorso poetico, alla presenza spesso invocata del suo “tu” di donna-grembo e terra d’approdo, che lo aspetta come “voce d’attesa” di novella Penelope.

In “Balaustra di stelle “leggiamo:

ti porto parole / a grappoli d’uva / nelle foci indaco delle frasi / in una minuta spiata di chiome / devo decrittare i tuoi approdi / a te ritorno testimone / onda-metafora e crescente / pergamena inginocchiata alle stelle / linea sottile di firmamento”.

Un “Tu” così splendido, quando si ritrae in marea, da ricordare la Creazione, “l’indice del cielo” di Michelangelo (Neve di mare).

La figura femminile non è mai evanescente, ma corpo tangibile, sensuale fonte del desiderio e tramite verso l’elevazione spirituale:

ti toccano le pagine del mare / ellittiche e naufraghe verso l’Eterno […] ti toccano quelle cose / che ondeggiano perdute / cose sul tuo corpo / sulla sigla dei cascinali” (Ferimento naufrago).

Anche quando l’aura di Petrarca sembra infondersi nei suoi versi, il giovane poeta dimostra che l’amore è più forte della poesia e la donna amata ha “luce d’aria e mirtilli”.

Amare è perdersi e ritrovarsi nella fusione di corpo e anima: “vago in te / lo scoglio appartato / in cui l’amore pellegrino / contempla i frattali dell’edera” (Voce di attesa), “nella seta del respiro / accade il tuo essere nel mio / orlo di madreperla / nel mio vermiglio tepore” (Ferimento naufrago).

Ma amare è condizione necessaria per ricevere l’investitura poetica: “amare fu bere le sue mani dall’acqua / nei solenni campi di fragole / nell’imbrunire trasudato / il suo nudo rado / scoperchiava il sorriso / narciso avviso di paradiso” (Odori di eclissi).

Amare significa anche provare pietà, tenerezza e nostalgia per i cuori puri che ci abbandonano. Andrea è “uomo di pena” di ungarettiana memoria e dedica una poesia a Francesco Nuti, ancora vivente, ma già sofferente. Di lui esalta lo sguardo, così dolce e malinconico nei suoi indimenticabili film: “occhi in ginocchio / dischiusi sul buio”, ma anche così vivaci per uno spirito geniale e purtroppo spesso incompreso: “ti vedono i tuoi occhi accesi / biliardo di onde / dove ho visto la tua luna / nei gelsi delle cascine” (A Francesco Nuti).

La poesia per Andrea diventa un luogo dell’oltre per ritrovare tutte le persone che ci hanno lasciato e per instaurare con loro un dialogo perpetuo. Succede così che alla morte di Lucio Dalla, egli non esita a fermare le immagini che sempre si porterà nel suo cuore: “Sussurrami ora / i cani che annusano la sera / le mani dell’estate e delle isole / e le strade che si sollevano / come quando respira / la radura della luna / tra le stelle” (Il fresco delle stelle).

L’argine è anche questo: creare terrapieni di vita contro la morte.

E alla fine di questo discorso poetico sembra quasi di vedere l’ultimo e meraviglioso argine che Andrea Galgano costruisce prima di congedarsi:

risalirti nelle superfici,

non fare in tempo

ansiosa di risplendere

nella coltura, nella dismisura

che irretisce le norme del mondo

 

 Il congedo è grazia acerba.

(Notturna acerba grazia)