Harry Crews: Mentore ed Amico

Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella

Brown: Harry Crews: Mentore ed Amico

Biografia
Larry Brown (9 luglio 1951 – 24 novembre 2004) è stato un romanziere americano, scrittore di non-fiction e di racconti brevi . Ha vinto numerosi premi, tra cui il Mississippi Institute of Arts and Letters award for fiction, il Lila Wallace-Reader’s Digest Award e il Governor’s Award For Excellence in the Arts del Mississippi. È stato anche il primo a vincere due volte il Southern Book Award for Fiction.Tra le sue opere più importanti ci sono Dirty Work, Fay, Joe, Father and Son e Big Bad Love. Quest’ultimo è stato adattato per un film omonimo nel 2001 , interpretato da Debra Winger e Arliss Howard. Nel 2013 è stata rilasciata una versione cinematografica di Joe, con Nicolas Cage. Il regista indipendente Gary Hawkins, scrittore della sceneggiatura di Joe, ha diretto nel 2002 un documentario pluripremiato sulla vita e il lavoro di Brown intitolato The Rough South of Larry Brown. In italiano è stato tradotto da Mattioli con 92 GIORNI, uno dei suoi racconto più celebri. Il saggio seguente è tratto dalla raccolta Billy Ray’s Farm: Essays from a Place Called Tula ed è dedicato al leggendario Harry Crews, uno degli scrittori più importanti e rappresentativi del gotico sudista del secondo novecento.

Harry Crews: Mentore ed Amico
Leggo Harry Crews da così tanto tempo che non ricordo esattamente quando scoprii per la prima volta il suo lavoro. Fu probabilmente tempo addietro in qualche anno immemore vicino al periodo in cui iniziai a scrivere, ovvero nel 1980. Ricordo che il mio amico e cugino, Paul Hipp, venne a trovarmi un pomeriggio quando mia moglie, i bambini ed io vivevamo a casa con mia suocera. Aveva in mano una copia tascabile de La Fiera dei Serpenti, e me la prestò. Ricordo che ero seduto a leggerla sul dondolo in veranda. I miei figli erano piccoli all’ epoca, Billy Ray aveva tre o quattro anni, Shane era soltanto un infante, LeAnne non era ancora nata. Ricordo come quel libro mi commosse, mi scosse e mi inchiodò. Non avevo mai letto nulla di simile e non sapevo che si potessero fare cose del genere in un libro. Non sapevo che un uomo potesse inventare personaggi come Joe Lon Mackey, o sua sorella, Beeder, o Buddy Matlow, lo sceriffo con la gamba di legno. Era una combinazione di ilarità e cruda realtà e bellezza e tristezza. Dall’epoca l’ho letto diverse volte, e come tutti i grandi libri diventa migliore ad ogni lettura.

Avevo già visto qualche suo saggio in riviste come Playboy ed Esquire, e ad un certo punto andai nella nascente libreria di Richard Howorth ad Oxford e comprai una raccolta di saggi chiamata Florida Frenzy, nella libreria diedi un’occhiata ad un libro chiamato Blood and Grits, e ad un altro intitolato Un’Infanzia. Fui stupito dalla sua scrittura, dalle storie della sua vita, dalla sua infanzia e dalle sue fatiche nel diventare uno scrittore, dai luoghi in cui fosse stato e dalle cose che avesse fatto. I suoi romanzi erano difficili da reperire. La libreria pubblica ne aveva un paio, The Gypsy’s Curse and The Hawk Is Dying. Li lessi entrambi e li amai, ma non riuscii a trovare altra sua fiction. Sapevo che ci fosse da qualche parte, ma nessuno sembrava sapere dove.
Non ricordo quanto tempo impiegai a leggerlo, ma stavo provando a scrivere a quel tempo. Stavo cercando di trovare dei mentori, scrittori i cui lavori potessi ammirare e da cui potessi trarne ispirazione. Volevo leggere il resto di quei titoli, romanzi citati nelle prime pagine degli altri suoi libri, romanzi con titoli come Karate Is a Thing of the Spirit, Naked in Garden Hills, This Thing Don’t Lead to Heaven, Car, The Gospel Singer.

Andai alla ricerca di una biblioteca più grande e la trovai all’ Università del Mississippi. Imparai di nuovo come usare il catalogo della biblioteca, e dopodiché, armato con un pezzo di carta su cui avevo scarabocchiato lettere e numeri, iniziai ad aggirarmi tra le pile di libri. E iniziai a trovare i titoli. La maggior parte dei quali erano là, senza sovracopertina, e li presi in prestito, li portai a casa e li lessi. Car fu pubblicato in edizione tascabile e lo comprai, e
quando The Gospel Singer venne finalmente ripubblicato nel 1988, lo comprai. Quando libri più recenti vennero fuori, come The Knockout Artist e All We Need of Hell e Lucidi Corpi e Scar Lover e The Mulching of America, li comprai. Ho letto o comprato tutto ciò che sono riuscito a procurarmi , e sono grato che uno scrittore come lui cammini su questa terra.
Nel1985 avevo scritto cinque romanzi inediti e quasi un centinaio di racconti brevi che giacevano indesiderati. Vendetti una storia ad Easyriders, una al Fictional International, ed una ad una rivista di New York, ormai scomparsa, chiamata Twilight Zone. Avevo ormai imparato che il prezzo del successo per uno scrittore è alto, che ci fossero anni di una cosa chiamata il periodo di praticantato, e che nessuno ti avrebbe avvisato su quando sarebbe finito. Dovevi soltanto continuare a scrivere con fede cieca, e speranza, e credere in te stesso che con il tempo avresti trovato la tua strada, che il mondo un giorno avrebbe accettato il tuo lavoro.
Ogni qualvolta cadevo in un periodo oscuro di depressione, il che avveniva abbastanza spesso, potevo prendere una raccolta dei saggi di Harry e leggere di nuovo di quel che aveva passato, di come avesse lavorato per anni senza successo. Era confortante in un qualche modo sapere che un uomo del suo calibro non fosse nato con questo talento, ma lo avesse coltivato, e avesse posseduto la perseveranza, la testardaggine, il carattere, o qualsiasi cosa fosse che possedeva per permettergli di non arrendersi di fronte ai rifiuti. Lessi anche di quanto avesse perso: la sua famiglia, uno dei suoi figli. Non si lamentò mai di quanto fosse stato duro. Non disse mai quanto difficile fosse mettere giù le parole. Quel che invece disse fu che dovevi tenere il culo sulla sedia. Anche se non riusciva a scrivere niente un giorno, se niente sarebbe venuto in quella seduta in particolare, si sarebbe lo stesso forzato di sedersi sulla sedia per tre ore. Sapevo che nel tempo in cui era ancora inedito, doveva aver desiderato il successo tanto quanto me . Ed io ero tremendamente rincuorato nel leggere queste cose. Significava che non ero l’unica persona che avesse passato quel che io stessi sopportando, che fosse probabilmente un’ esperienza universale, questo periodo di praticantato, questo tempo in cui scrivevi cose di scarsa qualità solo per buttarle via o per vederle rifiutate in modo tale da scrivere abbastanza da imparare come farlo.
Bruciai uno dei miei romanzi nel giardino dietro casa. Collezionai le mie lettere di rifiuto e le conservai in una logora busta di manila gialla. Continuai a scrivere, e a sperare, e provare a fare di meglio. Facevo turni da ventiquattro ore ai vigili del fuoco di Oxford dieci giorni al mese, e negli altri giorni martellavo chiodi, imbustavo la spesa altrui, pulivo tappeti, facevo qualsiasi cosa fosse necessaria per fare qualche dollaro in più per sfamare la mia famiglia in
crescita, riscaldare la casa e pagare le bollette che tutti abbiamo. Nei fine settimana o per qualche ora di notte andavo in cucina e provavo a scrivere qualcosa che avesse un senso. Continuavo a scrivere storie, ed avevo iniziato un altro romanzo. Quell’anno scrissi una storia su un uomo e una donna seduti nella loro camera da letto a guardare Ray Milland in Nei Giorni Perduti. Fu un punto di svolta per me quella storia. Tutto ciò che avevo scritto e buttato via negli anni passati mi aveva portato a scrivere quel racconto, chiamato Facing the Music. A quel punto avevo trovato altri mentori, altri modelli guida: William Faulkner, Flannery O’Connor, Raymond Carver, Cormac McCarthy, e Charles Bukowski. Insieme a Harry Crews erano gli scrittori che ammiravo di più, e che ammiro tuttora.
Due anni dopo mi fu offerto un contratto per dieci storie, gliele mandai, e il libro fu accettato, e il mio periodo di praticandato era finalmente terminato, dopo sette anni. Quello di Harry ne durò dieci, il che non mi era sfuggito. Quando la mia editrice mi chiese di proporle alcuni scrittori a cui poter inviare bozze per dei trafiletti pubblicitari, io nominai i miei amici del Mississippi Barry Hannah, Ellen Douglas, Jack Butler e Willie Morris. E le chiesi di inviare una bozza anche ad Harry Crews.
Passò un po’ di tempo, le bozze uscirono e cominciarono ad arrivare i trafiletti. La mia editrice me li mandava man mano che arrivavano, ed eravamo soddisfatti di averli. E poi un giorno mi inviò una cartolina postale che le era stata recapitata da Harry Crews, ed anche lui aveva risposto gentilmente e positivamente. Ero grato a lui e ad i miei amici. Ma non pensai mai di provare a scrivergli e ringraziarlo. Presumevo che fosse un uomo impegnato, e non volevo disturbarlo. Lo tenevo in così alta stima , e rispettavo lui e il suo lavoro così tanto, che pensavo sarebbe stato meglio essergli riconoscente a distanza, e non provare ad intrudermi nella sua vita. Continuai a scrivere, così come fece Harry. Continuai a comprare i suoi libri quando uscivano. Pubblicai il mio primo romanzo, e continuai a scrivere storie, e nel 1990 Algonquin pubblicò la mia seconda raccolta. Fu nell’ottobre di quell’ anno che lessi una recensione di Big Bad Love che Harry Crews scrisse sul Los Angeles Times. La recensione era buona ed ero veramente felice di vederla, ma quel che mi sorprese fu ciò che disse sul mio primo romanzo: in venticinque anni di scrittura era la prima volta che avesse preso il telefono e provato a chiamare l’autore. Non era stato in grado di contattarmi, ma decisi che gli avrei scritto, e lo avrei ringraziato per le cose che aveva fatto per me, e avrei provato a raccontargli quanto avessi ammirato il suo lavoro nel corso degli anni e quanto questo avesse significato per me durante i miei sforzi nel diventare uno scrittore. Ottenni il suo indirizzo dalla mia editrice, scrissi la lettera e gliela mandai, qualche tempo dopo, un
sabato pomeriggio in cui stavo lavorando seduto nella mia stanza, il telefono squillò, ed era lui. Penso che parlammo per almeno un’ora e mezza, e dopodiché iniziammo a scriverci per corrispondenza. Parlammo delle nostre vite, dei cani, del bere, delle donne, di ogni cosa. Una volta ogni tanto lo chiamavo e lui faceva lo stesso. Infine, organizzò un reading all’Università della Florida e offrì di ospitarmi per un paio di giorni, ed io accettai prontamente.
Era appoggiato ad una parete quando scesi dall’aereo a Gainesville, indossava un paio di jeans, scarpe da ginnastica, e una felpa con le maniche tagliate degli Oakland Raiders. I lati della testa erano rasati. Appena mi vide, si allontanò dal muro con scioltezza, mi tese la mano e ce la stringemmo. Era più alto di quanto avevo immaginato, davvero un uomo possente. Sulla spalla aveva un tatuaggio di un teschio, e disotto la scritta leggendaria:
How do you like
Your blue-eyed boy
now, Mr. Death?

