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La mezzanotte vana di Virginia Woolf e Vita Sackville-West

di Andrea Galgano 26 giugno 2019/ 12-13 luglio 2019 “Cronache Lucane”

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LA MEZZANOTTE VANA DI VIRGINIA E VITA

L’amore tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West, le cui lettere, dal 1924 al 1941, vengono pubblicate da Donzelli, in una elegante edizione dal titolo, Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio[1], a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, è un compendio di ardori e di sogni, segreti, intermittenze cifrate, ombre rifratte, intimità sognate e rarefatte:

«Perché se Vita pratica da tempo con nonchalance e senza pruderie una libertà sessuale che le permette di cogliere il piacere in contatti che indifferentemente la portano nel letto di un uomo, più spesso di una donna; se sa distinguere con chiarezza tra la passione travolgente che prova per la femmina d’uomo, e l’amore casto e volto alla riproduzione che vive con un maschio, il marito, di cui è profondamente amica; se, ripeto, Vita è una donna libera che distingue tra due diversi tipi di amore, quello casto, coniugale, e quello passionale; per Virginia è diverso. Virginia è sì una donna libera, indipendente, ma è anche una donna «sessualmente codarda», impaurita, insicura, che del corpo e del piacere sessuale non conosce l’ardimento. Ma quando incontra Vita, «la donna promiscua», ecco che, miracolo dell’amore, affiora in lei un’altra se stessa, e scopre di essere una donna che ama le donne. Sì, grazie alla saffica Vita, Virginia arriva a conoscere l’amour passion. Tardi, ma lo fa, e grande è per lei la sorpresa».[2]

Il respiro di queste pagine innerva una costellazione di libertà e visione. I sospiri, i viaggi di Vita assieme al marito diplomatico Harold Nicolson (Teheran, Sahara, America), le gratitudini indifese e il desiderio segnano cifre di pensieri avvolto, destinano la lettera a ritmare il sangue, rallentare distanze, narrare il territorio della propria finitudine espansa.

Come un incontro con la realtà più lontana, come la scoperta della proprio respiro vitale che riflette l’esistenza, la «comune progenie» della scrittura e delle sue scadenze, l’ancestrale gioia mistica e coribantica di una visita proibita, di una scintilla di occhi e di una stella immensa. Il loro luogo, nato nella differenza di età (Virginia aveva quarant’anni e scriveva Mrs Dalloway), si perpetua in una sceneggiatura di pudore, foga, segreto e passione.

È un amore che tocca la propria genesi, il proprio solco di energia e desiderio florido, di incarnato fulgido e virgineo, e che scrive la nostalgia e si orienta nelle tenebre, curando gli anditi della letteratura (che non diviene sterile esercizio ma tellurica materia da incidere), come sostiene Nadia Fusini,

«per darsi un appuntamento, per scusarsi dell’assenza, per rimproverarsi di un ritardo; e in ogni caso è l’amore della lingua, che trionfa. Il gusto dei soprannomi, la fantasia delle maschere di animali con cui si travestono, i sottintesi, le allusioni, i silenzi pudichi e le metafore ardite che inventano per dare corpo di parola alle loro emozioni, sono tutti qui, in bella evidenza, in queste lettere di due women in love, di queste due donne innamorate».[3]

La luminosa e remota vicinanza è stordimento di emozioni, voracità di bellezza, stordimento e paura.

«Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Stanotte avevo composto per te una lettera bellissima, nelle ore insonni, piene di incubi, ma è tutta sparita: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano. Tu con tutte le tue lettere intelligenti, non scriveresti mai una frase così elementare; probabilmente non la concepiresti nemmeno in questi termini. Eppure credo che sentirai un piccolo vuoto. Ma lo apparecchieresti in una frase così bella, che finirebbe per perdere un po’ della sua verità. Mentre per me è totale: mi manchi più di quanto potessi credere; ed ero preparata a sentire la tua mancanza, parecchio. Così, in verità, questa lettera è solo un grido di dolore. È incredibile quanto tu sia diventata essenziale per me. Immagino che tu sia abituata a sentirti dire cose del genere dalle persone. Maledetta te, creatura viziata. Non riuscirò a farmi amare di più da te, scoprendomi fino a questo punto – ma tesoro mio, non posso essere furba e distaccata con te: ti amo troppo per farlo. Troppo sinceramente. Tu non hai idea di quanto posso essere scostante con le persone che non amo. Ne ho fatto un’arte sottile. Ma tu hai fatto a pezzi le mie difese».[4]

