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L’ultima riva di Michel Houellebecq

di Andrea Galgano 9 febbraio 2016

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140dfd1d3f499Dopo l’immenso successo di Sottomissione, il romanzo-sintomo e archetipico della traccia profetica e possibile della Francia e dell’intera Europa, dove, nel 2022, le elezioni presidenziali vengono vinte da un partito islamico e in cui, come scrive Luigi Grazioli, la tendenza «a proporre scenari futuri, non sempre cupi o ironici a dire il vero, è una diretta conseguenza dell’impianto fortemente sociologico della sua visione, oltre che della convinzione, encomiabile, che un libro o influisce sulla realtà, o non è niente» e in cui le profezie diventano «l’orizzonte naturale di queste premesse, la loro logica deriva, prima che un vizio del loro autore, che sarebbe in fondo innocuo come quello di chi si diletta a far previsioni su questo o quello. E del resto non vale per se stessa, ma è solo un modo, estremizzato, per leggere il presente, per portarne alla superficie con maggior efficacia i meccanismi e le deficienze. Se andiamo a cercare negli scrittori previsioni o, peggio, rassicurazioni, sia pure negative, siamo fritti. Anche quando a pretenderlo è lo scrittore stesso», Michel Houellebecq pubblica ora Configurazioni dell’ultima riva, edito da Bompiani, con l’acuta traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, che fa seguito nel suo territorio poetico a Rester vivant (1991), La ricerca della felicità (1992), Le sens du combat (1996) e Renaissance (1999), rappresenta la distintiva e derivata protrusione di uno sguardo, solo leggermente scostato, dalla drastica apocalisse della grave disperazione e dove le cose partecipano alla loro aurea manifestazione, vibrano in una prominenza tracimata e lucente che ama i contraccolpi, le pause impossibili, le esigenze di vita sofferente contro il fiato del vuoto: «Così, generazioni sofferenti, / Comprese come pulci d’acqua / Tentano di restare indifferenti / Ai sensori della vita vacua / E tutte fanno fiasco, senza pianto, / Tutto ricoprirà la notte grama / E la spossatezza monogama / Di un corpo affondato nel fango».
È un libro in bilico ed appartato che sussurra la distesa grigia di una gioia che rischia l’invalidamento e la cancellazione: «Se muore il più puro / La gioia si invalida / Il petto è come svuotato, / E l’occhio conosce bene l’oscuro. / Basta qualche secondo / Per cancellare un mondo».
Il perimetro di Houellebecq è abitato dall’assenza che chiude la vista delle prossimità («[…] Abitiamo l’assenza. / Poi la vista sparisce / Degli esseri più prossimi»), fino a non avere fondo, fino a ridursi a una demolizione di calma.
È la lotta continua e consolidata con l’ultimità, il compassionevole oblio che ha velato il mondo, come «L’elemento bizzarro / Disperso nell’acqua / Risveglia il ricordo, / Risale al cervello / Come un vino bulgaro» e tutto esita nel vuoto e, come spiega Fabrizio Sinisi, «Se ciò che domina la vita è un’assenza, se ogni fiducia è sparita, non è solo un problema ideale o culturale: viene meno la percezione stessa dell’essere».
L’ossessione che lavora segreta, «lieve come un sorriso lontano», in cui «Lo spazio fra due pelli / Quando si può accorciare / Apre mondi più belli / D’un grande scoppio ilàre», risolleva una domanda che è gloria e specimen moriendi di uno scandaglio che diviene l’annuncio di una manifestazione linguistica, come proclama Celan:

«La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogica per natura, può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza -, che esso possa un qualche giorno e da qualche parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore, magari. Le poesie sono anche in questo senso in cammino: esse hanno una meta» (La verità della poesia, p.35-36).

La singolare domanda di Houellebecq si attesta in questo sottopasso di regni dissolti, dove la notte s’installa indifferente, attraverso l’irreparabilità di ciò che avviene nel deserto indolente: «Dove ritrovare il gioco innocente? / Dove e come? / Cosa bisogna vivere? / E perché dobbiamo scrivere / Libri nel deserto indolente? / Sotto la sabbia strisciano serpenti / (Hanno sempre il nord in testa) / Niente è riparabile dai viventi,. / niente dopo la morte sussiste. / Ogni inverno ha la propria esigenza / E ogni notte la propria redenzione / E ogni età del mondo, ogni età ha la sua / sofferenza / S’iscrive nella generazione».
Le sue assenze di durata limitata non consolano bensì occultano, soffocano, persino astraggono nel loro foglio inquieto e svuotato, finendo per imporre la loro vetrina solitaria e la loro inquietudine concretata nell’universo lirico, che solo puntualmente e irrimediabilmente, tenta conciliazioni e si fascia: «Ora soffro tutta la giornata, dolcemente, leggermente, ma con qualche punta orribile che si conficca nel cuore, imprevedibile e inevitabile, per un istante mi ritorco di sofferenza e poi battendo i denti ritorno al dolore normale. / La sensazione che mi si strappi un organo se smetto di scrivere. Meriterei il macello. / Vittoria! Piango come un bambino! Le lacrime scorrono! Scorrono!… / Ho provato verso le undici qualche minuto d’intesa con la natura. / occhiali neri in un ciuffo d’erba. / fasciato di bende, davanti a uno yogurt, in una centrale siderurgica».
Scrive Nicola Vacca:

«Houellebecq poeta è diverso dall’Houellebecq romanziere. L’abbandono al verso lo rende meno isterico e inquieto. Qui viene fuori lo scrittore impolitico che si aggira tra le macerie della distesa grigia della terra e annota sul suo taccuino l’assenza che abita nella tragicità dell’essere. La sua poesia non rinuncia a un pensare per paradossi, dove una «calma demolita» gioca d’azzardo con un «cammino senza sapore e senza gioia». Per Houellebecq percepire la realtà significa vivere un momento forte, essere una definizione perfetta, qualcosa che oltrepassi la morte. Tra le righe dei suoi versi si può leggere la sfida a viso aperto di un uomo che ha orrore del vuoto che dilaga. Houllebecq afferma che il mondo lo sorprende ed è per questo che scrive poesie. Per lui la vita non ha nulla di enigmatico. Nonostante amiamo aggirarci nei paraggi del vuoto, il nostro disincanto universale lotta quotidianamente con il “naturalismo esistenziale” dell’amore che vive con tutta la sua fragilità nella gestualità dei corpi che si appartengono e si respingono. Houellebecq poeta cerca di dare un senso alla condanna. Paradossalmente attraversa un universo lirico in cui per un istante si intravede un futuro per la speranza ,anche se il nulla propone alla nostra inquietudine una pace relativa».

