di Serena Baroncelli, psicologa, allieva della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato
30 gennaio 2016
Il contenuto è sicuramente scottante, seppur con una vena provocatoria! È uscito il 7 gennaio per l’autorevole the Guardian, firmato da Oliver Burkeman Therapy wars: the revenge of Freud (long read version) un articolo di grande interesse per l’establishment psicoanalitico internazionale, che sancisce la validità e l’efficacia della terapia psicoanalitica. Questo non implica una critica negativa nei confronti di altri modelli, tuttavia abbiamo ritenuto doveroso, dopo le innumerevoli sanzioni dei detrattori della psicoanalisi, portare all’attenzione del nostro pubblico la graffiante disamina di Burkeman sui risvolti “a lungo termine” delle psicoterapie: sulla distanza, soltanto la psicoanalisi del profondo garantisce una completa risoluzione delle cause alla base del disagio psichico.
Il Polo Psicodinamiche si è subito mobilitato per dare a tutti i colleghi italiani l’opportunità di conoscere i dettagli. Di seguito una traduzione per il nostro pubblico in Italia, dalla dott.ssa Serena Baroncelli, psicologa, e Allieva della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato. Abbiamo pensato di tradurre revenge con rivincita anziché vendetta, più letterale ma sicuramente meno “sportivo”! Vediamo i tratti salienti del documento.
La terapia cognitivo-comportamentale, o CBT, è una tecnica che si concentra sul presente anziché sul passato, non volge la sua attenzione a misteriosi e sconosciuti impulsi ma sull’aggiustare pattern di pensieri disfunzionali che sono la causa delle emozioni negative. L’obiettivo degli esercizi della CBT è quello di identificare i cosiddetti “pensieri automatici” che caratterizzano l’atteggiamento tipico dell’individuo quando si interfaccia con le diverse situazioni di vita, come essere criticato a lavoro ad esempio.
Sviluppatasi tra gli anni ’60 e ’70, la CBT è una delle principali “terapie supportate empiricamente”, basata cioè sui fatti, dura meno rispetto ad una psicanalisi, per cui la probabilità di portarla a termine è maggiore. L’elemento intorno a cui i due tipi di psicoterapia, la psicanalisi e la CBT, differiscono, ruota intorno alla concezione di essere umano e di sofferenza. La CBT abbraccia una visione particolare del concetto di emozione: nello specifico, le emozioni disturbanti sono primariamente qualcosa da eliminare e nel caso non si riuscisse in questo, quanto meno renderle tollerabili. Sembra che raggiungere la felicità sia abbastanza semplice secondo questo approccio: il disagio è causato dai nostri pensieri e credenze irrazionali, sta a noi prenderne consapevolezza e cambiarli. Per l’approccio psicanalitico invece le cose sono molto più complesse e complicate di quanto emerga dalle concettualizzazioni cognitivo-comportamentali. Innanzitutto, il dolore, la sofferenza psicologica, non deve essere eliminata ma compresa, ascoltata e capita: la depressione di un paziente, in questo senso, ci comunica sempre qualcosa ed è necessario scovare quel qualcosa. L’essere umano pertanto è molto complesso: spesso le persone possiedono motivi molto convincenti per non cambiare niente della loro vita, nonostante entrino in analisi proprio per cambiare qualcosa della loro stessa vita. Noi vediamo la nostra esistenza tramite le lenti delle primissime relazioni, lenti di cui generalmente non ne siamo coscienti: tutto questo appartiene al campo dell’inconscio. Tuttavia per esplorare l’oceano dell’inconscio non sono sufficienti gli strumenti della CBT, semplici e standardizzati.
Se in un primo tempo questo approccio sembrava mostrare la propria superiorità in termini di efficacia sugli altri, dagli inizi degli anni ’70 questa concezione è andata diminuendo a seguito di numerose ricerche sperimentali che hanno dimostrato che la maggior parte dei pazienti (ricoverati per depressione) trae maggior beneficio, sia a breve che a lungo termine, da un trattamento psicanalitico piuttosto che da tecniche combinate, tra le quali la CBT. Questi risultati confermano l’opinione di molti psicanalisti, i quali sostengono che la preminenza della CBT nel corso del tempo sia stata costruita su basi di sabbia, effimere.
La premessa principale della psicanalisi si basa sulla concezione di inconscio: in particolare sostiene che la nostra vita e tutto ciò che gravita intorno ad essa, siano decisioni, scelte, attitudini, siano in gran parte governate da forze inconsapevoli, inconsce, che ci parlano solo indirettamente, attraverso i simboli, che si esprimono nei sogni, attraverso i lapsus, ma anche nel fenomeno definito come proiezione, per cui quel qualcosa dell’altro che ci fa infuriare è il prodotto di quanto in realtà non accettiamo di noi stessi. Al contrario, comportamentisti come Skinner, hanno mostrato come il comportamento umano possa essere facilmente manipolato attraverso i meccanismi della punizione e della ricompensa; ancora, la rivoluzione cognitiva ha sostenuto l’idea che anche la mente umana, alla stregua del comportamento manifesto, potesse essere manipolata e misurata sperimentalmente. E a partire dagli anni ’40 del 1900, le contingenze della realtà iniziavano a chiedere proprio questo: migliaia di soldati di ritorno dalla seconda guerra mondiale presentavano gravi disturbi di natura emozionale che necessitavano di un trattamento rapido, a basso costo, non anni di conversazione su un divano con il proprio analista.
Secondo l’approccio cognitivo-comportamentale, non è necessario scoprire le ragioni recondite della propria sofferenza attraverso la relazione terapeutica; in analisi, la relazione tra il terapeuta ed il paziente rappresenta una componente di primaria importanza per la buona riuscita della terapia: in essa il paziente riattualizza i suoi modi abituali di relazionarsi agli altri, rendendo possibile in questo modo una migliore comprensione degli stessi. Nella CBT, invece, nella seduta, risulta fondamentale porsi come obiettivo principale l’eliminazione del problema.
Nonostante la CBT possa in qualche modo essere utile nel trattamento di alcuni disturbi, dalla depressione al disturbo ossessivo-compulsivo fino al disturbo post-traumatico da stress, agendo sui soli sintomi manifesti, è innegabile come il modello della mente e della sofferenza dell’uomo manchi di alcuni tasselli importanti, significativi. Le nostre esperienze di vita, le relazioni con gli altri, sono qualcosa di estremamente complesso. La risposta a tutti i nostri dolori può davvero risolversi tramite l’identificazione dei cosiddetti “pensieri automatici”, o nella modifica del nostro linguaggio interno o delle critiche che rivolgiamo a noi stessi? La relazione terapeutica può essere sostituita da un libro o da un computer?
Una possibile risposta ci viene offerta da una paziente, che ha richiesto un trattamento a causa di una depressione post-partum. Tramite la CBT, ha partecipato a delle sessioni inizialmente tramite l’uso del computer. La paziente rivela: “Niente mi ha fatto sentire più sola e isolata quanto avere un programma al computer che mi chiedesse quanto mi sentissi triste su una scala da uno a cinque”. Quello che manca, come vediamo, è un’autentica relazione, il bisogno di essere contenuti nella mente di un’altra persona.
Ricerche più recenti dimostrano ancora la maggiore efficacia dell’approccio psicanalitico rispetto ai “trattamenti abituali”; talvolta la differenza più marcata si ritrova a conclusione della terapia: dopo mesi o anni, i benefici della terapia tradizionale svaniscono, mentre quelli delle terapie psicoanalitiche permangono o risultano addirittura incrementati, suggerendo che la terapia agisce ristrutturando la personalità nel lungo periodo, piuttosto che aiutare semplicemente le persone a gestire il loro umore. Alcuni sostengono che la CBT possa peggiorare il modo di concettualizzare la sofferenza: le tecniche utilizzate sembrano implicare la promessa che esista un modo semplice, composto da fasi, che possa vincere sulla malattia e il dolore. Questa prospettiva sembra rassicurante sia dal punto di vista del paziente che da quello del terapeuta inesperto, perché implica un obiettivo manifesto sul quale concentrarsi. D’altra parte questo approccio non nega completamente l’importanza delle esperienze passate dato che, come afferma il dr Trudie Chalder, professore londinese di psicoterapia cognitivo-comportamentale, i pensieri irrazionali derivano da esperienze di vita precoci.
Come afferma Grosz: “Ogni esistenza è unica e il ruolo dell’analista è proprio quello di scoprire e far emergere la storia unica e specifica del paziente; l’analista deve essere recettivo ai lapsus, alle specifiche parole utilizzate dal paziente, alle sue fantasie, infine utilizzarle per aiutarlo a dare un significato alla sua esistenza”. La discriminante tra i due approcci discussi sinora sembra essere la presenza di un terapeuta amorevole e disponibile. Potremmo concludere allora con le parole con cui Micheal Balint si rivolgeva ai medici in supervisione: “Qual è secondo voi la medicina più efficace e potente da prescrivere?” La risposta è: “La relazione”.
Intervista di Sara Ginanneschi, Ufficio Stampa Polo Psicodinamiche
Ai Docenti e agli Allievi della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm
Open Day – Prato, Mercoledì 24 Giugno 2015
Durante la presentazione della Scuola, Ezio Benelli, Direttore e docente e Giuseppe Rombolà Corsini, Vice-Direttore e docente, hanno presentato l’offerta formativa attraverso un excursus professionale e personale, farcito di aneddoti personali non necessariamente autocelebrativi, piuttosto sottolineando lo sforzo e la dedizione di creare un Centro di Psicoterapia che destinasse una proposta formativa all’avanguardia, pur rispettando i principi della Psicoanalisi di Erich Fromm.
Il valore aggiunto della presentazione è certamente dato dal vissuto diretto degli studenti in corso i quali hanno saputo ampiamente argomentare il loro percorso verso la psicoterapia, dove l’individuazione e l’emancipazione dal docente vengono vissute con una doppia gradualità: quella che deriva dall’apprendimento teorico e quella che si matura con un percorso emotivo personale.
“Non si è mai soli; terapia personale, supervisione, gruppi…c’è sempre la possibilità di avere uno scambio; sei da solo, ma insieme al gruppo” dice il Dr. Lino Arnone, medico e specializzando presso la SPEF.
La Dr.ssa Giuditta Perri invece, riporta delle proprie esperienze durante il tirocinio e sottolinea l’importanza di aver imparato a gestire le proprie emozioni, contemporaneamente alle tecniche terapeutiche del paziente: “una formazione di questo tipo, permette che non prevalga la paura del terapeuta nel momento in cui deve essere più presente al proprio paziente”.
Poiché è da Fromm che si parte, nel documentario-intervista mostrato in sala, vediamo che l’approccio center-to-center, da uomo a uomo, è uno dei presupposti fondamentali della SPEF; il terapeuta non è il Super Io del paziente, come Rombolà Corsini sottolinea, abbiamo già avuto un padre che ci ha detto cosa fare, non abbiamo bisogno di un terapeuta che faccia lo stesso; il terapeuta è una persona che ha fatto il proprio cammino ed in quanto tale, conosce quello che il paziente sta provando e con la dovuta preparazione tecnica, lo sostiene nel suo percorso terapeutico.
Lo stesso Erich Fromm si definisce un nevrotico, cresciuto in una famiglia nevrotica con padre ossessivo e madre ambivalente: se si comportava correttamente era un Krause [nome da nubile della madre], se invece avesse avuto una condotta non consona ai precetti materni era un Fromm.
È grazie a questa esperienza “universale” di essere uomo che viene inquadrato il futuro terapeuta.
L’Open Day della SPEF ha poi esplorato brevemente i temi principali della teoria di base: l’amore, come forza che unisce tutto; la fuga dalla libertà; il tema dell’autorità.
L’esperienza formativa è esperienza in senso stretto, con attività non soltanto didattiche frontali, ma simulate di casi, role playing, tirocini, esperienze di gruppi dinamici dove, Benelli dice: “si elaborano e si esprimono i propri vissuti fino a sviluppare la capacità di cogliere i segni che l’inconscio dei futuri terapeuti manda loro durante il lavoro sul campo.” La SPEF offre Gruppi di Supervisione alla Balint, Gruppi Psicodinamici e Gruppi di Psicodramma; di quest’ultimo dopo lapresentazione della Scuola, Corsini Rombolà, con l’aiuto degli studenti al terzo e quarto anno ha “messo in scena” lo psicodramma, facendo vivere un’esperienza intensa, seppur solo come rappresentazione e non momento di terapia.
Sullo Psicodramma, la Dr.ssa Linda Gargelli, una delle persone che ha partecipato attivamente alla dimostrazione pratica dice: “Lo psicodramma psicodinamico è un processo naturale, tutti hanno in testa un dramma che necessita di diventare storia. I conflitti intrapsichici, che vengono verbalizzati nelle sedute con il proprio terapeuta, possono nella scena psicodrammatica prendere forma e sostanza. Accade così che le persone del gruppo, tramiti meccanismi proiettivi (ma non solo), possono diventare i personaggi della propria storia interiore, una madre o un padre simbolici ai quale si può dire finalmente tutto. Lo psicodramma che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso formativo, grazie ai miei maestri, il Dott. Giuseppe Rombolà Corsini e il Dott. Ezio Benelli, è un metodo per entrare in contatto con i propri nuclei emotivi in un contesto protetto e altamente contenitivo“.
Chiediamo a Irene Battaglini, CEO di Polo Psicodinamiche, qual era la sua idea formativa e come è riuscita a svilupparla:
“Il mio compito è coagulare ogni giorno le energie del team di didatti, docenti e allievi affinché si raggiungano gli obiettivi formativi a breve e medio periodo. Le strategie devono contemplare traiettorie molto più estese: l’orizzonte di ciascun professionista non si esaurisce in quattro anni, e la scuola rappresenta un investimento che darà frutti lungo tutto l’arco della vita, con ricadute a cascata nella vita dei pazienti e delle loro famiglie. Dunque è una grossa responsabilità. Se gli obiettivi sono suggeriti dall’analisi della domanda, la strategia di approccio alla psicoterapia – parafrasando Nietzsche nella Gaia scienza – deve tenere accesa una fiaccola, come nel passaggio della torcia olimpica, traendo il fuoco da un incendio che fu acceso da Freud, Jung, Adler, Fromm, Ferenczi, e molti altri grandi psicoanalisti, ormai più di un secolo fa, i quali lo hanno tratto a propria volta dalla psicologia, dalla medicina, dalla filosofia, dalla letteratura, dall’arte e dalle scienze naturali. Questo non è un compito, bensì una chiamata: il mio ruolo è promuovere una strategia che contribuisca a tenere viva questa energia“.