Mi fece salire sul suo pickup nero ed iniziammo a parlare e non ci fermammo per diversi giorni. Mi portò a casa sua e scaricai la mia valigia e mi sistemò in una stanza in più che aveva. Mi aveva chiamato precedentemente per chiedermi che tipo di birra e whisky mi piacessero e mi aveva preparato una scorta di entrambi. Sedemmo e parlammo nel soggiorno per un po’, e fuori nel giardino sul retro, dove il suo terrazzo si affacciava su un terreno incolto. Il soggiorno era incassato rispetto al resto della casa, incontrai il suo vecchio cane, Heidi, e dopodiché mi portò fuori per mangiare qualcosa. Diedi un reading quella notte e non ricordo cosa lessi, ma il posto era affollato e lui mi presentò. Fu uno dei momenti più belli della mia vita. Più tardi quella notte sedemmo nel soggiorno e leggemmo l’uno all’altro altri brani dai libri ai quali stavamo lavorando. Il giorno dopo andai a lezione con lui, e quella notte diede una festa a casa sua in mio onore. Mi trattò come avrebbe fatto uno zio prediletto e mi disse che se avessi avuto bisogno di qualcosa, dovevo solo chiederlo. Il tempo assieme passò troppo in fretta, ma il solo fatto di aver potuto passare un po’ più di tempo con lui fu un grande regalo che non ho mai dimenticato. Abbiamo continuato a sentirci nel corso degli anni, e so che sta ancora lavorando, che non ha smesso di scrivere e che probabilmente non smetterà mai. Sono lieto di questo.
È importante avere persone da ammirare all’inizio della propria carriera. Devi cercare persone che hanno trovato la propria strada nel dire cose che tu stesso vuoi dire. Non è mai facile e ora credo che diventerà ancora più difficile tanto più si invecchia e più si scrive. Il praticante arriva alla cima lentamente, con molti inciampi ed imprecazioni, percorrendo costantemente strade a senso unico e partendo per tangenti che non portano da nessuna parte. L’incredibile quantità di cose che devono essere scritte e dopo buttate via è probabilmente quel che spaventa molti giovani scrittori. Non credo che lui abbia mai pensato di smettere. So certamente che io l’ho fatto, ma qualcosa mi ha fatto perseverare. Il merito fu in buona parte di Harry Crews. Sapere dei suoi duri primi anni mi fece capire che fosse possibile riuscire nel mio intento, e mi aprì gli occhi su quel che fosse richiesto. All’inizio pensavo che avrei scritto e spedito un romanzo via posta a New York, e che mi avrebbero risposto con un assegno da un milione di dollari, e mi ci vollero un paio di anni per scoprire che non funziona in questo modo. Ogni tanto capita un colpo di fortuna, ma chi inizia a scrivere letteratura si ritrova già con una bella gatta da pelare. Per sua stessa natura, la letteratura è la cosa più difficile da scrivere, perché gli standard sono molto alti, e a volte le ricompense sono misere. Probabilmente è quasi impossibile guadagnarsi da vivere solamente da questa, ammenoché’ tu non sia fortunato. Molti degli scrittori letterari che conosco insegnano da qualche parte e scrivono i loro libri tra una lezione e il lavoro sulle storie degli studenti. Harry lo fece per un lungo tempo, e lo feci io stesso, anche se non ho un’ istruzione avanzata e a malapena sono uscito dalla scuola superiore.
Tempo fa sentii che fosse andato finalmente in pensione, ma non avevo parlato con lui da un pezzo. L’ultima volta che lo vidi fu qualche anno fa, quando venne ad Oxford per leggere in libreria dal suo ultimo libro, The Mulching of America. Il mio amico Mark ed io lo guardammo scendere dall’aereo a Memphis, e lo aspettammo quando raggiunse la cima delle scale. Mi avvolse in un abbraccio da orso , mi sorrise e si strinse le mani con Mark dicendogli quanto gli fosse piaciuto il suo libro, e poi lo accompagnammo ad Oxford nel vecchio Caddy di Mark. Quella sera mi ubriacai un po’, e me ne pentii, ma mi disse in seguito in una lettera di dimenticarmi di quanto accaduto, che facesse parte del mestiere. Sapevo fosse sincero, e smisi di preoccuparmene. Ero soltanto onorato di poter passare ancora un po’ di tempo con lui.
Una volta, quando ero a Washington, D.C., per le prove di un adattamento teatrale di uno dei miei romanzi, avemmo una brutta giornata. Niente andava per il verso giusto, e le frasi erano sbagliate e tutti continuavano a scordare le proprie battute, tanto che il regista mandò tutti a casa in anticipo. La notte d’esordio non era così lontana, ed io scesi in una strada innevata verso un
negozio di liquori e presi una bottiglia di Wild Turkey, tornai nella mia camera d’hotel con il desiderio di sotterrarmici dentro. Un po’ più tardi recuperai il numero di Harry dalla mia valigetta e provai a chiamarlo, ma trovai la segreteria telefonica, quindi potei solo lasciargli un messaggio. Volevo dirgli quanto tutto stesse andando a rotoli, e chiedergli cosa dovessi fare. Non mi richiamò quella notte ma lo fece il mattino seguente, pieno di buon umore e di rassicurazioni. Mi raccontò delle prove del suo spettacolo a Louisville, e di come qualche volta le cose andassero terribilmente, ma come il tutto si risolse la notte prima del debutto, e mi fece sapere che la stessa cosa sarebbe successa a noi. E aveva ragione. Aggiustammo tutte le battute e gli attori diedero il meglio di sé, e lo spettacolo si congegnò come i pezzi di una scatola ad incastro finemente lavorata. Sapeva di cosa stesse parlando.
Se non avessi scritto alcun libro, non avrei mai conosciuto Harry Crews, né potrei considerarlo un amico. In un’attività che consiste nello stare da solo per la maggior parte del tempo, e lavorare con incertezza e talvolta con paura verso un risultato dubbio, le ricompense possono essere poche e rare, e proprio questo può fare indurre un uomo a dubitare della propria sanità mentale. Ma altri scrittori capiscono quello che stai facendo e quel che è necessario per farlo. E nulla importa se non il libro finito. Non importa quanta sofferenza ti costa. Non puoi lamentarti e piagnucolare, lo devi soltanto fare. Credo che probabilmente sia la lezione più preziosa che abbia imparato da Harry: fai il lavoro migliore che tu possa fare, a qualunque costo, qualsiasi sia il prezzo da pagare.

