La ruvida fiamma di Leonard Cohen

di Andrea Galgano 22 novembre 2019

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«L’ultima prova di mio padre come poeta. Vorrei che l’avesse visto una volta finito: non perché nelle sue mani sarebbe stato un libro migliore, più compiuto, più generoso e definito, o perché avrebbe rispecchiato più da vicino lui e la forma che aveva in mente di donare ai suoi lettori, ma perché viveva per questo, era la sua unica ragione di vita degli ultimi tempi[1]».

Leggere gli ultimi scritti di Leonard Cohen, La fiamma. Poesie e pagine scelte dai quaderni[2], edito da Bompiani, a cura di Robert Faggen e Alexandra Pleshoyano e la  traduzione di Luca Manini, consente di lambire un tempo-emblema, racchiuso nella meditazione e nella concentrazione, oltre il dolore, la frattura fisica, l’essere poeta.

Essere poeta è vivificare la fiamma del mondo, una vocazione e una missione che, attraverso l’inchiostro, propongono il destino come ultima dedizione, la bellezza come nota di una caccia da inseguitore, persino nella sottile scintilla di grafia e lamina che, dolcemente e acutamente, braccano la propria nudità dinnanzi al mondo.

Scrivere è essere, è fuoco avvinghiato alla materia vivente, anche nel buio che pur lottando per spezzare la finitudine, lascia un’orma non estinta.

Il cuore è la nuda terra dove accade ogni tensione e ogni scheggia di cicatrice, l’arte di amare anche la scintilla morente, ciò che accade e ciò che deve venire: «Ho studiato con questo mendicante / Era lercio aveva cicatrici / Fatte dagli artigli di molte donne / Che non era riuscito a ignorare / Nessuna favola qui nessuna morale / Nessuna allodola che canta / Solo un lercio mendicante che benedice / Ciò accade al cuore».

In Cohen, esiste un dettaglio sporco e benedetto che dischiude la luce, si trova nel minuto dell’istante dove avviene il miracolo, l’attesa, l’amore e il disamore. E poi la quotidianità che diventa universo tremulo, solitudine rivelata, contatto con la materia che vive e sente il suo abito:

«E se intendevo toccare / La tua bellezza con la mano / Ecco venire foruncoli e sangue / Il che io capirei / Hai fatto a pezzi le tue ginocchia / La solitudine rivelata / Ciò trasse questo cuore non nato/ Da catene che non volevano cedere / Ma indebolita dalla ginnastica / Tu mi cadesti contro l’anima / L’anima colpita chela mente nega / Sinchè non la ripari».

Dove tutto avviene, egli lascia biglietti che danzano, spostamenti di realtà, brindisi di penombre, donne amate che diventano danze eterne e immortali. Ecco la sua fiamma. Ciò che non è misurabile, ciò che pur con tutte le spezzate e velenose carature vitali o i ritardi, non si ferma.

È la sua marea mendicante, il freddo dell’anima stretto in un bacio: «Salpai una notte / Alla bassa marea / C’erano segni nel cielo / Ma io non sapevo / che sarei stato afferrato dalla stretta / della risacca / E sbattuto su una spiaggia / Dove il mare odia andare / Con un bambino in braccio / E freddo nell’anima / E col cuore a forma / della tazza di un mendicante».

La rara occasione di un evento impersonale, i finestrini schermati, la stellata oscurità, il profumo del fieno recano un fiore di presenza e di viaggio che entra nel vivente, appartiene alla gloria luminosa che fronteggia le ultime spiagge, il letto da rifare, la chiamata del buio alle spalle dell’angelo.

È il suo patto ultimo, la sua bandiera con la quale ricominciare, la scala segreta che porta salvezza, il segnale luminoso del cielo e «dalla parete un vento che ci sfiora / leggero e sereno / Mi ferisce mentre divido le Sue labbra / e intanto Ci ferisce».

