Else Lasker-Schüler, l’immersione nelle stelle

di Andrea Galgano  24 agosto  2022

Else-Lasker-Schüler

La sradicata tensione, la caduta come legame, la sfrontata immersione lirica che abbacina sogno e vitalità disperata («Con la Sua spina dorsale Dio formò la Palestina / Con un solo osso: Gerusalemme. / Cammino come attraverso mausolei – Pietrificata è la nostra Città Santa. / Pietre riposano nei letti dei suoi laghi morti / […] / Gli abissi fissano con durezza il viandante – […] / Ho paura, e non riesco a vincerla»), porgono il tempo di Else Lasker-Schüler, in tutta la sua dolorosa parabola.

Il suo magnetismo trasfigurato, lo sfarzo della lingua, come ebbe a dire Gottfried Benn, che esprime la eveniente sopravvivenza della nostalgia, segnano Il pianoforte blu[1], edito da Ibis, con cura e traduzione di Michele Gialdroni, l’ultimo libro di poesie, pubblicato in Palestina nel 1943, dove la poetessa tedesca di famiglia ebraica visse dal 1939, dopo che la Svizzera le revocò il permesso di soggiorno: «A casa ho un pianoforte blu / Ma non conosco una sola nota. / Sta al buio, dietro la porta della cantina, / Da quando il mondo s’è imbarbarito. / Suonavano quattro sideree mani / – La donna-luna cantava sulla barca – / Ora i ratti ballano nello stridore. / In pezzi è la tastiera… / Io piango la defunta blu. / Ah, cari angeli, apritemi / – Ho mangiato il pane amaro – / Già in vita la porta del cielo, / Anche contro il divieto».

Poesia di esilio, sentimento di feritoie[2] e dislocamenti, come gioco e dramma, la sua solitudine non è balba è magnetica. Qui la voce, come afferma Roberto Galaverni:

«appare quella di una sopravvissuta: alle speranze della giovinezza, agli anni d’oro della vita, al sogno di una superiore civiltà (l’armonizzazione tra le culture europea, ebraica, orientale), alla perdita degli amori, degli amici, e ancor più dell’unico figlio (Paul, morto non ancora trentenne di tubercolosi […]) […] Il senso d’abbandono e di posterità sono anzi così forti che questa sopravvissuta non sembra nemmeno poi così sicura di esserlo».[3]

Michele Gialdroni, nella postfazione, scrive:

«Il pianoforte blu è il giocattolo dell’infanzia, uno strumento che non si suona nella realtà (ed Else Lasker-Schuler effettivamente non sapeva suonare), eterna fonte di ispirazione per dei versi di purissima nostalgia e musicalità. Ma il calore umano della raccolta definitiva di Else Lasker-Schuler è tutto condensato nella soglia del libro: il disegno in copertina che la ritrae come Principe Yusuf nella stretta cerchia dei suoi amici, nella dedica in cui promette loro eterna fedeltà. E nella prima poesia “Ai miei amici”, che non rivela nomi e permette ai lettori passati e presenti e futuri, di essere ammessi alla corte del principe di tebe, quella corte che può essere nella casa di famiglia a Eberfeld, in un caffè berlinese o in una povera stanza d’albergo di Gerusalemme, e di rendere omaggio alla sua lucida follia, alla sua imprudente e vana promessa di vita eterna».[4]

La sua luce è fuorilegge, un fiore segnato, un dramma calibrato e fermato da una sproporzione, colta nella desolazione infiammata, in cui l’avversione è un contrasto di sguardo, un’opposizione lirica o un franamento, come un lampo che annusa le cose, si scontra con il nulla, si impasta con quel nulla mai innocuo, così vicino alla nascita e alla saturazione di nubi. Il tempo è un rovescio che appartiene al passato, all’infanzia, alla giovinezza. È il territorio del buio, del sonno, della morte:

«Non la morta quiete – / Son già riposata dopo una placida notte. / Oh, espiro il soffio del sonno, / Mentre ancora cullo la luna / Tra le mie labbra. / Non il sonno della morte – / Già discuto con voi / Celestiale concerto… / E prorompe di nuovo la vita / Nel mio cuore. / Non il nero passo dei sopravvissuti! / Sonni calpestati frantumano il mattino. / Stelle coperte da un velo di nubi / Nascoste al mezzogiorno – / Ritrovarci così ancora e ancora. / Nella casa dei miei genitori / Abita ora l’angelo Gabriele… / Vorrei proprio celebrare lì con voi / In una festa la beata quiete – / Si mischia l’amore con la nostra parola. / Dal molteplice addio / salgono stretti l’un l’altro i filamenti dorati, / E non c’è giorno che non sia dolce / Tra il bacio melanconico / E il rivedersi! / Non la morta quiete – / Così amo essere nell’alito divino…! / Sulla terra con voi già in cielo. / Dipingere di mille colori su sfondo blu / La vita eterna!».

Fausta Antonacci, a tal proposito, scrive:

«La sua infanzia ha una funzione salvifica e risanatrice, vi torna sempre per lenire le sue molteplici ferite, nel corso della vita. Una infanzia che viene recuperata attraverso il ricordo, ma poi trasfigurata dal linguaggio poetico, una infanzia vissuta nuovamente e trasmutata per bonificare il ricordo e rendere il presente sopportabile. Non si tratta tuttavia di una finzione, ma di un processo di eufemizzazione, che tiene insieme l’immaginazione (come facoltà del possibile) e la memoria (come facoltà di rielaborazione)».[5]

I rapporti con l’arte selvaggia e ossessiva di Kokhoschka, Kraus e la sua esattezza, Benn e il sottosuolo lirico, Marc e il tragico azzurro di Trakl recano incisività alla sua poesia, che porta il senso del ritorno e della contraddizione e scaraventa aridità e nudità di luoghi:

«Potessi tornare a casa – / Si spengono i lumi – / Si estingue il loro ultimo saluto. / Dove devo andare? / Oh madre mia, lo sai? / Anche il nostro giardino è morto!… / Giace a terra un grigio mazzo di garofani / In un angolo della casa materna. / Aveva ricevuto ogni cura. / Coronava il benvenuto ai cancelli / E si è consumato tutto nel colore. / Oh cara madre!… / Emanava rosso di sera, / Al mattino soffice nostalgia – / Prima che il mondo finisse nell’infamia e nelle pene. / Non ho più sorelle né fratelli. / L’inverno giocò con la morte nei nidi / E la brina gelò tutte le canzoni d’amore».

Ma l’apice di Else è il suo Heimat, la sua agnizione, la sua catarsi nata in esilio, scontratasi con il vento violato, le strade chiuse, la percezione avvolta di un dolore, vissuto nello scioglimento lessicale, nella necessità di una concordia oppositorum. Il suo contro-orizzonte, come dice Galaverni, vive lo sperdimento della separazione dei preludi, la patria negli occhi («Bisogna percepire l’attimo dell’amore, / Quando vediamo reciprocamente la patria negli occhi. / Dolce miraggio sul pendio del nostro amore, / Fiorisce dai cactus la regina della notte»).

L’appartenenza, il disorientamento («Viene la sera e mi immergo nelle stelle / Per non disimparare nell’animo la strada di casa / Anche se il mio povero paese da tempo si è velato a lutto»), la passione naturale, l’ispirazione verso l’invisibile si concentra nella parola, nel volto e nella luce del suo sguardo, che toglie ogni aratura davanti al Divino, respirando la tensione dell’eterno e della sua trasfigurazione, del lavoro archetipico dell’anima, della infinita rastremazione dell’io.

Fausta Antonacci afferma:

«L’appartenenza e il disorientamento, l’Oriente e l’Occidente, la notte e il giorno, l’amore e la solitudine, il riconoscimento e l’abbandono, sono tra i poli più faticosi che ardono, nelle sue parole, in cerca di conciliazione. Tale tensione è carica di sofferenza, perché la passione amorosa di Lasker-Schüler è intrecciata alla passione per la natura, per il creato, per Dio, che testimoniano sempre una distanza, uno scarto, una impossibilità di sostare nell’unione mistica, alternando la felicità più folle all’angoscia e alla disperazione. […] Il poeta non è immune dall’ansia di sentire una concreta rispondenza nel cuore del lettore, di sentirlo palpitare all’unisono col proprio battito creatore. Lasker-Schüler, come ogni artista sente una incommensurabile distanza tra il suo desiderio di comunicare e le sue capacità espressive. E sente che nella sua opera, pure intrecciata tra diversi linguaggi (poetico, figurativo, performativo), persiste una distanza tra le cose e la loro dicibilità, permane un non detto, impermeabile a qualunque forma espressiva. Eppure questa distanza non placa la sua fame di contatto col mondo che rimane assoluta, feroce, iperbolica».[6]