La poesia di Molly McCully Brown

Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella

Traduzioni MollyMcCullyBrown

Molly McCully Brown è l’autrice della raccolta di saggi Places I’ve Taken my Body pubblicata negli Stati Uniti nel giugno 2020 da Persea Books e nel Regno Unito nel marzo 2021 da Faber & Faber e della raccolta di poesie The Virginia State Colony For Epileptics and Feebleminded (Persea Books, 2017), che ha vinto il Lexi Rudnitsky First Book Prize nel 2016 ed è stata nominata tra i migliori libri del 2017 dai critici del New York Times. Insieme a Susannah Nevison, è anche coautrice della raccolta di poesie In The Field Between Us (Persea Books, 2020).Brown è stata destinataria della Amy Lowell Poetry Traveling Scholarship, della United States Artists Fellowship, Civitella Ranieri Foundation Fellowship e della Jeff Baskin Writers Fellowship dell’Oxford American magazine. Le sue poesie e i suoi saggi sono apparsi su The Paris Review, Tin House, The Guardian, Virginia Quarterly Review, The New York Times, The Yale Review e in magazine minori. Cresciuta nella Virginia rurale, si è laureata al Bard College at Simon’s Rock, alla Stanford University e all’Università del Mississippi, dove ha conseguito il suo MFA. Vive e insegna a Laramie, Wyoming, dove è direttrice del programma di scrittura creativa presso l’Università del Wyoming.

AFTER ALL (EVERYTHING)
this morning I wake up            and for a moment I think the visions have vanished
then I realize everything is shaded green the visions have alit like luna moths
around the dormitory on the doorframe and the table and the face
of every sleeping girl when I blow out my breath they travel noiselessly into the air
I pass an hour like this this is what no one tells you about suffering
sometimes you would not give it up for all the world

DOPOTUTTO (TUTTO)
questa mattina mi sveglio e per un momento penso le visioni sono scomparse
dopodiché realizzo che tutto è ombrato di verde le visioni sono atterrate come falene luna
intorno al dormitorio sugli stipiti della porta e sul tavolo e sul viso
di ogni ragazza addormentata quando esalo il mio respiro viaggiano senza far rumore nell’ aria
passo un’ora così questo è quello che nessuno ti dice della sofferenza
a volte non ci rinunceresti per nulla al mondo

Transubstantiation
It’s the middle of the night. I’m just a little loose on beer,
and blues,
and battered air, and all the ways this nowhere looks like
home:
the fields and boarded houses dead with summer, the
filling station rowdy
with the rumor of another place. Cattle pace the distance
between road
and gloaming, inexplicably awake. And then, the
bathtubs littered in the pasture,
for sale or salvage, or some secret labor stranger than I
know. How does it work,
again, the alchemy that shapes them briefly into boats, and then the bones
of great felled beasts, and once more into keening copper
bells, before
I even blink? Half a mile out, the city builds back up
along the margin.
Country songs cut in and out of static on the radio. Lord,
most of what I love
mistakes itself for nothing.

Transubstanziazione
È notte tarda. Sono soltanto un po’ sciolta dalla birra,
e il blues,
e dall’aria maltrattata, e da tutti i modi in cui questo niente assomiglia
a casa:
i campi e le pensioni morte con l’estate,
la stazione di servizio ricolma
del brusio di un altro posto. Il bestiame scandisce la distanza
tra la strada
e l’imbrunire, inspiegabilmente desto. E poi, le vasche da bagno
abbandonate nella radura,
da vendere o da riparare, o per farci qualche lavoro segreto più strano di quel che io
sappia. Come funziona,
ancora, l’alchemia che le trasforma brevemente in barche,
e poi le ossa
di grandi bestie abbattute, e poi di nuovo in campane ramate
disperanti, prima
ancora che io possa batter ciglio? Mezzo miglio più in là, la città si ricostruisce lungo
il margine.
Canzoni country vanno e vengono dall’interferenza della radio. Signore mio,
quasi tutto quel che amo
è in torto nel credersi effimero.

Virginia, Autumn
October, I’m dragging the dog away from perfect birds lifeless on the pavement. By the water, boys in dress blues with bayonets, the blistered hulls of boxships. Everything                                                                 is sunshine. Everything is dead, or dying, and this isn’t                                 a new thought. I grew up here, but farther from the ocean.                      Each April, they took us to the battlefield, marched us                              in schoolhouse lines up courthouse steps:  here                                               is where the war ended. Never mind that it was fall                                         before the final battleship lowered its flag; never mind                        that we still haven’t fired the last gun. What business                               do I have wanting a baby here: in this body                                                         where I can’t keep my balance, this country                                                    where we can’t keep anything alive that needs us,                                       or dares not to, not even the switchgrass                                                      pale and starved for groundwater? And still,                                                      I do want. I search the news for mention of the birds,                       whatever poison or disease I’m sure is claiming them                                  in such great numbers: meadowlarks, house wrens,                       chickadees, starlings. Once even a gray gull, pulled                                  open at the chest before we found him, hollowed                                        of his organs. It takes a long time—too long—                                                 for me to understand the sun in this season                                                      is blinding, and the birds are flying into windows                                               all around me, fourteen stories up. Flying into glass                                and falling. What we love is rarely blameless.                                                   Is it a failure that I wouldn’t trade this brightness?                                           I imagine pointing upward for my daughter:                                                Look, there, how it catches in the changing trees.

Virginia, Autunno
Ottobre, sto trascinando il cane via dai perfetti uccelli                      senza vita sul marciapiede. A riva, ragazzi in divisa blu                             con le baionette, lo scafo piagato delle navi cargo. Ogni cosa                    è luce. Ogni cosa è morta, o morente, e questo non è                                 un pensiero nuovo. Sono cresciuta qui, ma più lontana dall’oceano. Ogni aprile, ci portavano al fronte, ci facevano marciare                           in fila indiana sui gradini del tribunale: qui è dove è finita la guerra. Non importa che fosse ancora autunno                                                                 prima che l’ultima corazzata abbassasse la sua bandiera; non importa se non abbiamo ancora sparato l’ultimo proiettile. Che diritto ho io di volere un bambino qui: in questo corpo in cui non riesco a mantenere l’equilibrio, questo paese in cui non siamo in grado di sostentare ciò che ha bisogno di noi, o che osa non averne, neppure la gramigna pallida e affamata di acqua dal terreno? Eppure, io lo voglio. Cerco nel giornale notizie sugli uccelli, su qualsivoglia veleno o malattia sono sicura li stia portando via in gran numero: allodole, scriccioli, cince, storni. Una volta persino un gabbiano grigio, squarciato in petto prima che lo trovassimo, vuotato dei suoi organi. Mi ci vuole tanto tempo- troppo tempo- per capire che il sole in questa stagione è accecante, e gli uccelli volano contro le finestre intorno a me, al quattordicesimo piano. Volano contro il vetro e cadono. Quel che amiamo è raramente senza colpa. Mi sbaglio a non voler rinunciare a questa luce? Mi immagino di indicare il cielo per mia figlia: guarda, là, come si intrappola tra gli alberi che mutano.

La linea vivente di Alessandro Moscè

di Andrea Galgano

28 marzo 2024

La linea vivente di Alessandro Moscè

Per sempre vivi di Alessandro Moscè (Pellegrini, Cosenza 2024) offre un biografema epico-lirico di vasta intensità rarefatta e di diramazioni relazionali, in cui come afferma Tiziano Broggiato nella bandella,

«la comunicazione tra i vivi e i morti (gli affetti famigliari e il dialogo trascendentale con il padre), l’eros e il sogno incentrati nel dolcissimo ricordo dell’adolescenza, il locus amoenus dei giardini pubblici di Fabriano, luogo esistenziale, piuttosto che contemplativo, la malattia infantile con la finitudine e il sibilo misterioso, radente della morte, il riscatto, infine, con il simbolo della forza identificato nel mito dell’infanzia: il calciatore Giorgio Chinaglia, autentico trascinatore per lunghi anni della squadra della Lazio».

