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Julie di Don Robertson

di Emanuele Emma  14 ottobre 2020

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È la voce di un’affidabile bugiarda a guidarci, attraverso una successione cronologica di eventi, nell’intimità di trentasei anni di storia americana, tra catastrofi e rivoluzioni culturali epocali.

Da una domenica pomeriggio di novembre 1938, fredda e leggermente bianca, passando per il paradisiaco 1949, in cui Julie si fidanzò con un ragazzino dal vocabolario frizzante e colorito chiamato Morris Bird III, sino ad arrivare al freddo letto di una clinica sanitaria nel 1974.

“Ciao. Mi chiamo Julie, e come nome, beh, non ha niente che non vada, capite?

Eppure, suona in qualche modo timido, incerto, e perciò preferirei mi avessero chiamata… uhmm…

Julia, se proprio devo essere sincera. O anche … addirittura … signorina Julia.

E il fatto che io confessi una cosa tanto imbarazzante mi rende forse alquanto arrogante o seriosa, o sostenuta? Beh, nel caso, me ne scuso.

Non credo di essere arrogante o seriosa, niente affatto.

E’ solo che sono sempre un po’ con la testa fra le nuvole, e insomma non è un difetto che ci possa morire qualcuno, giusto? Non potete condannarmi a morte per questo.

E, sapete, a pensarci bene, non mi dispiacerebbe essere, almeno un po’ arrogante e sostenuta.

Se lo fossi stata, mi sarei risparmiata parecchi imbarazzi e dispiaceri.

E non c’è niente di sbagliato nel volersi risparmiare imbarazzi e dispiaceri, dico bene?

Senza parlare poi del dolore. Oh, ma non credo che al Padre eterno freghi tanto di cosa mi piaccia o non mi piaccia, se ne infischia delle mie preferenze ed è sempre stato così.

La verità è che, credo, ho avuto la mia buona dose di caro, vecchio, maledetto dolore nella vita, e anche di più.

Il mio primissimo ricordo ha a che fare, guarda caso, col dolore, e ricordo tutto quanto fin troppo bene.”

 

Il riverbero del passato luccica nel diario di Julie, oscillando tra il senso di colpa e il sentimento nostalgico di cui la prosa è intarsiata.

Il solenne scrutinio del tempo si rivela essere la capacità appresa di comprendere ed umanizzare situazioni e personaggi che hanno costituito ed alimentato la difficile e timida vita di Julie.

«Io amo più di quanto mi ricordi davvero di aver amato»

Il tono dei ricordi è mutevole, cupo e sincero nel ricostruire i rapporti con la madre e la sua famiglia d’origine, innocuo e all’apparenza inconsistente quando gli eventi del mondo esterno si intersecano nel finto presente di Julie, dolce e nostalgico nei confronti del suo primo e vero amore.

«Guardai i giocatori di baseball, il fitto traffico di East Boulevard, un laghetto con le anatre, un campo da tennis, vecchi che giacevano su panchine verdi cadenti e scheggiate, altre persone anziane che camminavano con i loro grossi e anziani cani, e spiai e ascoltai tutte quelle cose che parevano permanenti ed eterne, e mi dissi che, d’accordo, potevo aspettare; avevo la giovinezza dalla mia parte.

Morris e io avevamo solo quattordici anni, dopotutto era solo soltanto il brillante e perfetto 1949, e il tempo, il dolore, e i pensieri ansiosi non avrebbero mai potuto danneggiare quella brava ragazza quattordicenne e il buon vecchio 1949, non finche’ fossi stata abbastanza tranquilla da vedere e assaporare quei giorni per la loro rapida dolcezza senza fiato».

Julie ripercorre la propria esistenza scavando nei recessi di quelle piccole e incontrovertibili ferite quotidiane che si trasformano man mano in bugie per sopravvivere.

Bugie e rapporti umani ostacolati, oppure basati su vicissitudini personali, costituiscono il portamento del sordo dolore della protagonista, rivelando l’umanità e la fragilità delle false promesse di vita e della sofferenza.