Nel cuore giocano paradisi[7], nonostante il sentimento della fine, del dolore in terra («Il mio cuore riposa stanco / Sul velluto della notte / E sulle mie palpebre si posano stelle…») e l’amore stellato induce la veglia al riposo, alla stretta, allo schiudersi delle labbra. Else fiancheggia l’amore («Io barcollo sul prato dorato del tuo corpo, / Brilla lungo il sentiero d’amore la ghiaia adamantina / E anche al mio grembo / Portano turchesi d’ogni colore»): «Io sogno così lontano da questo mondo / Come se fossi morta / E non fossi più incarnata. / Nel marmo del tuo gesto / la mia vita si ricorda più vicina. / Eppure io non so più le vie. / Ora la sfera scintillante mi avvolge / Gravemente nell’abito di diamante. / Ma io annaspo nel vuoto».

 

[1] Lasker-Schüler E., Il mio pianoforte blu, cura e traduzione di Michele Gialdroni, Ibis, FINIS TERRAE, Como – Pavia 2022.

[2] “Io costeggio l’amore, da tanto tempo vivo dimenticata – nella poesia”: vorrei accarezzare la povertà di Else Lasker-Schüler (www.pangea.news/else-lasker-schuler-ritratto/?fbclid=IwAR0FRoyi7p7tHnHS7sFrWrR4N080Axsn7sav6beVSn05ChjXJxjbo).

[3] Galaverni R., Il lirismo che unì ebraismo e tedesco, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 agosto 2022.

[4] Gialdroni M., Amici per sempre, in Lasker-Schüler E., cit.  p.99

[5] Antonacci A., “In vita muoio e con le immagini rinasco”. Il cuore poetico di Else Lasker-Schüler (http://www.metisjournal.it/metis/anno-vi-numero-2-122016-cornici-dai-bordi-taglienti/192-saggi/871-in-vita-muoio-e-con-le-immagini-rinasco-il-cuore-poetico-di-else-lasker-schueler.html?fbclid=IwAR0Mr0CRvP0mFu8Q7qWZsrylA42xLDjs0MM-nltkNW7z812oX1jCa9vdCUA).

[6] Antonacci A., cit.

[7] «Sono profondamente scossa, la mia anima si è dissolta, da essa sgorgano smeraldi e rubini e zaffiri, anche pietre di luna come sorgenti variopinte. […]. Non ho quindi più nessun segreto, il mio cuore non riesce più a conservarne alcuno e il mondo può disporne. Onde marine portano a riva i suoi segreti, si risveglia all’alba e muore al tramonto. Ma il mio cuore è sempre di seta, lo posso chiudere a chiave come un portagioie». (in Lasker-Schüler, Il mio cuore e altri scritti, traduzione e nota critica di Margherita Gigliotti e Enrica Pedotti, Giunti, Firenze 1990, p. 71).

Lasker-Schüler E., Il mio pianoforte blu, cura e traduzione di Michele Gialdroni, Ibis, FINIS TERRAE, Como – Pavia 2022, pp.106, Euro 12.

Lasker-Schüler E., Il mio pianoforte blu, cura e traduzione di Michele Gialdroni, Ibis, FINIS TERRAE, Como – Pavia 2022.

  • Il mio cuore e altri scritti, traduzione e nota critica di Margherita Gigliotti e Enrica Pedotti, Giunti, Firenze 1990.
  • Ballate ebraiche e altre poesie, introduzione, traduzione e note di Maura Del Serra, Giuntina Firenze, 1985; II ed., ivi 1995, con nuova introduzione ed alcune variazioni testuali e bibliografiche.

“Io costeggio l’amore, da tanto tempo vivo dimenticata – nella poesia”: vorrei accarezzare la povertà di Else Lasker-Schüler (www.pangea.news/else-lasker-schuler-ritratto/?fbclid=IwAR0FRoyi7p7tHnHS7sFrWrR4N080Axsn7sav6beVSn05ChjXJxjbo).

