LA PANDEMIA E IL TAO DEL NUOVO UMANESIMO

di Enrico Facco 7 aprile 2020

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La pandemia da COVID-19 sta mettendo dura prova il mondo intero. È un momento drammatico, di cruciale importanza per l’umanità, per la sua sopravvivenza, le reciproche relazioni tra singoli e tra i popoli e per l’ecologia dell’intero pianeta. È un problema di straordinaria complessità e come tale ha implicazioni che si estendono ben oltre la sola gestione tecnico-sanitaria ed economica del problema, per quanto di cruciale e prioritaria importanza.

La cultura occidentale moderna è evoluta in direzione sempre più materialista e tecnico-scientifica con una prospettiva individuale essenzialmente egocentrica. La volontà di potenza che la anima ha prodotto grandi risultati, che sono sotto gli occhi di tutti e non sono in discussione. Tuttavia, non c’è nulla al mondo che sia solo buono ed ogni conquista, in quanto prodotto di una visione parziale, comporta inevitabili e imprevisti effetti indesiderati. Non è dunque da meravigliarsi se il grande e rapido progresso ha portato come danno collaterale la minaccia di una catastrofe ecologica, con un rischio che potrebbe estendersi fino anche alla scomparsa del genere homo dalla faccia della terra entro la fine del secolo.

Nonostante l’autoproclamata intelligenza e superiorità dell’uomo, non sembra che ci siamo comportati in modo più evoluto di una colonia di batteri in provetta. Infatti i batteri in coltura inizialmente crescono in maniera esponenziale, avendo un’apparente disponibilità illimitata di nutrienti; poi, man mano che si accumulano i prodotti di scarto e i nutrienti cominciano a scarseggiare, la crescita rallenta fino a fermarsi per poi morire alla fine annegati nelle proprie deiezioni. In altre parole, l’umanità deve inesorabilmente riscoprire la necessità di adeguare sé stessa e il suo comportamento alla realtà e quindi alla Natura, invece che pretendere che il mondo si adatti tout court alle sue propensioni, desideri e velleità.

In questi ultimi due secoli abbiamo inaugurato una rivoluzione scientifico-tecnologica senza precedenti, ma abbiamo utilizzato la nostra mente in modo radicalmente utilitaristico secondo la limitata prospettiva della coscienza ordinaria per crescere confinati entro l’orizzonte degli interessi individuali e di gruppo, ignorando il resto del mondo e alienandolo da noi come una problema irrilevante: il risultato è che una parte dell’umanità ha raggiunto un benessere e una sicurezza senza precedenti (e questo è il lato buono), ma al costo di creare grossi squilibri tra ricchi e poveri e tra uomo e natura; nonostante il progresso, complessivamente non sembriamo più felici di prima e continuiamo a marciare verso il precipizio ecologico, come i topi dietro al pifferaio magico verso il burrone.

Occorre dunque un cambiamento epocale, superare lo spirito del tempo del XX secolo, fare un salto di qualità che apra a una nuova e più ampia prospettiva, un cambiamento di paradigma. La personale opinione è che la via corretta sia quella più antica e insieme più moderna, ossia riscoprire e comprendere profondamente la concezione della complementarietà degli opposti dei filosofi presocratici e del Taoismo (invece dell’inconciliabile separazione postaristotelica) e la dynamis di Ippocrate (l’inscindibile interrelazione mente-corpo-ambiente). Quest’ultima trova una corrispondenza in ambito biologico nella recente definizione degli esseri viventi e del mondo come sistemi complessi in inscindibile relazione, reciproca trasformazione e coevoluzione. Se un tale concetto appare come una nuova e illuminata concezione scientifica, esso è da sempre patrimonio della grande sapienza degli antichi, da Buddha a Laotze, a Parmenide e Eraclito, il cui paradigma, non a caso, è più compatibile con quello della fisica quantistica di quanto non lo sia il pensiero occidentale classico.

Quella sapienza è stata tuttavia persa per un uso quasi esclusivo della ragione in senso logico-analitico. Essa ha prediletto la mente discriminante, che conosce distinguendo e separando: è certamente uno strumento valido e potente, ma è come un bisturi, che può salvare la vita ma anche uccidere, se usato male. Se ci si limita solo a sezionare per comprendere gli elementi e i meccanismi di base dei fenomeni osservati (prospettiva del riduzionismo scientifico), si perde inesorabilmente la percezione e la comprensione dell’intero: è la metaforica capacità di vedere l’albero ma non la foresta, con tutte le relative conseguenze.