Esiste un punto sincopato ma splendente, dove sembra trasparire una possibilità impercettibile di riscatto: è l’esperienza amorosa, violenta e definitiva che disincanta e spezza questo magma spento e subìto, dapprima come esigenza di completezza, poi come manifestazione e «gioia di ritrovare qualcuno che si è già incontrato, che si è sempre incontrato, per sempre, in un’infinità d’incarnazioni anteriori. Se non ci si crede, è un mistero».
Perderlo significa perdersi, separarsi è annullare la propria smagliatura lucente, perché tutto ciò che non è affettivo diventa insignificante e allora esso serve «per legittimare una vita», come sostiene ancora Fabrizio Sinisi, nonostante la sua affermazione «necessita di una libertà che oggi sembra un peso troppo grave».
Il narcisismo macerato e diviso di Houellebecq, nutrito da Baudelaire, Verlaine e Drieu La Rochelle, come afferma Camillo Langone, è pieno di fame, si porge al respiro vitale, rimanendo nella traccia di un’esistenza possibile, di un colpo di vento che venga a purificare lo spazio, sebbene conosca ciò che nella vita sempre declina, quando «tutte le strade portano a stanze chiuse», e quasi finendo per declamare il bordo infinito dell’essere, tenta una lotta disperata contro l’evidenza di diminuizione: «Non sapevo di avere nel petto / Questa orrenda ostinazione d’essere / Anche privato di ogni diletto, / Di ogni piacere, di ogni benessere, / Questa imbecille e sorda forza / Che vi spinge a proseguire / mentre ogni istante rafforza / L’evidenza di diminuire».
L’esigenza di felicità è un crampo che assomma il bisogno di «avere una fede, minuscola o sublime, / un insieme di gesti / Come una danza idiota, diciamo la moresca, / una danza modesta / Che si balla senza sforzo, minimo apprendistato / pochissima riflessione», per raggiungere «la felicità immobile e ciclica della ripetizione».
È un tempo decostruito e viaggiatore che invoca, a denti serrati, la lucidità di un tratto condiviso, di un corridoio che si agita e sente pena e tremore, avviluppato nella conca drammatica dell’umano: «Osservando tutti questi corridori, / fra cui certi social-democratici, / Sentivo pena e tremori: / È nel soffrire che schiattano. / Esaminando questo danese / Come Bjarne Riis noto al paese, / Non penso più affatto a me; / Il suo viso torturato diventa plissè / Come un viso d’essere umano / Che trova salvezza nella pena / Con i testicoli, con le mani, / Scriveva la storia umana / Senza bellezza vera, senza esultanza, / Con la coscienza di un dovere. / Tutto questo si agitava in me: / La coscienza, la pietà, la speranza».
Ha scritto Chiara Farangola che la Weltanschaung di Houellebecq si inscrive «nella linea di un pensiero tragico che esprime la crisi profonda nelle relazioni tra gli uomini e il mondo sociale e cosmico. Il «mondo senza qualità» dell’opera houellebecquiana è un mondo definitivamente abbandonato da Dio, nel quale Dio non è solamente morto, ma non è nemmeno mai esistito. L’uomo che Houellebecq descrive è lacerato tra l’aspirazione all’infinito e la realtà della morte, è l’uomo che avendo elaborato lo spazio della scienza razionale, ha rinunciato al concetto stesso di Dio e perciò a qualsiasi norma veramente etica. Il problema centrale della coscienza tragica in Houellebecq diventa allora sapere se in questo spazio razionale sia ancora possibile reintegrare un’etica, dei valori morali sovraindividuali e, se sarà possibile, pensare di nuovo in termini di «comunità» e di «universo». Questa tesi si propone proprio di mettere in rilievo l’importanza, nella visione del mondo veicolata dai romanzi di Michel Houellebecq, dei ressorts esistenziale e spirituale, rispetto a quello socio-teorico già analizzato in altri studi. Inoltre, vedremo come questa metafisica houellebecquiana si nutra nell’intuizione poetica di un immaginario materiale di acqua e di luce e di come questi momenti intuitivi costituiscano la vera voce dell’autore, quella più intima e sofferta che si strugge nell’assenza dell’Amore».
Il fondo della sua vibrazione è la «souffrance ordinaire», calcata nelle miserie quotidiane e nella separatezza dalle cose, densa nell’amarume ebbro di solitudini, come attesa di venti forti e inesorabili, nella vita sbattuta e alienata della mancanza d’amore, divenuta spietata e piena di «oggetti variabili / Di mediocre interesse, fuggevoli e instabili, / Una luce smorta scende dal cielo astratto. / È il lato B dell’esistenza, / Senza piacere e senza vera sofferenza / salvo quelle dovute all’usura, / Ogni vita è una sepoltura / Ogni futuro è necrologico / Solo il passato ci strazia, / Il tempo del sogno e della grazia, / La vita non ha nulla di enigmatico».
