2120: Uno sguardo disincantato, di Federico De Caroli

di Federico De Caroli

leggi in pdf 2120. Uno sguardo disincantato

Racconto scritto nel 1994 pensando a come sarà la nostra vita tra un centinaio d’anni. Visioni e riflessioni nella vita quotidiana di uno tra i tanti, all’inizio del XXII secolo.

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Oltre i ponti della ferrovia idraulica, vicino al deposito dell’ammoniaca, sostava sempre un veicolo grigio con le doppie lame di contatto. Lo avevo notato il giorno in cui era scoppiato l’incendio della prima linea, perché nessuno si era preoccupato di farlo spostare, né il suo proprietario si era premurato di allontanarlo dal pericolo.

Ero sicuro che il veicolo non fosse abbandonato, in quanto ogni mattina, dalla mia capsula, potevo capire da alcuni particolari che era stato mosso. Non sapevo né come né quando, visto che per la maggior parte della giornata io bazzicavo nei dintorni e, se avesse circolato, me ne sarei accorto.

La mia fidanzata, una colloide del tipo AS83, un tipo piuttosto rigido nei ragionamenti, diceva che il movimento non necessariamente doveva essere provocato da spostamento. Se il veicolo aveva filtri attivi per i campi magnetici, compiva piccoli balzi d’assetto direttamente sul posto. Tuttavia sembrava strano anche a lei che fosse stato lasciato là incustodito. Anche perché si trattava di una macchina costosa e, comunque, non più vecchia di una decina d’anni.

Col passare dei giorni, il veicolo divenne un’abitudinaria ossessione del primo mattino. Dopo aver ricaricato il mio circuito di respirazione passivo, sostavo qualche minuto all’oblò per osservarlo, sperando che qualcosa di nuovo ed imprevedibile accadesse. Immaginavo di veder comparire finalmente il proprietario… una donna umana con le ossa del bacino ergonomiche… un investigatore del Nucleo Delitti Cibernetici… una rockstar drogata della Zona del Disastro…

Invece, nulla. Mi perdevo con lo sguardo oltre la strada, oltre le recinzioni della ferrovia, oltre i muri scrostati del deposito. E lo sguardo, dalla paranoia artificiosa di un interrogativo futile e senza risposta, finiva per agganciarsi al pensiero di altri mondi, di emozioni sconosciute, di una società perfetta e priva di individui ricostruiti, vecchi di quattrocento anni.

Gockah, la mia fidanzata, mi lasciava stare e mi avvertiva soltanto quando stava per uscire. Lei doveva raggiungere i livelli sotterranei ogni giorno, per dedicarsi alla sua attività di ricercatrice scientifica; non aveva certo tempo di contemplare quella piccola porzione di mondo esterno e intrigarsi di una macchina parcheggiata. Lei si faceva trenta chilometri nella pneumatica e stava sei ore con le innervature bioelettriche delle mani innestate su un calcolatore della Federazione.

Io ero, tra i due, quello che poteva permettersi di sognare ogni tanto. Passavo le giornate chiuso nel mio alloggio, alternando bei momenti di lucidità a ciucche magistrali. E mi bastava il più piccolo particolare per creare una giustificazione alle mie indagini mentali. Due anni prima avevo trascorso un lungo periodo ad osservare uno strato di nuvole arancioni (probabilmente ceneri di cadaveri cremati) che si riformava ogni cinque ore sempre nello stesso punto e sempre con la stessa sagoma. Senza venire a capo di quello strano fenomeno, mi ero consumato gli occhi a guardare e automaticamente le meningi a pensare: partivo dalla nuvola per arrivare sempre più lontano… fare una passeggiata tra gli alberi… uscire a cena con qualcuno… cibi idroponici… sistemi respiratori naturali… i bordelli della Sesta Metropoli…

Poi, il mio sguardo tornava disincantato sui muri del deposito e mi concedevo una pausa nella vita. Lavoricchiavo, mi ubriacavo, cercavo di tirare avanti in quella città di merda senza illudermi di credere davvero che un tempo gli uomini infilavano il pene in una vagina per procreare.