Antonacci A., “In vita muoio e con le immagini rinasco”. Il cuore poetico di Else Lasker-Schüler (www.metisjournal.it/metis/anno-vi-numero-2-122016-cornici-dai-bordi-taglienti/192-saggi/871-in-vita-muoio-e-con-le-immagini-rinasco-il-cuore-poetico-di-else-lasker-schueler.html?fbclid=IwAR0Mr0CRvP0mFu8Q7qWZsrylA42xLDjs0MM-nltkNW7z812oX1jCa9vdCUA)

Belski, F., Wo soll ich hin? Else Lasker-Schüler e i luoghi della poesia. Aracne, Roma 2009.

Galaverni R., Il lirismo che unì ebraismo e tedesco, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 agosto 2022.

Beatrice Viggiani, la superficie del vento

di Andrea Galgano  22 agosto  2022

Beatrice Viggiani

Oreste Lo Pomo, a ragione, quando parlando della visionaria e fulminea poesia di Beatrice Viggiani afferma, da un lato, l’importanza del «racconto di una elegia con l’alfa privativa il cui risultato è il rifiorire di una stagione dei ricordi e degli affetti senza gli stereotipi che spesso li accompagna e l’approccio di “contrattazione e razionalità”, dall’altro della poesia del mondo, che appartiene al mondo, non già di due mondi, come spesso la critica sostiene.

I poeti abitano i mondi dell’indicibile, dell’invisibile e del visibile, sostengono la fisica della realtà, ricercano l’essenziale, che è il mistero che solca segni, visioni, cifre e smottamenti dell’anima: «L’acqua era pura come il cielo / e la stella lasciò segni / dove ti fermasti amore / stringesti i miei capezzoli / turbasti la mia virtù e il mio sangue / per poi spegnerti come candela / e raddoppiare / il circolo implacabile / della solitudine».

O ancora: «e noi / avvolti in nastri lucenti / infinitamente dolci, / continuiamo a baciarci. / L’aroma indefinibile / della vita / aggrediva il tempo. / Avevamo affittato / il castello dell’amore eterno, / a scadenza fissa / e senza cedimento».

La raccolta postuma di Beatrice Viggiani, 41[1], edita da Universosud, riporta un tempo inedito, un’alterità ultima, viva come la coltre del linguaggio, che sembra sospendersi, abbracciando le linfe che sostengono il suo habitus poematico, la sua spaesante potenza di inizi, il ritorno delle cose.

Lo Pomo scrive:

«[…] superando gli steccati del provincialismo poetico, non ha dimenticato le radici culturali della sua terra d’origine, la Basilicata, ma le ha sparse come cenere al vento dovunque è andata e lei stessa si è confusa con il vento, trasportando in esso il senso profondo dell’appartenenza senza incorrere nella retorica della ghettizzazione territoriale mal sopportata da quelli che sono stati definiti i poeti della diaspora, proprio perché nel volersi e – nella maggio parte dei casi – doversi allontanare dalla Basilicata, senza dimenticare le fonti dell’ispirazione, non sono stati sopraffatti dallo stucchevole rito della celebrazione a tutti i costi».[2] (p.7).

Giampaolo D’Andrea, nella postfazione, ricorda:

«La nostra poetessa, vissuta e formatasi tra Napoli e la Basilicata, a Potenza, tra la fine degli anni 50 e i primi anni 60, stabilì un rapporto intenso con gli artisti, gli scrittori e i poeti che si ritrovavano, abitualmente, nella piccola libreria Riviello (nel tratto finale della centralissima via Pretoria prossimo a Portasalza) a parlare di cultura e di politica, a leggere Scotellaro, Levi e Olivetti, a sognare, a progettare, a cominciare a scrivere e pubblicare, come capitò anche a lei già nel’62, a quattro mani con Tuccino Riviello».[3]

