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Antonietta Gnerre: il nome dell’eternità

di Andrea Galgano  22 dicembre 2021

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La nuova raccolta di Antonietta Gnerre, Quello che non so di me[1], edita da Interno Poesia, custodisce vigore e impercettibilità. Non solo per la forza immaginifica e vertiginosa del verso, ma, in particolar modo, per una sorta di vitalità esistenziale incandescente, che risolleva termini e fissità, panismo e tensione metafisica.

È una leggibilità del tempo, una fenomenologia linguistica che si innerva nella Natura e la abbraccia sia attraverso la ponderale finitudine (le cicatrici, i sogni non infilati più tra le stelle, i segni provvisori, le ombre luminose dell’Irpinia che somigliano all’universo) sia attraverso uno sconfinamento di suono, come una eco di amore.

Ago di pino in un solco, benedizione di nascite appena ricolme, nome che salva dalla morte:

«Se ho pianto è perché sono stata al buio / con un peso  / capovolto di assenze. / La nave inclinata nella sua rotta,  / i sogni non infilati / più tra le stelle. / Se ho pianto è perché le preghiere  / rientravano e uscivano  / da una linea / sottile di menzogne.  / Il giorno soffocato nelle sponde dei pini,  / dopo una mareggiata, / acceso solo dalla luna. / Se ho pianto è perché da ragazzina / ho giurato / che avrei guardato in silenzio / la bellezza dei germogli svanire / davanti ai miei occhi».

Alessandro Zaccuri, nella prefazione scrive:

«Le poesie di Antonietta Gnerre seguono il percorso inverso. Si aprono con versi che già annunciano quanto verrà dopo, come in una mise en abyme anticipata ma non precipitosa. Viene in mente lo specchio che nei Coniugi Arnolfini di Jan van Eyck riassume e nello stesso tempo capovolge l’intera scena. La contiene e, contenendola, la interpreta. «Quello che non so di me / è superiore alla piog­gia» […] Quelli ap­pena citati sono i versi iniziali di una poesia che, con studiata consapevolezza, si incontra ben oltre la metà della raccolta, in una sezione posta sotto l’emblema arcano e affascinante del muscovite, il cristallo dall’a­spetto tagliente che ben simboleggia l’affilato desiderio di precisione senza il quale nessuna avventura poetica potrebbe essere intrapresa. L’equivalente minerale del­la ginestra leopardiana, in un certo senso […]».[2]

Il nome della poesia è un grido davanti all’Eterno, terra che si rivolge verso l’alto, parola di sangue e centro esatto del cielo, come nei volti cari e amati, nella tutela dei numi e nella fronda “sfrondata” del tempo, come avviene in questo omaggio a Pasolini, prossimo e venturo: «[…]Sono una madre. Madre di un figlio e di figli mai nati./ Come te ho avvertito la mia croce umana. / Mi asciugo le lacrime con i resti delle mie mani. / Il mio sguardo fissa un solo punto. Gli ospedali sono / fatti di pareti / che sembrano fili di nuvole che soffrono il cielo».

Il nome del nome. Gnerre vive di questa nominazione, come un gemito di sogno e promessa («Quello che mi piace del tuo nome / è ciò che non è stato nei secoli. / Da bambino ti svegliava / quando non sapevi parlare. / Quando non conoscevi i numeri. / Lo ascoltavi in silenzio / prima di aprire gli occhi, / prima che lo smalto di una nuvola / diventasse grigio. / Lo so: hai bisogno di saperti in questo nome. / Di indossarlo come fosse seta, / straccio, riparo momentaneo»), il cielo abbassato sopra la pelle, la nascita e l’indumento dei sogni e la voce che si sporge sulla luce o, anche, il volo di una preghiera sommessa e lucente, come il bacio verso tutte le foglie che si sono viste cadere:

«Se ora riuscissi a dire piano il verbo che più hai amato, / a non smettere di pronunciarlo nei pensieri, / azzererei gli alfabeti i colori i rumori. / Gli anni vissuti. / Con la punta delle dita sfiderei il tempo  / – dalle tarme di una coperta –  / per vedere quei continenti distanti / che sognavo da bambina. / Se ora riuscissi a declinarlo piano il verbo del perdono, / vicino al muro della tua casa di Polla, / ferma accanto al grano, alla rosa./ Con le spalle verso la terra, / con gli occhi fissi sul cipresso che non c’è più, / ascolteresti la mia voce nella tua luce».

Il transito della vita, l’irenismo[3], la scomposizione memoriale e temporale, il contemporaneo avvenimento del qui e ora custodiscono la scena del mondo, dove la parola, la poesia che misura i nomi, il lessico familiare e intimo aprono il segreto che forma l’universo, lo scandiscono, lo sillabano, ne fanno, insomma, un respiro che si prolunga, che tocca gli apici diurni di ogni sostanza:

«C’era il respiro dei campi / accanto a te. Talvolta sfiorava / la pietra ferita. / La rifrazione della luce  / che creava i fiori. / Forse era un giorno d’autunno / quando lo hai udito per l’ultima volta. / Scintillava nell’erba impermeabile. / Eri bambina, contavi i tigli / sussurravi alle foglie: / sono foglia anche io. / Di notte lo immaginavi vicino al letto / a proteggerti dalla cera della vita, / che cadeva sul portone. / Un colpo d’aria scriveva la tua storia. / Quella che leggono i vivi fino a cadere / nei punti invisibili dei corpi».

E la salentina Pescoluse ne diviene il cosmo unico:

«Il pavimento forma un verso. / E qui, dove invento una casa nella tua, / poggio le mani sui muri ancora caldi / dell’ultima estate. / Le poggio per misurare chi siamo. / Gli ulivi ci attendono nascosti. / Ora, ad esempio, anche loro stanno fissando / le formiche che trasportano un chicco di grano. / Il verso si completa con la luce che arriva / dalle persiane / tra i nomi delle formiche che ci osservano».

E poi il sigillo delle nuvole come anime materne, le pareti del silenzio, gli anni raccolti prima di dormire come un eliso esilio, i ricordi e l’odore del pane, la goccia che somma il tempo, i colori lontani, la veglia e i fili, la muscovite e i suoi disegni.

L’eternità è un ramo di foglia innocente:

«Quello che non so di me / è superiore alla pioggia. / Si rifiuta di cadere. / È una bellezza che resiste  / al buio dei temporali. / È una piccola follia / che si ferma sopra le curve / della massa informe delle strade. / Quello che non so di me / conta gli anni dei fiumi, / tutte le mani che hanno lavato / le lenzuola. E le cose ferme a terra /tra gli abbracci delle piante. / C’è remissione nel naufragio dei miei occhi. / C’è supplica nel prestare attenzione / alle cose che mi mancheranno».

 

 

Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021, pp.92, Euro 11.

Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021.

Blanco G., Antonietta Gnerre, Quello che non so di me, (leggeretutti.eu/antonietta-gnerre-quello-che-non-so-di-me/), 7 aprile 2021.

Guarracino V., Poesia, Gnerre tra tempo, storia e identità, in “Avvenire”, 20 agosto 2021.

[1] Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021.

[2] Zaccuri A., prefazione, in Gnerre A., cit., p.5.

[3] Blanco G., Antonietta Gnerre, Quello che non so di me, (leggeretutti.eu/antonietta-gnerre-quello-che-non-so-di-me/), 7 aprile 2021.