Il problema era già stato ben definito da Platone nel Sofista, dove l’Ospite di Elea (Parmenide) afferma: “Lo slegare ogni cosa da tutte le cose è il più completo annullamento di ogni principio di ragione”. Sembra invece che questo sia l’unico modo di usare la ragione che oggi conosciamo: tuttavia un modo alienato. All’analisi deve essere dunque conseguire la sintesi, il riunire ciò che abbiamo arbitrariamente separato e isolato da quel sistema complesso che è la Natura, come lo è ogni essere vivente; ma solo la saggezza e la sapienza possono consentire di perseguire questo obiettivo oltre i limiti delle singole discipline.

La verità dell’inscindibile complementarietà degli opposti, concetto che appare strano all’uomo occidentale moderno, è ben definita da Eraclito: “Belle per il Dio, sono tutte le cose. E giuste; ma gli umani ne hanno ritenute giuste alcune, ingiuste le altre. Ciò che si oppone converge, e dai discordanti bellissima armonia… È la malattia che rende piacevole e buona la salute, la fame la sazietà, la fatica il riposo”. Ogni cosa appare ed è percepibile grazie al suo contrario con cui è in relazione complementare e dinamica: così anche per il piacere e il dolore e per il bene e il male, questi ultimi sapientemente simbolizzati nella Genesi come frutti di un’unica pianta.

Dunque questo momento di incertezza, isolamento e paura per la sopravvivenza può diventare uno stimolo formidabile per riscoprire e apprezzare in modo autentico il suo contrario, ossia il valore della vita, del lavoro, degli affetti e del contatto umano, il rispetto dell’altro, dell’appartenenza allo stesso mondo e della cooperazione: l’ “essere con” e “parte di”, non “altro da”.

Questa prospettiva può consentire ad ognuno di affrontare meglio la drammatica pandemia che si sta abbattendo nel mondo contemplando “l’intero”, ossia considerarne anche il senso e le conseguenze implicate nel nostro essere al mondo, oltre alla ricerca degli strumenti tecnici per gestirla e risolverla; e così si può affrontarla con maggiore serenità, determinazione e responsabilità, rendendola occasione per un rinnovamento radicale di cui c’è un indifferibile bisogno. È da contemplare dunque l’intima appartenenza della pandemia a questo momento storico, che ne sarà segnato in modo indelebile nella storia. È da considerare attentamente che la virtù più importante dei sistemi complessi è quella non solo di reagire ma di modificare sé stessi in risposta agli stimoli. Ritengo quindi verosimile (e lo spero) che, quando il grave momento sarà superato, nulla sarà più come prima, perché cambierà qualcosa nella nostra percezione e nella nostra consapevolezza, come nel nostro sistema immunitario e nel modo di reagire al virus; se così sarà, è importante cogliere l’opportunità di momento difficile per trasformarci tutti da soggetti passivi, mere vittime degli eventi, ad artefici di un profondo e necessario rinnovamento.

Un virus, la creatura biologicamente più infima, ha messo in ginocchio l’umanità assieme alla sua arroganza e volontà di potere, mettendo in evidenza i limiti degli assiomi e delle teorie, delle credenze e dei dogmi che hanno dominato lo spirito del tempo attuale. Quest’ultimo appare sempre più come una torre di Babele che ha raggiunto la confusione delle lingue e deve essere abbandonata. Nel progressivo deterioramento dei valori, l’economia si è trasformata da valido strumento di gestione delle risorse a fine ultimo, una sorta di teologia economico-finanziaria dogmatica – della quale gli ipermercati sono la cattedrali – che ha imposto all’umanità i suoi comandamenti, cui sottomettersi in nome di una produttività fine a sé stessa come principale se non unico valore. Sul piano sanitario, l’obiettivo della produttività e della riduzione dei costi (in sé ineccepibile), adottato come criterio dominante di gestione, ha comportato la perdita della resilienza del sistema, ossia della capacità di far fronte ai mutamenti improvvisi delle necessità; il mito della globalizzazione e della delocalizzazione ha portato alla difficoltà di approvvigionamento di merci per la riduzione di produttività nelle aree critiche lontane e problemi relativi al loro trasporto e anche all’indisponibilità dei presidi sanitari ai paesi che ne hanno bisogno ma non li producono.