A braccetto col passare degli anni tutte queste menzogne si rivelano per quello che sono, ingannevoli appigli di fede che distruggono la forza di credere in sé stessi.

Julie è la perla postuma del grandioso Don Robertson, romanzo scritto negli ultimi anni della sua vita e mai pubblicato da nessuna casa editrice.

Questo libro breve e ricco di significati e bellezza, ha potuto prendere vita grazie allo straordinario e meticoloso lavoro di Nicola Manupelli, scrittore, traduttore e importatore di capolavori americani.

Nella commovente postfazione intitolata “Don, il ritrovamento di Julie e un ragazzino di diciotto anni”, possiamo rinvenire preziose informazioni sull’autore e sulla sua vita.

È una postfazione molto interessante, ci permette di capire chi è stato questo gigante della letteratura dimenticato dall’editoria occidentale e poco chiacchierato sul web, possiamo toccare con mano la sua incontrastabile determinazione nello scrivere, nonostante il diabete gli avesse fatto perdere le gambe, un cancro ai polmoni e due attacchi di cuore.

«Più mi addentravo nell’opera di Don, più mi rendevo conto dell’ampiezza, della magnificenza, dell’umanità dello scrittore e del grande progetto che stava dietro a tutto quanto: un affresco della storia americana attraverso gli uomini e le vite comuni.

Un affresco che conteneva varie gradazioni di umore, dall’ironico al tragico, dal dissacrante al sacro, dal massimale al minimale.

E’ stata usata spesso l’espressione Grande Romanzo Americano per tanti scrittori, e ormai è quasi svilente utilizzarla, e non dirò che l’opera di Don lo sia.

Ma il fatto è che adesso, ogni volta che sento parlare di Grande Romanzo Americano, beh… non posso fare a meno di pensare a Don».

 

 

 

La ragazza della porta accanto di Jack Ketchum

di Emanuele Emma 18 settembre 2020

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Nel perverso oscurantismo culturale ipermoderno nessuno più sembra sia disposto ad essere accoltellato da un’opera d’arte.

Viviamo in un mondo in cui la violenza è imperante, ma per antinomia nei romanzi si stagliano con prepotenza correttezze politiche e decenze collettive sino a rendere tutto un’illibata massa uniforme.

Entrare in una zona di sconforto finzionale ed annichilirsi è un’esperienza che fortifica, non entrarci per paura, e preferire marcire guardando il mondo dall’ unica e narcisistica prospettiva che si adotta è, senza ombra di dubbio, poco intelligente.

Ciò che la nostra società persuasiva ed invasiva sta lentamente cancellando sono le voci autentiche, contraddittorie ed impopolari che non scendono a patti con i canoni etici ed estetici della letteratura contemporanea.

Se “It” di Stephen King fosse stato pubblicato nel 2020, al posto che nel 1986, troveremmo ancora quel famoso rito che simboleggia il legame indissolubile tra i Perdenti nonchè il passaggio dall’infanzia all’età adulta?

Oggi, qualche editore, ripubblicherebbe “La ragazza della porta accanto” di Jack Ketchum?

Purtroppo, alle orecchie dei lettori italiani, questo autore è quasi sconosciuto.

Jack Ketchum è l’alter ego di Dallas Mayr, (Livingstone, 10 novembre 1946- New York, 24 gennaio 2018) lo pseudonimo è un riferimento a Jack Ketch, boia inglese morto nel 1686 e il cui nome è stato per diverse generazioni il soprannome dei giustizieri britannici.

Scrittore controverso e di culto in patria, è stato intrappolato (e lo è ancora) nelle rigide costrizioni di genere al punto che le sue opere sono considerate veri e propri archetipi letterari horror.

Il suo esordio avvenne con “Off Season” nel 1981, romanzo dal quale si iniziò a delineare il nucleo tematico dei futuri scritti: l’essere umano visto come animale disturbato in grado di compiere la volontà del male.

