War Poets: splendore e frantumi

di Andrea Galgano 30 novembre 2022

Il fango, le trincee, la morte, i reticolati, il gas, le granate, la fine della gioventù e l’esperienza del limite compongono l’esperienza dei War Poets, ora racchiusa nel volume, curato da Paola Tonussi, per Ares, in cui viene restituito un bagliore come fiore estremo, attraverso racconti, testimonianze, versi del primo grande conflitto del ‘900.

Può la parola dire l’orrore? Non già raccontarlo ma esserne all’altezza? Il dolore muto, l’angustia, il deserto, la tumefazione segreta e la violenza, la guerra come simbolo della vita umana in ogni enigma dicono che solo la poesia può essere qualcosa di imperituro e cavato dall’abisso, perché fa i conti con l’eternità, la sente addosso, anche nella dolenza estrema, nel limite senza respiro e nello scontro:

«Parecchie poesie qui raccolte sono state buttate giù di fretta, sul retro di una busta da lettera, di un messaggio, o inviate a casa con le lettere. Molte non hanno mai visto una revisione finale: trovate e recuperate dopo la morte dell’autore tra i suoi oggetti o nelle tasche della divisa, o ancora spedite  a casa con lo zaino e le altre cose dopo la sua morte» (p.32).

Lo smarrimento e la resistenza della parola, spesso nell’opacità fioca di un fiammifero, di una luce piccolissima narrano la compassione, il coraggio e la rabbia, il grido e la visione, fino alle viscere della vita, dove il primo entusiasmo patriottico della Grande Guerra, dove giovani andarono a combattere «consapevoli delle proprie promesse», preda dell’enfasi retorica e poi dell’agguato della distruzione, come dirà Richard Aldington nelle sue frantumazioni di soliloquio o Laurence Binyon che ha raffigurato la folgore dilaniata della distante marea di Ypres:

«Non perché stanchi, / non perché abbiamo paura, / Non perché ci sentiamo soli / Sebbene non siamo mai soli – / Non questo ci distrugge; / Ma ogni colpo e ogni schianto / Di mortaio e di granata, / Ogni crudele sibilo amaro di pallottola / Che strappa il vento come lama, / Ogni ferita sul seno della terra / Di Demetra, nostra Madre, / Ferisce anche noi, / Strazia e lacera la fine trama / Delle nostre fragili anime alate, / E disperde in cenere le ali lucenti / Di Psiche».

Ci sarà Rupert Brooke la cui «inquietudine screzia la sua poesia poesia prebellica, di grande ricerca formale, con il senso della morte, lieve ma costantemente presente, e una stanchezza della routine e delle certezze del «mondo di ieri» che investono di nuova luce anche i sonetti» (Tonussi, p.8)

Il pericolo, gli orizzonti esili, la proiezione simbolica della polvere nascosta fino al sacrificio finale dello sparso rosso vino della giovinezza toccano i testi di Brooke e accompagnano i bracieri e gli appostamenti di Robert Graves che accolgono, come scrive Paola Tonussi, «delusione, cinismo, amarezza, senso di tradimento per l’incoerenza etica di quanto sta vivendo: inizia  ascrivere il terrore lucido, la paura delle trincee. Sconvolto dalla consapevolezza delle migliaia di vite distrutte negli attacchi frontali per guadagnare pochi metri di terreno, come nel bombardamento di Vimy e nella carneficina dell’offensiva della Somme, disperato, getta il nastro della sua Croce al Valore militare nel fiume Mersey» (pp.39.40).

E poi ancora  la terra nuda e l’aria abrasiva nel fango di Julian Grenfell, i bagliori tumefatti e gli strani inferni di Ivor Gurney, gli sfaceli di Thomas Hardy, le deformazioni terragne di Harold Monro «dove la natura abolisce ogni visione», fino alla perdite di Francis Ledwidge o «l’eternità spazzata via», come cacciata dal Paradiso, di Wilfred Owen, che rievoca Orazio e denuncia la condanna della gioventù, nello spavento dei bagliori, calzati di sangue:

«via la visione romantica della natura amica, via lo spettacolo del mondo, lasciate le letture. L’usignolo ketsiano per lui non canta più né l’allodola di Shelley, la notte non splende più nella sua «quieta luce» per il poeta (Alla Poesia)». Invece devastante, assurdo si spalanca «un nuovo cielo» sugli uomini, per sempre «dall’alto Paradiso maledetti e scacciati» (Un nuovo cielo). Bandito dal paradiso-natura, al poeta resta la tragedia: la trincea, l’offensiva senza possibilità di sopravvivenza, nel cielo buio, senza più stelle» (pp.44-45),

Troviamo poi Isaac Rosenberg che dipinge prosodie di fiamma precaria, nella sua elegia perduta e isolata. La notte si sbriciola, il papavero coglie la sua polvere bianca, la vita rinnovata coincide con il tramonto e i corpi sono sommersi nei loro volti sinistri.

Il senso della crisi e il baratro che annichilisce segnano la pagina di Charles Hamilton Sorley, il racconto tumefatto e il sordo realismo di porpora di Siegfried Sassoon, dove la disumanizzata realtà macchinica impone il suo vessillo, fino al rifugio improtetto di luci spente di Philip Edward Thomas compongono gli ultimi poeti di questa raccolta di splendore e frantumi, dove la lesione del tempo diventa respiro franto e universale e le cose sono piene di lacrime.