Federico De Caroli – Savona, 1994

 

2020.03.11 Il pensiero del giorno

di Guido Rutili

11 marzo 2020

leggi in pdf 2020.03.11 MOPP

Il mondo infetto (non infettato, badate bene) ci guarda di sbieco, pronto a colpirci.
Noi umani adulti, per la gran parte involuti, porgiamo la difesa estrema di cui siamo capaci:
torniamo bambini.

Tutti regrediti, ci scansiamo coi lucciconi, ci rivolgiamo al babbo clemente, che sia il capo o il direttore, il professore o il proprietario, ci atteniamo, ci attendiamo, timidi e rossi, indifesi, tremanti.
La fila davanti alla farmacia, le mani spellate dal disinfettante; la mascherina? Forse no, non lo sappiamo.

Quando eravamo in mania, presi dal fremito del carrierismo, finalizzato alla spesa senza filtri della domenica commerciale, serviva realizzare la prospettiva hollywoodiana della pandemia
zombificante, per compiere, da manuale, l’atto masochistico sintomatico.
Dall’inconscio collettivo giungeva un messaggio chiaro: “tornate a credere in me, invece di reificarvi in bozzoli illusori” ma non lo ascoltavamo difendendoci, razionalizzando e nascondendo,
rimuovendo e negando: “la psiche è una sciocca trovata novecentesca, facciamo finta che sia l’antagonista del pensiero scientifico e lasciamo alla pellicola la traccia intuìta!”

Però, qui ed ora, se torniamo tutti piccoli, disconfermare Freud diventa fastidiosamente difficile.
Dire che Jung o Toni Wolff, che parlavano di scienza collocandola su un punto qualsiasi dell’asse natura-cultura, erano sciocchi visionari, sembra eretico.

La psiche, cioè pensiero e non-pensiero (chiamarli conscio e inconscio mi pare ancora potenzialmente traumatico), torna alla ribalta e ci dice che la carne è una parte, ma solo una.

Presi dalla regalità del nuovo, nessuno ha dato nome al vecchio morbo appena descritto, perché al microscopio non si vede; voglio darglielo adesso io, “Mania Ossessivo-Paranoidea dell’atto Pratico”, MOPP.

Non mi interessa indugiare sul fatto che il MOPP abbia trovato terreno fertile in categorie di individui specifiche, con netta prevalenza nella fascia d’età che va dai 14 ai 60 anni circa; magari su
questo potremmo discutere in separata sede.

Vorrei invece focalizzare sulle categorie immuni da MOPP, scremando i bambini e i ragazzi, che pur non presentando sintomi, sono divenuti portatori sani.

Rimane una sola opzione.

Riflettiamo su una cosa: dell’umanità, ora confusa e manipolata da sé stessa, fa parte (e rimane in disparte) una categoria illustre, insignita e meritoria del più alto grado possibile: gli anziani.

Eroi, nemici della superficialità, pochi detentori dei valori non ancora liquefatti, lenti, sapienti, ricolmi di vita, ricchi, preziosi, scuotitori compulsivi di testa nel guardare l’operato dei nuovi arrivati.

Anziani.

Gli artefici più inoperanti.

L’immagine presente del futuro auspicabile.

Nelle culture ancestrali una barba bianca ha sempre destato rispetto ed è sempre stata capace di indurre la calma-consapevolezza, qualità ben nota ai seguaci taoisti. Il grembo della grande
vecchia è sempre stata la sede per la più grande elaborazione, figlia dell’abbandono conferito e necessario: non possiamo aver perso del tutto il significato più intimo di “rispetto”.

Il MOPP, all’acme della sua corsa, pochi mesi fa ha eseguito ciò che l’assioma di natura gli imponeva, cioè ha mutato per adattarsi: se qualcosa lo separava dal dominio totale, ha pensato di eliminarlo.

Rieccoci al Covid, al suo tocco mortifero sugli over 60, alla possibilità d’intervento che ci è data.

Sono forti, i grandi vecchi, hanno dalla loro la pratica della non-azione, ma non sono indistruttibili: se ci risvegliamo presto, possiamo aiutarli e subito dopo ritrovarli nella loro splendente totalità.

Non è solo per loro che va fatto, ma per ciò che rappresentano: la chiave!