Nell’opera di Moscè vi è sempre una accensione e, verrebbe da dire, una salvazione che non è solo contemplativa, appunto, ma sembra spargersi come gesto, accenno, flash e dimensione unica e vitale, in cui la sua forza si contrappone a ogni fugace fragilità e anzi diventa nervo elegiaco e splendore:

«L’inverno è traslucido nelle gocce di pioggia / dopo pranzo, nel vento fantasma / battuto sulle lapidi cimiteriali / di redivivi in altri paesi, in altre case / figuranti nel mese alchemico di febbraio / radunati nell’aldiquà / gli inguaribili della provincia annacquata / sotto cieli di perle celesti. / Oltre la porta, di sbieco / sembra di vederli in trasparenza / avvicinarsi e conversare / con i maglioni a righe, freschi di bucato / farsi perdonare per il pianto / di chi li ha persi e ritrovati / nella foschia a notte fonda / prima di un altro arrivederci / che ci viene addosso / dai pianerottoli dei piani superiori».

Le sue apparizioni consegnano i detriti memoriali come gocce di risacca: sono attimi sperduti, richiami viventi, dialoghi con i cari e con le assenze. Nelle cinque sezioni del libro questa linea si lucida di appartenenze e visioni, da un lato descrittive e quasi sospese, dall’altro esse entrano nella dinamica più intima e familiare come corpo intero, in quella vitalità, senza compromessi, nel «voler prendere a piene mani il frutto dell’istante, per non sprecare neanche un momento – nonostante non manchino gli attimi di riflessione nostalgica, o malinconica (ma anche questo è consegnarsi al vivi del titolo» (p.7).

I per sempre vivi sono le densità persistenti e le comunioni con chi non c’è più, che rimangono nelle nostre linee di vita, sono le tracce di eterno che permangono («Nel sogno pomeridiano c’è un angolo di giardino / la fermata per i nonni nella luce ondeggiante / nella lunga traversata primaverile. / Nel tempo corro per abbracciarli / ma la pioggia li ha già cancellati / in un vento leggero e remoto / risucchiato da ricordi tremuli / dalla catenina d’oro al collo»), i ricordi che cambiano e si aggregano (la mano del nonno quando il cielo è di un altro pianeta) e, infine, il richiamo alla stagione sui valichi.

Al sogno che unisce aria e terra, all’immagine che non muore nel tempo, fino alla giovinezza furtiva dell’amore e dei cieli d’estate, la scrittura si destina indelebilmente: «Ancona metallo dal cielo all’aria / sulle mura lunghe / sulla volta del primo arco / in controluce / con la ragazza dallo spolverino color panna / avviata seducendo il passo / nella scia di un profumo francese. / Giovane che segue il vento di mare / che appare nel pomeriggio in un autoritratto / tra il biancore e il buio taciturni. / Solitaria che accompagna il suo umore / non sa dove / e appare impenetrabile / tra le ombre umide / vista da dietro / fino al riflesso dello specchietto / e ancora più in là».

In questi accumuli di note e vita di “caproniana” caccia, l’orizzonte di Moscè si rivolge all’esserci, al cuore profondo delle città, all’incanto nudo di Fazzini, a ciò che si oppone alla morte, come l’aria illividita della pioggia che si apre ai sussurri.

Poesia nascente, si direbbe, ossia a che fare a chi resiste nascendo, a chi si porge e si rivela nascendo (qui il mare del Conero balugina in ogni sillaba e in ogni cadenza di luce), nonostante la mancanza, il dolore, la malattia a quattordici anni, trasfigurata in una vita nova di eroi (Chinaglia) e le lacerazioni.

Nei Dialoghi con mio padre, susseguenti alla raccolta, edita da Aragno, La vestaglia del padre, la poesia dialogica e filiale scrive la sceneggiatura sempiterna di una soglia che diventa sguardo su Dio, domanda di eterno, possibilità umana di bellezza e abbraccio senza fine.

Nella sua dettagliata sospensione, Moscè offre epiche crepe, attese ricoperte di memoria e rinvii, silenzi che sono parole di ombra e polvere.

 

 

Le rune di George Mackay Brown

di Andrea Galgano

3 ottobre 2023

Le rune di George Mackay Brown

Tra le voci più potenti e originali del secondo Novecento, il poeta scozzese George Mackay Brown (1921-1996) di Orkney, patria e territorio della sua poesia, concentra il tumulto remoto e selvaggio della terra, con l’alternarsi di luce e ombra, in un tempo di scissione e vicinanza, di moto e silenzio. E poi di liturgia quotidiana e di luce perpetua che sembrano giungere da un solco antico, come dalle freschezze di Hopkins, dai moti vertiginosi di Dylan Thomas e dalle ispessite malinconie di Yeats[1]: «Avere inciso sulle giornate della nostra vanità / Un sole / Una nave / Una stella / Una spiga / Anche qualche segno / da un tempo antico, scordato / che un bimbo possa leggere / Che non lontano dalla pietra / un pozzo / si possa aprire per i viandanti / Ecco un lavoro per i poeti – / incidere le rune / poi accettare il silenzio».

Grazie alla casa editrice Interno Poesia, una selezione delle migliori liriche di Brown, dal titolo Incidere le rune[2], curato da Giorgia Sensi, con la prefazione di Kathleen Jamie, già responsabile dell’edizione inglese del 2021 e tradotta per la prima volta in italiano.

Il lavoro dei pescatori e dei contadini, il mondo primordiale di Stromness, la vaga indeterminatezza e originalità simbolica[3], il senso di limite, le stagioni e la tensione metafisica verso l’ultimità lontana trasformano «ogni cosa facendola passare attraverso la cruna d’ago delle Orcadi», come scrive Seamus Heaney.

Kathleen Jamie afferma:

«Il suo orecchio per la lingua era apparso evidente fin dall’inizio, ma nel corso degli anni impiegò e padroneggiò nuove forme poetiche, e approfondì i propri contenuti. La sua voce di scrittore è calda, ricca e drammatica. Non impiegò una ‘voce speciale’ per la poesia; lo stesso tessuto di suono è presente in tutto ciò che scrisse: romanzi, lettere, testi teatrali. Quanto alla poesia, scrisse ballate (amava le ballate scozzesi, le loro storie veloci, feudali, determinate dal fato); sonetti, come ‘Hamnavoe Market’. Aveva un orecchio perfetto per il ritmo del verso libero, eppure era capace di ideare i propri complessi schemi rimici. […] ‘Cantare’ è una parola che Brown usa spesso, ma ‘danzare’ potrebbe meglio descrivere il modo in cui utilizzava la lingua. Il suo ricco mondo lirico è una danza a più mani, nella quale è coinvolta un’intera comunità sonora; le sue poesie sono come danze popolari scozzesi o ‘ strathpeys’, dove nessuno è escluso».[4]

L’accessibilità essenziale non toglie l’acume metafisico della sua opera, laddove la poesia ha il compito di fare i conti con il Destino e il Tempo, il Caso e la Mortalità, che si intessono del dramma quotidiano, della brevità umbratile dell’essere e della costruzione del tempo.

La poesia di Brown è ricolma di un inseguimento di scena: guardare al tempio del reale, a chi semina, alle stelle e ai fuochi che scintillano. Nel suo drappo, la pagina si popola di temi e immagini che diventano universali, la cui traccia orcadica diviene come un sacramento di sogno ed eternità, lontananza ombrosa: «Non si mormori invano qui. / Tra quelle grosse scogliere rosse, / sotto quel grande cielo mite / resta l’ultimo incantesimo di Orkney, / segreta valle di luce. / Dolcezza che scende dalle nuvole, / canti dal mare impetuoso. / campi sconfinati, pescatori con aratri / e vecchi eroi, che dormono per sempre / nelle benevoli colline di Rackwick».

La sua enunciazione spazio-temporale, la penombra descrittiva, il ricordo, le pause di sentenza onirica raccontano il grido vagabondo e tellurico del cuore, che si concede come un bordo, un’esclamazione di prosa e un segno vivace e doloroso di silenzio: «Sotto l’ultima lampada spenta, / rientrati tutti i danzatori e le maschere, / il suo sguardo freddo / ha ripreso il suo vero compito, / interrogare il silenzio».

I volti della sua terra divengono linee universali, dove i segni del tempo, del dolore e della fatica compaiono come violini luminosi, allorquando il senso del limite e della finitudine, «il vento che infuria come ala d’angelo» in un peschereccio squarciato, la febbre umana sentono il peso di una oscillazione e di uno strappo:

«Finalmente, la casa d’inverno. Trovi / sul davanzale / un prezioso arabesco di ghiaccio, un fiocco di neve. / Apri una porta buia. Sbattuta dal vento, / una falena dorata! Poi / una fiamma di candela, alta e tranquilla. / È una casa amara. Sulla soglia / gli uccelli muoiono di fame. / L’insegna sopra la porta è sbiadita e contorta. / Dentro una camera, guarda / un ramo brullo, spinoso. / Aspetta. Si schiude una gemma: una rosa bianca. / Pensiamo, nel cuore della casa / una tavola è apparecchiata / con caraffa di vino e pane spezzato».