La propria derelitta spersonalizzazione si affaccia sul mondo muto, sopravvivendo, senza conduzione al significato ultimo e profondo che radica l’esistere, si sporge persino nella provocazione sessuale e ribelle, mercificata e indotta, di uno struggimento di soglie inavvicinabili che interrompe le frasi di un paradiso perduto e immane. È lotta narcisista e laterale, male di vivere che sussume lo scuro profilo della perdita, dell’abbandono, della dissacrazione di ogni promessa bandita e maledetta che, attraverso un processo di reificazione, scompone la scena del mondo, disciogliendo i suoi residui: «le strutture del piacere munite del proprio fusibile / Che è la paura. Dell’altro. E della sua innocenza. / Il sospetto al di là di un’immobile assenza, / Di qualche cosa infine che rassomigli a un senso / Oltre le nostre pelli. Fantasma di trascendenza».
L’apocalisse di Houellebecq rappresenta, dunque, il teatro di un destino scarnificato e catastrofico che ha dismesso la libertà, rendendosi emergenza sognata e distrutta di un mistero segreto, come egli stesso proclama in questa contraddittoria confessione a Stefano Montefiori, dal titolo Contro la responsabilità: «Della libertà l’uomo non ne può più, troppo faticosa. Ecco perché parlo di sottomissione. […] In fondo la religione per me non è la fraternità, ma la comunione con una potenza spirituale realmente esistente e attiva. Una potenza anche fisica. […] Il riconoscimento di una potenza, voglio dire, tale da rendere superflua l’esistenza stessa di una morale».
Tutti i paraggi del vuoto, dissociati dalla vita, attendono una promessa d’amore, come speranza e desiderio inesorabile e schiuso, profezia tenera malgrado «il limite del mio reame» che va riempiendo il sollievo di una vita di breve durata e ineluttabile e di un amore di passaggio, sempre cercato e abolito, come testamento sparito e isolato: «In fondo l’ho sempre saputo / Avrei aspettato l’amore / E sarebbe arrivato / poco prima che morissi. / Ho sempre avuto speranza, / Non ho rinunciato / Molto prima della tua presenza, / Mi eri stata annunciata. / ecco, sarai tu / la mia presenza effettiva / sarò nella gioia / della tua pelle non fittizia / così dolce alle carezze, / Così leggera e fine / Entità non divina, / Animale di tenerezza».
La sua nuda disperazione e il peso di una nullità bruciata, pertanto, entrano nel bisogno chiuso dei giorni sperduti, nella vecchiaia, nel tremore dell’essere che non esita a sparire ma che lascia, solo ed esclusivamente, nell’amore e in mezzo al tempo, «la possibilità di un’isola».
E poi ancora si addentrano nel dono di una vita intera in tutto lo splendore delle carezze del sole, nel colore di miele di Joséphine, nel cielo in fondo agli occhi come lacrime che colano, nel risveglio spesso oscurato, assillato dall’eterno («Bisogna attraversare un universo lirico / Come attraversi un corpo che hai molto amato / Bisogna risvegliare le potenze oscurate / l’assillo dell’eterno, dubitoso e patetico») e nello sguardo che scava in fondo al vuoto il tremare di un desiderio confessato e ultimo, sussurrato quasi con vergogna, come la lettera a Bernard-Henry Lèvy: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora».
In questa grazia immobile, «sensibilmente schiacciante, / Che risulta dal passaggio delle civiltà» e «non ha la morte come corollario», esiste e si percepisce l’unione paradossale di morte, amore, piacere che destano la consapevolezza della rovina separata, dell’universo carnale, della scrittura del corpo precario e in cardine instabile, arreso in una splendente limitatezza, fuso in un’opportunità amorosa che attraversa lo sfacelo e si rivela come irriducibile e sublime desiderio di eternità, e, infine, assorbito nella sua interrotta genesi sacrale, come scrivono, in un’interrogativa finale che ci tocca e ci impasta, Alba Donati e Fausta Garavini, nella nota di copertina al testo: «Sì, oltre le notti senza cielo, oltre le mattine in cui la speranza esita a raggiungere gli uomini, c’è un momento di possibile dolcezza, quando le pelli si toccano, si incontrano, in cui il mondo può addirittura risplendere. Così appena finito di leggere le quasi cento poesie di uno dei più grandi scrittori francesi “sopravviventi” ci toccherà rimanere indecisi: ci avrà contaminato quel suo senso di condanna, di maledizione e disincanto, oppure ci avrà fatto sentire tutta l’esitazione, la fragilità e la bellezza dell’amore, della compassione, dei corpi?».

6339956_966185HOUELLEBECQ M., Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2015.

HOUELLEBECQ M., Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2015.
ID. – LÉVY BERNARD H., Nemici pubblici, Bompiani, Milano 2009.
ID., Contro la responsabilità. Conversazione con Stefano Montefiori, Libri del “Corriere della Sera”, 17 febbraio 2015.
CELAN P., La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993.
FARANGOLA C., Il mondo senza qualità. L’universo romanzesco di Michel Houellebecq, tesi di laurea, Roma.
GRAZIOLI L., Houellebecq lercio misantropo (http://www.doppiozero.com/materiali/parole/houellebecq-lercio-misantropo).
LANGONE C., Quanto Baudelaire nelle nuove poesie di Michel Houellebecq, in “Il Foglio”, 18 novembre 2015.
SINISI F., «Eppure confesso che persiste il desiderio di essere amato», in «Tracce – Litterae Comunionis», dicembre 2015, p.93.
VACCA N., Michel Houellebecq. Configurazioni dell’ultima riva
(http://www.satisfiction.me/michel-houellebecq-configurazioni-dellultima-riva/).