In quella incarnazione purpurea e femminile, Vita è l’insondabile piega opulenta della realtà, la donna che, proprio in quanto donna, porta con sé l’archetipo della possibilità. Essere primavera e splendore di tenebra. Virginia l’attende come un rovescio rorido di acqua bassa («Per favore, in mezzo a tutta questa baraonda, continua a essere una stella luminosa e costante. Davvero poche cose rimangono a indicare la strada: la poesia, e tu, e la solitudine[5], scriverà Vita a Virginia»), eterea intelligenza di cristallo e incanto, come un lungo abisso splendente e sacro che teme l’oscurità radente della sua amata e ne è pervicacemente avvinta, pur manifestando una sorta di distacco quasi febbrile. Un daimon: «Creatura carissima, era molto molto bella la lettera che hai scritto alla luce delle stelle a mezzanotte. Scrivi sempre a quell’ora, perché il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi. Da qualche parte ho visto una pallina che continuava a saltare su e giù sul getto di una fontana: tu sei la fontana, io la pallina. È una sensazione che mi dai solo tu[6]».

Ma è lei a compiere il primo gesto sul divano che esplode nella stanza. Non c’è resistenza. Solo la prima unione e l’ingresso in un mondo nuovo. Le irresistibili e giocose metamorfosi di Vita e il desiderio per lei continuo e viscerale, quello che toglie l’anima e, allo stesso tempo, la fa diventare corpo. Vita è per Virginia un fuoco immenso che abita antiche epoche inoltrate:

«Il fascino per quel mondo antico c’entra con l’attrazione che prova per Vita. L’attrazione ha molto a che fare, le pare, con quella profondità storica che sente alle spalle di Vita. Ma c’è anche dell’altro, e di che altro si tratti, prova a spiegarselo. Si auto-analizza13: forse è per puro egoismo, per puro narcisismo che ama Vita: le piace l’idea di piacere a Vita. Ama non Vita, ma il fatto che Vita l’ami. Puro egoismo. Ma è un fatto, pur sempre un fatto che si tratta di un affair ardente, focoso, travolgente. E insieme innocente, giocoso. La verità incontrovertibile è che quando è con Vita si sente completamente e assolutamente felice. Si sente agile, sciolta, trasportata dalla sua energia, quasi fosse una pallina in acrobatico equilibrio sul getto di una fontana, o un bebè a cui venga offerto del latte zuccherato».[7]

Pietro Citati scrive:

«Virginia Woolf incontrò per la prima volta Vita Sackville-West il 14 dicembre 1922; e la invitò a casa sua a Richmond l’11 gennaio 1923, quando le fece visitare la Hogarth Press, la piccola casa editrice che apparteneva a lei e a suo marito Leonard. Da principio, Virginia era diffidente. Ma le piacquero moltissimo le gambe di Vita: quelle esili colonne o quelle betulle, che si slanciavano trionfalmente verso il tronco, piatto come quello d’ un corazziere. Le piacque il volto, simile a uva matura: il labbro sporgente, la peluria di pesca che velava l’incarnato della guancia: l’aria opulenta, la collana di perle, i brillanti, sgargianti colori dei vestiti; e le viole inumidite degli occhi. Quella donna risvegliava in lei l’impressione di un tempo molto antico: l’Inghilterra elisabettiana e shakespeariana, con i suoi castelli, i suoi cavalli, i suoi cani, le sue cacce a perdifiato, le sue passioni incandescenti».[8]

Per i quindici anni della loro storia, Vita e Virginia sono fuochi di stanze osmotiche. Nella lussuria incandescente e nella gioia umbratile, nella furia incendiaria e nella trasparenza centrale, e oltre le regole borghesi, vibra l’ignota destinazione del sangue e la protezione reciproca, in ogni luogo del possibile e dell’inviolabile, come una carezza insonne e perpetua: nella casa dei Woolf a Londra o nella campagna a Rodmell, nelle case di Vita, a Long Barn, Sissinghurst, nel castello di Knole o in Francia.