La sua sacra trama (o meglio, forse una co-creazione), dunque, che diviene elegia brunita della realtà, canto per gli amici e per la Scozia. Nel mondo distrutto dal calvinismo, la sua lode si riempie di luce solare[5]. Una poesia-marea, verrebbe da dire, in cui il respiro vitale non si dilegua. Esso è sì tragico ma è ritmo del sangue, acqua impregnata di attese e danza ininterrotta che cerca rifugio:

«Da Equinozio a Ognissanti, l’oscurità / cade come le foglie. / L’albero del sole è spoglio. / Sul telaio dell’inverno, le ombre / si raccolgono in un ordito; poi / la spola di Santa Lucia fa / una pausa; una trama scura / riempie il telaio. / Il buio ha la solidità della pietra / che sbarra una tomba. / Nessuna luce di stella là. / Poi inizia la vera cerimonia / del sole, quando l’ultima / fugace fiamma del solstizio / è ripresa da / una candela a mezzanotte. / I bimbi cantano sotto un lampione / stradale, le loro voci come / foglie di luce».

In questo canto che abbranca l’eternità come testimoniato dal fulgido esempio di san Magnus, patrono delle Orcadi, gli orli di George Mackay Brown rilasciano la loro esattezza trasparente, come un’avanguardia di incanto e di ansito remoto.

 

George Mackay Brown, Incidere le rune, a cura di Giorgia Sensi, prefazione di Kathleen Jamie, Interno Poesia, pp.164, Euro 15.

Light from the Orkneys: Edwin Muir and George Mackay Brown, Rt Rev Lord Harries of Pentregarth, (Public Lecture given at Gresham College, 5 February 2009).

Bold A., George Mackay Brown, The ‘Modern Writers’ Series, Barnes & Nobles 1978.

Brown G. M., Incidere le rune, a cura di Giorgia Sensi, prefazione di Kathleen Jamie, Interno Poesia, Latiano (Br) 2023.

Fumagalli L., “Incidere le rune”: le migliori poesie di George Mackay Brown finalmente tradotte in italiano, (https://www.radiospada.org/2023/09/novita-in-libreria-incidere-le-rune-le-migliori-poesie-di-george-mackay-brown-finalmente-tradotte-in-italiano/), 24 settembre 2023.

[1] Bold A., George Mackay Brown, The ‘Modern Writers’ Series, Barnes & Nobles 1978.

[2] Brown G. M., Incidere le rune, a cura di Giorgia Sensi, prefazione di Kathleen Jamie, Interno Poesia, Latiano (Br) 2023.

[3] Fumagalli L., “Incidere le rune”: le migliori poesie di George Mackay Brown finalmente tradotte in italiano, (https://www.radiospada.org/2023/09/novita-in-libreria-incidere-le-rune-le-migliori-poesie-di-george-mackay-brown-finalmente-tradotte-in-italiano/), 24 settembre 2023.

[4] Jamie K., Prefazione, in Brown G. M., cit., p.8.

[5] In Light from the Orkneys: Edwin Muir and George Mackay Brown, Rt Rev Lord Harries of Pentregarth, (Public Lecture given at Gresham College, 5 February 2009).

Rosa Salvia e la memoria del mondo

di Andrea Galgano

5 settembre 2023

La scrittura non svela, porta dentro il suo grembo l’attenta vertigine dell’enigma e la febbre remota dell’invito: un andirivieni, una soglia, un cielo aperto all’improvviso.

Il libro di Rosa Salvia, In questo mondo e accanto, pubblicato da Edizioni Esemble, con la prefazione di Augusto Pivanti, restituisce un doppio movimento di condizione che affiora nella cifra primigenia di un dono, come afferma Pivanti:

«Raramente si attribuisce a questa condizione un valore di generosità, essendo più portati a ritenere che un autore pubblichi per soddisfare la propria vanità: in Rosa si coglie invece la dimensione del dono, questo suo scrivere per sé ma anche per gli altri, dall’invito alla dimensione orante: “Bisogna che io impari a vivere / di nuovo, svolgendo avvolgendo / la fascia bianca della preghiera la nostra Madre eterna // per rimanere come un’età che / non ha nome: umana fra le umane / debolezze, e pur vivente di Maria / soltanto e solo in lei bambina”, alla nostalgia vissuta come elemento rassicurante e benevolente del ritrovare e del ritrovarsi: “una / foto in cornice misura del tempo / ambiguità e confini, […] dove i colori virano, punto per punto, / allegri come bambini ancora svegli / allo scoccare della mezzanotte”, ma anche come affannata confessione dell’io che si bilancia fra accoramento elegiaco e pacata riflessività.».

Tale dimensione orante sembra provenire in zone remote, in ritrovamenti e recuperi, in un frantume familiare che diviene albore elegiaco, verso cose e persone, luoghi e sé stessa.  La potenza evocativa delle sue liriche si attesta così in questa erotta emersione che sovrasta, si appropria di un tempo perduto e concilia opposti e situazioni. Vicino e accanto nel mondo e del mondo: «Da uno sguardo cangiante / tentare di continuare / il proprio tempo, / al di qua dell’orizzonte, / verso il tu che ti aspetta – / e scambiare un granello di sabbia / per un seme di pienezza, / contro finestre sorde / che non odono il sangue sgorgare dal buio».

Una benedizione, una sovraincisione, come la neve, che entra nella pagina, disvelando le tracce, riprendendosi il tempo, superando ogni passaggio transitorio: «Sono la curva stanca della luna – / anno per anno, entro di me, mutai / volto e sostanza, il palmo segnato / da tutte le mie morti. / Ma la neve copre le cesoie del / tempo, il tintinnio del dubbio, / e le tracce chissà dove nel nulla. / Bisogna che io impari a vivere / di nuovo, svolgendo avvolgendo / la fascia bianca della preghiera a nostra Madre eterna / per rimanere come un’età che / non ha nome: umana fra le umane / debolezze, e pur vivente di Maria / soltanto e solo in lei bambina».

O ancora la presenza della luce vela e rivela ogni spigolo: «Anche nel rifugio dei miei spigoli / la tua voce mi raggiunge sempre, / la mia ansia placando, con i modi / invisibili del cuore, lontano dal gioco / delle parti. Che entrino sempre in noi / la notte e il giorno, l’odore della neve, / il caldo dell’aurora, qualcosa di / preciso, fatto d’acciaio o d’altro, che / abbia azzurre luci – come se / esistessimo.»

La linea lucente e nevosa richiama sia la levità e sia l’abbondanza dettagliata di ciò che non muore, orienta la strana “buità” dei bordi, richiamando qualcosa che non regredisce nella pura rievocazione ma diviene sostrato cartografico di un io alla ricerca e all’inseguimento del tempo: «In questo mondo e accanto / un ronzio incerto, ineguale, / offerto in dono dalla cenere – / la sensazione che tutto è sogno, / mentre lo sguardo si abitua alla notte – / gravita all’interno – / nel crepuscolo dei fiori, dei frutti, / si abbandona – / Come sa fare la farfalla bianca».

Ed ecco che la scrittura diviene conservazione e disegno, ricerca del centro nel grido sfumato e nel tentativo di mantenere la memoria presente del mondo, fino a percepire la paurosa vastità della fine, della ferita e dell’agnizione come un silenzio: «Sempre una ferita ricorda la vita / e ogni nascita proviene dal suo antro, / si frantuma nel mio scrivere, / compagno di ogni mio sentiero, / asta d’appoggio del mio sguardo, / con numeri e simboli che mutano / come mutano gli specchi, fra cripte, / schegge di luce e migrazioni d’uccelli, / fino a che il mio nodo di marmo si / sciolga, non con uno strappo, ma con / un silenzio, come a settembre le cicale / si quietano, fra arsure che vanno / allentandosi e la luce stessa ricade, / rotta dal proprio peso».

La memoria è inquietudine di senso, mancanza e offerta d’amore: «Il centro ora parte da me – / in quell’esatto bruciare / imparare che tutto è sentire / con l’albero, la pietra, / il grido, le parole, il primo sogno, / il tu, il noi, / e persino la morte. / Il mio centro è fatto di tronchi, / li ho tagliati io stessa / e sistemati uno sull’altro / dove tutto è in evidenza sulla neve, / in un garbuglio sospeso / tra dolore e grazia. / Il mio centro disegna i suoi nodi di presenza / sempre uguale a sé stesso e uguale mai / con il suo amore accattone, disperato, / sacro come lo strillo di un bambino».