Non resta che rimanere legati, arresi all’Amore, «Noi ci apriamo affoghiamo come fanno i gigli… in eterno, in eterno»: «Anche se l’abbiamo dichiarato fino / E non è rimasto nulla / Ancora non sento le mie labbra / Fare queste promesse / Sebbene abbiamo sperperato la verità / E ne sia rimasta ben poca / Possiamo ancora spazzare la stanza / Possiamo ancora rifare il letto / Quando falso è il mondo / Non sarò io a dire che è vero / Quando il buio chiama / Io verrò con te».

«Il luogo segreto che Amore ha lasciato / prima che nascesse il mondo» è la destinazione di quella fiamma inesauribile insondabile, della sua cromatura che guarda gli oggetti, che chiede a D-o (con il trattino di rispetto per la divinità e la riluttanza ebraica a nominarne il nome) il nome del suo nome, e dove al Sicily Cafè, il 15 gennaio 2007, sente l’abbraccio più grande e forte dinanzi allo smarrimento:

«E adesso che m’inginocchio / sull’orlo dei miei anni / Lascia che io cada attraverso lo specchio dell’amore / E  cose che so / Lascia che si spostino come la neve / Lascia ch’io dimori nella luce che è nell’alto / Nella luce radiosa / Dove è giorno e dove è notte / E la verità è l’abbraccio più ampio / Che racchiude ciò ch’è smarrito / Racchiude ciò ch’è trovato / Ciò che scrivi e ciò che cancelli / E quando si spalancherà il mio cuore / Quando nascerà il mio amore / Nello schema dell’indicibile sofferenza / Dove persino il progetto è strappato».

I taccuini di Cohen sono confini labili, incanti di scrittura sbavata, parola dopo parola, un fruscío di saluto nell’aria, qualcosa che voli per sporgere il cuore come frantumo increspato, fermarsi al traffico dello sguardo e farsi solenne promessa: «Poi mi ricordo / delle dimensioni in attraversabili dell’amore / e mi preparo / alle conseguenze del ricordo / e del desiderio / ma il ricordo con la lista degli anni / si volge con grazia di lato / e il desiderio s’inginocchia / come un vitello / nella paglia dello stupore».

Anche la morte, in Cohen acquista un introvabile sponda di grido, come fuggita voce dal fango della speranza. Il linguaggio del Regno di Morente non è la fine o il fine, sembra un battito ballerino, è il luogo del respiro lontano, l’aria non nata ancora, una parete spoglia che si stende come memoria ebbra di carta bianca e perdono di bellezza. Come avviene nell’Omaggio a Rosengarten, che lucida gli anni di sonori crepuscoli.

Sono sconfinamenti oltre la vita stordita e naufragata, la melodia che ferma i punti della vita, il ritrovo materno di acque violate e riprende la vita, la Grazia che arriva, come una pienezza sottile, una quotidianità che si compie, un chiarore di inizio, la soglia irrilevante di un bisogno che diventa sponda e poi ancora silenzio, desiderio libero di una relazione infinita e osmotica, fratturata e mescolata, con l’Amore.

L’amore diluito in una oggettualità vocazionale nel luogo in cui comincia, ascolta, soffre e patisce il suo dono commosso. Per Cohen, i particolari della realtà sono costellazioni di salvezza e lievi brividi nell’aria:

«L’enorme jacaranda malva / in fondo alla strada a South Tremaine / in piena fioritura / alto due piani / Mi ha reso così felice / E poi / le prime ciliegie della stagione / al mercato di frutta di Palisades / domenica mattina / “Che dono del cielo!” / esclamai rivolto ad Anjani. / E poi i campioni in carta cerata / della torta di panna e banane / e della torta di panna e di cocco […] / Un lieve brivido nell’aria / sembrava lucidare la luce del sole / e conferire lo status di bellezza / a ogni cosa che guardavo / Volti petti frutti sottaceti uova verdi / neonati / in costose e agili imbracature / Sono così grato / al nuovo antidepressivo».

E dopo, gli autoritratti, i disegni come ascolti di tempo al margine che costellano e domandano identità, fino alla fine, come il colibrì, gli specchi dell’ascensore, la colpa di un desiderio di appagamento, il ballo infinito di un accordo di strada e coraggio.