Vi sono assenze di «giorni sottolineati» e distanze che sembrano attese eterne («Non mi scrivi mai e la tua immagine s’è rimpicciolita nella distanza come l’ombra pallidissima della luna vecchia: ma proprio mentre Vita stava per svanire, è apparso un sottile spicchio d’argento, e ora pendi sulla mia vita come una falce[9]») , nomi-bestiari per ridisegnare il mondo, la forza di Eros che travolge, le infedeltà di Vita e la gelosia di Virginia (chiamerà le amanti di lei «letargiche ostriche oscene e lascive»).

Virginia ridisegna le linee del loro amore. Orlando è il deposito di un mutamento affettivo, la trama arguta e sottile di una linea nuova.

Nadia Fusini scrive:

«Virginia, la scrittrice, prova a slacciarsi dai lacci della seduzione, grazie alla potenza dell’unico potere che è suo, quello dell’immaginazione creativa. S’inventa la «sua» Vita. Sostituisce Mrs Nicolson con una creatura di sua invenzione, ne fa un doppione, un golem infinitamente più affascinante della persona umana. Il personaggio di Orlando è questo. È la Vita di Virginia. Tutta sua. Trasformandosi in un redivivo Minnesänger, Virginia canta l’amata in quella «fantasia» scherzosa – quel divertissement sublime che è Orlando, dove con eccelsa ironia attacca gli stereotipi di genere e descrive le avventure di un personaggio, che è Vita, che nasce maschio nel Cinquecento e diventa femmina nel Settecento e attraversa con scanzonata allegria i secoli, fino al 1928, anno della pubblicazione del romanzo».[10]

Irene Battaglini afferma:

«Non ci sono presupposti morali sufficienti per stabilire se un amore sia autentico oppure no; a maggior ragione non è possibile stilare un codice di trascrizione psicoanalitica dell’amore, che è e deve restare un mistero nell’enclave intrisa di segreto e di simbolo, secondo una chiave di decrittazione nota – solo, e forse neppure a loro stessi – agli amanti. Tuttavia un così ricco e colto, ironico e smascherato, ricorso all’eros per fare della letteratura il cuore trascendente tra Vita e Virginia, può essere anche ricollocato in una lettura di transfert, con la dovuta delicatezza, con il rispetto per quel segreto inespresso, che si è avvalso della metafora epistolare per essere non tanto detto, quanto mostrato, tra le maglie sgranate di un tempo in cui il dialogo amoroso tra due donne era da considerarsi un segno chiaro di eversione, di devianza sociale. Per questo Virginia sceglie la strada della speculazione letteraria, mentre Vita la via del potere e della seduzione. Lo scenario tra Vita e Virginia è solo apparentemente saffico. È almeno parzialmente legato all’evocazione di un transfert plurimo e condensato, in cui maschile e femminile non sono che versanti di un grande archetipo primigenio, di un amore primario che sembra più vicino ad uno stadio avanzato della seduzione narcisistica di Racamier tra madre-figlia, oltre che alla matrice – edipica, incestuale? – di un attaccamento più o meno declinato intorno alla dialettica oggettuale tra distanza-avvicinamento, tra evitamento ed accostamento, tra eccitazione e gratificazione, in un desiderio riconosciuto e chiesto, ma mai esploso, mai confermato dalla parola chiara: ma sempre sotto lo scacco della rivelazione ai limiti del possibile (oltreché del concesso). È questo che rende a tratti perverso un elemento che sarebbe altrimenti carico di bellezza e poesia, di Amore: il non-sapersi dire a loro stesse, in un tra-noi che rinuncia alla metafora ellittica. Il non sapersi dire amanti, ma solamente sfiorati dall’amore, che sembra invece un giocare un ruolo di sfondo, di orizzonte. Un forse verso il destino, attratto dalle vele di un vento sempre e solo immaginato, che non porta a navigare ma a tessere, issare, calare le vele senza mai solcare la rotta: un mare che così, non può tradire. Ad una lettura profana, è Virginia a cadere nell’inganno della donna di mondo Vita, abile manipolatrice delle pulsioni erotiche di femmine acerbe e opportuniste che mettessero in risalto la sua bellezza androgina e sovrana. Ma Virginia sa bene di essere sola, di essere oggetto di quelle pulsioni e contenitore regolativo, e lo fa attraverso un discorso interno in cui Vita è presa a prestito dal suo genio letterario, per rendere omaggio nelle sue opere non tanto a Vita (e ai suoi tentativi goffi di elevarsi ad amante di rango di una delle più grandi scrittrici del suo tempo) quanto all’Amore Perduto, per la madre che nel cuore non ebbe mai, forse, quel linguaggio di amore che Vita spacciò per oscena tenerezza. Per questo, parafrasando Emily Dickinson, non si può dire che questo amore sia stato vano».[11]