Dato che la svista del MOPP, non contemplata dalla sua mutazione, è l’induzione nella regressione allo stato infantile, sfruttiamo questo mezzo e rivolgiamoci ai nostri nonni (non fisicamente, per
l’amor di Dio: che gli abbracci vengano tenuti per il futuro!).

Tra le altre cose, loro l’inconscio non l’hanno mai perduto: l’hanno conservato per noi nelle soffitte che ci meravigliano, piene di magnifiche cianfrusaglie ed oggetti sublimi, nell’attesa che
avessimo l’età per prendere la scala e raggiungerle. Non tentennano se chiamati all’atto d’amore, poiché ne comprendono l’abissale essenza.

La vita apocalittica di questi giorni, per chi alla carne bada decisamente poco (poiché ne percepirebbe meglio gli acciacchi) vede questi illustri esseri umani come presenze fantasmatiche: i
più, come ogni maestro di vita, si sentono in colpa per inadempienza. Niente nipoti, niente fatiche per i figli, niente possibilità di elargire borse traboccanti di cibo e di beni necessari a inverni che
per quanto infiniti verrebbero sconfitti.

Che un elogio dell’anzianità, capace di diventare auspicio di ritrovata profondità psicologica per ognuno di noi, ci pervada come un fluido e ci renda capaci di prendere, a questo bivio, la strada giusta

2020.03.08 Il pensiero del giorno Nel maelström

di Irene Battaglini

8 marzo 2020

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…di tante fiamme tutta risplendea

l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi

tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea…

Lo maggior corno de la fiamma antica

cominciò a crollarsi mormorando

pur come quella cui vento affatica…

 

“Li miei compagni fec’io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena poscia li avrei ritenuti…”

(Inf.XXVI)

Une descente dans le Maelström

EDGAR ALLAN POE

Ho amato ciò che ha toccato il mio fondo

PASQUALE PANELLA

La psiche collettiva si trova ora totalmente catturata dalle forze più profonde che governano l’agire degli istinti ciechi, quegli stessi abissi nei quali la nostra vita ha avuto la protervia di nascere. Ci troviamo al centro di un vortice sociale ed economico che ha la forma di una V, come sostengono gli analisti finanziari, e ci stiamo avvicinando al luogo critico in cui per oltrepassare il  maelström è necessario smettere di navigare, ed occorre lasciarsi domare dalle forze solo apparentemente contrarie. Lasciarsi attraversare dal tremendum è vivere la paura di “perdere” quel che abbiamo percepito, forse incautamente, nostro. Navigare in questo punto del mare è sostanzialmente impensato, poiché è come voler aver ragione sulle leggi dell’ universo e come Odisseo finire nella bolgia dei consiglieri fraudolenti, colpevoli della loro improvvida tracotanza. Il “sentimento del sangue del mondo” perpetua la sua egemonia sulla povera Anima del Mondo.

 

2020.03.06 Il pensiero del giorno Il sangue della psiche e il rovescio della conquista

di Irene Battaglini

6 marzo 2020

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«è  il senso la vera holding, non l’oggetto»

André Green

“Agire da primitivo e prevedere da stratega”. René Char, Fogli d’Ipnos, ‪1943-44

Le cose cambiano continuamente, non ci sono epidemie, pandemie o complotti, scenari post-atomici e disegni anti-europeisti più di quanto non ci siano abitualmente da migliaia di anni, e credo che nella storia dell’uomo, non vi sia complotto più doloroso di quello che emerge dal “rovescio della conquista”[1].

Nella dinamica dell’eccidio degli Indiani d’America, non vi era alcun complotto preordinato; nel malvagio commercio degli schiavi d’America, non vi è alcun disegno preconfezionato, poiché le comunicazioni offline non avrebbero permesso una simultaneità degli eventi come oggi si configura nella nostra cultura del sincronismo di rete; nella maggior parte delle nostre relazioni quotidiane, ispirate al reciproco “usarsi” narcisistico, non è alcun mercato regolato da norme online sulla compravendita degli affetti, soprattutto quelli che si accomodano sulla reciproca acquiescienza, che sia basata sullo scambio di bisogni (biologici, sessuali, emotivi, affettivi, economici, sociali) o ammantata di una delicata veste di sublimazione: si tratta, sempre e comunque, di un arcaico sentimento del mondo. Il sentimento del sangue del mondo, che è istintivo ma non ancora pulsionale, è asservito alla forza ctonia ma non è selvaggio, è vitalistico e dunque affine alla morte, alla sopraffazione, al divorare l’altro in quanto non preda, ma risorsa necessaria alla sopravvivenza: un sentimento che uccide una parte di noi, e non (solo) l’altro, quando esperiamo un asettico sadismo, una rinuncia all’immagine del “sangue della psiche”.