Beatrice Viggiani insegue l’oltre-confine dell’arte, come rivela in quella intervista di identità e rilievo, concessa a Leonardo Pisani, nell’occasione della riedizione di 53, scritto con Vito Riviello, a cura di Giulia Ughetta e Maria Isabel Gouverneur. Nella sua sproporzionata lontananza, sente le radici dell’appartenenza e delle origini (o meglio del sogno delle origini), e se di diaspora si tratta, essa diviene l’inizio di uno spostamento di suono, una torsione delle possibilità linguistiche, che partendo dalla perfetta fusione di idioma e realtà, lessico e dinamica narrativa, tendono a offrire il sorgivo dischiudersi dello sguardo:

«Napoli non si afferra dal cielo / e nemmeno dalla terra. / Napoli eccentrica obliqua / marina, / disfandosi. / Napoli non si sa. / Napoli piena di spettri ufficiosi / leggeri come morti. / Napoli di promesse e addii / di tiepidi tegoli / di argille rosse e gialle. / Napoli azzurra e scintillante / che ride alto / anche sulla sua agonia, / Napoli dove i fratelli ci sfioravamo i piedi nudi, / e quando passava il pipistrello, / zittivamo».

In poesia non esistono le periferie, i margini, i non-luoghi: tutta la realtà è segno, a volte riconosciuto e incontrato, altre volte come un acquerello appena accennato. Il segno dell’esistenza di Beatrice Viggiani è il “problema” dell’esistenza, o meglio, dell’essere, della fine e dell’inizio, del mondo come violenta dolcezza, il tragico lirico e la passione vivificante.

Le sue volute si concedono cromature oniriche, la lingua è leggera (riportando il senso, caro a Valéry, di disposizione e dimora: «Abito il linguaggio / perché / la lingua è leggera / e non pesa come la carne»), dove il paesaggio consegna una disposizione e una rapina di silenzio, il bilico di una trasparenza: l’amore, la luce vettoriale, la frattura indefinibile dell’anima, le stagioni partorienti della pioggia.

E poi le città, che in Beatrice Viggiani, diventano quello che Milosz chiamava «fodera del mondo», le illusioni di un possibile dissetamento:

«In città incandescenti / seppellimmo ghiacci. / Ci prese un lungo tempo, / quasi una vita. / e adesso che ci siamo perduti, / pietre preziose, / sappiamo che non ci siamo avuti, / spine e rose. / Né stavamo / al fondo della casa, / che sarebbe bastato attraversarla / per incontrarci, / né per strade. / Sopra tutto nutrimmo l’illusione / che tanta acqua / ci avrebbe dissetati».

In questa poesia, luminosa e umbratile, l’assetto dei segni lascia immensità duali, case di cedro e sandalo, dove emergerà l’eterno delle totalità degradate di «fucine, giardini, peccati», lo stupore della sproporzione, la terra promessa, il domicilio di nubi e pietre: «Solo una ragnatela di sguardi / difende Villammare / dalla perfezione della luce / in questo tratto di costa / lontana da ogni vilezza / nei cieli affocati / del Mediterraneo. / La dolcezza dell’estate / s’intrufola in caverne / svelate da grotte marine / nei giorni trasparenti / mentre turchesi inattesi / affiorano in mare».

Il posizionamento della controra è una visione in cui la labilità di ogni passaggio e paesaggio in transito copre gli anni e le stagioni («Alla controra deserta e ardente / la costa crespa di cespugli e ibiscus / tra una curva e l’altra / tra una collina e un torrente»), concede il profumo-respiro degli oleandri e dei gelsomini e il cuore è nomade, come Maratea e la sua aperta reticenza di roccia e di mare.

E le sue figure ieratiche, come accadrà nel ritratto di Zietta, sussurro di occhi e terre nuove: «Mentre il cielo ride / vibra nell’aria / un pulviscolo di vuoto / e la realtà / tende a saltare sui sogni / nei ricchi sciali / di mangianza / ventiscata dalla brezza marina / profumata di oleandri e gelsomini».

La ricchezza visiva delle sue tensioni si ammanta nei dettagli, nei segnali della realtà, nelle speranze sognate, dove la superficie delle cose, che assomiglia a un viaggio di orizzonti spaesati, riporta domande elementari, in cui lo splendore venezuelano, che ha assaporato dal 1969 al 2005, ha riposi fosforescenti «di spiaggia calda di destino»: «le tue tempie ondulate / di uccelli e palme / sono diventate le mie tempie, / Venezuela». Anche il bacio dell’amore è nitente nei suoi bagliori chiari.