Conclude così Irene Battaglini: “La sfida, oggi, è mantenere credibile la luce di questa storia bellissima, che molti di noi hanno dimenticato precipitando in una diatriba tra metafisica e neopositivismo. Noi abbiamo una storia vera da raccontare, ma anche da vivere e trasmettere alle successive generazioni: questo è necessario trasmettere agli allievi e ai docenti, questa forma di amore“.
Relativamente ai Gruppi di Supervisione alla Balint, la Scuola offre un altro Open Day gratuito Mercoledì 1 Luglio 2015
L’Open Day alla SPEF è stato Open in tutti i sensi, mostrando i locali, l’offerta formativa, i metodi, i docenti ed i colleghi specializzandi per quello che sono nella realtà dei fatti.
Quello che certamente si respira entrando alla SPEF è un clima di reciprocità e rispetto, ma ancor prima di quello dovuto come colleghi, indipendentemente dal ruolo o dal grado di preparazione che ognuno riveste, si coglie la sincera attenzione verso la persona, ciascuna con la propria storia di vita.
L’analisi del “comportamento non verbale” degli esseri umani, oggi assai impiegata in criminologia ed in ambito poliziesco-giudiziario (in specie in alcuni paesi), è in realtà nata nel campo della ricerca psicologica relativa a contesti diagnostico-terapeutici: essa si è rivolta sin dall’inizio all’intento di scoprire le emozioni “non palesi” dei pazienti in psicoterapia, quindi i loro eventuali “meccanismi di difesa”, e di conseguenza è stata applicata anche allo scopo di gestire gli interventi del terapeuta e le sue stesse reazioni emotive al paziente, nonché d’investigare le modalità profonde della relazione psicoterapeutica presa in sé stessa.
Ciò è avvenuto principalmente in ragione del fatto che la nostra specie, in quanto l’unica dotata d’un linguaggio “parlato” altamente simbolico (e dunque capace di veicolare significati e contenuti informativi estremamente complessi), è anche l’unica che presenta, nella sua comunicazione, una vasta e clamorosa discrepanza, ovvero una particolarissima “dissociazione”.
In particolare, la comunicazione umana presenta da un lato degli aspetti di tipo “semantico” relativi, appunto, ai numerosissimi “significati” ed informazioni presenti nelle comunicazioni verbali umane: ora questi significati, di per sé, sono assai sovente astratti e relativamente “neutri”, in quanto riferibili alle caratteristiche del mondo fisico circostante (si pensi agli aspetti matematici), e sono anche concatenati fra loro in rigorose architetture formali di grande pregnanza gerarchica e di grande complessità (si vedano gli aspetti sintattici e logico-formali dei vari costrutti linguistici, in gran parte basati sui concetti di “soggetto”, “predicato” e “complemento oggetto” nonché su quelli di “attività/passività” e di “qualità/relazione”, e soprattutto sulle loro pressoché infinite possibilità di combinazione).
Dall’altro lato, la comunicazione umana presenta degli aspetti di tipo “pragmatico”, cioè relativi all’uso pratico ed immediato che della comunicazione stessa viene fatto nell’ambito della più elementare relazione interindividuale e collettiva (in particolare, in relazione alle sue finalità d’influenzamento, d’intimidazione, di amicizia, di ostilità, di pacificazione, di profferta di alleanza, ecc.), ovvero nell’ambito d’un tipo di comunicazione che in genere, dal punto di vista strutturale, è assai più semplice della prima e si avvale di elementi comunicativi non strettamente e non necessariamente verbali o formalmente codificati in strutture complesse, ma che pure comunicano qualcosa di assai preciso: il tono della voce, l’espressione del viso, la postura corporea, la gestualità, e quant’altro.
Ora, il punto è che questi ultimi elementi (quelli “pragmatici”) sono assai spesso in contrapposizione anche diametrale con i primi (quelli “semantici”), o quanto meno si pongono su piani assai diversi rispetto ad essi, il che genera puntualmente, riguardo all’essere umano, l’impressione d’una singolare “ambiguità” espressiva.
Perciò, nel suo volere andare “al di là delle apparenze” ed investigare più in profondità la relazione medico-paziente, lo studio del “comportamento non verbale” dell’uomo, nato come si è detto in ambito psicoterapeutico, sembra avere ubbidito a queste caratteristiche assolutamente peculiari e “dissociate” della natura umana, ed avere voluto decifrare ciò che fra gli uomini, “al di là delle parole” e dei loro significati, transita di amichevole oppure di ostile, di fiducioso oppure di diffidente, di vitale oppure di mortifero, d’improntato alla sicurezza di sé e degli altri oppure alla paura, ecc.
Per tale insieme di ragioni, un tale studio sembra essere stato singolarmente simile, sin dai suoi esordi, alle cosiddette “terapie del profondo” di natura psico-dinamica, le quali su altri piani sono da esso quanto di più lontano si possa immaginare. In definitiva, quando si parla sul piano teorico della “comunicazione non verbale” fra gli esseri umani, un riferimento prioritario al campo delle psicoterapie (in primo luogo analitiche), più che legittimo, è d’obbligo.
Chiarisco subito che il nostro livello d’analisi,pur partendo dal “comportamento non verbale”, ossia dall’osservazione del “comportamento di superficie” ed in qualche modo “visibile” del paziente, ed in generale da ciò che potremmo chiamare la “semeiotica del comportamento umano” (nella fattispecie, la semeiotica del comportamento di coloro, terapeuta e paziente, che per definizione rappresentano i due soggetti d’ogni prassi psicoterapeutica), si concluderà con la formulazione di alcune ipotesi di carattere generale circa la natura del rapporto fra gli esseri umani, ed in particolare circa la relazione psicoterapeutica vista nei suoi aspetti più profondi e decisivi, ovvero in quei suoi risvolti “strategici” che per definizione non emergono dai livelli comunicativi più palesi, ma che alla fine fanno sì che essa sia veramente “terapeutica” oppure no.
Parlerò quindi, oltre che della “comunicazione non verbale”, anche dell’argomento, in sé ben più arduo, dello “scambio psichico”, a mio avviso di natura biologica e quasi “metabolica”, che fra terapeuta e paziente, così come fra tutti gli altri esseri umani, si svolge a livello inconscio: uno scambio il quale permea di sé quella sfera della relazione terapeutica che comunemente si denota, nel linguaggio psicoanalitico, con i concetti di “transfert” e di “contro-tranfert”. Un tale scambio, infatti, a mio avviso costituisce il meccanismo stesso d’ogni psicoterapia intesa, in senso letterale, come “pratica d’aiuto” condotta attraverso l’azione di una mente su un’altra mente.
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Facciamo per cominciare alcuni classici esempi di “semeiotica del comportamento non verbale” con particolare riferimento al loro possibile uso in terapia, a mo’ d’introduzione all’argomento ed al fine di capire almeno a grandi linee di cosa stiamo parlando.
Per farne uno che può colpire l’immaginario di ciascuno di noi, si è compreso abbastanza presto il motivo d’un frequente fenomeno transferale negativo, in sé enigmatico (per lo meno all’apparenza) ed assolutamente contro-intuitivo: esso concerne il fatto, ormai accertato, che il sorridere troppo frequentemente, da parte del terapeuta, durante una psicoterapia, anziché “mettere a proprio agio” il paziente e “rassicurarlo”, come di solito ci si aspetta che avvenga, può facilmente ostacolare l’instaurazione d’una buona relazione terapeutica con lui. Ora, è sin troppo facile, se solo si riflette un attimo sulle concrete condizioni dell’interazione psicoterapeutica, comprendere il motivo di questo fenomeno apparentemente paradossale: è evidente, infatti, come non sia il sorriso in sé, bensì una qualsivoglia posizione o atteggiamento “fisso” e stereotipato da parte del terapeuta, l’elemento il quale, nel suo denotare nel terapeuta medesimo una scarsa comprensione ed aderenza alla realtà psichica del proprio paziente (necessariamente cangiante di continuo!), o comunque una scarsa vicinanza ai suoi reali vissuti ed alla sua soggettività, insinua in quest’ultimo il dubbio, e progressivamente, la certezza, di non essere compreso. Ad esempio, il sorridere inizialmente ad un ansioso, ad un fobico o ad una persona per qualunque motivo spaventata, può risultare benefico poiché indica comunque l’intuizione d’un suo stato d’animo; tuttavia il farlo troppo spesso, o ancora più il farlo ad un depresso, può rivelare al contrario un’incolmabile distanza empatica e/o una fatale dissonanza emotiva con lui e con la sua sofferenza, così come il farlo ad uno schizofrenico paranoideo può generare in quest’ultimo il sospetto di essere deriso, ecc. Ed è anche facile intuire come un tale atteggiamento “emotivamente dissonante”, paradossalmente realizzantesi tramite un “sorriso” più o meno sterotipato, possa denotare una precisa “difesa” del terapeuta (fatta essenzialmente di negazione e di anestesia emotiva) dall’angoscia che un dato paziente gli trasmette: il sorridere troppo spesso ad un depresso, ad esempio, può denotare un tentativo di negare e/o di allontanarsi dalla sua sofferenza, mentre il sorridere troppo spesso ad un paranoico o ad un “antisociale” può significare negare la paura che si prova nei suoi confronti, ecc.
Altri esempi “classici” di “semeiotica del comportamento non verbale” sono i seguenti, e sono perfettamente noti ad ogni psicoterapeuta che abbia un minimo d’esperienza: il ruotare il busto in una posizione perpendicolare all’interlocutore, oppure l’incrociare le braccia di fronte a lui, denotano di solito una precisa “resistenza” nei confronti della sua persona e di tutto quanto nell’ambito della comunicazione in corso, proviene da essa; l’inarcare le sopracciglia nel porre una domanda denota in chi la pone supponenza e presunzione di conoscere già la risposta; il porre la punta dei piedi in direzione non dell’interlocutore ma della porta indica desiderio di andarsene il più presto possibile; lo schiarirsi la voce, il respirare rumorosamente, il sospirare, denotano spesso impazienza, o addirittura aggressività; il grattarsi la testa, lo sfregarsi il naso, il fare l’atto di cavarsi qualcosa dall’occhio o dall’orecchio, denotano la percezione di qualcosa di molto molesto presente nella comunicazione. Il mettersi in bocca un dito o la punta d’una penna, viceversa, denota un’accettazione più o meno piena, o quanto meno una curiosità ed “apertura”, nei confronti dell’interlocutore e dei contenuti della comunicazione medesima. Ma si potrebbero fare molti altri esempi.
Alcuni comportamenti, poi, specie se psicotici, sono alquanto imprevedibili, e l’unica cosa da fare è usare al loro riguardo una generica “cautela”: personalmente, porto sempre ad esempio la disavventura nella quale incorsi molti anni fa, psichiatra di Manicomio alle prime armi, quando infransi la “tacita regola universale”, valida in qualsiasi tipo di relazione umana non ancora divenuta intima, del mantenimento d’una distanza corporea interpersonale minima e “di sicurezza” con il proprio interlocutore (circa un metro), e la infransi proprio con un paziente psicotico di tipo paranoideo: nella fattispecie, non solo mi avvicinai troppo, ma giunsi a toccarlo amichevolmente con una mano sulla spalla a scopo di rassicurazione; infatti si trattava d’uno schizofrenico apparentemente bonario e benevolo nei miei confronti, il cui pensiero sembrava perennemente vagare “altrove” rispetto alla relazione interpersonale, essendo all’apparenza incentrato principalmente sul sé ed in particolare su tematiche ipocondriache, seppure a carattere delirante; ebbene, ne ricevetti in cambio, all’improvviso e senza alcun segno premonitore, prima un calcio (che riuscii a schivare) e poi uno schiaffo (che presi in pieno).
Alcuni antropologi e studiosi della “comunicazione non verbale” (ad esempio, Edward T. Hall, 1963), sono in proposito molto minuziosi e portati alla classificazione formale: parlano anzitutto di “comunicazione oggettuale” (preferenze, più o meno rivelatrici della personalità d’un soggetto, per oggetti d’uso personale particolari e d’un certo tipo, quali il modello dell’auto, la marca dell’orologio, la tipologia dell’abitazione e degli oggetti di più abituale consumo), e la distinguono dalla “comunicazione non verbale propriamente detta” (modalità comunicativa ottenuta invece attraverso le espressioni più dirette e gestuali del proprio corpo). Poi, per quanto riguarda le forme di “comunicazione non verbale”, essi distinguono fra comunicazione non verbale “statica” (ad esempio il modo di vestirsi e/o di modellare il proprio corpo, ad esempio con i tatuaggi o andando in palestra) e “comunicazione non verbale dinamica” (il modo fisico di atteggiarsi tramite i gesti). Distinguono infine, nell’ambito della “comunicazione non verbale dinamica”, a) la comunicazione cosiddetta “prossemica” (riguardante la gestione degli spazi e delle distanze fisiche fra le persone, le quali in media si aggirano, appunto, attorno ad un metro, ma che a seconda delle circostanze possono allungarsi o accorciarsi fino ad azzerarsi); b) la comunicazione “cinesica” (l’insieme delle comunicazioni gestuali di tipo non verbale quali, come già accennato, il grattarsi il naso o gli occhi o la testa, l’incrociare le braccia davanti al busto, il mettersi di traverso rispetto all’interlocutore, ecc.); c) la comunicazione “para-linguistica” (gli aspetti non verbali delle comunicazioni verbali, quali il tono, il volume, la prosodia ed il ritmo della voce, ma anche i borborigmi intestinali involontari prodotti mentre si parla, il raschiarsi la gola, il calo “involontario” della voce, il sospirare e lo sbuffare mentre si parla); d) la comunicazione “digitale” (tutte le caratteristiche e soprattutto le variazioni che si registrano nel contatto corporeo intenzionale, quali il brusco ed inopinato toccamento, o al contrario l’improvviso sottrarsi ad un contatto fisico magari in precedenza abituale ed accettato); infine, e) la comunicazione “olfattiva” (l’emissione non consciamente intenzionale sia di odori provenienti dalle ghiandole apocrine che di ferormoni ad effetto sub-liminale, emissioni le quali nel loro complesso regolano una buona parte delle interazioni inconsce fra individui). Ora, è evidente, ad esempio, come la cinesica e la para-linguistica siano modalità comunicative solo “indirette”, in quanto concernono atteggiamenti che il soggetto si limita ad assumere più o meno consapevolmente e senza coinvolgere direttamente gli altri (quindi sono assimilabili a delle “comunicazioni pure”), mentre la digitale e l’olfattiva (ed in parte anche la prossemica) rappresentano delle modalità comunicative assai più “dirette”, poiché implicano una qualche forma di “scambio fisico” che in qualche modo “si impone” agli altri, può richiedere più o meno imperiosamente una loro reazione e comunque va ben oltre la semplice “comunicazione”. Ma come abbiamo già detto, non è scopo della nostra trattazione l’addentrarci in un’analisi sistematica di tutte queste forme di “comunicazione non verbale”, e basterà qui avervi fatto questo breve cenno.