Diversi romanzi e racconti di Ketchum sono rielaborazioni di fatti di cronaca nera avvenuti negli Stati Uniti.

Nella “Ragazza della porta accanto” si ripercorre il terribile omicidio di Sylvia Marie Likens avvenuto in Indiana nel 1965.

America rurale, anni Cinquanta. David ha 12 anni e incarna il prototipo dell’adolescente medio. Frequenta gli altri ragazzi del vicinato e comincia a sviluppare un certo interesse per il sesso femminile. Quando le sorelle Meg e Susan Loughlin si trasferiscono a vivere nella casa accanto, David è felice dell’opportunità di ampliare il proprio giro di amicizie, anche se Meg, che incontra per prima, è un paio d’anni più grande. I genitori delle due ragazze sono rimasti uccisi in un incidente d’auto, e le sorelle Loughlin sono state affidate alla vicina di David, Ruth. Ma Ruth, in apparenza ottima madre di famiglia, nasconde una vena di sadismo e alienazione, che sfoga dapprima sottoponendo le ragazze a percosse sempre più violente e dolorose, poi dando vita a una serie di torture fisiche e psicologiche di cui David e gli altri ragazzi del vicinato divengono testimoni e, in qualche modo, complici inconsapevoli. La polizia non prende sul serio le denunce di Meg: l’unica speranza per lei e la sorella è nell’aiuto dell’amico David. Riuscirà a salvare le sorelle prima che sia troppo tardi?

L’attacco del romanzo è una domanda disarmante e provocatoria che il David adulto pone direttamente ai lettori, invitandoli già dalla prima riga ad abbandonare ogni convinzione.

“Credete di sapere cosa sia il dolore?”

Da qui inizia il perturbante viaggio che condurrà nel seminterrato di casa Chandler.

La prosa snella, priva di adornamenti retorici, vigorosa nella sua brutalità, ci permetterà di scendere passo dopo passo nel seminterrato delle barbarie, osservando i deliranti consensi di Ruth con gli occhi del David preadolescente.

David è bloccato in un pericoloso interregno, un’impasse emotiva che lo renderà spettatore consapevole e mai aguzzino dei torbidi maltrattamenti protratti all’amata Meg.

“Non vi racconterò ciò che successe dopo. Mi rifiuto. Preferireste morire piuttosto che raccontare certe cose.

Preferireste morire piuttosto che assistervi. E io vi ho assistito, e ho visto”.

Ruth Chandler è la figura chiave del romanzo.

Donna abbandonata dal marito e sola nel crescere tre figli maschi, misogina e sessualmente repressa, il cui predominio sugli eventi è la concausa che alimenta la narrazione.

È il lasciapassare della sua autorità che porta ad infrangere ogni qualsivoglia regola sociale e morale.

Ruth non ha problemi a corrompere dei ragazzini con delle birre, basta poi non dirlo a casa.

Il disagio della sua sociopatia è tangibile a partire dai segni dell’invecchiamento precoce sul viso, dai piatti sporchi nel lavandino, lo troviamo nell’odore stantio di fumo di sigarette che si respira in casa, e lo viviamo a pieno nella ferocia dei suoi sinistri pensieri che si traducono, la maggior parte delle volte, in azioni.

Sullo sfondo la quasi arcadica provincia americana post maccartismo, dove si dorme ancora con la porta aperta, dove i bambini rimangono inascoltati dagli adulti (come è successo anche Meg) mentre nelle silenziose mura domestiche si consumano violenze inenarrabili.

“Mi sdraiai sul divano e pensai a come è facile ferire una persona, e non è necessariamente nel fisico. Basta colpire quanto ha di più caro”.

Con “La ragazza della porta accanto”, Ketchum ha tracciato con incredibile realtà traslucida un ritratto impietoso sulla forza ammaliante del male e sul subdolo potere della persuasione di cui sono stati vittima degli ottusi ragazzotti di provincia.