Nei suoi orizzonti, Rosa Savia compone distanze scagliate e ombre, nel silenzio scandaglia gli elementi in lotta «nel terreno fragile di un continuo esordio», come una salvezza, un’impronta, una confessione di sillabate distanze e smottamenti, che richiedono cose in controluce, lasciate imbrunire in preghiera, senza reciderle.

Rosa Salvia, In questo mondo e accanto, Edizioni Enseble 2023.

La limpida luce di Ezio Settembri – Nota

di Andrea Galgano

30 agosto 2023

D’altra luce di Ezio Settembri, pubblicato da Pequod, dona un ritrovamento di tempo come salvazione e, come afferma Giancarlo Sissa, nella prefazione: «è la sua una scrittura in versi colta e umile al tempo stesso […] attentissima alle possibilità del dialogo intertestuale con scrittori e poeti importanti della tradizione italiana e marchigiana – dall’amato e compianto Francesco Scarabicchi a Ferruccio Benzoni, da Vasco Pratolini a Guido Garufi a Sandro Penna e altri – poeti tutti letti e studiati par coeur con lucida passione e la cui comune lezione di limpida esposizione del dato umano sia storico che autobiografico sa qui concertarsi in una compiuta rapsodia di ritratti, istanti, miraggi».

Il respiro lieve si accompagna alla sicura destinazione del sangue, in cui il tempo d’anima, per usare un lessema di Sissa, apre una vastità di piano e di bellezza. Le figure genitoriali, i volti cari, gli accenti familiari divengono sipario e preludio di un attraversamento di stanze, di una limpidezza accentuata che riporta il mito, la stanza, la colta libertà di un piano a farsi penombra, in cui guardare le cose, riappropriarsene, varcarle.

L’altra luce esprime, dapprima, una provenienza e un’appartenenza, allo stesso tempo, che non solo rappresentazione memoriale dell’io ma cammino di «zolle fraterne».

Le incrinature paterne attingono a un’immersione nella ferialità del ricordo, nel fresco sorriso, nel guado di una sproporzione di incanto, con il cuore lieto: «Sogni e ricordi / dalla campagna / hanno la stessa materia, / abbiamo gli stessi panni vecchi / per sporcarci di terra / e dare acqua ai vasi. / Nient’altro che / gironzolare sul prato e / gustarci il sole».

È un moto onirico che ritorna alla sua stoffa per tagliare l’assenza, stonare le terre desolate, le sparizioni segrete e la durata del dolore: «Posso ritrovarti / nei mille volti che incrocio / ogni giorno, / l’euforia contagiosa, / un dopobarba troppo forte / per la mia pelle bambina. / Ma la voce che riempiva le stanze? / Ti rivedo al tavolo del Tresette / con “Gli animali”. / Sono tue le mie bestemmie / contro il televisore, / il gol fallito. / È fraterno al mio / il tuo dolore / il giorno del mio compleanno».

I dettagli e le inserzioni degli istanti racchiudono intensità che procedono come per abbagli, detriti di ombra, segni sul tempo che fracassano l’aria, come se si ripercuotessero sul presente, divenendo l’abbraccio e la carezza di un affetto spietato.

Poi la figura materna. Settembri non si appropria di un lessico familiare per riscriverlo. Egli condensa vicinanze nel respiro, nella pazienza dell’abbandono, nel dramma crudele dell’assenza, come un silenzio, un’attesa generosa, una mancanza di altura che si fa erranza: «Appoggiavo spesso la testa / sulle tue braccia scoperte, / anche da grande, / abbandonato come un infante. / Con non altri che te / era il colloquio, / un tacere di sguardi / prima della partenza. / Mi mancano i tuoi dolci silenzi, / pieni di consapevolezza, / l’attesa leale / del mio turno di parola, / una pazienza invincibile. / Un filo di rediviva tenerezza / mi lega ai compleanni / della mia infanzia, / ora che è notte / e rari lumini affiorano / dal ponte di nebbia».

La declinazione materna affresca sipari antichi, tocca l’inizio e la fine e l’opaca violenza incisa nel cuore. La destinazione familiare e il suo scorcio avvengono per recupero non per sottrazione, dove la sostanziale interezza della pienezza perduta, il fondo chiaro dei giochi, la lotta del tempo assediato destinano le linee dell’io a una gioia elementare.

Il tempo antico è scandito per particolari riversati, visioni, rapidità essenziali che ricamano il vento come lontananze e limpidi chiarori di soglia: «Vorrei lasciare un segno di rimando / di quelle estati interminabili, / scendendo i greppi / che mettono nell’uliveto / ascoltare il vento / modulare la nostalgia / di quelle voci bambine. / Posso sentirle gelare nel sangue, / attraversare il respiro, / penetranti dal buio / farsi luce».

Il grumo della nostalgia è un’apertura, sonda la solitudine, divenendo grafia interiore di uno sguardo e di una bellezza lucente, come una città, l’essere insegnante, una casa, una terra, un pezzo di luce che insegna a concepire silenzi e a diventare prima e unica tenerezza accesa.

Ezio Settembri, D’altra luce, Pequod 2023

Ritratto di un giovane poeta nel tempo primo della sua poesia

di Carmen Cucinotta

Andrea Galgano, Argini, Lepisma Editrice 2012

E di un tempo rimase il tempo / di un tempo di tempo / secondo spogliato di piani / tempi soggioganti / furiosi come cieche fiere mercati / di sale le ore cavalli sulla rena […]”: la prima raccolta poetica di Andrea Galgano, Argini (Lepisma 2012), comincia con il ritmo serrato di versi che cavalcano liberi e furiosi sulla riva del mare, come tempo che scorre, portando con sé tutto il sale della Terra. I versi della poesia iniziale, Tempi, prendono forse avvio dalla lettura che Galgano svolge dei “Quattro quartetti” di T.S. Eliot, poeta modernista che concepisce il tempo come qualcosa di irredimibile, perché in esso confluiscono già tutte le dimensioni: passato, presente e futuro. Il tempo di Andrea, invece, è redento perché “spogliato di piani”, è una narrazione di tempi dei giochi infantili, di desiderio d’amore nelle sceneggiature dell’adolescenza, un tempo che può essere lentamente indossato, come mare che “scheggia i fiumi”, perché dall’oblio della forza corrosiva di esso ci si salva solo con una forza ancora più potente, quella che l’uomo possiede nello spirito. Bisogna rimanere svegli come dice il Vangelo, tenere gli “occhi schiusi come araldi”, ricreando in modo perpetuo la meraviglia divina di cui l’uomo e la natura partecipano insieme. Già nella prima poesia i segni interiori ed esteriori di questo fronte della resistenza sono dati da un sentimento ciclico del tempo, che con l’alternarsi dell’alba e del tramonto rivela l’eterno susseguirsi dei giorni, dalla dimensione onirica dell’uomo che non è fuga dalla realtà, ma fonte generatrice di senso, e soprattutto dal sussurro dei canneti, che per ora è solo ridotto a mera percezione uditiva, ma nella raccolta omonima del 2019, “Non vogliono morire questi canneti”, diventa emblema di questa resistenza cui è chiamata la fragile fibra dell’essere umano.

C’è poi la presenza fondamentale di un “tu femminile”, “albero sul mare/sposa di leggi illeggibili”, un “tu” in relazione generativa con il poeta, come grembo in cui le parole “a ventaglio” del poeta s’incarnano per farsi ontologicamente altro da sé e un altrove. Andrea ha sempre dichiarato che la sua poesia non è mai autoreferenziale, ma creazione attraverso un “tu” capace di aprire nuovi orizzonti possibili per i lettori. Per questo per lui la parola è centrale nella creazione di immagini, idee, e sensazioni che vanno al di là della siepe, come sponde d’oltremare cui aggrapparsi per scongiurare il naufragio. Parole come “argini” che frenano l’entropia del tempo e del caos interiore, il punto d’incontro tra apollineo e dionisiaco.

La prima silloge di poesie di Galgano si può quindi considerare il suo ritratto di artista da giovane, un poeta trentenne con un’educazione sentimentale ed estetica già forte e consolidata nel tempo.