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Facciamo, a questo punto, una breve ricognizione storico-critica circa il “linguaggio non verbale”: anzitutto occorre dire che gli studi scientifici sul “comportamento non verbale” nella pratica psicoterapeutica sono tutti relativamente recenti. La ricerca empirica sull’argomento è invece più antica: essa si è basata, per molti anni, soprattutto sui resoconti delle sedute di psicoterapia (i cosiddetti “self report”), reperibili già nelle opere di Sigmund Freud.
Sul finire degli anni Sessanta del Novecento però, a poco a poco, un nuovo approccio cominciò a farsi strada: esso fu aperto dal classico saggio “Pragmatica della comunicazione umana” di Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D., pubblicato per la prima volta in italiano, a Roma, da Astrolabio, nel 1971. L’assunto di base, anzi il vero e proprio “paradigma” del libro sopra citato era quello che comunque ci si ponga rispetto agli altri, di fatto, volenti o nolenti, in quanto esseri umani, anzi in quanto esseri viventi che per definizione inter-agiscono, “non possiamo non comunicare in qualche modo fra noi”, per cui le forme concrete di tale comunicazione, in sé essenzialmente “pragmatiche”, possono, anzi debbono, venir “studiate”. L’importanza d’un tale concetto, solo apparentemente banale e scontato, era che esso richiamava l’attenzione sul fatto che la relazione fra tutti gli esseri viventi senza eccezione alcuna (specie ove studiata all’interno di “gruppi”), appare svolgersi nell’ambito d’un “sistema” nel quale avviene comunque un qualche tipo di “scambio comunicativo” avente un valore pratico ed immediato.
Ora, questo “scambio” è universalmente “non verbale”, e se nel caso degli esseri umani esso è anche (ma non solamente!) “verbale”, appare comunque tale da presentare, al di sotto della superficie, numerose e preponderanti forme di comunicazione “alternative” a quella verbale, le quali spesso addirittura la contraddicono: forme che, ad esempio, pur salvaguardando la comunicazione del gruppo nel suo insieme, possono escluderne o sacrificarne alcuni membri, cosiddetti “designati”, i quali ne divengono ad un certo punto i “capri espiatori”. Insomma, questo “scambio comunicativo profondo” di carattere non verbale, per desiderato o non desiderato, sociale o predatorio, “tossico” o “nutritivo” che sia, appare venire assai prima ed andare ben oltre rispetto agli aspetti verbali che caratterizzano “in superficie” l’essere umano.
Gli aspetti “verbali” della comunicazione, poi, a differenza di quelli “non verbali”, ci appaiono sempre e comunque come “volontari” e “coscienti”, oltre che caratterizzati da un’apparentemente assoluta preponderanza della loro parte semantico-informativa e sintattico-grammaticale su quella “pragmatica”, ovvero d’influenzamento degli altri: in questa loro caratteristica (che per definizione ci sembra in qualche modo “impalpabile” e “dissociata” dalla biologia, in quanto tesa a dominare e manipolare i concetti ed i simboli anziché altri esseri viventi) essi ci appaiono quasi fatti apposta per padroneggiare gli aspetti pragmatici medesimi, ovvero per differire nel tempo la loro azione più o meno brutale di condizionamento sugli altri membri del gruppo e “contrattarla” con essi nei modi più sofisticati, più improntati alla reciprocità e più metaforici possibili, nonché talora per occultarla ai loro occhi sotto forme apparentemente opposte: si pensi, a quest’ultimo proposito ai numerosi termini, circonlocuzioni e concetti “piacevoli” usati per designare realtà sommamente “spiacevoli”, o più semplicemente, alla presentazione “ideologica”, retorica ed accattivante di realtà anche molto tragiche e letali, come avviene ad esempio in guerra con la retorica del “patriottismo”.
Per quanto riguarda invece la “comunicazione non verbale”, occorre osservare come essa, in linea generale, sia assai meno “menzognera” di quella verbale, e comunque più aderente ai fondamenti stessi della comunicazione (che sono di natura biologica): ad esempio, anche restando in silenzio, prima o poi si comunica comunque qualcosa ai nostri simili (anzi qualcosa, di solito, di assai importante!), e lo si fa anche con i propri atteggiamenti corporei, poiché essi molto spesso riaffermano gerarchie, rapporti di potere, reazioni emotive profonde, ecc.
In definitiva, si può affermare che tanto più si comunica in forma “veritiera” quanto più si mettono in atto quelle innumerevoli forme di “comunicazione non verbale”, proprie della nostra specie come delle altre, di cui siamo ormai bene a conoscenza ed alle quali abbiamo fatto sopra cenno.
Ancora, con il tempo si è capito che tutte queste forme di “meta-comunicazione”, le quali vanno largamente al di là degli aspetti verbali e vengono mediate sia dalla gestualità corporea che dal silenzio, nonché da alcuni aspetti inconsci, ideologici e/o “sotterranei” della comunicazione verbale stessa, possono essere studiate più agevolmente, rispetto all’ambito della comunicazione duale, in sistemi strutturati collettivi quali il gruppo o la famiglia: in questi ultimi infatti, da un lato i livelli individuali di auto-controllo, proprio perché “diluiti” nel gruppo, fatalmente si allentano; dall’altro, la posizione del terapeuta, in quanto divenuto a sua volta più “esterno” alla “relazione duale”, quindi anche meno “immerso nella relazione terapeutica”, e di conseguenza molto più libero dai suoi condizionamenti (per certi versi più cogenti), diviene sempre di più quella d’un “osservatore del comportamento”. Da ciò l’affermarsi progressivo, per un verso, delle “terapie di gruppo”, per un altro di quella cosiddetta “terapia relazionale-sistemica” altrimenti nota come “terapia familiare”, e soprattutto il crescere della loro importanza in quanto “luoghi privilegiati” e relativamente più “neutrali” per un’osservazione del comportamento non verbale e delle suddette “meta-comunicazioni” nell’ambito delle relazioni umane.
L’altro autore della vera e propria “svolta” che avvenne nell’ambito dello studio della “comunicazione non verbale”, negli anni Sessanta del Novecento, fu Albert Mehrabian. In quegli anni, dunque, questo psicologo statunitense condusse pionieristiche ricerche sull’importanza dei diversi aspetti della comunicazione umana nel far recepire all’interlocutore un determinato messaggio. Il risultato, il quale all’epoca apparve rivoluzionario, fu che la frazione “non verbale” della comunicazione umana (in particolare quella legata al corpo ed alla mimica facciale) risultò avere un’influenza del 55% sul totale, mentre la comunicazione paraverbale e/o paralinguistica (tono, volume, ritmo della voce, ecc.) la aveva del 38%, ed il contenuto verbale di tipo propriamente semantico, ossia legato al significato letterale del messaggio ed al suo contenuto informativo più astratto, solo del 7%. Da questi dati, come si vede, risultava che anche sommando insieme gli aspetti della comunicazione direttamente ed indirettamente legati al linguaggio parlato (aspetti verbali più aspetti para-verbali), essi influivano nel loro insieme sul comportamento umano per non più del 45% del totale, mentre gli aspetti “non verbali” risultavano ancora maggioritari, in quanto influivano sul restante 55%.
Ma v’era di più: proprio come gli studi di natura “relazionale” sopra citati, anche quelli di Mehrabian confermavano come la trasmissione dei contenuti semantici delle informazioni verbali (i quali rappresentano la caratteristica comunicativa precipua e più “vistosa” del linguaggio simbolico umano, quella cui siamo soliti dare la maggiore importanza), rappresentasse nella nostra specie solo una parte minima, ovvero la “punta emersa”, d’un enorme “iceberg comunicativo” la cui parte preponderante (del tutto sommersa rispetto alla nostra “percezione cosciente”) era di natura non verbale, in perfetta analogia con quanto avviene negli animali. Questi studi, peraltro condotti con sufficiente rigore metodologico ed equilibrio, furono però “forzati” e travisati da buona parte delle cosiddette “scuole di Programmazione Neuro-Linguistica” (PNL) nate sulla loro scia: esse, proprio sulla base di tali risultati, presero in molti casi a sostenere, semplicisticamente, che ciò che contava in ogni tipo di comunicazione, assai più che il suo contenuto o la sua stessa finalità effettiva, era il modo in cui la comunicazione medesima veniva “offerta”, quindi in definitiva il suo potere suggestivo (anche a fini commerciali). Da ciò derivò il proliferare d’ogni genere di “urlatori della comunicazione”, di “esperti della comunicazione sub-liminale” nonché di scuole di psicoterapia essenzialmente “suggestive” (ad esempio quelle basate sull’abuso più sfacciato del sorriso, quali certe forme estreme di “Patch-Therapy”, oppure sette mistiche e finalizzate al plagio quali “Scienthology”): scuole che a tutt’oggi imperversano ovunque, malgrado sempre più siano smentite, nella loro efficacia e veridicità, dagli studi più seri esistenti in proposito di “comunicazione non verbale”. E’ infatti ovvio che ciò che alla fine conta davvero, in una comunicazione interpersonale la quale può essere “tossica” o “ al contrario “benefica” per chi la intrattiene, al di là della sua forma più o meno accattivante, è proprio il suo contenuto, in sé biologicamente tutt’altro che “indifferente”: in ragione di ciò, la forma con cui tale contenuto viene “offerto” non può affatto essere considerata in maniera astratta e separata rispetto a quest’ultimo, specie in psicoterapia. In altre parole, l’indubbia dissociazione, esistente nella specie umana, delle forme comunicative verbali da quelle non verbali ed anche l’altrettanto indubbia preponderanza quantitativa delle seconde sulle prime, non possono assolutamente essere confuse con una presunta dissociazione delle forme comunicative prese in sé stesse, e nel loro insieme, dai contenuti biologici da esse veicolati, e neppure con l’onnipotenza d’una non meglio precisata “suggestione”: è infatti una considerazione di puro buon senso il ricordare come le forme comunicative prevalentemente “paradossali”, ovvero fortemente discordanti dai loro contenuti biologici (quali quelle, d’impronta nettamente “patologica” e disfunzionale, dette “doppio messaggio”, indagate ad esempio nella “Pragmatica della comunicazione umana” a proposito delle famiglie degli psicotici, oppure quelle proprie delle sette dedite al plagio), sono alla lunga “patogene”, quindi controproducenti, per qualunque specie, in particolare ai fini della sua vita associata, ed in definitiva incompatibili con la sua stessa sopravvivenza; perciò è ovvio che una tale incompatibilità debba emergere, prima o poi, anche e soprattutto nell’ambito d’una attività che si presume “curativa” quale una psico-terapia.
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Ma vediamo un po’ meglio, adesso, in quali direzioni le ricerche più serie sulla “comunicazione non verbale” si sono nel frattempo sviluppate, nel mentre che questi orientamenti più o meno “ciarlataneschi” dilagavano: ora, occorre dire che in gran parte degli studi della fine degli anni 60 del Novecento, si era indagato prevalentemente sugli aspetti comunicativi legati all’insieme del corpo umano, tralasciando singolarmente il volto. Un orientamento completamente diverso lo si dovette, per la prima volta, a Silvan Tomkins, uno psicologo di Philadelphia il quale indagava le emozioni umane da un punto di vista “innatistico”. I suoi studi, che risalgono al 1965, furono così dirompenti da indurre un altro studioso, Paul Ekman, suo collega di Washington, ad estendere anche lui lo studio del comportamento non verbale (sempre partendo dagli stessi presupposti “innatistici”) proprio alla mimica del volto.
Ekman aveva all’epoca iniziato, per conto della A.R.P.A. (Advanced Research Project Agency), una ricerca sulla “comunicazione non verbale del viso”, anche se in precedenza si era occupato soprattutto di pazienti psichiatrici. Egli per la verità fino ad allora, quanto a quadro teorico di riferimento, si era ispirato in prevalenza a studiosi di approccio “culturalista” quali l’antropologa Margareth Mead o lo studioso della comunicazione Gregory Bateson (appartenente a quella stessa “Scuola di Palo Alto”, o “scuola relazionale-sistemica”, di cui facevano parte anche gli autori della “Pragmatica della comunicazione”): questi autori sostenevano che sia il “linguaggio parlato” sia il “linguaggio non verbale”, in particolare quello del viso, erano costituiti da elementi “appresi” nel corso dello sviluppo, tutti quanti identificabili nella loro origine e sviluppo, tramite un approccio antropologico di tipo appunto “culturalista”, nell’ambito dell’ambiente circostante, quindi della famiglia, dell’educazione ricevuta e della cultura d’appartenenza di ciascun soggetto. Silvan Tomkins, invece, riprendendo i classici concetti già espressi a suo tempo, fin dal secolo XIX, da Charles Darwin (il quale riteneva che le espressioni facciali legate alle emozioni fossero innate e universali in tutto il regno animale ed anche nell’uomo), aveva per primo, almeno per quanto riguarda il “linguaggio non verbale”, sostenuto il contrario.