Tuttavia il sadismo esprime, sebbene ad una algida temperatura, pur sempre un rapporto con l’oggetto, un qualche segno della potente imago, che sia celestiale o di tenebra, su cui si fonda la nostra personale psicologia. Nel sentimento del sangue del mondo, non vi è spazio per l’immagine della psiche.

Scrive James Hillman[2]: «Si tratta di dare valore all’anima prima che alla mente, all’immagine prima che al sentimento». «Si tratta di dare valore all’anima prima che alla mente, all’immagine prima che al sentimento». Il che, a sua volta, impone di «rinunciare ai giochi di soggetto-oggetto, destra-sinistra, interno-esterno, maschile-femminile, immanenza-trascendenza, mente-corpo», in modo che «l’emozione trattenuta da quelle sacre reliquie possa infrangere quei vasi e tornare a fluire nel mondo».

Dal 22 febbraio, un sabato tra i più duri che io ricordi nella mia storia personale, mi sento trascinata dal desiderio di lasciarmi chiudere dalla spire della non-vita: Milano, Stazione Centrale. I treni che di solito sono un affezionato sintomo del nostro caos, diventano il segno inequivocabile della “psicosi bianca”[3] generata dal non poter stare nel lutto, invischiati come siamo nel sentimento del sangue del mondo. Non è la morte, non è il virus, non è il contagio, non è la paura: che cos’è la paura, se non il segno del mio essere viva. È il catechon che dilaziona e difende, e che io sento come utile e necessario nel suo principio antidolorifico. È Saturno, nel versante che si offre allo sguardo e ne impone una perdurante salificazione. Ma so, dai sogni che mi visitano, un luogo di cui credevo aver perso il diritto di servitù – perché non sono nostri, sono il mondo in cui abbiamo il privilegio di poter essere esploratori di una notte, di un secondo – che “l’immagine del sangue psichico” non è andata perduta.

Anima è sullo sfondo, si è fatta da parte, ha dovuto. Per non essere bruciata viva, per non essere troppo ferita. Si è dovuta nascondere, piange sulla sponda di un “pensiero del cuore” in attesa di tornare ad essere vista: può essere vista solo da chi possiede la vista. È l’anima del mondo che abita il cuore e lo fa ancora sussultare, un cardiopalma d’amore ad opera del dio dell’aurora: un progetto che ci vive, un domani che ci vuole e ci chiama. Io credo sia necessario affilare le armi, individuare una strategia (che non sia resiliente: deve essere invece solo apparentemente nervosa e delusa) e combattere per questa Anima, non è giusto lasciarla da sola.

Anima nella sua meravigliosa mutevolezza, che ogni uomo o donna possiede in scintilla, e che fa del singolo un attore a volte inconsapevole della lotta tra Eros e Thanatos nelle grandi sfide cosmiche. Vi sono esplosioni che uccidono interi “sistemi” solari, vi sono vaccini che uccidono i virus letali e difendono il sistema biologico umano. Potrebbe mai il corona virus lagnarsi per essere stato un giorno debellato dalla cosiddetta scienza?, beh no, ci auguriamo di no. Un oscuro disegno si configura in questo scenario di scambio di ruolo. Il bene non vincerà. Il corpo morirà e dovrà attrezzarsi per godere della sua breve corsa il più possibile.