Beatrice Viggiani ha disegnato l’essere, la nostalgia, il tradimento e il rimpianto, scoprendo la sorvegliata tenerezza di uno scialacquio visionario, una incipiente voluttà di tocco convesso e dedizione al reale.

[1] Viggiani B., 41, Editrice Universosud, Potenza 2022.

[2] Lo Pomo O., Versi nel vento, in Viggiani B., cit.

[3] D’Andrea G., Un’anima, due patrie, in Viggiani B., cit., pp.152-153.

I veleni e lo champagne di Dorothy Parker

di Andrea Galgano  19 agosto  2022

Dorothy Parker

La poesia di Dorothy Parker (1893-1967), ora pubblicata da De Piante Editore, con un testo dal titolo Veleni & Champagne. Poesie dell’età del jazz (1926-1931)[1], a cura di Silvio Raffo, è un suolo di confine, in cui l’ironia, la sfrontatezza, l’assertività umbratile, la piccola linfa di superficie approfondiscono un’istanza libertaria, un riflesso teso, una favola perfida.

Daniele Piccini scrive:

«[…] le poesie sono probabilmente destinate a durare più a lungo dei suoi celebri racconti, pubblicati sulle riviste alla moda dell’epoca, prima di essere raccolti in volume. Questi ultimi, i racconti, descrivono con occhio vigile e acuto un mondo, una società, con le sue fittizie virtù, le sue falsità, i suoi rituali. (…) Ma le poesie sono più straziate e sincere: il punto di osservazione si sposta all’interno, verso il cuore della scrittrice, che non è più personaggio mondano, maschera, leggenda, ma creatura vulnerabile, bisognosa d’amore, un amore sempre contraddetto e faticoso, pieno di tradimenti e delusioni. Da dove potesse venire la fame di affetto che queste poesie denotano forse lo può suggerire (ma è una risposa di per sé parziale e dubbia) la biografia di Dorothy Parker (Parker è il cognome del primo marito, sempre mantenuto in seguito: lei era nata Rothschild), che perse la madre a soli cinque anni ed ebbe un rapporto difficile con la matrigna e il padre».[2]

Se l’Algonquin Hotel rappresenta una vertigine di vuoto nei Roaring Twenties, un luogo di impudente voluttà, poggiato in bilico, tra gossip, la finta e sgargiante promessa delle paillettes, la ricchezza allegra e audace, ma anche il collante del cinema, dello spettacolo, come aveva ben evidenziato Francis Scott Fitzgerald, raffigura, soprattutto, l’illusione oscura, l’irraggiungibilità scheggiata che si impone come orizzonte sottile e fragile desiderio messi a nudo: «Tu non sai quanto pesa questo cuore / sospeso al collo – rozza pietra incisa / delle tre date: nata, morta, sposa. / Me la ritrovo addosso a ogni amore / chi se la prende?) che mi grava il petto – / e ora a questo, e ora a quel signore / cerco di offrire l’aborrito oggetto».

Dorothy Parker abita questo punto di fuga dissacrante alla Round Table. È il suo spazio di sguardo sfrangiato e illeso senza ipocrisie, sorpreso tra l’orfanità materna e l’ostilità, la critica mordace e il fulmine della beffa, il classico lambito e l’avamposto caustico.

Ma attraverso la sua impetuosa collezione di prospettive, il suo grido acuto, la sua torsione, evidenziata dalla totale assenza di filtri, come si poteva leggere su “Vanity Fair” e poi sul “New Yorker”, è più della sua agrodolce austerità, che non rilascia tempi dolci o edulcorati, bensì elabora un corpo a corpo, una sensazione di contrasto, un rilievo attonito in frantumi[3]:

«La Gioia fu con me per una notte – / era giovane, bella, senza freno – / con la luce del giorno se ne andò / e mi lasciò dov’ero. / Venne da me il Dolore / e giacque sul mio seno; / con me per tutto il giorno camminò, / e mi conobbe appieno. / Non sarò mai una moglie, / e nubile nemmeno. / Così, per ora, vivo con l’Orgoglio – / un freddo concubino. / Sordo e cieco dev’essere. Altrimenti / come potrebbe ancora tollerare / che ogni giorno il Dolore / torni con me a flirtare?».