Del resto, anche il grande linguista d’approccio “strutturalista” Noam Chomski, da tempo, per quanto riguarda lo stesso “linguaggio verbale”, andava sostenendo tesi analoghe, ovvero l’esatto contrario di quanto affermato anche a tale proposito dall’approccio “culturalista”: egli affermava infatti, sia contro le concezioni ambientalistiche e culturaliste del linguaggio, sia contro il “gradualismo adattivo” proprio d’un certo “darwinismo ortodosso” (quello, per intendersi, di Richard Dawkins, Steven Pinker e Daniel Dennett), che il linguaggio parlato è una proprietà della mente umana “emersa” all’improvviso, quale “struttura formale innata” del cervello, e non già il risultato d’una lenta evoluzione ed interazione della specie con l’ambiente, tanto meno faticosamente raggiunto tramite l’esperienza individuale /o di gruppo, ovvero con modalità lamarckiane e “per tentativi ed errori”. Una tale concezione strutturalistico-formale, peraltro, è stata recentemente sostenuta, anche sul piano dell’evoluzione più generale di tutti gli esseri viventi, dagli studiosi della recente corrente di pensiero evoluzionistico detta “Evo-Devo”, l’acronimo di “Evolution-Development” (Evoluzione-Sviluppo), della quale un importante esponente italiano è lo studioso di biologia del linguaggio Massimo Piattelli-Palmarini. Ora, secondo l’ipotesi “Evo-Devo”, nel mutare delle specie e nel loro acquisire nuovi e complessi tratti, non tutto si ridurrebbe ad “evoluzione per selezione ambientale”, come vogliono gli evoluzionisti cosiddetti “adattamentisti”, “gradualisti” e “darwiniani ortodossi”, poiché una parte cospicua di tali tratti deriverebbe o da fattori puramente casuali ed improvvisamente “emergenti” senza un motivo preciso, dalla struttura precedente (è il caso del numero sempre dispari delle paia di zampe delle oltre tremila specie di chilopodi impropriamente detti “centopiedi”); oppure deriverebbe da fattori che sono gli unici a permettere lo “sviluppo strutturale intrinseco” d’una determinata forma vivente, ovvero i soli a presentare una loro “intrinseca compatibilità formale” con la struttura biologica complessiva all’interno della quale si trovano inseriti. In base a ciò, essendo le caratteristiche “formali” di alcuni tratti le uniche ad essere “intrinsecamente possibili” all’interno d’un determinato quadro di riferimento “strutturale” che sia valido per quei tratti, esse sarebbero anche le sole a far sì che una tale struttura vivente, concretamente, “si regga in piedi” e risulti fisicamente possibile (e ciò a prescindere da ogni eventuale “pressione selettiva ambientale”). Ebbene, il linguaggio, con la sua complessità e con la sua dipendenza stretta, nella sua componente verbale, da certe strutture anatomiche (ad esempio, la particolare conformazione del laringe e del faringe), farebbe parte appunto di questa categoria di tratti “strutturalmente obbligati ad assumere una data forma”, delineata da “Evo-Devo”: tratti in parte “emersi” per puro caso, in parte strutturatisi in forme altamente differenziate nonché “obbligate” dalla loro stessa conformazione intrinseca, ed in ogni caso in larga misura “innate” ed indipendenti dall’ambiente.
Le ricerche che seguirono quelle di Thomkins videro dunque Ekman ed altri psicologi e ricercatori suoi contemporanei sostenere (sulla scia per un verso del Darwin “innatista” che si contrapponeva a Lamarck, e per un altro del Chomski “strutturalista” che si contrapponeva ai linguisti d’orientamento “culturalistico-ambientalista”) che anche il “comportamento non verbale” era un comportamento formale altamente “strutturale” e connaturato alla specie. Essi in tal modo stabilirono la natura innata, accanto alle forme espressive verbali (quelle studiate appunto da Chomski), delle stesse espressioni facciali, a loro volta fortemente condizionate in senso “strutturale” dalla conformazione del cranio facciale umano e della muscolatura del viso. Il viso, dunque, in questa prospettiva cominciò ad essere considerato la parte del corpo più in grado di fornire informazioni attendibili e veritiere nell’ambito della “comunicazione non verbale”. Paul Ekman e Wallace Friesen elaborarono di conseguenza un sistema di codificazione delle espressioni facciali il quale consentiva di classificarle ed identificarle in modo analitico e sistematico a prescindere dalle variabili ambientali e/o culturali, ovvero il F.A.C.S. (“Facial Action Coding System”).
Oggi, ormai, lo studio scientifico del “comportamento non verbale” viene posto in una posizione assolutamente centrale nella ricerca sulle interazioni che hanno luogo nell’ambito della “diade” madre-bambino e, in generale, nell’ambito di tutte quelle relazioni umane in cui i soggetti interessati non sono in grado di verbalizzare adeguatamente le proprie emozioni (ad. nell’autismo, nel ritardo mentale, nel sordo-mutismo, ecc.). Inoltre, il F.A.C.S. e la comunicazione non verbale in genere, vengono usati in studi quali quelli sulle espressioni facciali alterate e/o carenti proprie di alcuni forme psicopatologiche (ad esempio, quelle dei pazienti schizofrenici, bipolari e depressi), o nell’analisi del pianto neonatale (“Neo-natal Action Facial Coding System”, o NFACS), oppure nella dinamica interattiva che ha luogo nell’ambito delle sedute di psicoterapia individuali e di gruppo.
In quest’ultimo settore di ricerca, ci sono lavori che hanno analizzato le dinamiche della “diade” paziente-terapeuta (una “diade” perfettamente parallela ed analoga a quella madre-bambino) in una maniera per quanto possibile “oggettiva”, quindi andando ben oltre l’ultra-soggettivo “self-report” d’epoca freudiana. Autori come Jorg Merten e coll. (1996 e 2005), ad esempio, hanno utilizzato il F.A.C.S. comparando le sedute di terapie nelle quali la relazione terapeutica era efficace con altre in cui invece falliva, ed hanno scoperto che il “punto critico” non era la “scuola di pensiero” cui apparteneva il terapeuta, bensì un dato puramente tecnico, contingente ed in sé banale, consistente nella mancata rilevazione, da parte di quest’ultimo, di alcune espressioni facciali del paziente, quindi il mancato adeguamento del terapeuta stesso a ciò che tali espressioni potevano significare. Altri studi hanno mostrato come un terapeuta il quale, al contrario, sia sufficientemente avveduto di questi fenomeni, possa manovrare la propria componente verbale e quella non verbale, in terapia, non solo in linea generale ma anche nell’ambito d’una leggera situazione di conflitto con il paziente, cosa che concorre fra l’altro a spingere quest’ultimo al cambiamento pur preservando la relazione terapeutica con lui.
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In questa sommaria revisione storico-critica del significato della “comunicazione non verbale”, sia nelle psicoterapie che in generale, abbiamo dunque acquisito un concetto: spesso la suddetta comunicazione appare essere, oltre che quantitativamente preponderante, assai più “veritiera”, rispetto alla “comunicazione verbale”, in quanto più aderente a ciò che potremmo definire lo “scambio biologico di base”, in gran parte a carattere innato, che avviene fra esseri umani nell’ambito della loro interazione comunicativa.
Stabilito questo punto, veniamo ora alla parte più centrale del nostro discorso: essa, come già accennato, verte proprio su ciò che si suppone avvenga in profondità nella relazione terapeutica medesima, ossia su ciò che transiterebbe in profondità tra terapeuta e paziente al di là delle espressioni comunicative più palesi (in particolare di quelle verbali, ma non solo), ed esplicherebbe presumibilmente un’azione “curativa”. Ora, l’ipotesi che facciamo in proposito, lo anticipiamo sin da adesso, è quella, del tutto conforme ai postulati “strutturalisti” ed innatistici di Chomski (per quanto riguarda il “linguaggio verbale”) e di Ekman (per quanto riguarda il “linguaggio non verbale”), che anche lo scambio comunicativo profondo ed “inconscio” che intercorre tra paziente e psico-terapeuta ubbidisca, assai più che ad elementi culturali “appresi” e/o di superficie, a delle leggi biologiche a carattere permanente, per lo più innate ed indipendenti dalla cultura e dall’esperienza di volta in volta conseguite dalla nostra specie.
Com’è noto, un’esplorazione pionieristica rivolta non tanto alla “comunicazione non verbale” presa in sé stessa, quanto a quella vita psichica che potremmo definire “collaterale” o sotterranea rispetto alla coscienza, ovvero ai pensieri latenti, nonché alla vita emotiva che, su una precisa base biologica, sta in qualche modo “al di sotto” delle parole, fu quella dell’Inconscio. Quest’esplorazione, nata in realtà assai prima (si veda l’ormai classico saggio “La scoperta dell’inconscio” di Henri F. Ellenberger), ebbe però il suo sviluppo più significativo in Psicologia, com’è noto, con la grandiosa rivoluzione psico-analitica operata da Sigmund Freud oltre cento anni fa. Questa “rivoluzione” nacque sulla base d’una considerazione attenta dell’antropologia e delle scoperte dell’evoluzionismo. Occorre però dire, per amore di precisione, che lo studioso di storia della scienza Frank Sulloway, nel suo saggio “Freud biologo della psiche”, ha sostenuto che il fondatore della Psicoanalisi, assai più che a Charles Darwin, si sarebbe ispirato alle teorie di Ernst Haekel ed al suo cosiddetto “monismo”, ed in particolare al famoso motto di quest’autore “L’Ontogenesi ricapitola la Filogenesi”; quindi, per il tramite d’una tale teoria, in specie nella sua idea del succedersi nello sviluppo psichico delle fasi orale, anale, uretrale e fallica, Freud, per Sulloway, si sarebbe rifatto ad una visione dell’evoluzione che nel complesso era assai più lamarckiana ed “ambientalista” (ossia improntata all’idea di un’incorporazione sistematica ed in qualche modo “finalizzata”, nell’organismo individuale, delle esperienze derivanti dalle sollecitazioni ambientali), che non darwiniana (ovvero volta a quella d’una selezione ambientale delle variazioni che di volta in volta, per puro caso, si producevano fra le specie). Qui ovviamente non è possibile andare oltre un rapido cenno a quest’argomento, straordinariamente vasto, complesso e tale fra l’altro da coincidere solo in parte con il tema che ci siamo dati. Poiché però esso, almeno in alcuni suoi aspetti, investe in pieno quel “rapporto profondo” fra terapeuta e paziente il quale permea di sé, assai più che quella verbale, la “comunicazione non verbale” (e che è pertanto oggetto precipuo del presente discorso), occorrerà pur farvi un cenno. Basterà ricordare brevemente, al riguardo, tre punti:
1) l’esplorazione freudiana dell’inconscio, avviata proprio tramite l’analisi di elementi psichici e/o comportamentali non strettamente verbali quali i sogni o i lapsus, partiva essenzialmente da un’idea: quella che le “forze ancestrali” della biologia (per Freud, essenzialmente quelle aggressive e sessuali), “forze” le quali sarebbero presenti, nella psiche di ciascun essere umano, allo stato inconscio in quanto “represso” dalle proibizioni genitoriali e/o sociali (o più genericamente, dalla “cultura”), condizionassero in senso profondo il comportamento palese degli individui, lo deformassero e lo rendessero, in taluni casi, “patologico”, cioè più o meno discostante sia dalla norma sociale che dalle aspettative dell’individuo stesso. Una tale idea freudiana, dunque, era per definizione “dinamica”, poiché implicava l’ipotesi che tali “istanze psichiche inconsce” (i cosiddetti “derivati dell’inconscio”, un’entità quest’ultima che per definizione non era direttamente conoscibile) fossero comunque di derivazione biologica, e proprio in quanto tali (quindi collocate ben oltre la pura e semplice dimensione “cognitiva”) conservassero una loro incoercibile “forza” a livello mentale, e dovessero di conseguenza trovare comunque un qualche “sfogo”: ciò dapprima nell’ambito intrapsichico, poi nel comportamento esterno. Quest’idea grosso modo “idraulica” della struttura della mente umana condusse a poco a poco il suo autore ad una seconda idea, perfettamente consequenziale alla prima: quella che la “presa di coscienza” dei contenuti inconsci corrispondenti a tali “forze”, ovvero il loro “prender forma” sotto la specie di idee coscienti, ed il loro conseguente “sfogo ideativo” (uno “sfogo” fino ad allora negato dalla censura operata dalla coscienza, nonché dalla repressione istintuale operata dall’Io), fosse di per sé terapeutica: ciò essenzialmente in quanto una tale “presa di coscienza” sarebbe stata in grado di “dirigerle altrove”, aggirando così le barriere della censura ed operando una sorta di “decongestionamento dell’inconscio”. Di più, la “presa di coscienza”, con l’aiuto del terapeuta, avrebbe consentito di “sublimare” tali forze “dinamiche” di derivazione biologico-istintuale, ovvero di trasformarle, rendendole in qualche modo “immateriali” (si veda il significato letterale del termine “sublimazione”) ed indirizzandole a finalità più costruttive e conformi alle aspettative sociali. Ora, nella “vulgata corrente”, specie dei “non addetti ai lavori”, quest’idea di “normalizzazione” del comportamento patologico del paziente tramite la “presa di coscienza”, poi largamente smentita dai fatti, accanto a quella circa la presunta “onnipotenza della sessualità” nelle dinamiche psichiche profonde, è tuttora rimasta come l’emblema stesso della Psicoanalisi. Ma al di là di ciò, il concetto “dinamico” di “presa di coscienza terapeutica”, anche dopo l’affermarsi della cosiddetta “seconda topica” freudiana (quella che alla triade “conscio-inconscio-preconscio” sostituiva l’altra, di carattere più “strutturale”, “Io-Es-Super Io”, e concentrava in gran parte, in quella struttura psichica che era chiamata Es, i contenuti “repressi” e le stesse “forze dinamiche” dell’inconscio, facendoli così divenire ancor più chiaramente delle forze biologiche “compresse” dall’Io e bisognose di “sfogo”), permase effettivamente inalterato, ed anzi diede luogo a quel famoso e super-ottimistico programma terapeutico freudiano, relativo alla “bonifica dell’inconscio”, che suonava più o meno così: per mezzo della terapia psicoanalitica “Là dov’era l’Es (luogo principale delle “pulsioni aggressive e non immediatamente socializzabili risiedenti nell’Inconscio”) sarà l’Io” (struttura che per Freud era per l’organo eccellenza del “rapporto con la realtà”);