E allora Anima, in che cosa ci aiuti a comprendere? Quello che cambia, è il nostro modo di percepire la realtà: la nostra capacità di intercettare il reale a tutti i livelli della sua manifestazione. È la vista che si acuisce, e si acuisce attraverso i sensi. I sensi possiedono la inner vision, ma la vista è un organo di senso. Un organo, un piano di note e di tasti, di senso e di significato. Una musica che nessuno ancora conosce, che deve essere “vista” con le mani, dalle mani, da quegli augusti alfieri di impronta che sono i polpastrelli, che tornino a suonarsi tra loro, a stare nella logica dei sensi. E se un giorno troveremo gli amanti addormentati sul finire di una spiaggia, non diremo più: che incoscienti, che esibizionisti. Diremo, finalmente il mondo è vissuto, e Anima si riprende il posto che Catechon le ha conservato, fingendo di asservirsi al sentimento sanguinario che ci ha colto come indigeni, schiavi, bambini abusati, a fare da contrappunto al conquistatore incoronato.

 

 

[1] Cfr.: Miguel León-Portilla, Il rovescio della conquista. Testimonianze azteche, maya e inca. Adelphi: Milano 1974.

[2] L’anima del mondo e il pensiero del cuore. Traduzione di Adriana Bottini. Piccola Biblioteca Adelphi, 2002, 9ª edizione.

[3] Cfr.: A.Green- J.L.Donnet, La psicosi bianca. Psicoanalisi di un colloquio, Borla, Roma 1992.

2020.03.04 Il pensiero del giorno Il governo della Fortuna e la prova del Caos, la più politica delle virtutes

di Giulia Corrado

4 marzo 2020

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Se un merito si può attribuire all’epidemia di Coronavirus è quello di aver permesso a società e individui di confrontarsi di nuovo con quello che, da ben prima che esistano società e individui, esiste come Ingovernato ed è stato osservato con terrore fino a diventare oscuro tabù dei nostri sistemi: il Caos.

Non solo ha risvegliato la consapevolezza del nostro essere fragili e mortali, con il senso di essere in balia della biologia così come ogni altro essere a cui consolatoriamente pretendiamo di essere superiori; ma nel nostro essere animali sociali, e quindi in una dimensione ulteriore e politica delle nostre esistenze, ha evidenziato quanto siano fragili gli schemi e le presunte stabilità che si legano alle proprie certezze, abitudini, quotidianità, a quello che abitualmente concepiamo come implicito e acriticamente (se non per la chiacchiera da bar) chiamiamo col nome di “Sistema”, contro il quale ci scagliamo ma dal quale scopriamo poi di sentirci protetti quando minaccia di crollare.

E proprio qui riscopriamo il concetto di Politica: davanti all’effetto domino che ha portato dall’infinitesimale del virus al macroscopico del sistema. Ci si chiede dov’è la falla, cosa non ha funzionato, cosa ha permesso che la grande macchina, della quale il più delle volte siamo ignari, andasse in blocco. Interrogativi che già suppongono una premessa errata, nel momento in cui si propongono di valutare solo la funzionalità della macchina e ne ricercano il guasto, senza badare alla sua complessità di processo e di dinamiche. Un riflesso metodologico di quel positivismo che ha finito col distorcere il concetto stesso di Politico, riducendolo alla mera funzione.

Se dobbiamo individuare una falla, potrebbe essere proprio questa allora: l’incapacità di concepire la centralità del Politico come metodo e come processo. Lo stesso che, al di fuori delle fissità positiviste e delle pretese funzionaliste arenate sui modelli organizzativi, potrebbe essere realmente risolutore di un problema nel suo dinamismo.

Machiavelli scriveva, già cinquecento anni fa a proposito delle imprevedibilità delle Guerre d’Italia, della tremenda difficoltà che un approccio politico comporta: un processo reso complicato dalla fortuna e ancor più dalla sua mutevolezza. Nell’epoca più liquida di tutte, fatichiamo ancora a considerare caotica e mutevole la realtà: speravamo che il progresso, qualunque cosa questa speranza e questo concetto abbiano significato, ci avrebbe dotato anche di schemi predittivi, di argini a questo caos, liberandoci dall’incombenza di confrontarci con esso. Ma le condizioni, le situazioni, le circostanze del mondo non sono predicibili, né sono fisse: e così come per la società, lo stesso principio vale per la vita individuale.