È una bellezza inestinta che rimane anche dopo gli straccali del dolore e della morte, delle finestre chiuse di case cieche e del grido delle illusioni inevitabili. Resta la chitarra lacerata che respira, quasi alzandosi in piedi, diventando lingua, occhio, cammino, fuga da cancelli segreti e solitudine attraversata: «Travestito da qualcuno che visse in pace / Ho raggiunto il confine / sebbene ogni atomo del mio cuore / Ardesse di desiderio».

Oppure: «sonno che non dona riposo / carezza che non dà pace / eccitazione senza sfondo / risalita da nessuna profondità / le secche dell’eccitazione perché non eri te / e una mano sulla bocca / per farmi tacere / un’abile fatica / per abbattermi / un nodo in gola / un colpo al cervello / una dolce distrazione / per placare l’appetito / un bel po’ di zucchero / per placare l’appetito / E poi dimenticandoti / per 40 anni / costruendo case / per donne / che tu mandavi / per farmi ricordare».

I testi della seconda parte si aprono con Allarme blu (Blue Alert, titolo di un elegante album di Anjani): profumo che brucia nell’aria e frammenti di bellezza. Come un lungo reliquiario aggrovigliato alla nudità del blu, un nodo al cuore di schegge in volo.

La porta più interna è un addio che si chiama ricordo e si avvicina all’inizio di una casa. E poi le nebbie di San Francisco come un oblio di lettere e note gravi e solitarie che lasciano l’impeto di una gloria in arrivo, in una metà del mondo perfetto, intricato nella trasparenza, l’usignolo che non spegne il canto nella foresta che si chiude.

Come se quando si amasse ci fosse sempre una nuova sproporzione di occhi, nulla prima, nulla dopo, nessun passaggio a vuoto, oppure follia come una camicia in disordine e uno specchio di una dolce fatica:

«Ci sdraiavamo per dare e ricevere / Sotto la bianca zanzariera / E siccome non tenevamo il conto / Vivemmo mille anni in uno / Le candele bruciavano / La luna tramontò / La collina levigata / La città lattiginosa / Trasparente, senza peso, lucente / Scopriva noi due / Su quel terreno basilare / Dove l’amore è involontario, scatenato / Liberato / E dove si trova metà del mondo perfetto».

Poi «Never Got To Love You» scrive Cohen , come lasciando cicatrici e mancati arrivi. È l’ora di chiusura e i ricordi ritornano vuoti. È buio, buio a St.Jovite, lungo tutta la linea, oppure si spalanca alla foschia che scontorna i colori, alle lontananze e agli squarci.

Il sussurro del nome freme di fumo e desiderio, come un controcanto in cui si respira la finitezza minima di un sipario e di un inno di perdono («Amo parlare con Leonard / È uno sportivo e un pastore / È un pigro bastardo / Che vive indossando un completo»), un grido al di sopra della sofferenza, un sacrificio, prima di ogni completezza.

È la lucentezza rauca che desidera placare la sete, come un amen o un riscatto di polvere, una particella o un’onda: «Mostrami il luogo / dove vuoi che vada il tuo schiavo […] Mostrami il luogo / Aiutami a rotolare via la pietra / Mostrami il luogo / Da solo non riesco a spostare questa cosa / Mostrami il luogo / Dove il Verbo si fece uomo / Mostrami il luogo dove si principiò il dolore».

L’arrivo dell’oscurità principia tutte le notti, la nudità onirica, la domanda di guarigione come profumo di promesse e porte di misericordia, oltre la luce lacerata: «Oh vedi come recede l’oscurità / che prima la luce lacerò / Vieni guarigione della ragione / Vieni guarigione del cuore».

Il suo blues è l’allusione alla lentezza è un battito di fiamma («Non è perché sia vecchio / Non è perché la morte s’avvicina / Mi è sempre piaciuta la lentezza / La lentezza è nel mio sangue»), un’apocalisse di morbidezza e torbida litania nella stanza sofferta della parola che cuce, rifugia, attende salvezza, redenzione.