2) l’evoluzione successiva della Psicoanalisi freudiana portò tuttavia ad uno sviluppo assai diverso; essa condusse gli psicoanalisti ad incentrare sempre più l’attenzione, in alternativa alla pura e semplice “presa di coscienza”, su un “luogo particolare” che poi era il solo nel quale, come si vide ben presto, una tale “presa di coscienza” nonché “bonifica dell’inconscio” potevano dare un qualche frutto terapeutico: quello della cosiddetta “relazione transferale-controtransferale” che si instaurava fra paziente e terapeuta. Una tale relazione, in un’ottica psicanalitica tradizionale, non era altro che l’insieme delle proiezioni reciproche del paziente sul terapeuta e di quest’ultimo sul paziente, effettuate sulla base delle loro reciproche modalità di “relazione oggettuale” e poi accompagnate dalla loro analisi; quest’ultima poi era effettuata essenzialmente dal terapeuta e/o dal supervisore di quest’ultimo. Ora, questa vera e propria “scoperta clinica”, frutto più che di speculazioni teoriche d’una pluri-decennale esperienza pratica, era d’indubbio valore, poiché concerneva il dato di fatto, fino allora largamente misconosciuto e/o trascurato, che una qualsivoglia psicoterapia del “profondo” non poteva essere solo “cognitiva” e limitata al paziente (come i primi analisti erano inclini a credere), ma doveva necessariamente investire, per l’appunto, il rapporto terapeuta-paziente nei suoi aspetti “inconsci”, “biologici” e “dinamici”, ed insomma in qualcosa che andava, per definizione, ben al di là dei contenuti “verbali” emergenti in terapia. Il limite di questa scoperta, però, fu rappresentato dal fatto che il rapporto terapeuta-paziente veniva visto come un gioco di reciproche proiezioni di immagini infantili e/o ancestrali, a loro volta formatesi tramite lo sviluppo psichico, l’apprendimento e l’interazione ugualmente “oggettuale” fra genitori e figli: insomma, anche il rapporto terapeuta-paziente veniva visto, esattamente come la “presa di coscienza dei contenuti psichici inconsci” risalenti al passato, come un fatto in prevalenza “cognitivo” (si veda in proposito la “teoria delle relazioni oggettuali” inaugurata da Melanie Klein e poi sviluppata da autori come Margareth Mahler, Donald Winnicott, William Fairbairn, Otto Kernberg), mentre gli aspetti più propriamente biologici e “dinamici” di detto scambio restavano ancora una volta in ombra. Comunque sia, in base a questo radicale mutamento di prospettiva le terapie psicoanalitiche si allungarono di molto (dai pochi mesi iniziali a molti anni), e presero ad assomigliare sempre più ad un “addestramento etico” e quasi para-religioso ottenuto proprio tramite il rapporto con il terapeuta: un autentico “percorso di maturazione a due”, volto principalmente a fronteggiare le pulsioni distruttive; si veda, in proposito, la sempre maggiore importanza via via acquistata, in Psicoanalisi, dal concetto freudiano di “Istinto di morte” o “coazione a ripetere”, inteso quale segno di “resistenza al cambiamento”, “scelta colpevole della soluzione più semplice” (o meglio, affine alla “semplicità dell’inorganico”) e “rifiuto della complessità del reale”, da cui deriverebbe la “difficoltà nel guarire”. Il ritmo delle sedute, dunque, crebbe parallelamente a tale evoluzione, giungendo fino a quattro alla settimana, mentre l’”analisi del tranfert” divenne, com’è ovvio, assolutamente centrale non solo per la terapia, ma per la vita stessa del paziente: quest’ultima infatti, a poco a poco, essendo sempre più intesa come un “ri-percorrimento” (ovviamente guidato dall’analista) del proprio tragitto di maturazione infantile, doveva di necessità essere “rivissuta in analisi” nonché “risolta”, nei suoi snodi essenziali, nell’ambito della relazione, spesso conflittuale, con il proprio terapeuta. Su quest’ultimo infatti, come già accennato, il paziente “proiettava” i propri arcaici fantasmi ed i vissuti infantili verso le proprie figure genitoriali (la parola “transfert”, letteralmente, significa proprio “proiezione”), ed il terapeuta doveva fornire adeguate “interpretazioni” di tali proiezioni e convincerne il paziente. Le “resistenze” del paziente a fare tutto ciò, venivano infine liquidate semplicemente con la considerazione che in questo caso prevaleva, in lui, assieme ad un’insolitamente pervicace “fissazione” agli stadi più precoci e pre-genitali dello sviluppo psichico, l’“istinto”, ovvero la “pulsione”, di “morte”. All’inverso, nei casi più favorevoli si supponeva che i “nodi irrisolti” dello sviluppo infantile e del rapporto con i genitori (donde erano derivate le sue famose “fissazioni orali, anali e falliche”, già postulate da Freud), fino ad allora rimasti inconsci ma tali da condizionare in senso patologico sia il comportamento cosciente che la situazione inconscia del paziente, si fossero andati a poco a poco “sciogliendo” grazie all’azione congiunta della “presa di coscienza” e dell’”analisi del transfert”, rendendo possibile quella radicale trasformazione della personalità che era il presupposto della “guarigione”. Non tutto, naturalmente, era così semplice: già lo stesso Freud, per la verità, iniziò sul finire della sua vita a nutrire seri dubbi su questo “ottimismo teorico” coniugato ad una sorta di “massimalismo terapeutico”, ed in “Analisi terminabile ed interminabile” (1937), pose il problema dei limiti intrinseci dell’azione analitica e della frequente necessità di porvi fine pur senza aver raggiunto i risultati per essa “strategici” (il mutamento strutturale della personalità), mentre già nel 1925 aveva ipotizzato che l’importanza della Psicoanalisi sul piano culturale e scientifico oltrepassasse di gran lunga quella terapeutica.
3) E’ in conclusione evidente che un “campo terapeutico” quale quello psicoanalitico, proprio in quanto così ambiziosamente concepito, conteneva un numero di variabili, sia soggettive che oggettive, talmente elevato (il paziente, il terapeuta, i loro rispettivi passati e personalità, la loro interazione umana profonda e la loro relazione terapeutica, il loro rispettivo percorso di maturazione “cognitiva” ed “oggettuale”, il loro giudizio non necessariamente coincidente sull’andamento della terapia, ecc.) da rendere difficilissima una “verifica oggettiva” dei reali progressi terapeutici, ed anche una “falsificazione popperiana”, sul piano scientifico, circa la veridicità degli assunti teorici della Psicoanalisi (cosa ampiamente notata, peraltro, da illustri filosofi della scienza quali appunto Karl Popper, o Adolf Grunbaum). Ancora, questo limite era aggravato dal fatto che l’obiettivo della terapia, con una siffatta ultra-complessa metodica, si spostava necessariamente dai sintomi più o meno specifici d’un determinato disturbo ad una generica, assai più insondabile e scarsamente definibile “maturazione della personalità”, della quale era davvero arduo fornire “evidenze” sia “in positivo” che “a contrario”: se ad esempio si riteneva che un paziente in qualche modo “progredisse”, si supponeva che ciò avvenisse in quanto l’analisi del tranfert gli aveva fatto correttamente rivivere degli “snodi” infantili essenziali, sui quali però non era ovviamente possibile alcuna verifica (tanto meno extra-analitica); se invece “non progrediva”, veniva invocato come causa di ciò, come già accennato, il prevalere in lui dell’“l’istinto di morte”, ovvero d’un qualcosa che corrispondeva ad un concetto ancora meno soggetto a verifiche (o per lo meno, a verifiche scientifiche). Ebbene, a queste aporie di base del pensiero psicoanalitico di derivazione freudiana, derivanti dalla complessità e non verificabilità dell’oggetto della “terapia” analitica, non sembrano certo aver posto rimedio quegli autori più recenti ed alla moda i quali alla Psicoanalisi aderiscono o s’ispirano proprio in chiave “relazionale” (ossia in un’ottica che è la più complessa e la meno verificabile possibile), vuoi dal punto di vista dello studio delle funzioni mentali, vuoi da quello della “teoria dell’attaccamento”: Stephen Mitchell (Psicoanalisi relazionale), Peter Fonagy (“Teoria della mentalizzazione”), Philip Bromberg (Psicoanalisi relazionale), David Wallin (Psicoanalisi relazionale), Allan Shore (“Teoria dell’attaccamento”), o l’ormai classico Wilfred Bion (“Teoria delle funzioni”). Questi autori, infatti, per l’appunto in quanto fatalmente portati ad enfatizzare il ruolo attribuibile, nella terapia e nello stesso sviluppo psichico infantile del paziente, alla “relazione”, non hanno potuto far altro che rendere ancora più evidenti queste difficoltà.
Ora, proprio su una tale colossale “falla d’origine”, anche metodologica, della Psicoanalisi, ovvero di quella che potremmo definire la prima psicoterapia sistematicamente incentrata su elementi psichici “profondi” e soprattutto inerenti la ultra-complessa relazione fra gli uomini, quindi per definizione non immediatamente visibili (e spesso, “non verbali”), si è successivamente innestata, come vedremo, la proposta proveniente da un approccio psicoterapeutico completamente alternativo.
I possibili meccanismi d’azione delle psicoterapie sono stati rivisitati in una prospettiva radicalmente nuova, in particolare, ad opera dell’approccio cognititivo-comportamentale, un orientamento nato negli Stati Uniti intorno alla fine degli anni Sessanta in seguito al lavoro clinico di Aron T. Beck. Quest’orientamento s’imperniava su una radicale rivalutazione del ruolo esercitato, sia nella patogenesi dei disturbi mentali che nella loro terapia, proprio dai pensieri consci: in particolare, Beck si accorse che esisteva un nesso preciso fra alcuni dei pensieri consci che attraversavano la mente dei pazienti e le loro sofferenze, e si rese conto che, entro certi limiti, si potevano correggere le seconde influenzando i primi. In base a ciò, questo metodo s’imperniava su una riflessione del paziente, effettuata sotto la guida del terapeuta, sulle proprie emozioni e pensieri coscienti, nonché su un vero e proprio, sistematico “addestramento” per superarli e/o per prescinderne: insomma, esso rappresentava un metodo specularmente opposto a quello psicoanalitico, il quale era invece imperniato, come abbiamo visto, sull’esplorazione (“libera” e fondata sulle associazioni mentali del paziente, sui suoi lapsus ed i suoi sogni) di pensieri ed emozioni inconsce del paziente, esplorazione effettuata essenzialmente dal terapeuta in prima persona tramite l’interpretazione. Perciò il nome che Beck diede alla sua metodica fu quello di “Psicoterapia Cognitiva”. Oggi s’intende il modello terapeutico originario di Beck come “Terapia Cognitiva Standard”, in quanto la sua successiva denominazione di “Terapia Cognitivo-Comportamentale” fa riferimento all’innesto, sul suddetto “modello standard” di tipo cognitivo, di tecniche di derivazione behaviorista, ovvero appartenenti all’indirizzo comportamentista inaugurato da John Watson già agli inizi del Novecento (tecniche in gran parte basate sul cosiddetto “condizionamento operante” di Burnus Skinner). La terapia cognitivo-comportamentale fa poi riferimento anche all’acquisizione, da parte della Psicoanalisi, delle più recenti scoperte sulla psico-biologia dello sviluppo animale ed umano, e di quelle inerenti le cosiddette “tematiche di dipendenza”, quali ad esempio quelle sistematicamente esplorate nella ponderosa opera in tre volumi dello psicoanalista freudiano inglese “dissidente” John Bowlby, intitolata “Attaccamento e Perdita” e scritta fra il 1969 ed il 1980. Occorre anche sottolineare, a proposito di quest’approccio psicoterapeutico, che esso è l’unico, allo stato attuale, ad essere riconosciuto come realmente efficace dalla Psichiatria, in quanto è il solo ad essere stato validato scientificamente ed in base ad “evidenze” circa la sua reale efficacia; occorre però anche dire che, secondo le suddette “evidenze”, l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale, pur essendo reale, si espleta al suo meglio in associazione con le terapie psico-farmacologiche (e queste ultime, viceversa, acquisiscono una maggiore efficacia in associazione con la psicoterapia cognitivo-comportamentale). In Italia, questo approccio si è scisso nei due filoni della “terapia cognitivo-comportamentale” propriamente detta (Giovanni Liotti ed altri), e della cosiddetta terapia “post-razionalista” (Vittorio Guidano).