Fin dalle prime poesie è chiara la sua matura visione poetica. In “Poiesi” leggiamo:

Esistono sceneggiature indigene / nel sangue primitivo e innocente / dopo i tigli e i platani vidi luci / come capoversi di cupole estive / scorsi sogni sui ristagni / su cui scivolò la fioritura / nei tagli di vette tra le fiumane / spesi orizzonti come fronti / cinema di chiusi monti / poi rimase un viso di donna / su cui intagliai le mie preghiere / negli acquitrini degli oblii / si annerì l’inchiostro dei diamanti / quando i melograni si svestiranno / mi vedrò nella cruna dell’oro / nel pavimento di una calendula / dove si inoltreranno i nuovi convogli / ruscelli uccelli di una stagione contadina / fisionomie ribelli / di tessuti lunari”. Gli “argini” di Andrea sono parole provenienti da lontano, apparentemente velate di arcano mistero. Provocano straniamento iniziale nelle molteplici combinazioni possibili, ma, sempre incastonate nel loro significato pregnante, rivelano epifanie di una terra primordiale, selvaggia come sangue primitivo e innocente, ma anche luminosa e splendente nell’interazione di piante e di fiori con la luna, il sole, le stelle e i fenomeni atmosferici. Il discorso poetico è un fiume in piena che lascia il suo fertile limo a nutrimento di una lunga e concitata sequenza di fotogrammi interiori.

Il terreno “creso” di questa scrittura fatta a grappoli di parole è seminato di meraviglia e bellezza di cui il poeta è un tramite come un traghettatore universale dell’invisibile. In “Kallias” leggiamo infatti:

“traghettiamo l’invisibile / perché gli accenti di sponda / graffiano le nostre unghie / ma annunciano l’universo / da uno squarcio di croce / sull’apertura delle palpebre”. Il dolore si fa condizione universale e necessaria per noi essere mortali, da attraversare per ritrovare la luce. Il poeta è vittima sacrificale di questa espiazione e si fa tramite per gli altri perché portatore di verità ultime nascoste nel dono della parola, che è “squarcio di croce”, ma anche scavo, scalpello e cesello. Il più delle volte, però, il tocco del poeta è delicato come un pennello che si posa delicatamente sulla tela, impalpabile come una palpebra o una calendula e impercettibile come il fruscìo di un abito di donna che provoca scompiglio nel cuore innamorato.

Galgano si pone più volte in rapporto con la parola nel suo discorso poetico, alla presenza spesso invocata del suo “tu” di donna-grembo e terra d’approdo, che lo aspetta come “voce d’attesa” di novella Penelope.

In “Balaustra di stelle “leggiamo:

ti porto parole / a grappoli d’uva / nelle foci indaco delle frasi / in una minuta spiata di chiome / devo decrittare i tuoi approdi / a te ritorno testimone / onda-metafora e crescente / pergamena inginocchiata alle stelle / linea sottile di firmamento”.

Un “Tu” così splendido, quando si ritrae in marea, da ricordare la Creazione, “l’indice del cielo” di Michelangelo (Neve di mare).

La figura femminile non è mai evanescente, ma corpo tangibile, sensuale fonte del desiderio e tramite verso l’elevazione spirituale:

ti toccano le pagine del mare / ellittiche e naufraghe verso l’Eterno […] ti toccano quelle cose / che ondeggiano perdute / cose sul tuo corpo / sulla sigla dei cascinali” (Ferimento naufrago).

Anche quando l’aura di Petrarca sembra infondersi nei suoi versi, il giovane poeta dimostra che l’amore è più forte della poesia e la donna amata ha “luce d’aria e mirtilli”.

Amare è perdersi e ritrovarsi nella fusione di corpo e anima: “vago in te / lo scoglio appartato / in cui l’amore pellegrino / contempla i frattali dell’edera” (Voce di attesa), “nella seta del respiro / accade il tuo essere nel mio / orlo di madreperla / nel mio vermiglio tepore” (Ferimento naufrago).

Ma amare è condizione necessaria per ricevere l’investitura poetica: “amare fu bere le sue mani dall’acqua / nei solenni campi di fragole / nell’imbrunire trasudato / il suo nudo rado / scoperchiava il sorriso / narciso avviso di paradiso” (Odori di eclissi).

Amare significa anche provare pietà, tenerezza e nostalgia per i cuori puri che ci abbandonano. Andrea è “uomo di pena” di ungarettiana memoria e dedica una poesia a Francesco Nuti, ancora vivente, ma già sofferente. Di lui esalta lo sguardo, così dolce e malinconico nei suoi indimenticabili film: “occhi in ginocchio / dischiusi sul buio”, ma anche così vivaci per uno spirito geniale e purtroppo spesso incompreso: “ti vedono i tuoi occhi accesi / biliardo di onde / dove ho visto la tua luna / nei gelsi delle cascine” (A Francesco Nuti).

La poesia per Andrea diventa un luogo dell’oltre per ritrovare tutte le persone che ci hanno lasciato e per instaurare con loro un dialogo perpetuo. Succede così che alla morte di Lucio Dalla, egli non esita a fermare le immagini che sempre si porterà nel suo cuore: “Sussurrami ora / i cani che annusano la sera / le mani dell’estate e delle isole / e le strade che si sollevano / come quando respira / la radura della luna / tra le stelle” (Il fresco delle stelle).

L’argine è anche questo: creare terrapieni di vita contro la morte.

E alla fine di questo discorso poetico sembra quasi di vedere l’ultimo e meraviglioso argine che Andrea Galgano costruisce prima di congedarsi:

risalirti nelle superfici,

non fare in tempo

ansiosa di risplendere

nella coltura, nella dismisura

che irretisce le norme del mondo

 

 Il congedo è grazia acerba.

(Notturna acerba grazia)

Un omaggio a Francesco Nuti inaugura il Seminario Residenziale “Psicoanalisi e Cinema Contemporaneo” alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato-Padova

Comunicato Stampa

Un omaggio a Francesco Nuti inaugura il Seminario Residenziale “Psicoanalisi e Cinema Contemporaneo” alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato-Padova.

La Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato-Padova è lieta di annunciare l’apertura del suo atteso Seminario Residenziale “Psicoanalisi e Cinema Contemporaneo”, con un omaggio speciale a uno dei grandi autori del cinema italiano, Francesco Nuti. L’evento si svolgerà presso la sede in Via Giotto, 49 a Prato, e si protrarrà per tre giorni consecutivi, dal 13 al 15 luglio e prevederà anche due retrospettive su Dino Risi e Man Ray.

La cinematografia di Nuti, passando dalla commedia al drammatico, ha avuto come centro sempre le donne e gli uomini, approfondendone i tratti psicologici con profondità, poesia, estrema originalità e conoscenza dell’umano. L’omaggio a Nuti, a partire dal film “Stregati” (1986), sarà un’occasione per celebrare il suo contributo artistico e per approfondire le dinamiche psicoanalitiche presenti nelle sue opere cinematografiche.

Secondo Andrea Galgano, Direttore Umanistico della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm: “La grande capacità di Nuti è incastonare dentro di sé la dimensione artistica luminosa del sorriso e della battuta alla condizione lunare della malinconia e del dramma del quotidiano, scavando nella profondità di personaggi tutt’altro che banali”.

Un omaggio doveroso alla sua arte imprescindibile all’interno del seminario tematico residenziale che è il modulo formativo di punta della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm Prato-Padova, a matrice squisitamente psicodinamica, di ricerca e sviluppo di temi psicoanalitici e psicoterapici.

Il seminario del 2023 ha, infatti, per oggetto il rapporto, intriso di reciprocità, tra Cinema Contemporaneo e Psicoanalisi, perché come affermava Francesco Nuti: “La creatività è l’arma segreta per affrontare le difficoltà della vita” ed è proprio attraverso l’analisi dell’arte che possiamo conoscere appieno l’animo umano.

I partecipanti, Allievi e Tirocinanti dell’Istituto, organizzati in gruppi e aule dedicate, producono un elaborato critico “di gruppo” relativo ad un’opera proposta, con la guida costante dei docenti, che può contemplare anche linguaggi espressivi multimediali, psicodrammatici o letterari, volti a cogliere i collegamenti e i contenuti psicoanalitici evocati dal film.

Il Direttore della Scuola, Dott.ssa Irene Battaglini, coadiuvata dal comitato scientifico, formato da Andrea Galgano, Federico De Caroli e Francesco Pollastri concluderà i lavori di ogni singola giornata con una restituzione psicoanalitica finale dell’esperienza del Seminario Residenziale.

Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, via Giotto 49, Prato

www.scuoladipsicoterapiaerichfromm.it

segreteria@polopsicodinamiche.com

0574/ 603222

Referente: dott. Alessandro Campidori 342/ 0441653

Maria Rosaria Macchia. L’origine della trasparenza

di Andrea Galgano 15 giugno 2023

Leggere la poesia di Maria Rosaria Macchia è un’esperienza di trasparenza. Scorrendo il suo primo libro di poesia, Giro di cuore, appena edito da Laurita Edizioni, a cura di Gianfranco Blasi, la chiarità rappresenta non solo una caratteristica di sguardo ma una radice epistemologica che diviene origine vitale, battesimo e genesi d’amore.

