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L’Aprile di Francesca Serragnoli

di Andrea Galgano 3 ottobre 2016

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sul sito di Lietocolle editore: Andrea Galgano su Francesca Serragnoli

1014458_10201533419246323_856356504_nLa nuova silloge di Francesca Serragnoli (1972), tra le più importanti poetesse italiane, Aprile di là, edita da Lietocolle, nella preziosa collana curata da Gian Mario Villalta, apre la conoscenza del tempo in una accensione vitale e scoperta. È incontro, tessuto, vita che scorre, dolore che apre le vene, grazia che incombe, terrena partecipazione alla realtà ma anche librata trascendenza di forma.

Nel ricordo di Marina Sangiorgi, ora in braccia più salde di quelle terrene e ricordata nell’eterna linea leopardiana («amava l’aria dolce, la vanità del volare / e nidi piccoli, letti lunghi stretti / Bisogna ridere al barelliere che ti porta in fondo? / salutare con la mano / guardate solo il volto / il mondo è un attimo»), la poesia si raffronta al dolore, della mancanza e del cielo-fiato quando fiorisce un tremito e avviene l’inizio di un ricamo infinito:

«Spegneva Dio con due dita / il lumicino brevissimo. / La morte diventava arietta, / corsa di fiato / alito di vento sul volto / immobile della statua / inclinata sul fondale / che sente le braccia sgretolarsi / il muschio in bocca / sul capo ammucchiarsi le foglie. / Ti rivedrò un giorno? / Ti poseranno vicino / ricorderai d’avermi conosciuto / sull’orlo dell’acqua / fiorisce un tremito / l’inizio di un ricamo infinito. / L’eterno dondolare delle madri / muove le onde».

Il suo gesto poetico possiede sempre una profonda imprendibilità, ma è l’abissale profondità di chi smuove il fondale e l’abisso per rinascere sempre ad ogni istante, per proclamare la ricerca di una vita nella vita, per lasciare al sangue il clamore di un’occhiata, «i grani sciolti di un amore» e «il bianco lino nel volto trasparente / commuoverà solo il vento».

È sempre una forza nuda la dolenza della nostra sacralità, l’altare di pietra fredda dove sanguinano le ginocchia e il dolore sgretola ogni risata in un pugno di terra: «Questo dolore sgretola / ogni risata in un pugno di terra / la neve diventa gelo, trasparenza odiosa / gli abbracci sembravano radici d’uva / cadono come fili legati a un tronco morto / e quel pianto che ci lega le mani / schiena contro schiena / non è un’aquila crudele / che ha nidificato nei nostri sguardi».

Anche nel barlume buio, nella sfioritura non frenata, negli «istanti pietrificati» che «hanno in cima corone di neve» e dove tutto sembra sventrato, arriva un varco, una crepa, un buco in cui risplende la felice tessitura dell’essere: «Dentro questo vietnam girato a spalla / lascio all’abatjour indicare / un fioco pallore di luna / attendere bambina piegata sul prato / i grilli uscire dal buco del cuore».

Le altissime manifestazioni della realtà (il sorriso che ti morde le gambe, il tempo che è un cane perfetto, la primavera tagliata da ottobre «come il contadino il fieno») toccano il tempo della ferita, colorata e fiorita come una partenza: «lì c’è tua madre le avrei detto / scuce e ricuce la tua partenza / come un ferita colorata / ha messo del late / dentro un vecchio bicchiere / appoggiato alla finestra / la vedi agitare le mani / come facesse trecce alla pioggia». È in essa, nel limite buio arroccato che attraversa gli scuri che avvampa l’ultimo frammento di luce ridestata: «Laggiù la ferita è un fiore / le pareti fra noi cadono come petali / distratti da una manata di vento / il volto di cartone si piega come un vecchio amore / e ricomincia a stringere con i pugni l’aria».

Il suo posto delle fragole non è solo la sospensione ma anche il «lasciarsi leccare / un attimo dal mondo», nel viaggio breve contro il cielo, nella tersità della risata dove vivere, fino alla precisione blu dello splendore, alla faglia fra la madre e il buio, quando il canto profumato dell’aria è stretta negli anni. Essi sono brevi distanze, murati vivi, rimangono attorno alla prima casa e non sanno separarsi, sdraiati nella brezza dove il dolore, antico e colato, rimane «con granelle di cibo» per essere «un asilo / l’altalena dove spingersi nell’aria del petto / era mio, svolazzava, faceva i segni del vento / mi passava fra le mani come un anello».

Non è solo la poesia degli attimi aperti, ricuciti, sfibrati o liberati dalla letizia di una dismisura dell’anima a condensare le sue linee, è l’ora che non pesa, l’ora felice dove i cieli sono bellissimi e l’appartenenza è al fuoco che non muore, unico e peculiare:

«Nei giorni c’erano cieli bellissimi / tutti col piede appoggiato al muretto / varcavano confini, volavano schiaffi / uno sputo alla pioggia / l’esser soli di baci ne riceve tanti / ci vuole quella stranezza che girava / fra i tavoli di una discoteca / quel venire dentro le maniche / che solo il freddo conosce il brivido / ci vuole un cielo solo tuo / un cielo peso sulla spalla / con i suoi cementi, le pozze piccole / quel tramonto di gamba / grossa che gira con la palla intorno al sole / ci vuole quel briciolo di fuoco tuo / che chiede solo di cadere / come una cantilena nell’oscurità / e le calze il vento le lascia / per qualche minuto / dondolare vuote».

Pertanto, il suo allarme originario è primordiale, riflette il declino e la letizia emergente delle immagini, come «una gioia che gioca l’asso / fra me e l’universo», la fronte sudata della terra o il cielo travolto dall’addio.

Forse declino meraviglioso, forse specchio argentato o forse ancora felicità limata nel petto che custodisce i semi dell’eterno («osservavo il blu / lasciavo morire il movimento / e quelle luci i bottoni / aperti nel petto oscuro / toccavo quei muri / come un volto d’uomo / dalla rapida luce che si sdraia / nella notte, adesso. / E nessuno spegnerà il declino meraviglioso»):

«Le tue notti sdraiate nei deserti / sono occhi grandi, neri, caldi / hai mani che cercano nel vento / il ventre di una donna, / con il dito sollevi l’aria / per vedere la fronte sudata della terra / capelli lunghi come la notte appena trascorsa / un soffio muove la barca / fra l’imbrunire e il volto d’acqua / l’avvenire dondola nel blu / vibra una figura che scende / laggiù e non si volta / nemmeno per morire. / Non sai più dove la notte / vende ai fari i suoi specchi argentati. / L’acqua riflette un cielo travolto dall’addio».

L’alfabeto di Francesca Serragnoli, allora, è un tempio che custodisce l’alacre bellezza delle notti in piena con le sue ore brevi e la sua mezzanotte oltre il tavolo, cadenza l’infuocato ritmo e il respiro che «è una bandiera / bianca davanti a Dio», il silenzio del voler essere felici, il mezzogiorno delle tapparelle mentre si spinge fino alla sera delle stelle che «a testa bassa fanno la maglia», intrecciando il vivere e il morire, e nell’onda d’acqua «il gioco delle tue labbra spostava / la luna e la polvere / chiamavano l’onda per nome / chiamavamo quell’acqua, quel foulard / volevamo toccare la domenica, quel costato / come ragni del Signore, iniziare lì».

Nulla rimane fuori da questa pienezza di finitudine protesa, nulla che dopo l’eterno sfogliare dei giorni non cerchi il ricordo custodito, gli addii pestati, gli specchi del mare oltre l’aria inginocchiata e fedele, e gli anelli rovesciati come fiato:

«Non riuscivo a dire nulla d’immortale / accarezzavo moltissimi dei tuoi nomi / ero quella sulla scala mobile / che incrociavi senza morire. / Non te lo so spiegare, dicevi / ma la rosa è meglio di te / è rossa, e quel rosso tu non ce l’hai. / Hai la fuga e il piede nella pietra / non hai nemmeno l’azzurro fra punta e punta. / È come se avessi gettato / gli anelli in mare, / rovesciato il fiato come cenere».

La vita che si svolge promana e promette il suo canto disteso di dettagli dove il cuore prende fuoco nel grido agli angeli, e l’amore è promesso e lasciato, incrociato e disegnato, felice nell’aria scelta dove l’anima scivola la notte, nei codici segreti delle vendemmie: «Hai il cuore cadente dal petto / non lo sai tenere, spinge / conosco il movimento / la confusione delle due / i pulsanti, i codici segreti / il tuo cuore ha risate e sassi / sputa, non è dipinto / l’aria dolce ti cerchia il viso / come un nastro. / Stacco cose dal tuo esistere / è una vendemmia, eppure / c’è un che di aspro, di sbiadito, di invenduto / la notte, furiosa statua / cerca con le braccia di afferrarlo».

Ci sono emblemi tersi e violentissimi che muovono le sue figure nell’aria selvaggia, il canto e la domanda al cielo che è punto di fuga e di conquista, senza travestimenti. Poesia nuda che chiede nudità alle cose, le mendica, le curva pronunciandole e, infine, fa fiorire le parole in segreto dove qualcosa rimane nella polvere e non muore mai, come un nido, un incontro o un ricovero di pronunciamenti per «sentire il sole sulla testa / un cavallo che pesta l’erba / dove i pensieri miei e suoi / si annusano come animali»:

«Percorre un ripido scendere / degli occhi nel basso lei / che ha avuto voli in giovinezza / stretti in mani morte / curva sui suoi anni avverte / nello stare insieme qui / gioielli d’harem e risale / vedo nell’asfalto riflessa / paura di gioire / ma l’ossatura precisa, cadente / non morirà in quei fanali / non finirà la vita / fiorisce in lei la parola dolce / mai pronunciata, di un possibile amore».

Altra vita nella vita, voglia di vivere come musica che divide in due la riga fra i capelli e porta via, fino allo splendido sacrificio di un frantumato amore di grano e impasto di luce e terra, corpi e aria, come lo sfarzo ripido dove scivolano baci e carezze e dove «il duro grigio occhio interrato / cerca nella radura in fondo una margherita / su di lei appoggia la testa / e sogna il fresco domani»: «Mi porti là dove non sono mai stata / i piedi piatti sopra il ruvido della luna / come vecchie parrucchiere alla ricerca / di teste dove mettere i canditi. / Oh gioia che rifai con me il giro intorno al vicolo / mi porti come un cane / lasciami diventare / quel frantumato amore del grano che si lascia morire».

E allora l’incerta gloria di un giorno d’aprile, nei testi nati fra il Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna e l’Ospedale di Imola, si avverte tutta la bellezza e la povertà lucente dell’essere vivi, tutto l’abbandono, la grazia dell’eternità figlia dei matti e il posto delle fragole.

Questi ritratti affermano, si posano nel mosaico senza fine di un tempo infinito, dilatato e sofferto, dove ogni crepa dell’essere, ogni limite sono occhiate splendenti al di là dell’orizzonte dell’esistenza delle parole necessarie: ­­­­«Gabriella! alza quel nero vivo uccello notturno / che raspa fra le mani strette, alzalo / che riposi fra le tempie della notte / mentre ti guardo con il volto di vetro soffiato / e le stesse vecchie dure lacrime / sono i miei occhi azzurri».

Come la povere frantumata del futuro immobile che «una donna col carrello tira via dagli angoli / pietra di pianeta, eternità morta / un buco nero sembra dal nero nuovo, / pestato con orme di ciabatta / dove la roccia è girata e rida al cielo / e il pianto ha mille piedi / che vanno e vengono dalla sua ombra», poi Rita appesa a un chiodo d’aria e i suoi occhi divorati dalla luce come una farfalla notturna, la siepe oltre il buio dell’Ingresso Nuove Patologie che attraversa l’immensità e tocca la fine, il tramonto ritornato in viso del reparto geriatria Lunardelli. Un accenno e un sigillo encore: «Ho incontrato due soldati al ventiquattro / quelli partiti per la guerra / i baffetti appena accennati / li ho visti ora che il confine è un altro / le bandiere sono alte immobili bellissime / discutevamo, ma uno è uno / uno è sempre lui, quello che era / non importano gli anni / e non hai il coraggio di dire / tu devi morire, manca poco / ti spareranno dalle piccole e frantumate isole / metteranno i sigilli, chiuderanno la porta / ricorderanno che avevi vissuto / non ce la fai a non guardare tutto come eterno».

Serragnoli F., Aprile di là, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016, Euro 13.

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Serragnoli F., Aprile di là, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016.