Le fughe, gli allontanamenti, le riappacificazioni sono materia vivente anche sotto le bombe, tra doni di burro dal sapore di rugiada e miele e patè, e quello mancato dei pappagallini che lasciano. Il cuore dell’esistenza è fatto di mani, però, che si avvicinano e si raggiungono, fino all’ultimo e all’acqua gelida dell’Ouse: «Mi hai dato tanta felicità» e Vita, subito dopo, le scrive, come penna strappata al cigno:

«Tesoro, quanto mi ha commossa la tua lettera stamattina. Mi è quasi caduta una lacrima dentro l’uovo in camicia. Le tue rare dimostrazioni d’affetto hanno sempre avuto il potere di emozionarmi moltissimo e – siccome suppongo che in questi giorni siamo tutti un po’ tesi (più che altro inconsciamente) – oggi mi arrivano in picchiata, dritte al cuore, come un proiettile che sbatte sul tetto. Ti amo anch’io. Lo sai».[12]

[1] Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, Roma 2019.

[2] Fusini N., Due donne in amore, in Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte, cit., p.9.

[3] Id., cit., p.9.

[4] Lettera di Vita a Virginia, 21 gennaio 1926, Milano, spedita da Trieste; infra, p. 63.

[5] Lettera di Vita a Virginia, 8 gennaio 1926, Long Barn; infra, p.62.

[6] Lettera di Virginia a Vita, 7 ottobre 1928; infra, p.176..

[7] Fusini N., cit., p.17.

[8] Citati P., Il mio amore con Virginia Woolf, in “La Repubblica”, 27 agosto 2002.

[9] Lettera di Virginia a Vita, 29 dicembre 1928; infra, p.180.

[10] Fusini N., cit., p. 19

[11] Battaglini I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato – Padova, a.a.  2018-2019.

[12] Lettera di Vita del 1° settembre 1940; infra, p. 249.

Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, pp. 304, Euro 24,00.

 

Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, Roma 2019.

Battaglini I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato – Padova, a.a.  2018-2019.

Benini A., Lettere rubate, in “Il Foglio”, 23 marzo 2019.

Bentivoglio L., Cara Virginia, Scrivimi ancora, “ La Repubblica – Robinson”, 12 maggio 2019.

Citati P., Il mio amore con Virginia Woolf, in “La Repubblica”, 27 agosto 2002.

Franco T., Strappa una penna al cigno!, in “Il Sole 24ore”, 9 giugno 2019.

Marzi L., Se sapessimo tessere il tempo, in “Letterate Magazine”, 20 maggio 2019.

Pigliaru A., Vita e Virginia, nel cuore delle parole, in “Il Manifesto”, 15 maggio 2019.