Il buon Principe, per Machiavelli, è quello che governa la fortuna e che è pronto a mutare se stesso davanti alla mutevolezza della fortuna stessa, che al volgersi contrario delle circostanze sa come renderle un’occasione. Perché il governo, e dunque la politica, non è l’esercizio del regno sulle cose fisse, ma l’arte del condurre e dar direzione a quelle mutevoli. Per farsi portatori e attori di questa virtù, occorre però avere il coraggio di uno sguardo disincantato e consapevole davanti al Caos, onesto nel riconoscerne l’esistenza.

Se allora il Caos irrompe nel nostro quotidiano e si manifesta con un’epidemia, perché non provare ad essere più politici davanti a questo guizzo della sorte e ravvedere nel vento contrario un’occasione per provare nuove strade e concepire nuovi modi di approcciarci ai problemi? Perché non uscire dalla retorica del problem solving da santoni delle organizzazioni ed esperti del management e sperimentare con un po’ di gaia scienza anche la dimensione più creativa, poietica, politica che risiede nello sporcarsi le mani con tutto ciò che di caotico celiamo di solito al nostro sguardo?

Potremmo scoprire che il Caos, oltre a terribile e totalizzante minaccia, è un magma di possibilità che solo un’azione lucida (e coraggiosa) può plasmare in qualcosa di completamente nuovo. Forse proprio in quell’atto, politico per metodo e natura, che in momenti di stallo servirebbe per uscire dal cerchio del panico.

 

L’ellisse «vitruviana» di Leonardo Sinisgalli tra la scienza e l’arte

di Andrea Galgano

4 marzo 2020

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La pubblicazione, per Mondadori, di Tutte le poesie di Leonardo Sinisgalli (1908-1981), a cura di Franco Vitelli e con il contributo della BCC Basilicata, toglie, finalmente, la ricezione elitaria della sua poesia, poiché, come Vitelli afferma: «troppo forte è stata la capacità anticipatrice, per cui si è trovato in dissenso col suo tempo e contemporaneo della posterità, la quale ha messo in pratica le sue idee geniali quando per lui andavano prendendo un’altra piega».

Il suo incontro musaico è un segno infinitesimo di inquietudine e di spostamento che insegue l’arcaica visione di un meravigliato itinerario, di un legame scientifico e metamorfico con l’umano, in un chiasmo di orizzonti e ombre:

«Sulla collina / Io certo vidi le Muse / Appollaiate tra le foglie. / Io vidi allora le Muse / Tra le foglie larghe delle querce / Mangiare ghiande e coccole. / Vidi le Muse su una quercia / Secolare che gracchiavano. / Meravigliato il mio cuore / Chiesi al mio cuore meravigliato / Io dissi al mio cuore la meraviglia».

Il suo simulacro musivo risente di una vivace doppiezza, che se, da un lato vive dell’agone prospettico “rinascimentale”, in cui scienza (matematica, in particolar modo) e arte confluiscono in un unico proscenio di disciplina e metodo, dall’altro la vertigine poematica costruisce un’istanza di luce che riunisce grottesco e ironico, dolce furore familiare e «colore carnale».

La scena rappresenta, pertanto, uno strappo di opacità. La parola di Sinisgalli, irrorata dalla lezione di Mallarmé, Ungaretti e Valéry, distesa sulla geometria cartesiana e sull’architettura albertiana, ricerca il numinoso prodigio della «fulmineità dell’atto creativo», dove «Troppi eventi nella natura e nell’intelletto accadono in un istante: sono cariche e scariche di energia enorme, di energia animale e cosmica, che distruggono la cosa per creare l’immagine». In tale mobilità, nata dalla apicale prosa leonardesca, Sinigalli bracca l’immaginario algebrico, la geometria e la metrica dell’invisibile, unendole con le forze della inner vision poetica.