Le ferite non sono rimarginate, l’Antichità lontana, i suoi inni sono dolenti (come accade nell’immagine colpita dell’uragano Katrina: «C’è una donna alla finestra / E un letto a Tinsel Town / Ti scriverò quando tutto sarà finito / Lascia che abbatta questo tempio»), in un angolo che un tempo era una strada.

Ma torneranno il vino e le rose, nonostante appassiscano limoni e mandorli e l’amore possa finire o possa essere una mano stretta in uno sguardo, in un tempo di stazione, due giochi di fortuna, una legge di pace. Non importa. Ci si sposa con il mistero. Delle labbra, del buio. Non si uccide la fiamma, il tempio di ciò che è, gli angeli e le stelle perse.

È la sua luce in viaggio che inizia dall’inizio, che apre la via, fino alla fine dell’amore, come nutrimento, come consonanza inquieta di ombre e cedri che si innamorano. Nessun confine per la pelle e per il cuore. Ci sarà l’oceano che porterà altre canzoni su altre spiagge, ci saranno teatri che crolleranno, polvere dovunque e burrasche e pensieri stonati come lunghi frattali tesi all’Assoluto.

[1] Cohen A., Prefazione, a Cohen L., La fiamma. Poesie e pagine scelte dai quaderni, a cura di Robert Faggen e Alexandra Pleshoyano, traduzione di Luca Manini, Bompiani, Milano 2019.

[2] Cohen L., La fiamma. Poesie e pagine scelte dai quaderni, a cura di Robert Faggen e Alexandra Pleshoyano, traduzione di Luca Manini, Bompiani, Milano 2019.

Cohen L., La fiamma. Poesie e pagine scelte dai quaderni, a cura di Robert Faggen e Alexandra Pleshoyano, traduzione di Luca Manini, Bompiani, Milano 2019, pp. 304, Euro 24.

 Cohen L., La fiamma. Poesie e pagine scelte dai quaderni, a cura di Robert Faggen e Alexandra Pleshoyano, traduzione di Luca Manini, Bompiani, Milano 2019.

Un litro e un pugno d’equilibrio artistico

di Guido Rutili 6 novembre  2019

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Certe opere richiedono uno studio attento, di altre basta conoscere titolo e autore, di alcune ci interessa l’ultimo dei riferimenti bibliografici; appunti e sintesi sostituiscono le più inflazionate, poi ci sono quelle che leggiamo in atteggiamento volutamente sognante, gli articoli e i quaderni, poesie d’avanguardia e sonetti classici, montagne di volumi, rilegature e fogli, raccolte lecite e segreti dossiers.

Librerie accessibili a chiunque e inaccessibili ai non autorizzati, ovunque si desideri, a patto che niente esca dalla nostra vita.

Il testo che non sfugge all’esistenza di un uomo sempre ci sarà (folle l’esistenza che rifugge il testo), e chi riesce a creare librerie universali nel proprio passaggio in questo mondo, fa parte degli argonauti della collettività, di coloro che scrivono nel genoma e arricchiscono il patrimonio universale della specie. Perché ciò si realizzi serve però la capacità di raccogliere un impulso, l’unica ed ultima concessione degli dei agli uomini caduti, ovvero la creatività, nell’altisonanza del termine, che la configura come capacità di
ricostruire la forma, a prescindere dai pezzi, ovunque si trovino sparsi.

Leonardo Rocco Antonio Maria Sinisgalli, polimorfo come un nome che lo proietta nel multiverso dello scibile compreso, duttile come il maestro Leon Battista Alberti che inaugura la prima pagina del Furor
Mathematicus, ineluttabile come la coppa disegnata da Lucantonio degli Uberti che fregia l’ultimo foglio del libro, c’insegna a essere in ogni opera letta, in ogni esperienza acquisita, in ogni algoritmo della mente e nel fulmineo flusso inconscio.