 

BONNIE JO CAMPBELL MY SISTER IS IN PAIN – IL DOLORE DI MIA SORELLA

A cura  di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

Introduzione

Bonnie Jo Campbell è cresciuta in una piccola fattoria del Michigan con la madre e quattro fratelli. Ha studiato filosofia all’Università di Chicago prima di viaggiare da sola attraverso il Canada e gli Stati Uniti e poi anche in Russia e nei Paesi baltici.

Per le sue opere precedenti è stata finalista del National Book Award e ha vinto numerosi premi, tra cui l’AWP Award for Short Fiction, il Pushcart Prize e l’Eudora Welty Prize.

Vive a Kalamazoo nel Michigan dove insegna alla Pacific University.

Il suo romanzo “C’era una volta un fiume” è stato pubblicato da Neri Pozza nel 2012.

Il racconto che segue è tratto dalla raccolta “Mothers, Tell Your Daughters”.

Il Dolore di Mia Sorella

Dolore insopportabile quando si alza al mattino per andare a lavoro, dolore quando va a letto la sera; quando dorme, dorme nel dolore e si sveglia di nuovo nel dolore e si veste con pantaloni elastici in vita e maglioni vivaci, riscalda pasti precotti, sostituisce il burro con la margarina, lo zucchero con il sucralosio e fuma sofferente sigarette sulla veranda, mentre gli scoiattoli si arrampicano sugli alberi come idioti e le macchine senza marmitte vomitano fumo e disturbano questo vicinato di buche e finestre rotte, dove i bambini rubano di tutto pur di comprare metanfetamina.

I suoi dottori scrollano le spalle nei loro camici, la mandano da specialisti a cui cadono le braccia.

Dolore come aerei col frastuono dei loro motori che volano scombussolando il cielo. Dolore come piatti nel lavello – non solo i suoi, ma anche quelli di sconosciuti che sono stati lasciati lì per giorni, nell’acqua fredda e grigia.

Lei è la figlia di nostra madre, ma non sappiamo chi sia o cosa possa significare il suo dolore, le cicale del suo dolore nelle sere d’estate, le scosse nella spina dorsale come luccichio di lucciole infuocate, dolore che si irradia dall’intestino come scosse di anguille elettriche.

Dolore lancinante sessanta ore a settimana mentre lava, cura e nutre e si protende al dolore degli altri per uno stipendio misero, dolore palpitante persino quando ha un giorno di riposo.

E’ nata più bella di tutti noi e piangeva più forte nella culla, piangeva nel letto e fuori nei boschi – non disse mai cosa le fecero quei ragazzi vicino al torrente. Immagina un lungo corridoio con centinaia di stanze tutte chiuse contro il dolore; cammina lungo il corridoio e il suo dolore non diminuisce.

Che lei si fermi e bussi a qualsiasi porta o meno, che qualcuno la inviti o no per bere qualcosa, che quella persona sia io o meno, il suo dolore non diminuisce.

Raramente la chiamiamo, siamo educati a natale, la abbracciamo timidamente, ci complimentiamo per i suoi maglioni, le sue perle, le sue fasce per i capelli. Annuiamo quando parla delle sue scarpe speciali, delle sue fasce Copper Wear come quelle viste in TV. I regali che ci porta son ben incartati. Sciogliamo i fiocchi terrorizzati.

Traduzione di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

JOYCE CAROL OATES AMERICAN MELANCHOLY POEMS: SINKHOLES TOO YOUNG TO MARRY BUT NOT TOO YOUNG TO DIE HOMETOWN WAITING FOR YOU OLD AMERICA HAS COME HOME TO DIE THAT OTHER

A cura  di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

 

 

 

Introduzione

Joyce Carol Oates è una scrittrice, poetessa, drammaturga e accademica statunitense.

Autrice e intellettuale americana eclettica, tra le più prolifiche della letteratura americana, ha pubblicato il primo libro nel 1963.

Da allora, ha frequentato ogni genere letterario in prosa e in versi: romanzi, racconti, narrativa per l’infanzia, poesie, drammaturgie, saggi.

Nell’arco di sessant’anni ha pubblicato oltre cento libri, alcuni dei quali, per la maggior parte romanzi del mistero, pubblicati sotto lo pseudonimo di Rosamond Smith e Lauren Kelly.

Ha vinto numerosi premi letterari, incluso il National Book Award, due O. Henry Award, la National Humanities Medal e il Jerusalem Prize nel 2019; è stata inoltre finalista del Premio Pulitzer sia per i romanzi Acqua nera (1992), What I Lived For (1994) e Blonde (2000), che per le raccolte di racconti The Wheel of Love (1970) e Lovely, Dark, Deep: Stories (2014).

Oates ha insegnato alla Princeton University dal 1978 al 2014 ed è Roger S. Berlind ’52 Professor Emerita in the Humanities col corso di Scrittura Creativa.

Insegna “Short Fiction” alla University of California di Berkeley ed è membro del consiglio di amministrazione della John Simon Guggenheim Memorial Foundation.

Con American Melancholy mette in mostra alcuni dei suoi migliori lavori degli ultimi decenni.

Coprendo soggetti grandi e piccoli, questa collezione tocca sia il personale che il politico.

Vengono indagate la perdita, l’amore e la memoria, insieme agli sconvolgimenti della nostra epoca moderna, le devastazioni della povertà, del razzismo e dei disordini sociali.

 

 

 Sinkholes

 

take you where

you don’t want to go.

 

Where you’d been

and had passed smilingly through,

and were alive. Then.

 

Le Voragini

 

ti portano dove

non vuoi andare.

 

Dove sei stato

e dove sei passato sorridendo

ed eri vivo. Allora.

 

 

Too Young to Marry but Not Too Young to Die

 

Drowned together in his car in Lake Chippewa.