Nel complesso pur senza addentrarci, anche qui, nei dettagli ma mantenendo uno specifico riferimento al tema principale del nostro discorso, possiamo dire che le terapie cognitivo-comportamentali, sul piano concettuale e teorico, hanno “rivoluzionato” l’approccio psicoanalitico nel senso più letterale del termine, ossia lo hanno “rovesciato di 180 gradi”: 1) laddove, infatti, in Psicoanalisi si parte da contenuti psichici “dinamici” e per definizione non verificabili quali quelli “inconsci”, e si assume che il renderli consci (o più specificamente, il rendere consci i contenuti del transfert) sia la chiave di volta della terapia, in ambito cognitivo-comportamentale si parte da contenuti psichici non già “dinamici” ma ideativi e prettamente “cognitivi”, ed inoltre perfettamente consci (per la precisione, quei pensieri che hanno a che fare con la sofferenza, ad esempio con il lutto, con il distacco e con la perdita); 2) In secondo luogo si assume che su di essi si debba “lavorare per correggerli” e per sostituirli con altri, anziché per farli “emergere alla coscienza”, dal momento che essi, alla coscienza, già per proprio conto sono fin troppo “emersi”; 3) in terzo luogo questo “lavoro terapeutico” deve essere effettuato, più che dalla coppia terapeuta-paziente, dal paziente in prima persona (seppure “addestrato” dal terapeuta a farlo progressivamente sempre più per proprio conto); 4) in quarto luogo, laddove il “contratto psicoterapeutico” iniziale, in Psicoanalisi, è vago ed allo stesso tempo super-ambizioso, o quanto meno complesso e poco verificabile, in ambito cognitivo-comportamentale esso è molto più chiaro e delimitato, poiché si parte da un progetto estremamente circoscritto nel tempo e nello spazio; insomma, laddove in Psicoanalisi si perseguono obbiettivi d’incredibile vastità ed indefinitezza, quali la “maturazione e/o la trasformazione della personalità”, anzi il suo “mutamento strutturale”, nonché il conseguente radicale scioglimento di modi di essere e di comportarsi inveterati in quanto basati sulle esperienze infantili e sull’inconscio (si ricordi l’ambiziosissimo aforisma freudiano “Là dove era l’Es sarà l’Io”), in ambito cognitivo-comportamentale si persegue, al contrario, un obbiettivo estremamente semplice e modesto: eliminare i sintomi; 5) ancora, laddove la verifica dell’efficacia d’una terapia, in Psicoanalisi, è praticamente inesistente e/o affidata esclusivamente al giudizio dell’analista (o al massimo, della coppia analista-paziente), in una terapia cognitivo-comportamentale essa è affidata a degli standard oggettivi relativi ai sintomi (che poi sono le stesse scale di valutazione usate in Psichiatria per giudicare della loro maggiore o minore gravità); 6) laddove la terapia psicoanalitica comporta un fortissimo investimento in termini di tempo e di denaro, nonché una vera e propria “mutazione” nella vita del paziente (come si è detto, il ritmo delle sedute, assai spesso, è pluri-settimanale, vige la cosiddetta “regola dell’astinenza” da particolari comportamenti durante la terapia, e la stessa dura per molti anni), in ambito cognitivo-comportamentale tutto ciò non è richiesto, le terapie hanno un ritmo ed una durata assai più limitati, non vigono “astinenze” che vadano al di là del lavoro sui sintomi, ecc. ecc.
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A questo punto, però, occorre che ci fermiamo un attimo, anzi che facciamo un passo indietro e che ci dedichiamo ad una riflessione d’ordine più generale; dobbiamo infatti ricordarci che il punto fondamentale da cui eravamo partiti è un altro, ben diverso rispetto alle questioni relative all’efficacia delle psicoterapie sui sintomi ed alla verificabilità/falsificabilità dei loro risultati: esso, per la precisione, è quello relativo all’oggetto stesso d’una qualsivoglia “psicoterapia”, oggetto che poi coincide con il suo profondo “modo di funzionare”. E questo “modo profondo di funzionare”, a sua volta, non può essere altro che l’influenza, benefica o non benefica, che una mente può in qualche modo avere, a determinate condizioni, su di un’altra mente.
Ora, posta in tal modo la questione, il discorso, occorre dirlo, cambia profondamente: infatti in Psicoanalisi, o almeno in molti dei suoi sviluppi post-freudiani (ma già nel Freud più tardo!), ogni tipo di sofferenza viene curato, in pratica, proprio attraverso il rapporto terapeuta-paziente e la sua analisi (la cosiddetta “analisi del tranfert”, ossia della proiezione sul terapeuta dei contenuti psichici inconsci del paziente). Perciò di fatto, nell’ambito di questa metodica si lavora davvero, o almeno ci si propone e ci si sforza di lavorare (bisogna dirlo, con una percentuale di successi assai dubbia), su ciò che “transita” o si ritiene “transiti”, a livello profondo, fra paziente e terapeuta, ossia su quello che si presume possa costituire il “meccanismo di base” delle psicoterapie: ciò anche se poi, con il suo mantener fermo anche nell’analisi del transfert, come terapeuticamente strategico, il concetto della “presa di coscienza”, con quel tanto di “smaterializzazione” e “sublimazione” delle forze di derivazione istintuale che tale concetto comporta, la Psicoanalisi finisce anch’essa con il ritenere essenzialmente “cognitivo” un interscambio relazionale il quale, proprio in quanto di natura biologica non può che rimanere, al contrario, in larga misura “inconscio”.
In ambito cognitivo-comportamentale, invece, questo punto (di per sé importantissimo, in quanto investe il modo di interagire degli esseri umani, ma tale da essere giudicato non del tutto a torto come “poco verificabile”), viene messo completamente da parte: il rapporto terapeuta-paziente è praticamente scomparso dall’orizzonte teorico di quest’impostazione (anche se, forse non da quello pratico), e ci si è concentrati invece sui sintomi del paziente e sui suoi differenti “stili” mentali di viverli, di produrli e di eliminarli. Insomma, al fine, senz’altro encomiabile, di rendere la terapia verificabile” sul piano scientifico “, e su quello pratico la più “efficace”, “economica” e “meno auto-referenziale” possibile, si è scelto di concentrarsi sui dati puramente “oggettivi” del percorso terapeutico, ed in particolare su quelli riguardanti il solo paziente (anzi la parte più superficiale e visibile del suo modo di “stare al mondo”): ciò, di fatto, comportandosi come se il rapporto terapeuta-paziente (o ancor meglio, il rapporto fra la personalità del terapeuta e quella del paziente) non esistesse, non avesse alcun ruolo e/o non “pesasse” nella terapia medesima. Oppure, qualora il rapporto terapeuta-paziente, in un’ottica cognitivo-comportamentale, venga preso in considerazione, esso lo è, a parte la questione dei possibili “errori tecnici”, al di fuori di canoni scientifici codificati, quindi “privatamente” e quasi “di soppiatto”.
Ora, mi sembra che quest’ultima caratteristica, pur fatte salve le sopra citate positive qualità della metodica cognitivo-comportamentale (efficacia rispetto all’obiettivo iniziale, brevità, economicità, verificabilità scientifica e “non-autoreferenzialità”), precluda a questo approccio ogni possibilità di comprensione profonda dei meccanismi generali d’azione delle psicoterapie. E’ infatti da osservare che, pur essendo le terapie cognitivo-comportamentali le uniche, come sopra accennato, la cui “efficacia” può dirsi “scientificamente provata”, essa lo è proprio in quanto tali terapie limitano fortemente e volutamente il proprio raggio d’azione ed i propri obbiettivi; d’altro canto, moltissime altre tecniche psicoterapeutiche continuano a prosperare, ed anche se si giungesse ad equipararle tutte quante a forme più o meno ciarlatanesche di “suggestione”, resterebbe pur sempre da spiegare come una tale “suggestione” sia così diffusa e possa in definitiva “funzionare”, almeno in determinati contesti, avvalendosi di profondi e misteriosi meccanismi. Insomma, è ovvio che laddove ci si avvicini con modalità fortemente “riduzionistiche” ad un oggetto così complesso qual è una psicoterapia (o più semplicemente, qual è l’interazione “a scopo d’aiuto” fra due menti), e di conseguenza si limiti all’estremo l’obiettivo strategico di quest’ultima, circoscrivendolo a finalità nettamente delimitate ed immediatamente “misurabili” (e viceversa si escluda “a priori”, dall’indagine teorica, proprio quel campo più complesso e ricco di variabili, ma anche più promettente di sviluppi teorici e conoscitivi, che è il rapporto terapeuta-paziente), si raggiungono certamente dei risultati più “efficaci” e “falsificabili” nel senso delle scienze sperimentali, però ci si allontana irrimediabilmente dalla possibilità d’esplorare in profondità una tale “complessità” e d’influire su di essa.
Esplorare e modificare ciò che è alla base dell’interazione fra gli esseri umani, però, ha da sempre costituito una delle implicazioni e finalità (anche se forse non la principale) d’ogni psicoterapia. Anzi, una tale esplorazione, prima dell’avvento dell’approccio cognitivo-comportamentale, era stata al centro, praticamente, di tutti gli orientamenti psicoterapeutici conosciuti: ad esempio, oltre che dell’approccio psicoanalitico, anche di quello relazionale-sistemico, il quale anzi, come abbiamo visto brevemente sopra, aveva preso ad effettuarla, seppure in polemica con la Psicoanalisi, in una forma sua propria ed originale.
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Concludo questo mio intervento facendo riferimento ad una proposta teorica a mio avviso interessante, cui almeno in parte aderisco, la quale proviene da uno psicoanalista italiano d’estrazione freudiana ma fortemente “eterodosso”, Ignazio Majore: uno studioso che per mezzo secolo ha posto al centro del suo lavoro i meccanismi profondi ( quindi anche quelli “non verbali”) del rapporto terapeuta-paziente, ossia ciò che a livello biologico si presume avvenga, “al di là delle parole”, in una psicoterapia.
Secondo Ignazio Majore, dunque, l’essenza del disturbo mentale, la sua “causa prima”, non è affatto quell’”istinto di morte” di freudiana memoria che tanto spazio ha trovato e trova fra alcune speculazioni teoriche tott’oggi in voga fra gli psicoanalisti: un qualsivoglia essere vivente, infatti, la cui mente ospitasse al proprio interno, in qualità di “istinto” (ovvero di “forza dinamica” organizzata in forma istintuale), qualcosa che per sua stessa natura tende alla morte, all’”entropia” ed al ritorno all’inorganico (laddove ogni tipo d’istinto inclusa l’aggressività, al contrario, si forma in natura per difendere la vita!), sarebbe un assoluto controsenso biologico.
La causa dei disturbi psichici, per Majore, è piuttosto il contatto con quella “morte effettuale” (sia fisica che mentale) che fatalmente proviene, ad ogni essere vivente, sia dall’ambiente che dal proprio stesso organismo, mentre ciò che decide dell’esito dei disturbi mentali è il grado di “reazione vitale” che un dato soggetto può produrre, a livello mentale, nei confronti della morte medesima.
Infatti, essendo le leggi che regolano l’interazione fra esseri umani di natura essenzialmente biologica (com’è ovvio che avvenga in esseri viventi quali noi siamo, a prescindere dal nostro appartenere ad una specie cosciente e dotata di linguaggio), e posto che tali leggi non possono non perseguire, in qualsivoglia specie vivente, l’obiettivo prioritario di consentire la sopravvivenza, Majore ipotizza che ciò che sta alla base delle possibilità di comunicazione reciproca, in senso generale come in senso psicoterapeutico, fra gli esseri umani, sia qualcosa che ha a che fare, anche qui, con la possibilità di fronteggiare, o d’aiutare altri a fronteggiare, la morte: ossia, che la comunicazione inter-umana abbia anch’essa a che fare con quel “problema comune” che costantemente ed in varie forme costituisce l’oggetto prioritario della percezione d’ogni essere vivente (e dell’essere umano in particolare!), anzi il solo che conferisce ad una tale percezione un qualche senso.
Dopo aver formulata quest’ipotesi di base, ed averla correlata con l’osservazione, altrettanto indiscutibile, che l’essere umano è l’unico a “conoscere” la realtà della propria morte in forma cosciente, quindi a “percepirla” di continuo ed anche a “prevederla”, Majore fa due ulteriori ipotesi: 1) quella che quest’ingente presenza della morte nella mente umana possa essere la causa principale dei più svariati disturbi mentali (la realtà delle malattie mentali è presente soprattutto, anche se non solamente, nella specie umana!); 2) quella, conseguente alla prima, che nel rapporto terapeuta-paziente, essenzialmente, al di là delle “parole” proferite da entrambi, ed anche al di là del loro “pensiero cosciente”, agisca la capacità profonda del terapeuta (una capacità essenzialmente “non verbale”!) di sopportare la morte mentale di cui il paziente è “pieno” (e talora, “selettivamente portatore”), e soprattutto di “reagirvi in forma vitale”, fornendo così al paziente stesso un “modello”, per così dire, di “reazione vitale alla morte”: un modello, naturalmente, che quest’ultimo potrà essere in grado di far proprio oppure no.
Di più, Majore ipotizza che nelle terapie molto lunghe si formi a poco a poco, sia nel paziente che nello stesso terapeuta, una sorta di “livello mentale intermedio terapeuta-paziente”, ovvero un autentico “figlio mentale della terapia”, il quale costituisce il fine d’ogni psicoterapia), lo fa in quanto “prende sulle proprie spalle”, in qualche modo (Majore fa l’ipotesi della sessualità, ma se ne potrebbero fare anche altre, forse ancora più plausibili!) il carico di morte mentale di quest’ultimo e lo smaltisce al suo posto, o meglio “gli insegna” a smaltirlo in prima persona dandogli l’esempio di “come si fa”, ebbene, allora questo meccanismo potrebbe rappresentare una spiegazione semplice, elegante e di grande potenza dell’indubbia efficacia, seppure con alcune differenze, di tutte le tecniche psicoterapeutiche: ciò in quanto riporterebbe una tale efficacia ad un’unica “variabile” veramente significativa che va ben oltre i contenuti specifici delle tecniche impiegate, ovvero quella rappresentata dalle rispettive personalità del terapeuta e del paziente. Quest’ipotesi, poi, sembra a maggior ragione degna d’interesse ove si consideri che nella stessa terapia cognitivo-comportamentale si danno frequenti casi d’insuccesso i quali non possono essere sempre ricondotti a puri e semplici “errori tecnici”, e dunque almeno in parte derivano, con ogni evidenza (ed a dispetto della relativa semplicità e meccanicità di questa metodica!) da variabili assai più difficili da valutare: presumibilmente, da quelle inerenti la qualità dell’interazione umana terapeuta-paziente.