La nuova emergenza richiede inoltre di semplificare radicalmente le norme e superare le rigidità dei criteri di stabilità per poter sopravvivere e far ripartire l’economia, fatto che potrebbe preludere ad un augurabile positivo mutamento delle regole europee. Ovviamente nulla di quanto è stato fatto fino ad oggi è in sé sbagliato ma solo la pretesa di validità assoluta e di esclusività di ogni singola idea, che, quando è portata all’estremo, finisce inesorabilmente per produrre risultati contrari facendo diventare cattiva anche la cosa inizialmente buona. Come afferma un antico adagio, la differenza tra il farmaco e il veleno è solo la dose.

È quindi ora di reagire e approfittare del momento per iniziare a riflettere seriamente su come vogliamo e dobbiamo essere, dalla sfera privata a quella sociale e politica, nazionale e internazionale, per essere all’altezza dei tempi, del mondo e della Natura di cui siamo parte. È il momento di progettare l’ineludibile rinnovamento, dopo l’appiattimento culturale, le arbitrarie semplificazioni politiche (con le relative soluzioni, necessariamente inadeguate a problemi complessi) e il sopore consumistico, che nei decenni scorsi si è associato ad un progressivo calo del quoziente di intelligenza in tutto l’Occidente, favorendo egoismi idioti e disgregazione sociale.

Ausiàs March e l’amore come cono d’ombra

di Andrea Galgano 1 aprile 2020

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La poesia di Ausiàs March (1400-1459) appare nutrita da due linee forti ed evocative: da un lato, la lirica latina e francese e soprattutto italiana, dall’altro irrorata dai Padri della Chiesa, la Bibbia, la filosofia naturale e la trattatistica medica.

Nonostante rappresenti uno dei capisaldi del secolo valenciano, viene offerta oggi, grazie all’acume di due studiosi, Pietro Cataldi e Cèlia Nadal Pasqual, Un male strano. Poesie d’amore[1], edito da Einaudi, riportando alla luce una poesia che ha sicuramente patito la minorizzazione culturale del catalano, la sua originalità e la sua intensità, come scrivono i curatori nella prefazione:

«Il discorso insiste sull’irruzione di un eros perturbante, che porta a fare i conti con l’ideologia e con il corpo in modo drammatico e talvolta brutale, misurandosi perfino con il desiderio femminile e con le contraddizioni più oscure del proprio. In altri casi, predominano i riferimenti alla tradizione della fin’amor, lavorati con intensità inventiva e con una rappresentazione sincera e spesso pungente delle emozioni».[2]

L’agguato del dolore è il suo prisma onirico e la punta estrema del suo desiderio in bilico che rimane avvinto, del passato che rappresenta la dura cortina di un tempo rammemorativo, verso cui porre servizio. Il suo soggiorno eremita è una mentalizzazione ossessiva senza riserve di perdita, di lamento, di abbandono e di assenza. Incrinare l’amore come mondo che fugge, invecchia, si slega al cielo, diventa eccesso di piacere, per trasformare sé stesso in sognatore, malato, condannato a morte.

La condizione dell’innamorato possiede la precarietà fuggevole dell’inganno e del disinganno della storia, della sua fatale fragilità, e allora resta lasciarsi avvolgere dalla ragione, dalla privazione di ciò che quel tempo concede, contemplandolo, abbandonandosi alla forza in salita della realtà esterna, come un grido e un compianto, nati nella burrasca dell’incomunicabile, inscenati in un bisogno di purificazione. Ed è lì che il bisogno di salvezza diventa più grande. È il suo sole estivo che non si abbassa e l’esito di una vertigine verticale che purifica («Piena di senno / donami una crosta / del pane tuo, che l’amaro mi tolga» (2, 41-42)»):

«Come colui che gode in un sogno / e il suo piacere viene da un folle pensiero, / succede a me, che il passato mi tiene. / Sentendo il mio dolore già in agguato, / sapendo che cadrà nelle sue mani, / nessun bene il futuro può più darmi; / ciò che è nulla è il meglio che io ho. / Del tempo passato mi scopro grande amante, / amando il nulla, poiché è già finito. / In questo pensiero soggiorno e mi diletto, / ma quando lo perdo, è più forte il dolore, / come colui che è sentenziato a morte / e lo sa da gran tempo e si consola, / e credere gli fanno che ci sarà perdono / e lo fanno morire senza nessun ricordo. […] Meglio sarebbe soffrirlo, il mio dolore, / che non mischiare un poco di piacere / fra quei mali che impediscono sapere / come uscire dal piacere pensato. / Ahi! Si trasforma in doglia il diletto, / per un poco di tregua si raddoppia l’affanno, / come al malato che per un morso ghiotto / tutto il suo pasto va a nutrirgli il dolore»-

L’esperienza estrema dell’amore si interseca all’incapacità di esprimerne la potenza. Dà tormento la paura del male, il cuore che brucia. I suoi segni, ripresi dalla trattatistica medica, uniscono piacere e paura. Ma anche la diseguaglianza di due mondi, dove l’amata, ancora una volta, piena di senno come un medico esperto si porge a comprendere l’incapacità dell’amante. In March, la forza del contrasto rappresenta l’itinerario di un tentativo di innalzamento.