Nel suo sincretismo, che gli permetterà di progettare, dapprima, la pubblicità della Olivetti, allestendo a Milano, tra il 1936 e il 1940 una rivoluzione anticipatrice della pop art, facendo coesistere la linea della grammatica visiva di Kandinskij e il dramma plastico di Consagra con gli automi, per poi fondare e dirigere la rivista «Civiltà delle Macchine», per Finmeccanica, in cui fondere la nuda polifonia del sapere scientifico con l’osmosi letteraria, come egli stesso afferma in una intervista a Ferdinando Camon del 1965:

«L’inverno del 1953, a Roma in un ufficio di Piazza del Popolo, quando io misi a fuoco il progetto di Civiltà delle Macchine […] la cultura dell’Occidente era rimasta incredibilmente arretrata e scettica nei confronti della tecnica, dell’ingegneria. Voglio dire che erano sfuggite alla cultura le scoperte di Archimede e di Leonardo, di Cardano e di Galilei, di Newton e di Einstein. Io volevo sfondare le porte dei laboratori, delle specole, delle celle. Mi ero convinto che c’è una simbiosi tra intelletto e istinto, tra ragione e passione, tra reale e immaginario. Ch’era urgente tentare una commistione, un innesto, anche a costo di sacrificare la purezza».

Successivamente, il suo desiderio di unità sincretica tra discipline confluirà anche nella direzione di «La botte e il violino», bimestrale dell’Eni di Mattei. L’inseguimento delle Muse cerca le ombre, i compagni che gridano a perdifiato, le monete rosse, l’ultima luce chiamata nella piena dei canali e le mani affondate nel grano in una tiepida suoneria, fino al ricordo intriso d’autunno che respira il vento di Porta Nuova. La terra, l’inquieto nomadismo, il reticolo memoriale di strade, luoghi, fiumi, città confluiscono in un perfetto squilibrio di tempo. Tempo arcaico, cosmico, ciclico, percepito in tutte le gradazioni affettive, come i rosei del rosa dolce delle case, la figura paterna, il mattino fondo e roco dell’essere.

È l’energia che strepita e che segna il territorio del suo immaginario vissuto nella percezione e nell’ingresso della natura «nelle nostre capsule, nelle parole e nei simboli, nelle lettere e nelle cifre. Ci entrano anche i pensieri. Entrano le formule semplicissime che regolano il mondo. Le equazioni di Einstein sono brevi come le formule dell’acqua e del sale. Dio è laconico».

E poi ancora, nella vita di transito del poeta «entrano in giuoco delle cariche di energia incommensurabili, che vivono magari per attimi infinitesimali e si consumano in un soffio. Tuttavia non sono i fenomeni del mondo fisico che possono offrirci qualche analogia di questi transiti, ma proprio alcuni fenomeni biologici cosmici e nucleari». L’energia di Sinisgalli è sì visiva e tattile ma è fatta di aria capovolta, che fissa l’immagine in una sproporzione che diviene «coscienza dello spazio terrestre» (Giuseppe Pontiggia), come afferma Augusto Ficele: «Sinisgalli sarà perpetuamente turbato dal fissare una grammatica speciale all’interno di capsule a cui sfuggiranno quei transiti celesti, quelle piume invisibili che irrobustiscono il cielo. Mobilita tutte le sue forze cognitive, non smette mai di indagare il vuoto, di tracciare tutte le possibili spirali del sapere, e se la matematica non si stanca di fabbricare ipotesi, la poesia scopre ciò che non esiste»: «Eri dritta e felice / Sulla porta che il vento / Apriva alla campagna. / Intrisa di luce / Stavi ferma nel giorno, / Al tempo delle vespe d’oro / Quando al sambuco / Si fanno dolci le midolla. / Allora s’andava scalzi / Per i fossi, si misurava l’ardore / Del sole dalle impronte / Lasciate sui sassi».

La Lucania di Sinisgalli appartiene al tempo remoto e arcaico della primigenia. Cadenza il ritmo favoloso della realtà, avverte tutta la sovrapposizione temporale attraverso l’indizio, la prova e il presagio di una rêverie al presente, laddove la terra abita l’esistenza in tutta la sua drammatica contemplazione di scena e scoperta di ambiente, come se si volesse possedere quello strappo, quella acrobazia dolorosa del quotidiano, quella memoria vitale che raccoglie cocci ed epigrafi, racconti e fiammelle, nell’aria sfatta dell’amore che, a fatica, scioglie nodi e segni perduti nella luna di settembre, per ricordare, sentire e indovinare:

«Lo spirito del silenzio sta nei luoghi / della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto, / sofistico e d’oro, problematico e sottile, / divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio / nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce / con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati. / Il sole sbieco sui lauri, il sole buono / con le grandi corna, l’odoroso palato, / il sole avido di bambini, eccolo per le piazze! / Ha il passo pigro del bue, e sull’erba, / sulle selci lascia le grandi chiazze / zeppe di larve. / Terra di mamme grasse, di padri scuri / e lustri come scheletri, piena di galli / e di cani, boschi e di calcare, terra / magra dove il grano cresce a stento (carosella, granoturco, granofino) / e il vino non è squillante (menta / dell’Agri, basilico del Basento!) / e l’uliva ha il gusto dell’oblio, / il sapore del pianto».

In La vigna vecchia, l’orma dell’urto con le cose si fa sempre più composita. Vi è ancora una primitiva forza che appartiene a una mitologia domestica che si spoglia indecifrabile, accostando «le concrete illuminazioni», come ha avvertito Giacinto Spagnoletti, alla «pluralità irreale delle visioni» (Oreste Macrì), innervando i rimbalzi di luce alla sua continuazione: la polvere, il quartiere sotto la collina, la vigna e il fondo degli alberi, il cratere spento, il freddo di aprile, il febbraio dolce e amaro, la memoria quasi fossile. Ma se con L’età della luna, il margine della imprendibilità della realtà, come un lungo appunto di postille puntuali, che omaggiano anche il taglio inciso di Fontana, fa convergere l’esattezza del verso nella prosa poetica e dimostrando il profondo attaccamento alla poesia, distaccata da ogni meccanizzazione e quasi sorvolando l’inaridimento dei luoghi (anche mentali), con Il passero e il lebbroso (1970) l’entità della sua vocazione poetica attesta lo sgomento e lo sconforto («Le parole non vengono sulle labbra, / solo un alfabeto da carcerati / parlato con le dita. / Tu ti penti di aver perduto / la vita per dovere. / Puoi trascorrere ore e ore / a guardare le foglie nuove. / Il mondo è lontano di là»), la lotta della non-poesia, per affermare l’ultimità dell’ars poetica, l’attrito alimentativo della concisione, il battito della felicità, presa per la coda:

«Bolsi sulla ghiaietta sotto gli olmi / ammirano le foglie / ancora verdi, trasparenti / a fine ottobre. / Non c’erano venuti mai / insieme in tanti anni. / Sono qui tutte le mattine alle undici / per consiglio dei medici. / Girano a passi piccoli, / il luogo non è immenso, / lo percorrono in un’ora / sempre nello stesso senso. / Quando stanno meglio / e possono camminare spediti / fanno una visita / al Museo di Storia Naturale. / guardano i mammut, i cristalli, / gli scheletri dei pesci e degli uccelli: / teste grandi come teatri, ossa / sottili come aghi. Siedono / sulla panchina davanti al lago».

L’anima di Sinisgalli diviene un volo sospeso e rappreso che fa tinnire le boccole contro i muri, che ricerca la parola unica e assoluta, e che assomiglia alla mosca che si posa e poi si discosta. Restano così le cose più insignificanti a sopravvivere, il dialogo d’inverno e il rito dell’amore bandito, rilasciato in un’ellisse di forza:

«Restano sempre le cose più insignificanti /  a sopravvivere / fourrures, souvenirs, / l’amante che ti morde l’orecchio, / il più sciocco, il più vecchio / ti gira intorno, ti guarda morire. / L’amore arrivò davanti a me / come un dannato. / Sceglieva per i nostri riti / le ore del mattino, / voleva essere strozzato in una gelateria vuota. / Sarebbe salito su un palco / nudo, alla gogna, / colpito da pietre e flagelli / senza dolore, senza vergogna. / Ma i banditi d’amore / vivono all’inferno. / Finchè vivo, finchè affogo / non brucerò il suo ritratto. / Parlerò col fuoco, parlerò col gatto / queste sere d’inverno».

L’ellisse vitruviana di Leonardo Sinisgalli tra la scienza e l’arte – Roma Cronache Lucane, 4 marzo 2020