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Noi riteniamo assolutamente valida l’ipotesi di Majore che la “malattia” e la “cura” siano da porsi in relazione, rispettivamente, con il contatto e con la “reazione” nei confronti della morte (e più precisamente d’una morte intesa come realtà effettuale, di per sé bruta e “passiva”, e non già, alla maniera freudiana, come “forza attiva interiore” e vagamente intenzionale, ovvero come “istinto” e “pulsione”); tuttavia pensiamo che esistano possibilità complementari o alternative, rispetto all’ipotesi “sessuale”, circa il meccanismo specifico dell’ipotetica “reazione vitale” alla morte che, in terapia come nei più comuni rapporti umani, verrebbe mobilitato: potrebbe trattarsi ad esempio d’un meccanismo basato, assai più che sulla sessualità, sulla socialità.
Aggiungiamo ora che esiste anche la possibilità di specificare meglio ed in maniera più precisa la natura della “morte” di cui parla Majore.
Credo in particolare che una tale “morte” in grado di generare “malattia mentale” non sia nella maggior parte dei casi riferibile al mondo fisico (esterno o interiore che esso sia), bensì a ciò che all’inizio del nostro discorso abbiamo visto essere la effettiva “pragmatica della comunicazione umana”, ossia quella parte della comunicazione medesima (essenzialmente “non verbale”!) presente anche in tutti gli altri animali e che nell’uomo riguarda, in maniera specifica, le relazioni sociali e le loro possibili implicazioni “mortifere”.
Io ritengo, ad esempio, fortemente sospetto, e comunque e bisognoso di spiegazione, il fatto che ogni forma di sofferenza mentale d’interesse psicopatologico, al di là delle motivazioni esplicite, coscienti e “verbali” che spesso il paziente ne da, sia caratterizzata dalla presenza d’una insopprimibile componente persecutoria: ne sono pervasi, ad esempio, gli stati deliranti ed allucinatori schizofrenici, ma anche gli stati maniacali, i disturbi bipolari, le sindromi fobiche ed ossessivo-compulsive, le sindromi anoressico-bulimiche, le psicopatie e sociopatie d’ogni tipo, le perversioni sessuali, i disturbi da attacco di panico, le sindromi ipocondriache, e persino il “mare magnum” delle cosiddette “sindromi depressive” (nelle quali la persecuzione esiste eccome, ma prende la forma della colpa, o al massimo “proviene da dentro” nella forma d’un misterioso “svuotamento di energie”, anch’esso d’origine chiaramente conflittuale). Di più: chiari aspetti persecutori emergono puntualmente persino nelle demenze senili, nelle epilessie psicomotorie, nelle insufficienze mentali, e praticamente in tutte le forme di disturbo mentale su base organica, quasi che quello persecutorio fosse un “pattern di reazione” universalmente presente in quanto “necessario” e finalizzato ad un qualche misterioso scopo.
Ora, alla luce di tutto ciò, l’ipotesi di Majore potrebbe essere modificata come segue: forse la “morte” che intasa di sé, in particolare, la mente umana, e di cui parla così insistentemente quest’autore (morte la quale, concordiamo con lui, non può essere immaginata in senso freudiano, come un assurdo e controproducente “istinto” teso all’auto-distruzione, ovvero come “pulsione di morte” interna, bensì solamente come il risultato d’una serie di attacchi che subiamo sia dall’ambiente che dall’interno dell’organismo, e dalle leggi stesse della vita), proviene semplicemente dall’essere, l’uomo, un soggetto in costante pericolo di predazione da parte dei propri simili: questa condizione ancestrale, peraltro riconfermata costantemente da imponenti fenomeni di violenza di massa che sono rari fra le altre specie, quali la guerra, la schiavitù e lo sfruttamento, lo ha infatti costretto, a differenza di altri animali ugualmente oggetto di predazione, a “rimanere perennemente avvinghiato” al proprio predatore (un predatore così simile a sé stesso) anziché porre in essere, come gli altri animali, solo comportamenti di fuga/immobilizzazione o di attacco, ed alla fine lo ha spinto ad identificarsi mentalmente con lui, oltre che a “prendere coscienza della sua costante ed incombente presenza”; ma ciò ha anche spinto l’uomo ad auto-osservarsi “con sospetto”, quale potenziale predatore egli stesso, quindi ad interiorizzare il predatore medesimo, e conseguentemente a dilatare gli spazi “coscienti” ed adibiti alla “vigilanza antipredatoria” (volta sia all’esterno che all’interno) della propria mente.
L’altro lato della medaglia, però, sarebbe stato, in questo caso, “l’intasarsi di morte” della mente umana nel suo complesso, e la conseguente necessità di relegare questa “morte predatoria in sovrappiù”, in una zona differente dall’apparato percettivo, ovvero in una sorta di suo “serbatoio” (forse l’inconscio?): ciò al semplice fine di consentire a quel vero e proprio “sensore volto verso l’esterno” che è la percezione, di rimanerne “sgombra” e di poter “funzionare”, seppure in forma “dissociata” dal resto della mente, nel suo fondamentale ruolo d’allarme antimortifero volto al mondo fisico, e comunque extra-specifico. Di più: quest’ultimo “tradizionale” aspetto dell’apparato percettivo, proprio in ragione della “nascita dell’inconscio” (una struttura, secondo la nostra ipotesi, via via sempre più adibita a svolgere i compiti, ingenti nella specie umana, dell’allarme antipredatorio ed antipersecutorio volto ai rapporti con membri della propria stessa specie), ha forse potuto specializzarsi in maniera spettacolare sul piano astratto e matematico, logico-informativo e linguistico-semantico, quindi ha potuto affinare in una misura fino ad allora inedita proprio quei compiti di ricerca selettiva, di manipolazione e di neutralizzazione, più che della morte predatoria, della morte intesa nel suo senso più generale (ossia di quella morte che tutti gli esseri viventi debbono affrontate).
Tuttavia, pur ammettendo che l’inconscio abbia reso possibile questo processo evolutivo della mente percettiva in mente “cosciente”, che cosa la ha spinta, in concreto, a questa ulteriore “specializzazione”? Ebbene, noi riteniamo che la mente dell’uomo potrebbe avere imparato a manipolare simbolicamente e per via logico-matematica le “cose” appartenenti al mondo fisico, ossia a padroneggiarle, per analogia, ovvero proprio perché in precedenza aveva dovuto imparare a manipolare simbolicamente e per via linguistica (ossia in un modo molto affine a quello logico-matematico ed astratto), quindi a padroneggiare i maniera efficace, le ultra-complesse relazioni che era costretta ad intrattenere con predatori sommamente “pericolosi” quali quelli che appartenevano alla propria stessa specie.
Ora, una bipartizione conscio/inconscio così concepita (ossia, ove venga vista come una “complicazione casuale di carattere strutturale-formale”, nonché “emersa all’improvviso”, secondo la già illustrata ipotesi evoluzionistica detta “Evo-Devo”, d’una originaria, più semplice e più “primitiva” funzione antipredatoria), potrebbe spiegare, per l’appunto, il “mistero” rappresentato dall’inopinata e sovrabbondante presenza, nella nostra specie, di un’intelligenza simbolica, oltre che di tipo linguistico, anche di tipo logico-matematico ed “astratto”: un tipo d’intelligenza, insomma, altamente complessa, sofisticata e “ridondante” della quale, nelle primitive condizioni di vita dei primi ominidi, non si intravede altrimenti alcuna possibile spiegazione o “necessità”.
Questo passato ancestrale (e questo presente!) di predazione intra-specifica proprio dell’uomo, dunque, da un lato spiegherebbe la suddetta onnipresenza di componenti persecutorie, sia consce che inconsce, nelle “malattie mentali” d’ogni livello e grado; dall’altro spiegherebbe la singolare ipertrofia, presente proprio nell’uomo e solo in lui, ed insieme l’efficacia in funzione “terapeutica” ed antimortifera, di strumenti di “pacificazione” e di “socializzazione” con il proprio avversario che possono ovviamente funzionare solo all’interno d’una stessa specie: la sessualità (l’uomo, per inciso, è il solo animale dotato di sessualità perenne!), il linguaggio simbolico e logico-astratto (l’uomo è l’unico animale “parlante” in senso simbolico), ed infine la socialità in senso lato (l’uomo non solo è un animale iper-sociale, ma è assai più portato degli altri all’accudimento della prole, nonché dedito come nessun altro all’enfatizzazione di tipiche “formazioni reattive” nei confronti della predazione quali la religione e l’amore, la compassione e l’empatia, ecc.).
Se questa modifica e/o integrazione apportata alla teoria di Majore fosse veritiera, si spiegherebbe meglio anche l’efficacia, in psicoterapia, di quella manipolazione più o meno sapiente del rapporto terapeuta-paziente (e della morte che vi transita) la quale ha luogo, classicamente, nell’analisi freudiana del tranfert: in tale manipolazione infatti, a fungere da arma antimortifera decisiva ed in senso lato “terapeutica”, accanto alla sessualità (che gioca peraltro un preciso suo ruolo “difensivo” solo in ambiti clinici molto circoscritti e limitati quali le perversioni), avremmo anche la socialità ed i suoi derivati (ad esempio le varie forme di comunicazione verbale ed extra-verbale); ed infatti è la socialità, il gruppo, il numero, a ben vedere, non la sessualità, l’unico vero presidio antimortifero, ed anche antipredatorio, che tutte le specie viventi hanno in comune, dalla più elementare (e “non sessuata”!) alla più complessa.
Insomma, sarebbe la socialità (in un linguaggio più familiare, la benevola, rassicurante e protettiva “alleanza terapeuta-paziente”), seppure ben nascosta dietro la “tecnica”, l’arma decisiva la quale, al netto di eventuali fattori transferali negativi, renderebbe efficace la maggior parte delle psicoterapie, inclusa la stessa psicoterapia cognitivo-comportamentale con la sua focalizzazione sull’obiettivo limitato del “sintomo”. Quest’ultima, anzi, potrebbe essere più efficace delle altre proprio in quanto, a livello di “non detto”, d’”inconscio” e dunque di “non verbale”, rassicurerebbe il paziente (proprio in ragione della limitatezza dei suoi obiettivi “dichiarati”) di non voler mirare ad una destrutturazione profonda, virtualmente ostile, minacciosa e predatoria (o che può essere percepita come tale!) della sua personalità e delle sue difese, ma di volerle rispettare insieme con la personalità nel suo complesso (elemento, quest’ultimo, che confessiamo di credere non sia molto modificabile in terapia, per lo meno dopo la conclusione dello sviluppo psico-fisico).
Il meccanismo “profondo” delle psicoterapie, pertanto, potrebbe essere semplicemente, da parte del terapeuta, il prendere per lo meno in parte su di sé i fantasmi persecutori del proprio paziente (quelli che per lo più animano il cosiddetto “transfert”), e contemporaneamente il mostrargli che chi lo aiuta non è, a sua volta, un suo “persecutore nascosto”, ma anzi è capace, entro certi limiti, di sopportare la sua aggressività (il che fa parte del cosiddetto “contro-transfert positivo”).
In questo senso, il ruolo del terapeuta appare secondo me assai diverso sia da quella sorta di “attivatore d’una reazione simil-sessuale alla morte” cui pensa Ignazio Majore, sia da quel “ruolo genitoriale” cui pure esso, esteriormente, assomiglia parecchio: tale ruolo, infatti, va ben oltre (e contemporaneamente, resta ben al di qua!) rispetto a quel “ruolo protettivo e d’incentivazione alla maturazione della personalità” che con la funzione genitoriale è connaturato.
Il “ruolo terapeutico”, secondo me, ha a che fare con degli individui che sono letteralmente invasi e dominati dai propri fantasmi persecutori, e contemporaneamente, che sono fuoriusciti in via definitiva dallo sviluppo psico-fisico, quindi sono ormai molto meno capaci di “reagire alla morte” di quanto non lo siano i bambini e gli adolescenti, avendo ormai dato fondo, in gran parte, alle loro potenzialità e risorse strutturali.
I pazienti dunque, più ancora che capaci di “creare nuove strutture mentali”, sono bisognosi di riattivare quelle che già hanno, o meglio quelle “funzioni vicarianti” che già posseggono e che sole sono in grado di sostituire quelle ormai intasate di morte che li hanno portati al “disturbo”; quindi debbono solo essere alleggeriti e messi in condizioni, attraverso l’alleanza terapeutica, di sperimentare, con pazienza e tenacia, siffatte, e già preesistenti, funzioni vicarianti.
Insomma, più che essere condotti a scoprire in sé stessi, in quanto individui, chissà quali tenebrosi ed inaccessibili segreti e cattiverie (come vorrebbe la Psicoanalisi), o viceversa limitarsi a focalizzare il sintomo e la tecnica per affrontarlo (come vorrebbero le terapie cognitivo-comportamentali), i pazienti vanno resi edotti, semplicemente, del loro appartenere alla specie umana: ovvero, ad una “specie combattente” nella quale ogni individuo teme più d’ogni altra cosa il proprio simile e le sue tendenze predatorie, quindi ha imparato a temerle anche in sé stesso, ed ha anche ipertrofizzato la propria sessualità, il proprio linguaggio e la propria mente appositamente allo scopo di fronteggiarle. Da ciò deriva la “sofferenza psichica” ed il “senso di allarme” in tutte le sue forme, le ansie di tipo “panico” e “senza oggetto”, le paure persecutorie anche di tipo delirante (che invece, un oggetto persecutorio lo vedono in qualunque cosa), le fobie (nelle quali l’oggetto persecutorio è spostato su qualcosa di circoscritto e di meno ansiogeno), le depressioni ed i sensi di colpa (in cui l’oggetto persecutorio è divenuto interiore), i rituali ossessivo-compulsivi “tesi a controllare qualcosa d’inquietante e sconosciuto”, i disturbi anoressico-bulimici tesi a manipolare lo scambio metabolico con i propri simili e renderlo meno tossico, le tossicodipendenze tese a stordire il senso del pericolo proveniente dagli altri e da sé stessi, le perversioni sessuali e le psicopatie criminali, tese a padroneggiare il pericolo proveniente dagli altri tramite il piacere, il più delle volte sado-masochistico, e la riduzione dell’altro medesimo (o di sé stessi!) ad oggetto inoffensivo, ecc.
