Oreste Lo Pomo, a ragione, quando parlando della visionaria e fulminea poesia di Beatrice Viggiani afferma, da un lato, l’importanza del «racconto di una elegia con l’alfa privativa il cui risultato è il rifiorire di una stagione dei ricordi e degli affetti senza gli stereotipi che spesso li accompagna e l’approccio di “contrattazione e razionalità”, dall’altro della poesia del mondo, che appartiene al mondo, non già di due mondi, come spesso la critica sostiene.
I poeti abitano i mondi dell’indicibile, dell’invisibile e del visibile, sostengono la fisica della realtà, ricercano l’essenziale, che è il mistero che solca segni, visioni, cifre e smottamenti dell’anima: «L’acqua era pura come il cielo / e la stella lasciò segni / dove ti fermasti amore / stringesti i miei capezzoli / turbasti la mia virtù e il mio sangue / per poi spegnerti come candela / e raddoppiare / il circolo implacabile / della solitudine».
O ancora: «e noi / avvolti in nastri lucenti / infinitamente dolci, / continuiamo a baciarci. / L’aroma indefinibile / della vita / aggrediva il tempo. / Avevamo affittato / il castello dell’amore eterno, / a scadenza fissa / e senza cedimento».
La raccolta postuma di Beatrice Viggiani, 41[1], edita da Universosud, riporta un tempo inedito, un’alterità ultima, viva come la coltre del linguaggio, che sembra sospendersi, abbracciando le linfe che sostengono il suo habitus poematico, la sua spaesante potenza di inizi, il ritorno delle cose.
Lo Pomo scrive:
«[…] superando gli steccati del provincialismo poetico, non ha dimenticato le radici culturali della sua terra d’origine, la Basilicata, ma le ha sparse come cenere al vento dovunque è andata e lei stessa si è confusa con il vento, trasportando in esso il senso profondo dell’appartenenza senza incorrere nella retorica della ghettizzazione territoriale mal sopportata da quelli che sono stati definiti i poeti della diaspora, proprio perché nel volersi e – nella maggio parte dei casi – doversi allontanare dalla Basilicata, senza dimenticare le fonti dell’ispirazione, non sono stati sopraffatti dallo stucchevole rito della celebrazione a tutti i costi».[2] (p.7).
Giampaolo D’Andrea, nella postfazione, ricorda:
«La nostra poetessa, vissuta e formatasi tra Napoli e la Basilicata, a Potenza, tra la fine degli anni 50 e i primi anni 60, stabilì un rapporto intenso con gli artisti, gli scrittori e i poeti che si ritrovavano, abitualmente, nella piccola libreria Riviello (nel tratto finale della centralissima via Pretoria prossimo a Portasalza) a parlare di cultura e di politica, a leggere Scotellaro, Levi e Olivetti, a sognare, a progettare, a cominciare a scrivere e pubblicare, come capitò anche a lei già nel’62, a quattro mani con Tuccino Riviello».[3]
Beatrice Viggiani insegue l’oltre-confine dell’arte, come rivela in quella intervista di identità e rilievo, concessa a Leonardo Pisani, nell’occasione della riedizione di 53, scritto con Vito Riviello, a cura di Giulia Ughetta e Maria Isabel Gouverneur. Nella sua sproporzionata lontananza, sente le radici dell’appartenenza e delle origini (o meglio del sogno delle origini), e se di diaspora si tratta, essa diviene l’inizio di uno spostamento di suono, una torsione delle possibilità linguistiche, che partendo dalla perfetta fusione di idioma e realtà, lessico e dinamica narrativa, tendono a offrire il sorgivo dischiudersi dello sguardo:
«Napoli non si afferra dal cielo / e nemmeno dalla terra. / Napoli eccentrica obliqua / marina, / disfandosi. / Napoli non si sa. / Napoli piena di spettri ufficiosi / leggeri come morti. / Napoli di promesse e addii / di tiepidi tegoli / di argille rosse e gialle. / Napoli azzurra e scintillante / che ride alto / anche sulla sua agonia, / Napoli dove i fratelli ci sfioravamo i piedi nudi, / e quando passava il pipistrello, / zittivamo».
In poesia non esistono le periferie, i margini, i non-luoghi: tutta la realtà è segno, a volte riconosciuto e incontrato, altre volte come un acquerello appena accennato. Il segno dell’esistenza di Beatrice Viggiani è il “problema” dell’esistenza, o meglio, dell’essere, della fine e dell’inizio, del mondo come violenta dolcezza, il tragico lirico e la passione vivificante.
Le sue volute si concedono cromature oniriche, la lingua è leggera (riportando il senso, caro a Valéry, di disposizione e dimora: «Abito il linguaggio / perché / la lingua è leggera / e non pesa come la carne»), dove il paesaggio consegna una disposizione e una rapina di silenzio, il bilico di una trasparenza: l’amore, la luce vettoriale, la frattura indefinibile dell’anima, le stagioni partorienti della pioggia.
E poi le città, che in Beatrice Viggiani, diventano quello che Milosz chiamava «fodera del mondo», le illusioni di un possibile dissetamento:
«In città incandescenti / seppellimmo ghiacci. / Ci prese un lungo tempo, / quasi una vita. / e adesso che ci siamo perduti, / pietre preziose, / sappiamo che non ci siamo avuti, / spine e rose. / Né stavamo / al fondo della casa, / che sarebbe bastato attraversarla / per incontrarci, / né per strade. / Sopra tutto nutrimmo l’illusione / che tanta acqua / ci avrebbe dissetati».
In questa poesia, luminosa e umbratile, l’assetto dei segni lascia immensità duali, case di cedro e sandalo, dove emergerà l’eterno delle totalità degradate di «fucine, giardini, peccati», lo stupore della sproporzione, la terra promessa, il domicilio di nubi e pietre: «Solo una ragnatela di sguardi / difende Villammare / dalla perfezione della luce / in questo tratto di costa / lontana da ogni vilezza / nei cieli affocati / del Mediterraneo. / La dolcezza dell’estate / s’intrufola in caverne / svelate da grotte marine / nei giorni trasparenti / mentre turchesi inattesi / affiorano in mare».
Il posizionamento della controra è una visione in cui la labilità di ogni passaggio e paesaggio in transito copre gli anni e le stagioni («Alla controra deserta e ardente / la costa crespa di cespugli e ibiscus / tra una curva e l’altra / tra una collina e un torrente»), concede il profumo-respiro degli oleandri e dei gelsomini e il cuore è nomade, come Maratea e la sua aperta reticenza di roccia e di mare.
E le sue figure ieratiche, come accadrà nel ritratto di Zietta, sussurro di occhi e terre nuove: «Mentre il cielo ride / vibra nell’aria / un pulviscolo di vuoto / e la realtà / tende a saltare sui sogni / nei ricchi sciali / di mangianza / ventiscata dalla brezza marina / profumata di oleandri e gelsomini».
La ricchezza visiva delle sue tensioni si ammanta nei dettagli, nei segnali della realtà, nelle speranze sognate, dove la superficie delle cose, che assomiglia a un viaggio di orizzonti spaesati, riporta domande elementari, in cui lo splendore venezuelano, che ha assaporato dal 1969 al 2005, ha riposi fosforescenti «di spiaggia calda di destino»: «le tue tempie ondulate / di uccelli e palme / sono diventate le mie tempie, / Venezuela». Anche il bacio dell’amore è nitente nei suoi bagliori chiari.
Beatrice Viggiani ha disegnato l’essere, la nostalgia, il tradimento e il rimpianto, scoprendo la sorvegliata tenerezza di uno scialacquio visionario, una incipiente voluttà di tocco convesso e dedizione al reale.
[1] Viggiani B., 41, Editrice Universosud, Potenza 2022.
[2] Lo Pomo O., Versi nel vento, in Viggiani B., cit.
[3] D’Andrea G., Un’anima, due patrie, in Viggiani B., cit., pp.152-153.