Per antifrasi al titolo, è un attualissimo romanzo morboso e soffocante che andrebbe letto nella sua interezza non come romanzo horror, bensì come opera dalla straordinaria potenza evocativa.

Si possono chiudere gli occhi mentre si legge, si possono lasciar perdere alcuni cruenti dettagli, ma non si può restare indifferenti e non provare empatia davanti agli scempi descritti.

In lingua originale il libro è facilmente reperibile, l’ultima edizione italiana risale al 2013, edita dalla defunta casa editrice Gargoyle.

Sulla piattaforma Netflix è disponibile l’adattamento cinematografico del romanzo.

La storia di Meg Loughlin merita nuova vita in Italia!

 

 

 

 

 

 

 

 

L’uomo autentico di Don Robertson

di Emanuele Emma 14 settembre 2020

leggi in pdf L’uomo autentico recensione

Cosa rimane di noi se non la passione, e come penseremo di sopravvivere quando questa passione romperà gli argini e si riverserà nel mondo circostante tramutandosi in sangue?

Chiedetelo ad Herman Marshall e forse otterrete risposta.

Marshall è il dissacrante antieroe letterario tratteggiato con rude grazia dalla straordinaria vena di un romanziere caduto nell’ oblio e riscoperto in Italia soltanto nel 2016.

Di Don Robertson ( 1929-1999), nativo di Cleveland, Ohio, autore di diciotto libri, Nutrimenti edizioni ha pubblicato cinque dei suoi romanzi.

In vita ha goduto per più di un decennio di un grande successo, al punto che uno dei suoi romanzi divenne nel 1997 un film per la televisione americana.

L’attività di scrittore gli valse il Putnam Award e il Cleveland Arts Prize for Literature.

Senza mai smettere di scrivere, si è allontanato progressivamente dall’ambiente letterario, anche a causa di gravi problemi di salute, fino a venirne dimenticato.

L’uomo autentico è ambientato nella torrida bava acida del Texas, dove il grande sogno americano è soltanto un fantastico epiteto, e la vita scorre su autostrade protese verso verità indicibili e pensieri logoranti che confluiscono all’unica arteria dell’individualità e del riscatto: il sangue.

Herman Marshall è un uomo veemente senza freni inibitori, figlio della grande depressione ed incarnazione del retaggio culturale violento americano.

Quest’uomo autentico e genuino è stato martoriato dalla vita, ha combattuto i tedeschi in guerra, ha visto morire quello che credeva sangue del suo sangue ed infine ha visto sua moglie spegnersi poco dopo una scioccante confessione su cui ruota il perno del romanzo.

“I treni tagliavano in due col loro suono la densità della notte, e le cicale si strofinavano le zampe e cantavano.

Il traffico sibilava sulla Gulf Freeway, e un auto passò rombando; la radio era accesa a tutto volume.

Lo skyline di Houston, che sembrava una collana di pietre preziose, incombeva sulle cime degli alberi, e Herman Marshall si disse: E’ tutto un mare di cose senza senso, che danno può fare se provo a cambiarle un po’? O parecchio a seconda di come si vuole vederla.”

Gli uomini che popolano l’uomo autentico sono vecchi ed incontinenti, come lo stesso Marshall, bevono birra Shiner e indossano cappelli sbiaditi mentre percorrono le fumose strade texane a bordo di utilitarie vecchie quanto loro.

Sangue, birra e urina sono i liquidi che lubrificano gli ingranaggi narrativi dell’opera e che ne scandiscono il ritmo.

L’uomo autentico è l’empito di un canto di dolore narrato con maestria ed ironico cinismo, nell’ultimo e lancinante tentativo di ridare dignità e senso alla propria vita attraverso un elogio alla follia.

Robertson ripercorre la vita di un uomo scevro di ogni qualità, attraverso una prosa elegante in cui allo stesso tempo coesistono volgarità e sentimentalismi, e che porterà il lettore ad uscire fuori dalle solari certezze della vita.

In fondo Herman Marshall è un bravo ragazzo di Hope, Arkansas.