Per fare poi degli esempi di ciò che a mio avviso in terapia, nella pratica, bisognerebbe fare:
1) i pazienti dovrebbero essere aiutati ad accettare l’idea che una certa quota di aggressività, in loro, è sana e vitale e non è da temere, in quanto è in buona parte un’aggressività reattiva a quella altrui (e che comunque, anche l’aggressività “endogena” e non reattiva è un prezioso lascito dello sviluppo della nostra specie, di per sé assolutamente necessario alla nostra sopravvivenza); però contemporaneamente debbono essere aiutati a sperimentare canali diversi, più socialmente accettati e meno distruttivi (o auto-distruttivi!) di quelli loro abituali, al fine di esprimere una tale sacrosanta esigenza d’auto-difesa;
2) debbono venire indotti a sapere d’essere in gran parte “invadibili”, quindi vulnerabili, da parte dell’aggressività altrui, e che a ciò non c’è rimedio (dato che l’uomo è un animale sociale, e da solo non può sopravvivere), se non quello di riconoscere precocemente l’aggressività “degli altri” ed allo stesso tempo accettarne la necessità, quindi mettersi in posizione di evitarla, però in modo consapevole e se possibile senza implicazioni di tipo fobico;
3) debbono venire istruiti del fatto che un certo grado di “dipendenza”, e quindi di sofferenza per le perdite ed i “lutti” di tutti i tipi, ed in particolare nei confronti di coloro sui quali si è investito di affettività e parti delle nostre stesse strutture, è inevitabile e fa parte anche della vita da adulti: quindi tutto ciò non equivale né ad una “malattia”, né ad un “essere rimasti in uno stato infantile”, né ad una totale mancanza di autonomia, ma semplicemente all’essere, il dolore, la sofferenza e la perdita (un dolore, una sofferenza ed una perdita, peraltro, assolutamente “normali”), delle realtà necessarie e connaturate all’uomo;
4) debbono venire a sapere, dal terapeuta, che l’altro lato di quella “dipendenza dagli altri” che è in parte universalmente necessaria, è l’accettare la prospettiva di dover subire da questi “altri” una qualche quota di predazione (quindi di attentato alla nostra autonomia), e che ciò fa parte di quella vera e propria “lotta per la vita e per la morte” nella quale si svolge, a tutti i livelli, l’esistenza associata, ivi inclusa quella familiare; ecc. ecc.
I pazienti, in definitiva, possono essere solo aiutati a “ripulirsi” dalle invasioni predatorie che hanno subito, reali o fantasmatiche che siano, ed a riattivare funzioni di autodifesa che già posseggono (se le posseggono!), non già a “crearne di nuove”. E tale “aiuto”, assai più che dalle “parole”, proviene dalla sensibilità e dal comportamento concreto (e “non verbale”) in terapia, da parte del terapeuta, oltre che, naturalmente, dalle caratteristiche del paziente.
Come si vede, l’indagine sulla singolare dissociazione, presente nell’uomo, fra aspetti “verbali” e “coscienti” della propria comunicazione ed aspetti “non verbali” ed “inconsci”, porta ad affrontare, seppure in via ipotetica, problematiche che scendono assai in profondità nella natura umana.
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il Prof. Massimo Cotroneo, docente del corso di Ipnosi Ericksoniana si racconta agli studenti della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm
Intervista di Sara Ginanneschi, Ufficio Stampa Polo Psicodinamiche, – al Prof. Massimo Cotroneo, Psicologo, Psicoterapeuta, Docente di Ipnosi Ericksoniana
Roma, 3 aprile 2015
Il 15 ed il 16 Maggio 2015, la Scuola Di Psicoterapia Erich Fromm, ospiterà il corso di tecniche avanzate di Ipnosi Ericksoniana. L’approccio centrato sulla combinazione della psicoanalisi neofreudiana di Fromm con i più recenti sviluppi della psicoterapia, della clinica, della psicopatologia e della psicologia della salute è da sempre l’obiettivo primario della Scuola Erich Fromm; si tratta di una forma di terapia che vuole indagare, in primis, l’area della relazione paziente-terapeuta che nell’indagine dell’inconscio è collaborante e paritetica (center-to-center come la definiva lo stesso Fromm) per consentire al paziente di prendersi cura del proprio sviluppo favorendo il processo di autorealizzazione del Sé.
Analogo fine e simile approccio è quello dell’Ipnosi Ericksoniana, ma di cosa si tratta e come si distingue da altre forme di ipnosi? L’abbiamo chiesto al docente del corso, il Prof. Massimo Cotroneo che ci spiega come abbia incontrato l’ipnosi clinica la prima volta e perché ha poi deciso di renderla parte integrante della propria pratica professionale.
L’ipnosi è una tecnica che promette di accedere alla dimensione inconscia del paziente. Seppur nota (e controversa) fin dai tempi di Franz Anton Mesmer (1734-1815), è nel 1954 che nella XIV edizione dell’Enciclopedia Britannica, venne pubblicata una delle prime definizioni di ipnosi su base scientifica a cura di Milton H. Erickson. Egli definiva l’ipnosi come un tipo di comportamento complesso ed insolito, ma del tutto normale e che in condizioni opportune può essere sviluppato potenzialmente da chiunque. In tale “stato” o “condizione” psicologica e neuro-fisiologica, le persone funzionerebbero in un modo speciale, pensando, agendo e comportandosi come farebbero in un normale stato di coscienza ma, grazie alla focalizzazione dell’attenzione favorita dalla riduzione delle distrazioni, anche meglio.
Fra i pregiudizi diffusi sull’ipnosi vi è quello secondo cui essa consentirebbe all'”ipnotista” il controllo della mente dell'”ipnotizzato” il quale si troverebbe in un totale stato di perdita di coscienza. Questa idea, che corrisponde all’immagine più romanzesca e mediatica dell’ipnosi è del tutto fuorviante, soprattutto nella formulazione clinica di Erickson, in quanto, già a partire dal rapporto terapeuta-paziente l’ipnosi clinica ridefinisce completamente il rapporto terapeuta-paziente: non più asimmetrico, ma assecondato ad una relazione di reciproco rispetto e collaborazione.
E proprio questo, è uno degli aspetti che agli inizi del 2000 ha affascinato il Prof. Cotroneo, che dice:
“mi colpì profondamente il lavoro clinico di quell’uomo, così come la sua storia e la straordinarie capacità che aveva di aiutare i pazienti. Milton veniva da una storia personale di profonda sofferenza fisica dovuta ad un attacco di poliomielite da adolescente che mise in pericolo la sua vita ma egli seppe volgere e trasformare questa sconvolgente esperienza di malattia in risorse di grande valore per i pazienti attraverso ciò che ne imparò personalmente. Le prime interessanti idee sul rapporto tra mente, corpo e le risorse psichiche utilizzabili vennero da lui maturate proprio in questo difficile frangente.
Prof. Cotroneo, in che modo le teorie di questo autore l’hanno spinta ad approfondire le sue conoscenze?
“Il primo libro che mi avvicinò al modello ericksoniano” risponde “fu ‘La mia voce ti accompagnerà’, testo straordinario che narra di un approccio apparentemente magico alla psicoterapia in quanto ad efficacia. Ciò che mi apparve davvero speciale, in particolare, fu la capacità di Milton di ottenere risultati davvero rilevanti trasformare la vecchia ipnosi in qualcosa di rivoluzionario, al servizio della salute mentale. La tecnica ericksoniana, infatti, ribalta l’antico modello ipnotico asimmetrico restituendo al paziente la sua unicità, adattando la terapia al paziente e non viceversa, ritagliando cioè le tecniche sulle specifiche caratteristiche di questo. L’assunto di base, infatti, è l’osservazione minuziosa di come la persona si muove nel mondo, utilizzare le sue caratteristiche e modalità di interagire come chiavi di accesso al suo mondo interiore e relazionale. Se un paziente entrasse nello studio di psicoterapia iniziando a camminare senza sedersi, dice il padre della nuova ipnosi, piuttosto che suggerirgli il comportamento sociale atteso potremmo camminare nella stanza con lui introducendogli la presenza della poltrona dove più tardi si siederà (caso clinico raccontato dallo stesso Erickson). Le tecniche di utilizzazione, per l’appunto, sono quelle tecniche che riprendono i comportamenti del paziente utilizzandoli sapientemente; tale scambio, tuttavia, avviene attraverso uno speciale stato di attenzione che viene evocata nel paziente per creare i presupposti di un significativo imprinting emotivo. Lo stato della trance indotta, dunque, serve per dissociare e riorientare in nuove catene associative più funzionali e utili ai processi mentali ed emotivi del soggetto.”
Il Prof. Cotroneo, a Maggio sarà docente del corso di tecniche avanzate di Ipnosi Ericksoniana, ma che aspettative aveva da discente, durante gli anni di formazione e come ha integrato queste nuove conoscenze con la propria pratica clinica?
“Come spesso accade”, risponde, “la formazione è una fase avvincente e di grande stimolo per il lavoro che avverrà successivamente, ma, al contempo povera di quell’esperienza clinica che verrà poi creando i presupposti per mettere a frutto e affinare le competenze psicoterapeutiche acquisite. In altri termini, l’esperienza ti aiuta ad esprimere le tue caratteristiche e sviluppare il tuo modo di fare terapia, giacché l’unicità del paziente è complementare all’unicità del terapeuta. Ognuno deve trovare il proprio modo di fare psicoterapia, ossia di esprimere in essa l’apprendimento di modelli e tecniche calati sulla propria personalità.”
E le aspettative maturate durante gli anni di formazione, sono state poi ripagate pienamente?
Massimo Cotroneo replica: “Mi consenta di risponderle con una domanda provocatoria. Lei ritiene che gli allievi in formazione di psicoterapia siano solitamente soddisfatti? Non di rado gli allievi in formazione terminano con un senso di insoddisfazione mentre altri si ritengono maggiormente contenti. Cosa differenzia gli uni dagli altri? Al di là di ragionevoli argomentazioni sul piano sostanziale ed organizzativo, possiamo individuare nelle forti aspettative individuali una delega che mai è pienamente soddisfatta. Le aspettative vanno integrate nell’essere proattivi, nella propria ricerca personale, questo ritengo sia essenziale.”
E allora, certi che “sostanzialmente ed organizzativamente” questo corso in tecniche avanzate di ipnosi ericksoniana sia valido, cosa ha dato a lei l’ipnosi clinica, fin dalle prime applicazioni in ambito clinico da farla ritenere soddisfatto della sua formazione?
“L’ipnosi ericksoniana ha delle enormi potenzialità e applicazioni pratiche.” Incalza il Prof. Cotroneo, “In primo luogo, offre l’opportunità di attivare le risorse mentali, l’immaginazione e differenti prospettive sperimentate come fossero reali. La possibilità di realizzare una ‘realtà inventata’ per così dire, consente di lavorare in modo efficace sulle emozioni, sui correlati fisiologici e mentali. Questa opportunità, naturalmente, può essere sperimentata in modo diretto con procedure di autoipnosi che possono essere di grande aiuto nelle esperienze personali oltre che cliniche. Tali esperienze consentono di lavorare tanto su esperienze pregresse quanto su esperienze future, attraverso la rappresentazione mentale che può anticiparle riducendo l’entità della tensione conseguente alla prestazione sportiva per esempio. Mi è capitato in ambito clinico, ad esempio, di utilizzare tali procedure per ridimensionare l’entità di un distacco affettivo antico, o per interrompere dipendenze come per esempio nel tabagismo.”
Quello che ogni professionista in continua formazione si aspetta non è solo di acquisire nuove tecniche, pratiche o modi di pensare, di inquadrare un problema, una situazione e di intervenirvi, ma soprattutto di integrare ogni nuovo apprendimento con i precedenti. E Massimo Cotroneo? Ha mai cambiato il suo modo di utilizzare l’ipnosi ericksoniana?
“Come si sente spesso dire ‘l’esperienza insegna’ e per me il detto non fa eccezione.” Dice Cotroneo. “La pratica clinica, l’osservazione, la velocità nel riconoscere le informazioni centrali, la sensibilità clinica e così via, possono aumentare nel tempo incrementando le proprie competenze e la personale efficacia terapeutica. Notoriamente la qualità del rapporto terapeutico è un elemento centrale nell’efficacia della psicoterapia e trasversale ai diversi approcci clinici. Nel tempo le mie modalità di approccio sono divenute maggiormente elastiche adattandosi al paziente, spesso direttive e talvolta impattanti. Adattare la terapia al cliente significa utilizzare le sue chiavi di accesso, il suo modo di rapportarsi. Se un paziente arriva nello studio del clinico con atteggiamento sprezzante e di sfida, utilizzeremo queste modalità per avere efficacia terapeutica, viceversa perderemmo la presa sul soggetto. Utilizzare lo stesso modo del paziente gli consente di rispecchiarsi in noi e riconoscersi per poi seguirci come guida autorevole.”
Cosa devono aspettarsi dunque al corso di tecniche avanzate d’ipnosi ericksoniana il 15 e 16 Maggio?
Il Prof. Cotroneo risponde: “L’esperienza clinica pone di fronte ad una grossa eterogeneità di pazienti e ad una necessità di aumentare gli strumenti clinici a propria disposizione. L’integrazione di altre tecniche può consentire di acquisire strumenti efficaci in ambito clinico che possono essere integrati nel proprio approccio psicoterapeutico. Apprendere tecniche di base ed evolute d’ipnosi ericksoniana consente di incrementare ed integrare nel proprio modello utilissimi strumenti pratici d’intervento. Sperimentare personalmente il valore e l’utilità della trance indotta dalle procedure ipnotiche può essere, a mio avviso, un’occasione molto interessante di ampliamento formativo attraverso un corso fortemente esperienziale.”
Per informazioni ed iscrizioni al corso Tecniche Avanzate in Ipnosi Ericksoniana il 15 e 16 Maggio, scrivi a: segreteria@polopsicodinamiche.com oppure TEL. 0574.603222