Gianfranco Blasi, nella prefazione, scrive: «Nelle poesie d’amore la vita assume un senso, un signi­ficato solo se può dimostrare affetto e passione. Se può stornare sentimenti vitali. È l’amore a rendere la vita vera. Maria Rosaria Macchia […] osserva e fotografa. Eppure abbiamo in comune un’idea romantica dell’amore. Lei con più pu­dore e un pizzico di candore che la rende così trasparente da plasmare una poetica che sublima le sensazioni, ispira le pulsioni del cuore fino a offrire un autentico abbraccio al mondo. Non c’è ingenuità nel suo approccio alla sorgente delle parole. C’è verità, totale e pura libertà di esprimersi».

Questi due epicentri rispecchiano la forza della sua poesia che si presenta come essenziale, basica nella struttura ma che porge una limpidezza percettiva, una tensione mai oscura e un desiderio che entrano nel territorio della visione, portando all’estremo le domande elementari, che quando toccano la luce non si discostano e non si ritraggono ma vivono libere e sperdute. L’essenziale non è solo invisibile agli occhi. Per il poeta è così ma non solo. Perché egli cerca i segni dell’essere, i dati della realtà, la vertigine cromata del dolore e il lungo magma della gioia. A partire già da quel che si vede e poi, oltre, fino alle segrete trame dell’invisibile. Qui Maria Rosaria Macchia dispone i suoi segni, lambendo lo spazio elementare delle cose attraverso lo stupore, la bellezza e la polita nitidezza degli occhi di aurora.

Pertanto, entra nella fioritura delle cose, non sminuendone la grazia e non ponendo l’autoreferenzialità egoica di certa poesia contemporanea, bensì come dono all’altro, affermato e amato, proprio nel suo essere. Unendo, così, colore e aria insieme: «Rosso / Come le ciliegie di giugno. / Il fuoco, la rosa. / Passione e timidezza. / Come il cuore, il sole. / Alba e tramonto. / Come un bacio / di papaveri / nel blu».

La poesia annota sulla pelle luce d’azzurro che impara dal cielo («Ho imparato dal cielo. / Tutto passa, / come le nuvole / sull’azzurro»), appunta i movimenti del cuore caldo e pulsante e il silenzio che anticipa ciò che sboccia.

La dolcezza dell’istante diviene scarto elementare e apparizione del reale. Pertanto, entrare nelle aperture del cuore è come mappare, sorvolare e lasciarsi stupire: «La tela d’oro / dell’estate / si arrotola / sulle notti profumate / di mare e gelsomino. / Ora / tra le brume / un sole delicato / si accende / e fa promesse».

Questo cortocircuito di sensi avviene sia attraverso la rievocazione e sia grazie a una poesia che sembra un biglietto di memorie e non di distanze. Essa insegue il destino dell’amore, divenendo coscienza e presenza delle cose.

In tale apertura vi è tutta la pulizia della parola in movimento, la semina lessicale, il cuore e le sue insidie, che riesce a riportare la sua terra alla sua genesi primaria, all’asciutta esattezza di ciò che è e, infine, all’indocile brevità di chi si mette al servizio della realtà, per farla risplendere in una densità infinita.

 

La freccia di Mary Jean Chan

di Andrea Galgano 18 aprile  2023

Nel linguaggio degli schermidori, la flèche (la freccia) indica la frecciata, un’azione di attacco che si compie con sbilanciamento del busto, fino al disequilibrio e allo smorzamento del corpo, per toccare l’avversario.

Con questo lessema, Mary Jean Chan, nata e cresciuta ad Hong Kong e che ora vive ad Oxford, dove è Senior Lecturer di Scrittura Creativa (Poesia) alla Oxford Brooks University e supervisor dei Masters in Creative Writing all’Università di Oxford, restituisce il territorio della sua poesia, attraverso la pubblicazione di Flèche, appunto, edito da Interno Poesia, a cura di Giorgia Sensi.

La parata, la risposta, il corpo a corpo, l’affondo sono il punto germinativo di questa poesia, che gioca su vari registri, dal gioco innumere di parola al tocco e relazione verso l’altro, alla carne, al suono del desiderio e dell’accettazione sessuale.

Mary Jean Chan amplia il gesto poetico, innervando il suo lirismo verso una stoccata di gioia e desiderio, di comprensione e di amore, come fulcro vitale di tempo, verso ciò che nasce nella carne e nella stessa carne si rivela, come afferma Giorgia Sensi nella prefazione:

«Amore innanzi tutto per la sua famiglia – alla quale è dedicato – che è stata vittima del terrore della rivoluzione culturale cinese e delle sue Guardie Rosse e amore per la madre, che di quel terrore porta ancora i segni. Sono numerose nella raccolta le poesie sulla madre e sul difficile rapporto madre figlia a causa della ‘queerness’ e delle scelte ‘romantiche’ di quest’ultima, fortemente disapprovate dall’intera famiglia, compresa la nonna alla quale Chan dedica una poesia dal titolo ‘Alla nonna che mi scambiò per un ragazzo’» (pp. 5-6).

L’aspetto familiare ritorna nei segni dell’infanzia, attraverso il detrito memoriale fiabesco, il rapporto figurativo tra la realtà e i volti cari, come la balia che crebbe sua madre, ad esempio, in cui il senso generativo della maternità si accompagna al dolore e alla perdita.

Il battesimo della parola è segnato da un fuoco originario che è storia intrecciata alla scaglia temporale e allo zenith del materno («Tu sei sempre dove io comincio»), alla spoliazione delle maschere, alla lingua che trasforma il trauma e all’identità irrisolta.

La scherma avvicina al desiderio perché parte da una tensione interiore e si rivolge all’aria, alla meta, al petto delle cose. Ciò non toglie i lividi, l’oscurità sommersa e balbuziente, fino alla fioritura del dolore: «Spesso, mi restava un livido: la punta della lama rimbalzava / dall’imbottitura alla pelle. Tutte le volte sentivo gialle / fioriture di dolore dove la ragazza che mi sembrava bellissima / mi aveva trafitto il cuore. Ore dopo, mi sarei trasformata. / Mi sarei diretta verso casa con un profondo / senso di timore, i miei lividi affievoliti».

Il dramma della poesia è che nasce non solo dalla libertà e dall’avvenimento, ma porta dentro questa trafittura ed è lì che diviene gesto commosso, lingua che deve pronunciare il mondo per vivere, voce come corpo che parla. Qui la sillaba di Mary Jean Chan si fa ferita e luminosa presenza, sogno e desiderio di magnolie come il cielo che aveva il colore di nocche sbiancate.

Perlustrare gli spazi sicuri, scrivere lettere di fantasia, percorrere furiose pazienze come avamposti dell’io, vivere le terre della rabbia, del suono, del diniego, della profondità oscura, come se si sbalzasse il tempo e lo specchio, cercare la pura gioia, la fecondità di ciò che permette di stare al mondo: ciò permette la sua finestra aperta in attesa di grazia fertile, di una propria calligrafia che è lacrima partoriente e foglia di tè: «Le dita si immergono / di nuovo, scivolano, si alzano. / Non sono una ballerina, ma questa è / una danza. Le ore tracimano in / una teiera di foglie di tè mentre / mia madre dice: / Vedi, i caratteri cinesi sono / girasoli che cercano gli occhi. / Semi di inchiostro si srotolano / d’un tratto dal tuo polso, / e sbocciano nel tempo -».

L’uso ampio di ogni possibilità formale e letteraria, oltre che lessicale, porge la potenza della propria ricerca, fino ai disequilibri di versi, alla punteggiatura come una strana ellissi di significante e significato, ai segni e ai suoni quasi come pollini.

Pertanto, le lettere si dispongono come frecce lontane, tentano di raggiungere la nominazione, la sillabazione delle cose, passando per una guerra culturale, uno zodiaco sommerso, una cifra franta di istante e un grido lieve.

Il tempo della poesia qui raggiunge la verticalità del respiro. Anche lo stesso problema dell’identità taciuta, dolorosa e lacerata diviene la vertigine ombrosa di libertà intensa, che permane in ogni lacerto che qui emerge come lunga distanza, scissione, confine: «se voi adesso guardaste dentro di me, vedreste / che le mie lingue sono come una radice / contorta nel terreno, una e indivisibile, / solo che il mondo mi divide in continuazione / certi giorni non oso guardare gli alberi / sono delle creature così piene di speranza / se i legislatori di questo mondo / si facessero consigliare dagli alberi / riconsidererebbero tutto? / di recente ho cercato di scrivere / una poesia che desse vita a un albero / una vera accettazione dell’io / continua a sfuggirmi».

Nella doglianza delle sue giunture, come scrive in un testo scarnificato e indocile, Chan dona il suo sguardo libero sul mondo, la lingua del respiro, la sua luce improvvisa.

Chan M.J., Flèche. Poesia della scherma, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2023, pp.176, Euro 15.

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini