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Hans Sahl e l’esilio-rigattiere

di Andrea Galgano 31 gennaio 2015

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l’articolo sul sito di Del Vecchio editore

hans-sahlLa poesia di Hans Sahl (1902-1993) si appropria della rada percossa dell’esilio, come stato di coscienza, come pulviscolo estraneo e come biografia limpida.
Come ebreo e come oppositore di Hitler, Sahl lasciò la Germania, passando per Praga, Zurigo, Parigi, dove visse fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Rimase poi in due campi di internamento francesi, dai quali riuscì a fuggire, (condividendo la drammatica esperienza con Walter Benjamin), patendo «sulla sua carne la labilità dell’esistenza, l’orrore della guerra e la minaccia incalzante della deportazione, prima di raggiungere il porto di Marsiglia, dal quale riuscì infine a salpare in direzione degli Stati Uniti, dove rimase anche dopo la conclusione della guerra (in patria l’esule ritornò solo nel 1989). L’esilio, pertanto, dà l’abbrivo all’apprendistato letterario dell’autore, segnalandosi come autentico Leitmotiv della sua produzione poetica e narrativa, non perdendo mai lo smalto dell’attualità anche nella produzione più tarda, quando assurgerà a conditio umana per eccellenza» (Nadia Centorbi).
L’estemporaneità fugace del tempo che varia l’esilio, lo modella, lo istoria in una scena spoglia e vivente, raccoglie immediatezza e deriva, soggette alla dilazione del tempo, condensandosi «nell’assertività ontologica dell’ «io accado», «io sono un evento» («Scrivere poesie – ovvero quel che ancora ne è rimasto»), onde una poetica fondata sull’assunto morale dell’hic et nunc, al quale si abbarbica l’esule disorientato, sopravvissuto a eventi epocali, che ne hanno minato, ma non annientato, la fede nel futuro della sua specie» (Nadia Centorbi).
La disorientata sonorità del tempo e la sfiancata rabbia sospendono identità e dispersione, attestano il problema-esilio in una spirale estranea che permane limpida, che intarsia il potere enunciabile della testimonianza come avvento e ricordo, e travagliata materia vissuta.
Comprendere Sahl, pertanto, significa fare i conti con un dramma lacerato e condiviso, in una memorialità precaria, e altresì, scompaginare l’uomo per riappropriarsene, articolando la promessa identitaria che guarda gli scenari in cui ha vissuto: dalle città europee fino alla New York notturna e all’accorata Marsiglia, come sospesa invasione di sguardo: « Alberi nel porto / navi in sosta, / uomini addormentati / sotto gli alberi delle navi, / passaggio di gabbiani, / vele sospese, / nebbia mattutina / sopra il porto. / Svanirono le stelle / al nostro incontro, / tra gli alberi delle navi / impallidì la luna» (Marsiglia II)».
L’isolamento non solo celebra l’altrove ma compone la trama dell’ “esilio nell’esilio”, finendo per coincidere con il limite delle utopie e delle ideologie e capace di connotare la tormentata visione del mondo, caricandola di forte tensione simbolica. Il coraggio di far fronte a una dura compiutezza e ad una magmatica contraddittorietà:

«La storia della mia generazione è la storia dell’ascesa e della caduta di un’idea che si rivelò utopica. Il sogno di una società senza classi, che animò il pensiero e l’azione di noi giovani, si tramutò in incubo non appena la realtà del comunismo entrò in disaccordo con la sua idea. La storia dell’esilio fu anche e soprattutto la storia di una questione di coscienza, che ciascuno dovette risolvere per suo conto e che implicava la domanda se si potesse ancora trovare un principio di identificazione o anche solo collaborare con un partito che era pronto a denunciare ogni autocritica come tradimento della lotta comune contro il nemico politico Adolf Hitler. Quanto coraggio ci voleva, quanto dominio di sé, per prendere le distanze da uomini con i quali insieme si lottava, si divideva la fame, si lavorava, si amava, si soffriva, e per dire loro che non si approvava più la loro politica, e col rischio di essere da loro evitato o addirittura perseguitato, dire no e farlo in esilio».

L’annotazione fugace si rinviene nella sua prima raccolta Le chiare notti. Poesie dalla Francia (1942), pubblicato in America, laddove, le liriche vengono sillabate e cadenzate da una memoria di diario, in cui ogni verso pare svelarsi nell’assoluta immediatezza, come reale strumento di conoscenza umana e poetica, e come annota Ottavio Rossani, «con una ricerca stilistica e ritmica legata alla tradizione tedesca. L’uso di rime, e spesso anche del sonetto, dimostra che la sua tensione esistenziale contingente entrava dentro la necessità di dare un ordine al caos in cui la realtà l’aveva gettato. Le raccolte successive […] abbandonano questo controllo estetico, per cui Sahl si lancia in una totale libertà espressiva. I versi non sono più controllati, ma in compenso sono più asciutti, più essenziali, spesso anche scabri e in qualche misura sbrigativi. I temi sono in fondo sempre gli stessi: l’estraneità che diventa una forma di vita; il poeta confessa che non può sentirsi in patria ormai da nessuna parte, ma che si sente estraneo dovunque si trovi. La scelta dell’esilio è ponderata e avventurosa nello stesso tempo».
La piena corrispondenza della sua geografia biografica combacia perfettamente con l’immagine poetica, attraverso il profumo della ricerca della verità, attraverso la piena descrizione diretta che non ammette cesure o cancellazioni, e in cui la pienezza del dramma esule (e degli esuli) compie la sua vertigine «in scomparti di treni […] / oceani solcando e in sale d’attesa»: «S’è pur così fugace come noi siamo stati, / noi scacciati ovunque di Paese in Paese, / per lui però, che è privo d’altri certificati, / la sua sola carta fino ad oggi rimase».
Scrive Giuseppe Moscati:

«Sahl veste piuttosto agevolmente i panni dell’esili(at)o, respira e inspira profondamente l’esilio fino a fare della sua condizione forzosa di sfrattato dalla propria terra una libera e piena scelta esistenziale. Una scelta di crescita, indubbiamente. Tanto che proverei a definire quello di Hans Sahl come un «esilio evolutivo». Certo, non si può negare che sia stata per lui un’esperienza drammatica, dolorosa, lacerante anzi come testimonia ogni sua pagina, e tuttavia è anche vero che la sua estetica, la maturazione della sua coscienza politica e culturale (un unicum), la sua concezione del mondo, il suo stesso grado di conoscenza degli uomini e delle donne hanno trovato proprio nell’esilio la loro prima energia propulsiva. Attraverso il filtro dell’esilio Sahl rivede e risente gli orrori di cui è stato diretto testimone; ripercorre le strade accidentate della sua esistenza offesa, non da ultimo dagli stenti patiti da vittima di due campi di prigionia in Francia, portando avanti una sorta di “gioco serio” con la memoria; rilegge il rapporto con amici e intellettuali e si confronta con la realtà politica e culturale del suo Novecento, sempre da esule volontario facendo ritorno nella sua Germania solo nel 1989».

Ogni verso sembra scampato e strappato. Ogni prolusione umana scorre in una sismografia di immagini diverse, «riflessioni e ammonimenti che il poeta rivolge a se stesso quasi per prendere atto di un destino sempre più oscuro nelle sue manifestazioni» (N. Centorbi).
La consistenza esistenziale raccoglie sentenze dilacerate, disorientamenti di sguardo e dimenticanze notturne in cui la nostalgia precaria delucida lo scampo della parola effimera: «Il cuore non legare a quel che è già perduto, / non merita l’amore quel che a fuggir costrinse, / delle immagini scorda il notturno assalto, / dimentica la mano che nel vuoto ti spinse, / e a quella falsa eco non prestare ascolto, / che dal mondo di ieri fino a te rintocca. / Il cuore non legare a quel che è già perduto. / Proteggiti finchè la tua ora non scocca» (Sentenza).
Il paesaggio ricco e fastoso si accompagna alla scia della chiarità, alla consumazione, all’apocalisse rilasciata, all’uomo che «porterà le tue cose alla stazione» che «è già sulla porta e aspetta».
È il tempo che ruba forma al caos e la rima alle rime, che raggiunge il suo apice di sovvertimento, e che «scandisce in sillabe la danza della morte a cuor sereno», laddove però la parola si scarnifica, appropriandosi della sua chiarezza pulita: «Dal tempo e dalla sua rima mi sono estraniato, / il tempo la mia rima mi ha rubato. / Dove i mondi crollano e s’annientano popolazioni, / per addensarsi in rima la parola non ha più occasioni. / Mettere in canto l’orrore non è forse azzardato / strappare a ciò che non ha rima qualcosa di rimato, / per chi ancora le parole possiede nella parola cacciar di frodo / per illustrare la carie ossea della lingua trovare il modo, / e dove tutte le parole vengono meno, / scandire in sillabe la danza della morte a cuor sereno» (De profundis) o ancora: «In questo posto più non dovresti stare, / nell’erba l’ultima cicca s’è già spenta, / tra le baracche notturne il ratto s’avventa, / la guerra è già prossima – via dobbiamo andare» (Poesia dal campo).
La chiarità (delle notti di luna, del paesaggio che erompe) diviene il manifesto della fuga che individua città e irrompe brutalmente come massacro: «Perché senza le chiare notti in fondo / non ci sarebbe alcun finimondo / e vicino alla casa cadrebbero le bombe / e la pioggia spegnerebbe le vampe. / perciò abbi paura delle chiari notti a maggio, / quando spuntano i lillà e la luna col suo raggio, / e con la moglie e figli altrove andate / finchè le chiare notti non siano passate».
Le associazioni di Sahl salvano il magma poetico dal suo rotto grido, dal pianto ineluttabile, dal divampo di guerra e devastazione, ma implorano, allo stesso tempo, la meta salva dell’io, la vittoria sulla morte, dove la precarietà disagiata dell’istante registra la sorte e ripiegandosi si dilata in immagini febbrili e vorticose, come nature stravolte di oggetti sparsi: «No, devi riconoscere / che non ci si è dimenticati di te. / Ieri sono arrivate per te due lettere d’oltreoceano / e la paglia, sulla quale sei sdraiato, / è stata cambiata ed è pulita. / Molti pensano a te. / Questa settimana, così si dice, / la commissione esaminerà / il tuo caso. / Si dimostrerà / che sei un amico di questo Paese».
Scrive Nadia Centorbi:

«la centralità dell’io sembra dissolversi nella coralità di un soggetto lirico polimorfo, in quel noi che scandisce ossessivamente la sequenza lirica. Attraverso il noi il destino individuale del poeta si identifica con il destino di molti altri esuli incontrati, incrociati o semplicemente presenti nella schiera di quanti furono segnati dall’esperienza della fuga dalla patria. Con ciò, il poeta suggerisce che nell’esperienza dell’esilio, che egli ha condiviso con migliaia di altri profughi, non esiste un destino d’eccezione che possa valere su tutti gli altri come modello emblematico: tutti gli esuli, al di là delle diverse peculiarità che ne scandirono le rotte, costituiscono un unico coro, condividendo omogeneamente le stesse difficoltà, lo stesso martirio della persecuzione, della fuga nonché del disorientamento derivato da un’esistenza irreparabilmente stravolta. A differenza delle poesie del primo ciclo poetico, nei componimenti più tardi Sahl non cede alla malia di centralizzare la sua personale esperienza di esule e perseguitato. All’estemporaneità dei versi della fuga subentra la responsabilità morale di preservare una “memoria dell’esilio” che attecchisce, appunto, nella coralità del noi […]».

Come egli stesso scrive, dalla luce improvvisa e radente di Marsiglia: «Noi non viviamo, noi non moriamo, noi attendiamo, / noi facciamo a gara con la morte a chi arriva per primo, / noi tutti sappiamo che dobbiamo aspettare, / noi siamo già morti, ma ancora non lo sappiamo, / e giochiamo coi sentimenti come si gioca a palla, / noi ci facciamo derubare dal primo cretino / e prenotiamo posti su navi che non esistono, / noi abbiamo compreso già da tempo il nostro destino / e non moriamo».
È la lingua che porge il fianco alla testimonianza ma non si imbarbarisce, non proclama avversione o rabbia («il tuo cuore sentirà di nuovo, / un sole riscalderà te e un volto conosciuto»), ma celebra la propria dignità («Dal sangue scorso in tempi passati / qui è sbocciata rarissima vite»), il proprio resoconto oggettuale e il proprio sguardo, la propria speranza e il proprio spasmo d’attesa: «nell’hotel in cui alloggio / è già passato qualche grande spirito, / uomini ubriachi fanno chiasso sulle scale, / la polizia arriva di solito verso le sette, / e la vecchia sta china sui suoi libri / verifica i conti ed enumera le macchie sulle lenzuola / qui nell’hotel in cui crepo».
Le sue successive raccolte Noi siamo gli ultimi (1976) e Noi siamo gli ultimi. La talpa (1991) la nota dell’esilio abbraccia la Storia, incontra nuovamente i volti di un tempo spezzato, riflette l’oscillamento di uno sbigottimento estraneo, come aveva già scritto in Le croci di legno, «sbigottito dal senso di colpa / d’esistere ancora e strepitando, chiacchierando, masticando / vivere la proroga».
La rotta di Sahl permane nel suo taccuino non bruciato, proclama dispersione e smarrimento perseguitato, insegue similitudini di lontananze («Noi più lontani delle innumeri stelle / ci estendemmo fino a orbite planetarie […]» Forse da qualche parte / in un luogo inaccessibile / un’orma ancora, uno strato d’erba / testimonia le tracce di chi passò da qui / e i vostri canti intonò), invita all’interrogazione ultima e reduce: «Noi siamo gli ultimi. / Interrogateci. / Noi siamo competenti. / Noi portiamo in giro lo schedario / con le cartelle segnaletiche dei nostri amici / appeso al collo come la cassetta degli ambulanti. / Istituti di ricerca fanno domanda / per ottenere degli scomparsi gli scontrini della tintoria, / musei custodiscono le parole della nostra agonia
come reliquie sottovetro. / Noi, che sprecammo il nostro tempo / per motivi comprensibili, siamo diventati i rigattieri dell’incomprensibile. / Il nostro destino è un monumento sotto tutela. Il nostro cliente migliore / è la cattiva coscienza della posterità. / Prendete, servitevi. / Noi siamo gli ultimi. / Interrogateci. / Noi siamo competenti. (1973)» e infine si confronta con la signature precisa e logora delle tracce come stimmate e ritardo di baveri: «Così compariamo davanti a voi, / con il sorriso che da noi / vi aspettate, col basco disinvolto / sull’orecchio o la yarmulke, / incidendo con il pollice / le stazioni dell’esilio / sull’ormai logora carta geografica, / unendo precisione a poesia, / infondendo vita ai resti / prima che essi ci sfuggano via nella corrente / della risciacquatura del ricordo, / senza lasciar traccia e arrivederci per sempre».
Il valore dialogico e umanistico di ogni atto di scrittura è il memorandum per attestarsi nella profonda dignità umana, per consegnarsi a un tempo vasto e irriducibile, al respiro dell’ essere uomini contro ogni devastazione e rimozione, pur sopraffatto dalla sproporzione e dalla povertà di essere vivi, per lasciare il campo cantando: «Un uomo, che alcuni ritenevano / saggio, dichiarò che dopo Auschwitz / non fosse più possibile alcuna poesia. / Sembra che delle poesie / l’uomo saggio non abbia avuto / alta considerazione – / quasi che queste servissero a consolare / l’anima di sensibili contabili / o fossero vetri intarsiati / attraverso i quali si guarda il mondo. Noi crediamo che le poesie / siano ridiventate possibili / ora più che mai, per la semplice ragione che / solo in poesia si può esprimere / ciò che altrimenti sarebbe superiore a ogni descrizione».
L’esito di una nitidezza spoglia è effimerità profuga («La lirica nella nostra epoca / può essere solo effimera. / Comunicazione con la condizionale»), volto, città amata, patria-sorella, amore vissuto e rivissuto e ricordo purificato.
Essere cristallo nella lavina, sottrarsi alla fugacità feroce del tempo, partecipare al dramma dell’umano, significa, per Sahl, germinare nel suolo sottaciuto e «nella conchiglia dell’albero, / sui rami del sogno», racchiudere la linfa della lingua nell’«abbacinante / chiarore / del non ancora» e vivere un passaggio «dal regno del divenire / in quello del divenuto».
Ma non canta la fine né l’oscurità forte dell’oblio. Lo testimoniano le magnetiche poesie americane, dove New York appare fulgida e splendente in tutte le sue meravigliose contraddizioni.
Nella sua feritoia ferita, Sahl pone il suo rifiuto, come impossibile riducibilità dell’uomo e rimozione, come miseria di odio e di peccato. Lentamente egli esce dal mondo in silenzio, «verso un paesaggio al di là di ogni lontananza / e ciò che fui e sono e ciò che resto / se ne va con me senza impazienza e senza fretta / verso un Paese non ancora battuto. / Lentamente esco dal tempo / verso un futuro al di là di ogni stella, / e ciò che fui e sono e sempre resterò, / se ne va con me senza impazienza e senza fretta / come se mai fossi stato o quasi» e dinanzi alla catastrofe, rimane un ultimo e infinito grido: «Mi rifiuto di scrivere un necrologio / per l’uomo come se fosse / un incidente biologico / tra due epoche glaciali».

SAHL H., Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo, a cura di Nadia Centorbi, Del Vecchio Editore, Bracciano (Rm) 2014.
ID., Das Exil im Exil, Luchterhand, Frankfurt am Main 1990.
CENTORBI N., «Ich bin ein lebendes Memorial». Lethe e Mnemosyne nella poesia di Hans Sahl, in COTTONE M. – DOLEI G. – PERRONE CAPANO L. (a cura di), Dalla rimozione alla memoria ritrovata. La letteratura tedesca del Novecento tra esilio e migrazioni, Artemide Ed., Roma 2013, pp. 95-116.
ID., I volti dell’esilio, in «Poesia», luglio-agosto 2014.
DOLFI G., Il poeta-testimone che smentì Adorno, in “Il Manifesto”, 23 marzo 2014.
MOSCATI G., Hans Sahl. Fogli sparsi di un rigattiere dell’incomprensibile, in «Nuova Antologia» 2014.
ROSSANI O., Giornata della memoria: le poesie di Hans Sahl “Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo”, in “Corriere della sera on-line, 27 gennaio 2015 (http://poesia.corriere.it/2014/01/27/per-la-giornata-della-memoria-leggere-le-poesie-di-hans-sahl mi-rifiuto-di-scrivere-un-necrologio-per-luomo/)