Senza sentire il tempo, simultaneamente.

Un evento quantico, come suggerirebbe quel Carlo Rovelli che ritrova il “Furor” nel proprio “Ordine del tempo”, che ci giunge alleviando l’onere di contare i minuti, troppo spesso pesanti nella legislazione della vita; per Sinisgalli l’ordine s’intesse sull’armonia, non sull’ascissa conologica.

In quel vuoto cartesiano, di cui non si sente alcuna mancanza, le coordinate sono paradossalmente ben identificate: l’autore vive in coerenza con ciò che scrive, per questo l’insalata scientifico-umanistica che propone ha un sapore indimenticabile, è una creazione da grande chef.

Sinisgalli sogna matematica e fisica all’Università, intanto pubblica poesie e s’intende d’azienda, salvo poi laurearsi in ingegneria meccanica col progetto di un motore per aeroplano leggero: quella ghisa che leggiadra prende il volo – cosa che a raccontarla farebbe ridere – nel contesto non ci scompone, anzi desta interesse, appare umile e realizzabile.

E qui si compie l’opera unificatrice nucleare di questo artista, capace di tramandare la geometria senza mai
chiamarne in causa le formule:

“L’inverno ci stringe d’assedio nella nostra solitudine. Il corpo è aspro e pulito: l’aria di certi giorni tersa più della falce. Nelle nostre stanze il fuoco ha questo crepitìo continuo, questo attizzarsi, questo mangiarsi il proprio cuore insaziabilmente. Quando eravamo ragazzi ci bastava, per scaldarci, un pezzo di brace raccolto nel cavo delle mani: vi soffiavamo fino a consumarlo col nostro fiato. […] Ci eravamo fatti del mondo l’immagine di un corpo duro che d’inverno ritrovava la sua rigida compattezza, il suo estremo di solidificazione sonora, contro cui la mazza batteva i suoi colpi e si alzavano ripe di sostegno alle frane, si scavavano mine nella roccia”.

Ogni interfaccia col cavo di quella mano rende il solido vivo al punto di ricollegarsi al corpo duro e compatto che può forgiare, non in una sterile danza di riga e squadra, ma nella pulsante cadenza dell’azione senziente e sognante, di chi le due cose sa intrecciarle bene: ecco che la geometria s’imprime come un lampo, per non decadere più.

L’autore lo sa, perciò conclude con un’affermazione tranciante:
“Nessuno ormai dubita dello stimolo che venne a Cartesio dal calore acido della stufa quando, in quel lontanissimo inverno, stendeva le prime miracolose pagine del Discorso”.

Mentre il saggio ci degna della propria presenza osmotica, il precettore sorveglia prestazioni in divenire, il santo frammenta intorno a noi parole infuse ed il maestro c’invita ad osservare l’orma dei propri passi, la figura che nel Furor Mathematicus riveste l’autore è quella del comandante solitario, le cui Moby Dick stanno dietro l’interesse che nutre per ogni flutto. Egli tramanda il fenomeno della curiosità causale senza ulteriore intento di renderci suo equipaggio, volendo leggere a chi ascolta un diario di bordo, suo unico e gradito compagno.

Certo che c’illumina, quando parla dell’attrito come “perdita con cui la natura si ripaga”, come contromisura per fare “di ogni fenomeno un avvenimento sigolare” che ci “toglie qualunque illusione di
perpetuità” e che incarna quel “residuo che dà l’avvertimento più certo della presenza della materia come degradazione, chiusura, ripetizione”. Non potrebbe essere altrimenti, poiché la sua freccia centra l’essenziale con una grazia inattesa, che deve sconvolgere, pena la rilettura coatta finché questo risultato non si verifichi.

Leonardo (solo il nome, nomen omen, di lui che come l’omonimo da Vinci fregia la copertina e poi la firma) soddisfa il limite di ogni ingegnere, raccontandogli finalmente come il giunto cardanico sia la geniale trasposizione in meccanica dell’opera organica compiuta da Dio, ma al contempo meraviglia il poeta, che si nutre affascinato non del concetto sotteso alle parole ma della permeanza dell’intelletto gravido d’eros con cui viene esposto.

Grazie a questa sua mirabile capacità non indispettisce, pur passando di lì al poco al “carciofo alla romana”, nella sfumatura con la quale esso s’innesta nel modello matematico di resa delle superfici complesse: in quel dialoghetto riportato i suoi eminenti interlocutori glissano ma il lettore no, e sorride compiaciuto al prodotto della mente che è passata oltre il calcolo differenziale, non senza averlo prima ben compreso. Se d’insegnamenti dobbiamo parlare quest’ultimo elemento mi è d’aiuto: raramente un testo sorprende per la ricchezza delle conoscenze che lo generano. Spesso un’opera di saggistica indugia in settori tecnici, come invece un bel romanzo parla del piacevole nulla, ma quasi mai si riesce ad odorare il nous generativo dell’opera, con la stessa attitudine che ci restituisce il profumo inconfondibile di casa.

Il Furor Mathematicus non viene mai meno, non delude né abitua anzi, in modo attento impedisce alla “mania di comprensione” di esplodere ed alla “frustrazione di non sapere” di sopraggiungere, in ritmo serrato e cadenzato: chiuderlo prima d’averlo reso inconsciamente proprio, è del tutto impossibile.

È un evento, come ho già detto.

Neanche il cambio psicoide, o solo futurista, del colore degl’intermezzi o la frammentazione dei pensieri randomici, cambiano il magnetismo della seduzione sinisgalliana.

Sono dapprima dialoghi, il cui carattere surreale presto diviene frugale e corroborante come un pasto domenicale, poi discorsi in prosa o aforismi della sera, versetti senza metrica che però s’incollano, in terribile risonanza, a qualcosa di ideico e già noto.

L’intermezzo tra i fogli grigi sorprende, e lo fa con la lama del ricordo; l’autore, quello della memoria che “s’intorbida quando la interroghiamo in un modo brusco o inatteso”, evidentemente sa contemplare immagini senza togliere loro il tempo di rinvenire nella forma.

È un ricordo consapevolmente illusorio e mai idealizzato, dove all’improvviso sorge la struttura dell’anatomia della mente, resa con capacità ritrovata e trasversale, degna di un vecchio professore in medicina che, abbandonata l’aula consueta dei bramosi, decide di dedicarsi ai poveri e i passanti di “là fuori”.

In qualche momento al lettore prende un tremito: qui c’è l’Albero di Porfirio! Gli occhi indugiano senza desiderare, è un meraviglioso viaggio quello in cui ci porta il “Furor”: nessuno vuole più scendere!

Sinisgalli è l’equilibrista che, calcolato il baricentro, s’accorge di camminare sul filo impossibile delle chimere della mente, che in piedi nel mondo non potrebbe stare, eppure da solo “tiene” il peso e la sostanza.

Insomma gli alchimisti non sono scomparsi, neanche nella contemporanea fuga da ogni cosa delle società, ormai apparentemente liquide e segretamente stremate dalle crociate contro i propri fantasmi: prova ne sono ancora i testi, non digitali frutti dell’albero “in cloud”, ma vecchie pagine che vogliamo ancora di colore diverso, perché diverse siano nel contributo alle nostre anime per sempre antiche.

Chiudere un libro, farlo con un ringraziamento nello scoprire che abbiamo nuovi occhiali per vedere ogni cosa, è un complimento per pochi pionieri di ogni futuro, senza che il calcolo delle probabilità che ne sancisce la mutevolezza spaventi più di tanto; ora quel libro chiuso è un’opera d’arte, che un uomo eccezionale ha reso patrimonio comune.

Leonardo Sinisgalli, Furor Mathematicus, a cura di Gian Italo Bischi, Mondadori, Milano 2019.

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato anche su “Roma – Cronache Lucane”, 6 novembre 2019

Un litro e un pugno d’equilibrio artistico, Roma Cronache Lucane, 6 novembre 2019