Il suo rilievo è, innanzitutto, il duro pugno della vita: i matrimoni finiti o la perdita materna hanno sfibrato e alimentato la sua arguzia sottile, lambendo il fallimento e avvolgendo il suo essere di una sproporzione, legando i colpi della vita alle sue rasoiate, la malinconia alla pura allegria delle cose, il cuore all’illusione, l’osservazione alla sinestesia del centro dell’essere, la purezza alla morte: «L’amore m’ha piantata / in asso, ma pazienza; / potrò anche farne senza, / e non sarò la prima. / La gioia è dileguata? / Di nuovo non c’è niente; / continuerò il cammino – / e non sarò la prima. / Preparatemi la bara, / ora sì che sono in lutto: / il mio odio è morto tutto, / e che cosa mi rimane?».

O ancora:

«So d’esser stata felice a te accanto; / ma ciò ch’è stato è stato, e così sia. Non giova a nulla struggersi nel pianto – / chi lieto visse, sfida l’agonia. / Non farò versi per un cuore infranto; / tu che sei un uomo sdegni le mie lacrime; / se la mia fede ti volessi offrire / ne avresti una paura da non dire. / Ma è questa d’ogni donna la mania: / un dono dopo l’altro dare, dare / la più dolce per lei delle emozioni. / A te che non hai chiesto promesse né canzoni / regalo la mia assenza per l’intera vita mia; / per dopo, nulla ti posso giurare».

Scrivere dell’allegria è un talento essenziale (qui diventa un gioco leggero e crudele, «di un’abissale, tragica solitudine»[4], come afferma Silvio Raffo) e pur non amando i suoi testi di poesia o i suoi racconti (che trovava sciatti e disordinati), Dorothy Parker è autrice di concetto-mondo. Il concetto, la resa verbale, la frase o il verso divengono l’indizio del mondo: «Con l’Amore al mio fianco ero senza parole; / lui sbadigliava, e decise di andare; / ora ho il Dolore appeso ai lacci del grembiule, / e non smetto un istante di parlare».

Non porgendo alcuna linea di lirismo, la sua traccia poetica diventa lama sottesa, qualcosa che assomiglia a un dito in aria, che non lascia fili sospesi, per dirla alla W.S.Maugham, ma che attraverso la forma ordinata, il lato ridicolo e grottesco dell’esistere, la chiarezza e l’incanto, sente la concentrazione del colore e del dolore, l’appartenenza poetica a Edna St Vincent Millay e la sua frivolezza diviene una fecondità arguta e acuminata, riunita per sorprendere, togliere il superfluo del fiato nel teatro della grazia, come sottolinea Fernanda Pivano: «E quando te ne vai non c’è foglia né fiore, / né mare notturno che canti, né uccelli d’argento nel sole; / io posso solo, attonita, dar forma al mio dolore / in piccole parole».

Ogni stoccata, ogni categoria di spirito, ogni tensione diventano viva ebbrezza, un tempo sfrangiato, irraggiungibilità sperata, dannazione e dilapidazione, sguardo verso la società, non depennando, ma con un fumo di sogno in piedi: «Su terra dolce, giovane, gremita di mortelle, / a lungo noi giacemmo, a Maggio appena nato; / nelle sue tracce il salice la luna avviluppava, / la rosa in boccio rugiada stillava. / E ora giaccio su franose zolle, / muore l’anno e coi suoi morti sto pregando di morire; / il gambo della rosa è nero e secco, / il salice dal capo scuote il vento».

 

[1] Parker D. Veleni & Champagne. Poesie dell’età del jazz (1926-1931), a cura di Silvio Raffo, De Piante Editore, Busto Arsizio (Mi) 2022.

[2] Piccini D., Dorothy Parker canta il jazz di Catullo, in “Corriere della sera – La Lettura”, 7 agosto 2022.

[3] Camprincoli A., Dorothy Parker. La poetessa che sciolse il dolore nello champagne, in “Libero”, 10 agosto 2022.

[4] Raffo s., «Questa vita ti giuro non è stata idea mia», in Parker D., cit., p.15.

Parker D. Veleni & Champagne. Poesie dell’età del jazz (1926-1931), a cura di Silvio Raffo, De Piante Editore, Busto Arsizio (Mi) 2022, pp. 170, Euro 16.