It was a bright cold starry night on Lake Chippewa.

Lake Chippewa was a “living” lake then,

though soon afterward it would choke and die.

 

In the bright cold morning after we could spy

them only through a patch of ice brushed clear of snow.

Scarcely three feet below,

they were oblivious of us.

 

Together beneath the ice in each other’s arms.

Jean-Marie’s head rested on Troy’s shoulder.

Their hair had floated up and was frozen.

Their eyes were open in the perfect lucidity of death.

 

Calmly they sat upright. Not a breath!

It was 1967, there were no seat belts

to keep them apart. Beautiful

as mannequins in Slater Brothers’ window.

Faces flawless, not a blemish.

Yet—you could believe

they might be breath-

ing, for some trick

of scintillate light revealed

tiny bubbles in the ice,

and a motion like a smile

in Jean-Marie’s perfect face.

 

How far Troy’d driven the car onto Lake Chippewa

before the ice creaked, and cracked, and opened

like the parting of giant jaws—at least fifty feet!

This was a feat like his 7-foot-3.8-inch high jump.

 

In the briny snow you could see the car tracks

along the shore where in summer sand

we’d sprawl and soak up sun

in defiance of skin carcinomas to come. And you could see

how deftly he’d turned the wheel onto the ice

at just the right place.

And on the ice you could see

how he’d made the tires spin and grab

and Jean-Marie clutching his hand Oh oh oh!

 

The sinking would be silent, and slow.

 

Eastern edge of Lake Chippewa, shallower

than most of the lake but deep enough at twelve feet

to suck down Mr. Dupuy’s Chevy

so all that was visible from shore

was the gaping ice wound.

And then in the starry night

a drop to -5 degrees Fahrenheit

and ice freezing over the sunken car.

Who would have guessed it, of Lake Chippewa!

 

Now in the morning through the swept ice

there’s a shocking intimacy just below.

With our mittens we brush away powder snow.

With our boots we kick away ice chunks.

Lie flat and stare through the ice

Seeing Jean-Marie Schuter and Troy Dupuy

as we’d never seen them in life.

Our breaths steam in Sunday-morning light.

 

It will be something we must live with—

the couple do not care about our astonishment.

Perfect in love, and needing no one to applaud

as they’d been oblivious of our applause

at the Herkimer Junior High prom where they were

crowned Queen and King three years before.

(In Herkimer County, New York, you grew up fast.

The body matured, the brain lagged behind,

like the slowest runner on the track team

we’d applaud with affection mistaken for teen mockery.)

 

No one wanted to summon help just yet.

It was a dreamy silence above ice as below.

And the ice a shifting hue—silvery, ghost-gray, pale

blue—as the sky shifts overhead

like a frowning parent. What!

Lake Chippewa was where some of us went ice-fishing

with our grandfathers. Sometimes, we skated.

Summers there were speedboats, canoes. There’d been

drownings in Lake Chippewa we’d heard

but no one of ours.

 

Police, fire-truck, ambulance sirens would rend the air.

Strangers would shout at one another.

We’d be ordered back—off the ice of Lake Chippewa

that shone with beauty and onto the littered shore.

By harsh daylight made to see

Mr. Dupuy’s 1963 Chevy

hooked like a great doomed fish.

All that privacy yanked upward pitiless

and streaming icy rivulets!

We knew it was wrong to disturb the frozen lovers

and make of them mere bodies.

 

Sweet-lethal embrace of Lake Chippewa

But no embrace can survive thawing.

 

One of us, Gordy Garrison, would write a song,

“Too Young to Marry But Not Too Young to Die”

(echo of Bill Monroe’s “I Traced Her Little Footprints

in the Snow”), which he’d sing with his band the Raiders,

accompanying himself on the Little Martin guitar

he’d bought from his cousin Art Garrison

when Art enlisted in the U.S. Navy and for a while

it was all you’d hear at Herkimer High, where the Raiders

played for Friday-night dances in the gym, but then

we graduated and things changed and nothing more

came of Gordy’s song or of the Raiders.

 

“TOO YOUNG TO MARRY BUT NOT TOO YOUNG TO DIE”

was the headline in the Herkimer Packet.

We scissored out the front-page article, kept it for decades in a

bedroom drawer.

(No one ever moves in Herkimer except

those who move away, and never come back.)

The clipping is yellowed, deeply creased,

and beginning to tear. When some of us stare

at the photos our hearts cease beating—oh, just a beat!

 

It was something we’d learned to live with—

there’d been no boy desperate to die with any of us.

We’d have accepted, probably—yes.

Deep breath, shuttered eyes—yes, Troy.

Secret kept yellowed and creased in the drawer,

though if you ask, laughingly we’d deny it.

 

We see Gordy sometimes, and his wife, June. Our grand-

children are friends. Hum Gordy’s old song

to make Gordy blush a fierce apricot hue

but it seems cruel, we’re all on blood

thinners now.

 

Troppo Giovani per Sposarsi Ma Non Troppo per Morire

 

Annegarono insieme nella sua auto nel lago Chippewa.

Avvenne in una notte stellata, fredda e luminosa.

Il lago Chippewa era un lago “in vita” all’epoca

anche se poco dopo soffocò e morì.

 

Nella fulgida e fredda mattinata seguente, dopo esser riusciti a spiarli

solo attraverso una lastra di ghiaccio ripulita dalla neve.

Un metro poco più sotto,

non si erano accorti di noi.

 

Insieme sotto il ghiaccio l’uno tra le braccia dell’altro.

La testa di Jean Marie appoggiata sulla spalla di Troy.

I capelli erano riemersi in superficie e si erano ghiacciati.

Gli occhi erano aperti nella perfetta lucidità della morte.

 

Seduti beatamente. Neanche un respiro!

Era il 1967 e non c’erano cinture di sicurezza

a separarli. Belli

come manichini nella vetrina dei fratelli Slater.

Volti illesi, neanche un graffio.

Potevi credere

che stessero respiran-

do, dal momento che, qualche scintillante

riflesso della luce rivelava

bollicine nel ghiaccio,

e l’accenno di un sorriso

sul volto perfetto di Jean-Marie.

 

Fino a che punto Troy aveva guidato la macchina sul lago Chippewa

prima che il ghiaccio scricchiolasse, cedesse, e si aprisse

come giganti mascelle – almeno di quindici metri!

Un risultato come il salto in alto di Troy, 2 metri e 96 centimetri.

 

Nella neve salmastra erano visibili le tracce della macchina

sulla sabbia della spiaggia in cui d’estate

ci stravaccavamo e prendevamo il sole

sfidando il tumore della pelle a colpirci. E si poteva vedere

con quanta destrezza avesse girato il volante sul ghiaccio

proprio al punto giusto.

Si poteva notare

come avesse fatto girare e aderire le gomme alla superficie ghiacciata

e avesse fatto afferrare a Jean Marie la sua mano Oh oh oh!

 

L’inabissamento fu lento, e silenzioso.

 

La sponda est del lago Chippewa, meno profonda

di gran parte del lago, ma profonda abbastanza (3 metri)

da risucchiare la Chevy del Signor Dupuy,

rese visibile dalla spiaggia soltanto

la voragine nel ghiaccio.

E poi nella notte stellata

una caduta di 5 gradi Fahrenheit

e il ghiaccio si riformò sulla macchina sommersa.

Chi l’avrebbe mai detto del lago Chippewa!

 

Ora, di mattina, sotto al ghiaccio ripulito

c’è un’intimità scioccante.

Con i guanti portiamo via cumuli di neve farinosa.

Con gli stivali calciamo pezzi di ghiaccio.

Increduli lo fissiamo

Vedendo Jean-Marie Schuter e Troy Dupuy

come non li avevamo mai visti in vita.

La condensa dei nostri respiri nella luce di una domenica mattina.

 

Sarà qualcosa con cui dobbiamo convivere –

alla coppia non importa del nostro sconcerto.

Perdutamente innamorati, senza alcun bisogno di applausi

essendo stati ignari dei nostri applausi

al ballo della Herkimer Junior High dove

tre anni prima furono nominati re e reginetta.

(Nella Contea di Herkimer, New York, siete cresciuti in fretta.

Il corpo è maturato, il cervello è rimasto indietro

come il più lento maratoneta della squadra

applaudivamo con affetto scambiato per derisione adolescenziale.)

 

Nessuno voleva ancora chiamare i soccorsi.

C’era un silenzio sognante sopra il ghiaccio così come sotto.

E cambiava tonalità – argento, grigio-fantasma, blu

pallido – come il cielo cambia sopra di noi

quanto un genitore arrabbiato. Come!?

Il lago Chippewa era il luogo in cui alcuni di noi andavano a pescare

con i loro nonni. A volte, andavamo a pattinare.

In estate c’erano motoscafi, canoe. C’erano stati

annegamenti nel lago Chippewa di cui avevamo sentito

ma nessuno dei nostri.

 

Polizia, camion dei pompieri, sirene d’ambulanza squarciavano l’aria.

Sconosciuti si urlavano contro.

Ci era stato ordinato di allontanarsi dal ghiaccio del lago

che irradiava bellezza e di dirigerci verso la spiaggia affollata.

Dalla crudele luce diurna sorta per vedere

la Chevy del 1963 del signor Dupuy

agganciata all’amo come un grande pesce predestinato.

Tutta quella privacy tirò fuori fiumiciattoli di ghiaccio

che scorrevano senza pietà!

Sapevamo che fosse sbagliato disturbare gli

amanti congelati e renderli meri corpi.

 

La morsa dolce e letale del lago Chippewa

Ma nessuna morsa sopravvive al disgelo.

 

Uno di noi, Gordy Garrison, avrebbe scritto una canzone.

“Too Young to Marry but Not Too Young to Die”

(riecheggi di “I Saw Her Little Footprints

in the Snow” di Bill Monroe), che cantava con la sua band “The Raiders”,

accompagnandosi alla chitarra Little Martin

che aveva comprato da suo cugino Art Garrison

quando Art si era arruolato nella marina americana e per un po’

era l’unica cosa in auge alla Herkimer High, i Raiders

suonavano ai balli del venerdì sera in palestra, ma poi

ci diplomammo e le cose cambiarono e nient’altro

uscì fuori dalla canzone di Gordy o dai Raiders.

 

“TOO YOUNG TO MARRY BUT NOT TOO YOUNG TO DIE”

fu la prima pagina dell’Herkimer Packet.

Ritagliammo l’articolo e lo conservammo per decenni in un

comò.

(Nessuno si iscrive alla Herkimer eccetto

coloro che poi si trasferiscono e non tornano più.)

Il ritaglio è ingiallito, terribilmente sgualcito,

e sta iniziando a lacerarsi. Quando alcuni di noi guardano

le foto i nostri cuori cessano di battere – oh, solo un battito!

 

 

Fu una cosa con cui imparammo a vivere –

non ci fu nessun ragazzo fremente di morire tra di noi.

Avremmo accettato, probabilmente – .

Respiro profondo, occhi sbarrati – , Troy.

Un segreto mantenuto stropicciato e ingiallito nel comò

però, se doveste chiedercelo, ridendo negheremmo.

 

A volte vediamo Gordy, e sua moglie, June. I nostri nipo-

ti sono amici. Canticchiamo la sua vecchia canzone

per farlo arrossire

ma sembra crudele, siamo tutti sotto anti

coagulanti ora.

 

Hometown Waiting For You

 

All these decades we’ve been waiting here for you. Welcome!

You do look lonely.

No one knows you the way we know you.

And you know us.

 

Did you actually (once) tell yourself—I am better than this?

One day actually (once) tell yourself—I deserve better than this?

 

Fact is,you couldn’t escape us.

And we have been waiting for you. Welcome home!

Boasting how a scholarship bore you away

like a chariot of the gods except

where you are born, your soul remains.

 

We all die young here.

Not one of us outlived young here.

Check out obituaries

in the Lockport Union Sun & Journal.

Car crash,

overdose.

Gunshot, fire.

Cancers of breast,

ovaries, lung,

colon. Heart

attack, cirrhosis

of liver.

Assault, battery.

Stroke! And—

did I say over-

dose? Car

crash?

 

Filling up the cemeteries here.

Plastic trash here.

Unbiodegradable Styrofoam here.

Three-quarters of your seventh-

grade class now

in urns, ash and what remains

in red MAGA hats.

 

 

 

Those flashy cars

you’d have given your soul

to ride in,

just once, now

eyeless

rusting hulks

in tall grass.

Those eyes you’d

wished might crawl

upon you like ants,

in graveyards

of broken glass.

 

Atwater Park where

you’d wept

in obscure shame

and now whatever

his name who’d trampled

your heart, he’s

ash.

 

Proud as hell

of you though

(we admit)

never read a

goddamn word

you’ve written.

 

We never forgave you. We hate winners.

 

Still, it’s not too late.

Did I say overdose?

Why otherwise are you here?

 

Ti Abbiamo Aspettato

 

Ti abbiamo aspettato per tutti questi decenni. Benvenuto!

Sembri davvero solo.

Nessuno ti conosce come ti conosciamo noi.

E tu ci conosci.

 

Ti sei davvero (una volta) detto – Valgo più di questo?

Un giorno (una volta) ti sei davvero detto – Merito più di questo?

 

Il fatto è: non potevi sfuggirci.

E ti abbiamo aspettato. Benvenuto a casa!

Fregiandoti di come una borsa di studio ti abbia portato via

come un carro degli dèi, senonché

dove nasci, la tua anima permane.

 

Moriamo tutti giovani qua.

Qui nessuno è riuscito ad invecchiare.

Controlla i necrologi

nel Lockport Union Sun & Journal.

Incidenti d’auto,

overdose.

Sparatorie, fuoco.

Tumori al seno,

ovaie, polmone,

colon. Crisi

cardiaca, cirrosi

epatica.

Aggressione, percosse.

Infarto! E –

ho detto over-

dose? Incidenti

d’auto?

 

Si riempiono i cimiteri qua.

Buste di plastica,
polistirolo non biodegradabile qui.

Tre quarti della tua classe

di seconda media è adesso

nelle urne, cenere e quel che rimane

nei cappelli rossi MAGA. *

 

Quelle auto pacchiane

per cui avresti dato l’anima

pur di salirci su,

almeno una volta, ora

senz’occhi

carcasse arrugginite

nell’erba alta.

Quegli occhi che volevi

brulicassero su di te come formiche,

nei cimiteri

di vetri rotti.

 

Il giardinetto Atwater dove

piangevi

colmo di vergogna nascosta

e adesso qualunque sia

il nome di chi abbia fatto sobbalzare

il tuo cuore, è

cenere.

 

Orgogliosissimi

di te però

(ammettiamo)

non abbiamo mai letto

una fottuta parola

di ciò che hai scritto.

 

Non ti abbiamo mai perdonato. Odiamo i vincenti.

 

Tuttavia, non è troppo tardi.

Ho detto overdose?

Altrimenti per quale altro motivo sei qua?

 

 

 *Acronimo di “Make America Great Again”, slogan della campagna elettorale di Trump del 2016.

Old America Has Come Home to Die

 

Old America has come home to die.

From Oklahoma oil fields where the sun

beat his head and brains boiling in a stew

of old memories. Penance for my sins

I never owned up to.

 

From Juneau, Alaska, where he’d fished

coho salmon on the Mary Flynn.

From Black Fly, Ontario,

where he’d been a hobo farmhand,

and from New Jericho, Manitoba,

where he’d mined gypsum sand,

Old America has come home to die.

Bad memories like shreds of tobacco on the tongue,

you can’t spit off.

 

From Big Sky, Montana, where

he’d been a cowboy. From

Western Pacific, Sandusky,

and Santa Fe Railway, from the Gulf

Islands and Skagit River, Washington,

where he’d worked construction,

Old America has come home to die.

Bosses treat you like shit on their shoe

they can scrape off any time.

And they do.

 

From the Great Lakes, where

he’d worked freighters

in minus-

zero

weather, lost

half his damn fingers and toes

to frostbite. From the mines

at Crater Falls, Idaho,

where his lungs turned the hue

of anthracite. And from Moab,

Utah, where he’d been incarcerated

seven years for a rob-

bery he hadn’t done,

Old America has come home to die.

Romantic life of a “hobo”

lasts until your legs go.

 

Old America freckled with melanomas,

straggly hair to his shoulders

like the boy-General Custer,

and fester-

ing sores

on his back, sides, and belly

has come home to die

where no one remembers him —

“Uncle Eli?”

who’d sent postcards

from the West long faded

in Granma’s photo album

as out of a void

in an era before Polaroid

Old America has come home to die.

Old America with a blind left eye.

Old America with a stump

of his gangrenous left leg, amp-

utated at the knee.

How bad I treated my family

who loved me.

Come home to say I am sorry and I love you.

 

Great-Granma’s youngest sister’s

son Eli who’d left the farm in 1931

to work on the Erie Canal, but no —

disappeared somewhere west

beyond Pocatello, Idaho. We’d guessed

you’d died in the Yukon, or in

the Eagle Mine in Utah. Capsized

in the Bering Strait, or vaporized

at the Fearing Nevada Test Site

or murdered by railroad cops

and flung into the Mississippi —

poor Uncle Eli!

Sins I have committed these many

years, I regret. Wash my soul

clean before I die.

Trying to explain why he’d left home except —

Where is Marta? Please

let me see Marta — his brother’s wife

he was in love with, and Marta told him

she was pregnant, and he abandoned

her to her violent husband like a coward.

Years I never thought of Marta, or Ma —

any of you. Now, that’s all I think about.

Forgive me how bad I behaved

when I was young . . .

 

Old America, we are not cruel

people, but the fact is mostly we’ve

forgotten you. And Great-Aunt Marta

too—died in 1961. And her oldest

son Ethan, who’d be the one

you’d want to see, is gone, too —

somewhere south of the 38th parallel,

Korea.

Where are my brothers—Frank, Joseph, Frederic?

My sisters—Margaret, Elizabeth?

My cousin Leah?—so many cousins . . .

Old America, frantic to repent,

has brought us presents —

flute carved out of a walrus tusk, Inuit

doll and soapstone skulls, beaded belts and

miniature pelts and something that causes Maya to scream,

Oh God—is that an Indian scalp?

 

Old America has come home to die

this first week of December

in time for Maya to videotape

an interview with Great-Uncle Eli

for her American Studies seminar at Wesleyan —

Life of an Oldtime “Hobo.”

Her classmates will be impressed —

Old America is like awesome, fantastic —

and her professor will grade an A —

Tragic, vividly rendered & iconic.

 

La Vecchia America è Tornata A Casa a Morire

 

La Vecchia America è tornata a casa a morire.

Dai giacimenti di petrolio dell’Oklahoma dove il sole

gli spaccava la testa e il cervello bolliva in un minestrone

di vecchi ricordi. Penitenza per i miei peccati

che non ho mai confessato.

 

Da Juneau, Alaska, dove aveva pescato

salmone argentato sulla Mary Flynn.

Da Black Fly, Ontario,

dove era stato un bracciante hobo*,

e da New Jericho, Manitoba,

dove aveva estratto gesso,

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

Brutti ricordi come filamenti di tabacco sulla lingua,

che non puoi sputare.

 

Da Big Sky, Montana, dove

era stato un cowboy. Dalle

tratte ferroviarie della Western Pacific, Sandusky,

sino a quelle di Santa Fe, dalle Isole

del Golfo e il fiume Skagit, Washington,

dove aveva lavorato nei cantieri,

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

I padroni ti trattano come merda sotto le loro suole

che possono raschiar via quando vogliono.

E lo fanno.

 

Dai Grandi Laghi, dove

aveva lavorato sulle navi cargo

sotto

zero

aveva perso

metà delle sue dannate dita delle mani e dei piedi

per congelamento. Dalle miniere

di Crater Falls, Idaho

dove i suoi polmoni erano diventati color

antracite. E da Moab,

Utah, dove era stato detenuto

sette anni per una ra-

pina che non aveva commesso,

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

La vita romantica di un “hobo”

dura fintantoché le gambe non cedono.

 

La Vecchia America macchiata di melanomi,

capelli in disordine sulle spalle

come quelli del Generale Custer, e

piaghe
infette

sulla schiena, fianchi e pancia

è venuta a morire

dove nessuno si ricorda di lui –

“Zio Eli?”

che aveva inviato cartoline

dall’ovest sbiadite dal tempo

conservate nell’album di foto della nonna

come uscite dal nulla

in un’era prima della Polaroid

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

La Vecchia America con un occhio sinistro cieco.

La Vecchia America con la sua protesi

alla gamba sinistra incancrenita, am-

putata al ginocchio.

Quanto ho trattato male la mia famiglia

che mi amava.

Torno a casa per dire che mi dispiace e che vi amo.

 

Il figlio della sorella più piccola della bisnonna,

Eli, che aveva lasciato la fattoria nel 1931

per lavorare al Canale Erie, ma no –

scomparve da qualche parte nell’ovest

oltre Pocatello, Idaho. Ci eravamo immaginati

che fossi morto nello Yukon, o

nelle miniere di Eagle nello Utah. Annegato

nello Stretto di Bering, o vaporizzato

nello Spaventoso Nevada Test Site*

o assassinato dai poliziotti ferroviari

e scaraventato nel Mississippi –

povero Zio Eli!

Dei peccati che ho commesso in tutti questi

anni, me ne dolgo. Purifico la mia anima

prima di morire.

Cerco di spiegare perché

avesse lasciato casa, solo che –

Dov’è Marta? Vi prego

fatemi vedere Marta – la moglie di suo fratello

di cui era innamorato. Marta gli disse

che era incinta e lui come un codardo

la abbandonò al suo violento marito.

Anni in cui non ho mai pensato a Marta, o a mol-

ti di voi. Adesso, è l’unica cosa a cui penso.

Perdonate quanto mi sia comportato male

da giovane…

 

Vecchia America, non siamo gente

crudele, ma il fatto perlopiù è che

ti abbiamo dimenticata. E anche la prozia Marta

morì nel 1961. E il suo figlio più grande

Ethan, quello che

ti farebbe piacere vedere, è morto anche lui –

da qualche parte nel 38esimo parallelo sud,

Corea.

Dove sono i miei fratelli – Frank, Joseph, Frederic?

Le mie sorelle – Margaret, Elizabeth?

Mia cugina Leah? – così tanti cugini…

Vecchia America, convulsa nel ravvedersi,

ci ha portato dei regali –

zufolo di zanna di tricheco, bambola

eschimese e teschi di pietra ollare, cinture di perle e

tappeti di pelliccia animale e qualcosa che fa urlare Maya,

Oh dio – è la testa di un indiano?

 

La Vecchia America è tornata a casa a morire

questa prima settimana di dicembre

giusto in tempo per fare in modo che Maya registri

un’intervista con il prozio Eli

per il suo seminario in American Studies a Wesleyan –

La vita di un “Hobo” di altri tempi.

I suoi compagni di classe saranno impressionati –

La Vecchia America è un qualcosa di stupendo, fantastico –

e il suo professore le darà una A –

Tragica, vividamente rappresentata e iconica.

 

 

 *Un hobo è un vagabondo che adotta in maniera tendenzialmente volontaria uno stile di vita senzatetto improntato alla semplicità, al viaggio, all’avventura, alla ricerca interiore, alla marginalità, svolgendo  talvolta lavori occasionali.

*Sito, istituito l’11 gennaio 1951 per test sulle armi nucleari

That other

 

They laughed, but no. You

don’t remember that.

 

What you think you remember—

it wasn’t that.

 

Yes—you remember

some things. And

some things did

happen. Except not

that way.

 

And anyway, not

to you.

 

Quell’altro

 

Ridevano, ma no. Tu

non lo ricordi.

 

Ciò che pensi di ricordare –

non corrisponde al reale.

 

Sì – ricordi

alcune cose. E

alcune cose sono davvero

successe. Però non

in quel modo.

 

E in ogni caso, non

a te.

 

Traduzione di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

DANUSHA LAMÉRIS THE WATCH RED TIGHTS THE GOD OF NUMBERS

A cura  di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

 

 

leggi in pdf: Danusha Laméris

Introduzione

Danusha Laméris è nata da padre olandese e madre caraibica.

E’ cresciuta nella California Bay Area trascorrendo i suoi primi anni a Mill Valley e si è poi trasferita a Berkeley dove ha frequentato la College Preparatory School.

Da quando si è laureata in Arte presso l’Università della California a Santa Cruz ha sempre vissuto lì.

Poetessa, insegnante e saggista, è autrice di “The Moons of August” (Autumn House, 2014), che è stata scelta da Naomi Shihab Nye come vincitrice del premio di poesia Autumn House Press ed è stata finalista del Milt Kessler Book Award.

Alcune delle sue poesie sono state pubblicate in: The Best American Poetry, The New York Times, The American Poetry Review, Prairie Schooner, The SUN Magazine, Tin House, The Gettysburg Review e Ploughshares.

Il suo secondo libro, Bonfire Opera, (University of Pittsburgh Press, 2020), è stato finalista del Paterson Poetry Prize e vincitore del Northern California Book Award in Poetry. Vincitrice del Lucille Clifton Legacy Award nel 2020, è una Poet Laureate della contea di Santa Cruz, in California, co-guida i webinar Poetry of Resilience e la comunità di scrittura Hearthfire con James Crews.

È nella facoltà del programma della Pacific University “low-residency MFA”.

 

 

The Watch

At night, my husband takes it off

puts it on the dresser beside his wallet and keys

laying down, for a moment, the accoutrements of manhood.

Sometimes, when he’s not looking, I pick it up

savor the weight, the dark face, ticked with silver

the brown, ostrich leather band with its little goosebumps

raised as the flesh is raised in pleasure.

He had wanted a watch and was pleased when I gave it to him.

And since we’ve been together ten years

it seemed like the occasion for the gift of a watch

a recognition of the intricate achievements

of marriage, its many negotiations and nameless triumphs.

But tonight, when I saw it lying there among

his crumpled receipts and scattered pennies

I thought of my brother’s wife coming home

from the coroner carrying his rings, his watch

in a clear, ziplock bag, and how we sat at the table

and emptied them into our palms

their slight pressure all that remained of him.

How odd the way a watch keeps going

even after the heart has stopped. My grandfather

was a watchmaker and spent his life in Holland

leaning over a clean, well-lit table, a surgeon of time

attending to the inner workings: spring,

escapement, balance wheel. I can’t take it back,

the way the man I love is already disappearing

into this mechanism of metal and hide,

this accountant of hours

that holds, with such precise indifference,

all the minutes of his life.

L’orologio

 

La sera, mio marito lo toglie

lo posa sul comodino accanto al portafoglio e le chiavi

giace, per un momento, l’occorrente dell’essere uomo.

A volte, quando non guarda, lo prendo

ne saggio il peso, il quadrante scuro, punte d’argento

il cinturino marrone, in pelle di struzzo con i suoi piccoli brividi

premurato come carne risvegliata dal piacere.

Aveva desiderato un orologio e fu grato quando gliene regalai uno.

E dato che siamo insieme da dieci anni

mi è sembrato il momento adatto per regalarglielo

un riconoscimento delle intricate conquiste

del matrimonio, le sue molteplici negoziazioni e i trionfi senza nome.

Ma stasera, vedendolo lì, tra

gli scontrini accartocciati e le monetine sparse

ho pensato alla moglie di mio fratello che tornava a casa

dall’obitorio riportando i suoi anelli, il suo orologio

in una bustina trasparente, a chiusura ermetica, e a come sedevamo al tavolo

svuotando nei palmi delle nostre mani

ciò che rimaneva di lui, la loro leggera pressione.

Quanto è strano il modo in cui un orologio continua a misurare il tempo

anche dopo che il cuore si è fermato. Mio nonno

era un orologiaio e visse la sua vita in Olanda

chino sopra un tavolo pulito e ben illuminato, un chirurgo del tempo

che si occupava dei meccanismi interni: molla,

scappamento, bilanciere. Non posso rimediare

al modo in cui l’uomo che amo sta già scomparendo

in questo meccanismo di metallo e cuoio,

questo contatore di ore

che misura, con così precisa indifferenza

ogni minuto della sua vita.

Red Tights

 

for Maxine

 

When I see my friend’s little girl

in the produce aisle, she beams, “I’m happy.

I have new red tights and a boyfriend!”

We’re standing between the twin peaks

of apples and tomatoes,

light shining off their taut skins.

 

She does not know

that she will spend her whole life

at the mercy of the opening and closing

of the delicate mechanism of her heart.

 

Just this morning, I ran into an old lover.

When he kissed my cheek,

I inhaled his scent and was thrown

back to a time when all we wanted

was to fit completely inside each other’s bodies,

 

something we took as seriously as engineers

contemplating how to land a rocket

on a moon of Jupiter.

And sometimes we succeeded,

and for a moment

the universe seemed to balance

on a fulcrum, the slight wobble

of the earth’s orbit steadied.

 

How loyal the heart is, a stray dog.

Today, when my ex turned and walked

into the crowd, all I could do

was stand and watch

as mine trotted after him

down the long sidewalk.

And then he rounded the corner

and disappeared.

 

Calze Rosse

 

per Maxine

 

Quando vedo la bimba della mia amica

nel reparto ortofrutta, esclama, “Sono felice.

Ho delle calze rosse nuove e un fidanzato!”

Ci troviamo tra le cime gemelle

di mele e pomodori,

la luce opacizza la loro buccia tesa.

 

Non sa

Che passerà tutta la vita

alla mercé dell’aprirsi e chiudersi

del delicato meccanismo del suo cuore.

 

Proprio questa mattina, mi sono imbattuta in un vecchio amante.

Quando mi ha baciato la guancia,

ho inalato il suo profumo e sono stata catapultata

in un tempo in cui l’unica cosa che desideravamo

era avvilupparsi l’uno al corpo dell’altro,

 

una cosa che prendevamo seriamente come ingegneri

che studiano l’atterraggio di un razzo

su una luna di Giove.

A volte funzionava,

e per un attimo

l’universo sembrava stare in equilibrio

su un fulcro, la sottile oscillazione

della stabile orbita terrestre.

 

Com’è fedele il cuore, un cane randagio.

Oggi, quando il mio ex si è girato e si è incamminato

verso la folla, l’unica cosa che ero in grado di fare

era star ferma a guardare

mentre il mio cuore si precipitava verso di lui

sul lungo marciapiede.

Poi girò l’angolo

e scomparve.

The God of Numbers

 

My mother once had a job measuring penises —

penises that belonged to men whose chromosomes

were askew. “The trouble,” she said,

“is that when I went to measure them, they’d grow!”

I picture her pulling a wooden ruler

from a pocket of her white lab coat.

How hard we try to break the world down,

make sense of it. How steadily it resists.

My friend David, an astrophysicist,

had a job counting the clouds of dust around stars,

an assignment that, in my mind,

put him in an echelon of angels

just above the ones who number grains of sand.

There’s something comforting about inventory,

futile as it may be, the act of assessment

itself a form of care. I like to imagine a God

who rises before dawn, takes out the stone tablets,

and starts to tally the individual hairs on each head,

the number of breaths we’ve taken in the night,

who counts the cilia shooting our cells

through the dark galaxies of our bodies

just before he gets back to work

turning out the next tornado

or reaching down to give the tectonic plates

another good, hard shake.

Il Dio Dei Numeri

 

Tempo fa mia madre aveva un lavoro: misurava peni –

peni che appartenevano a uomini i cui cromosomi

erano sballati. “Il problema,” diceva,

“è che quando li andavo a misurare, si ingrandivano!”

Me la immagino tirar fuori un righello di legno

da una tasca del suo camice bianco.

Quanto ci impegniamo per scomporre il mondo,

dargli senso. Come fermamente resiste.

Il mio amico David, un astrofisico,

per lavoro contava le nubi di polvere interstellare,

un compito che, nella mia testa,

lo collocava in uno scaglione di angeli

appena al di sopra di coloro che numerano i granelli di sabbia.

C’è qualcosa di rassicurante nell’inventariare,

per quanto possa essere futile, l’atto di assicurarsi

è in sé una forma di cura. Mi piace immaginare un Dio

che sorga prima dell’alba, tiri fuori le tavole della legge,

e inizi a contare uno per uno i capelli su ogni testa,

il numero di respiri che facciamo ogni notte,

che conti le ciglia che purificano le cellule

nelle oscure galassie dei nostri corpi

poco prima che ritorni a lavoro

provocando il prossimo tornado

o chinandosi per dare alle placche tettoniche

un altro bello scossone.

 

Traduzione di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

Un ringraziamento speciale a Piper Mathews.