Da una parte, la vis ragionativa del singolo, dall’altra il bruciore del paziente che rende tutto incerto, che preme e tormenta la sua anima: «è un poeta che pensa, che vuole rendere ragione, dapprima a sé stesso, dei propri dissidi interiori, delle contraddizioni. E questo lavoro, diciamo pure di analisi poetica, è tutto in profondità[3]».

Nicola Gardini scrive:

«La poesia di March è ragionativa, argomentativa, teorica; vorrei dire “matematica”. Sta tutta nella mente e della mente spiega le parti strutturali: la ragione (la parte più nobile dell’individuo), la volontà, il desiderio, l’immaginare, il senno. L’interiorità del poeta si fa scena di un dramma in cui l’istinto di morte si alterna alla tensione verso un ideale di amore puro. La condizione prevalente è il dolore (parola chiave di March): vuoi come rinuncia alla soddisfazione carnale vuoi come caduta nell’esercizio del sesso vuoi come masochismo vuoi come tradimento di sé vuoi come malattia. Raro, ma pur sempre registrato, il trionfo sulle forze contrarie. Notevole è che lo scrupolo razionalistico non spenga affatto la potenza emotiva. Piuttosto, esalta l’emozione in tormento. March analizza il magma, ma non ne placa il bollore. Per certo cerebralismo, può riportare alla memoria i metafisici inglesi. Non arriva, però, al loro lusso figurativo. La sua voce si mantiene, all’inverso, snella, secca, elencatoria. Ogni verso della sua ottava tende a corrispondere a un’unità di senso, e lo svolgimento della composizione si ostina, pur non riuscendoci sempre, a seguire una logica serrata, accumulando puntualizzazioni in un crescendo ossessivo. Viene da fare un paragone – questo non solo analogico, bensì accertabile storicamente – anche con i modi della sestina, la forma metrica dell’ossessione per eccellenza […]».[4]

Amore usurpa il suo suddito forsennato che si stringe attorno alla frammentata distonia del suo io elegiaco, alla confusione non discernita della sua pena, così vicina al morire. La smarrita polifonia di contrasti è il frammento dell’io che chiede e implora la sua salvezza in disparte, come al suo giglio fra i cardi, un’immagine che riporta al Cantico dei cantici, oltrepassando ogni possibile soglia:

«Le cose di Amore non posso ben intendere; / il mio giudizio è pieno di contrasti; / nel giorno non c’è un’ora che non provi una pena, / e penso che dovrò presto l’anima rendere. / Se un’altra voce a me l’immaginare porta, / per dare un segno che io sia creduto, / la morte supplico che mi venga in aiuto; / o la mia verità giacerà morta. / Giglio fra i cardi, a scorgere la porta / dei piaceri sovrani son venuto; / non ci ho bussato, ma ritorno muto, / e del ritorno trovo già la via torta».

Ausiàs March, nel suo excessus doloris, canta la sua perdita di vitalità, la rivelazione di una paralisi che dissolve, di un ripiegamento che incrocia la percezione della realtà e la sua infinità. Procedendo nell’abisso della sua finitudine afasica, egli disserra la sua linea come veleno, nave che periglia nel golfo, tra due venti in contrasto, nello sgomento senza chiarore:

«Cavatemi un occhio per accecare la sorte / e perdere la via che mi ha portato in alto; / ma se da qui dovessi indietreggiare, / in quell’istante la morte mi conosca. / Prima che il fianco mio prema la terra, / in questo spazio la vita abbia fine; / confermi qui il mio stato la morte, / e se lo perdo, di morte amo la guerra. / Giglio fra i cardi, nello spazio della terra / non c’è piacere che duri e che appaghi; / tolto il mio, e non chiedo che aumenti. / Ma il lutto del durare, a pensarci, mi afferra».

Le contrapposizioni, la paura dei gesti (come accade nella rivalità erotica), la castità del desiderio, la saggezza dell’amata, l’onestà del rapporto, le fratture del finito, l’io tacito contengono il dramma di una inconciliabilità di opposti, laddove l’incomunicabilità, l’inconfessabilità, il conflitto tra carnalità e sublimazione avvolgono e riuniscono l’io in una materia vivente che, in questa tragica introiezione, diviene sgranata e flessa in altri sé stesso: «Sempre ho saputo portarmi dentro / contro di me una trista persona: / la stessa che natura a tutti dona, / padrona in molti e in tanto pochi schiava. / Ma ora sento che un terzo mi si scopre, / e ne sentii il potere senza conoscenza».

A proposito del chiarore e della contrapposizione, come semantica essenziale nella trama affettiva, e in riferimento al componimento 27, i curatori affermano:

«L’originalità di March consiste innanzitutto nel risemantizzare in chiave monana ed esistenziale la contrapposizione giorno/notte, investita nel Medioevo da ovvie intenzioni teologiche. Il modo d esercitare questa originalità sta […] nel proporre il tema, così intensamente marchiano, dell’autodistruttività, presentata nella seconda strofa con accenti di disperata violenza: l’io è preda ed è predatore, è assassino e vittima; occupando lui stesso entrambi i ruoli della relazione violenta. Solo il soccorso pietoso della donna, fuggevolmente invocato nella conclusione, potrebbe salvarlo da questa spirale di rovina.

Certo, in March, prevale la forza del proprio essere anche di fronte alle oscillazioni della sua anima, laddove lo stato emotivo diventa compromesso si svela, dove la lotta con Amore diventa agone sintomatico.

La poesia, così, si apre in un codice peculiare di dolcezza, frustrazione e angoscia di un presente disorientato, in perenne ricerca di desiderio. Il proprio vissuto è sottomesso a logiche spazio-temporali impossibili e, rievocando l’atemporalità, cambia modelli, acutizzandoli.

Il ricorso al paesaggio marino, nel quale l’amato agogna l’amata, vive attraverso barriere e ostacoli. Il mare è in ebollizione. La stessa protezione del pensiero dell’amata in pericolo, la paura della morte un pensiero ossessivo. Ma il desiderio, in March, è in lotta con questo scenario interiore ed esteriore, rimane slancio verso un’estremità potente. Sente l’amore fino allo spasmo ma non lo conosce, per timore e tremore del suo lato immenso e insormontabile («Amore, di te ne sento più di quanto so, / ed il peggio di te mi resterà; / più ti conosce chi senza te sta. / Al gioco e ai dadi ti comparerò»):

«Io sono colui che è l’amante più estremo, / dopo quello a cui Dio la vita toglie: / visto che vivo, il mio cuore non mostra / quanto la morte la sua estrema doglia. / Di amore al bene o al male sono pronto, / M ala Fortuna non me ne dà il caso; / ben sveglio, senza spranga alla porta / mi troverà con un’umile risposta».

È un male strano, una pena strana che sconvolge ed atterra: carne, emozioni, desiderio che travolge, amare ed essere amato. Una forza che irrompe fino alla paralisi, al conflitto e al funestato prisma interno: «A strano male va una pena strana / e il rimedio dovrà essere strano, / e chi muore di freddo, entrando in acqua / sentirà caldo, se acqua fredda lo bagna; / e se l’inizio comincia dal mezzo, non può seguire il mezzo e la fine l’inizio. / Con forze tali, amando, Amor mi vince / che pianamente il dire mi è impossibile».

[1] Ausiàs March, Un male strano. Poesie d’amore, a cura di Piero Cataldi e Cèlia Nadal Pasqual, Einaudi, Torino 2020.

[2] Cataldi P. e Nadal Pasqual C., Introduzione in Ausiàs March, Un male strano. Poesie d’amore, cit., p.vi.

[3] Galaverni R., Non proprio pazzo ma illogico per amore sì, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 22 marzo 2020.

[4] Gardini N., Lo strano male detto amore, in “Il Sole24ore”, 19 marzo 2020.

Ausiàs March, Un male strano. Poesie d’amore, a cura di Piero Cataldi e Cèlia Nadal Pasqual, Einaudi, Torino 2020, pp. 232, Euro 22.

 

Ausiàs March, Un male strano. Poesie d’amore, a cura di Piero Cataldi e Cèlia Nadal Pasqual, Einaudi, Torino 2020.

Galaverni R., Non proprio pazzo ma illogico per amore sì, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 22 marzo 2020.

Gardini N., Lo strano male detto amore, in “Il Sole24ore”, 19 marzo 2020.