di Guido Rutili
25 febbraio 2020
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Se questo virus fosse più “nostro” di quanto pensiamo?
Nostro, umano, dimenticando l’informazione (non la formazione, mi raccomando), che lo racconta nato in seno ad un’altra specie.
Fermiamoci a riflettere, nel panico che imperversa; facciamo un profondo respiro senza considerare che potrebbe ucciderci, bensì confortandoci col fatto che tra i miliardi di respiri fatti, a partire dal primo vagito, sono più quelli che ci hanno regalato la vita.
Guardiamo lontano, con gli occhi persi in un punto all’infinito, messo lì per dare suggerimenti importanti: certo, la mucosa delle orbite è l’altra frontiera con il mondo virulento, ma non per questo togliamoci la luce.
Anche le apnee e il buio possono uccidere, mentre l’idea illuminata è sempre figlia di un arresto.
Fermiamoci, pensiamo e sentiamo, come fece Sigmund Freud quando intuì che buona parte dell’esistenza si nascondeva nell’inconscio, complemento divino della mente.
Abbiamo creato il virus per sabotare qualcosa. Se è stato un laboratorio a farlo, pensava di sabotare il mondo eppure, siccome Freud aveva ragione, sotto l’egida dell’inconscio, non ha fatto che privilegiare la vita totale, quella che ci costringe a vedere anche nell’ombra dell’iceberg sommerso.
Per questa minaccia assistiamo al crollo dei somatismi sociali, e scopriamo, nello sconforto, che elencarli tutti sarebbe troppo oneroso: il mercato forte, il benessere perpetuo, la vita garantita, il posto di lavoro fisso, la famiglia perfetta, l’auto che guida da sola, i politici capaci, il caffè al bar, la corsa di un’ora al giorno per mantenersi in forma, la dieta chetogenica, le stette lauree bimestrali (che farebbero un terzo di una vecchia laurea quinquennale), lo stage alla NASA per fotocopiare foto lunari.
Arriva una sigla, COVID-19, e torna la protagonista del disturbo somatogeno di questa società indebolita: l’angoscia. E con essa torna, ahimé, la luce su un mondo interno trascurato, negato, rimosso, evitato, rabbiosamente cancellato.
Angoscia.
Nominarla è doloroso, perché non volevamo farlo.
Ci siamo abbracciati stretti fino a ieri per non sentirne la presenza, sostenuti da valori liquidi con cui ci rassicuravamo, dimenticandoceli un attimo dopo e coniandone di nuovamente instabili; ma ora gli abbracci sono banditi.
Una bella fetta di noi potrebbe approdare alla chemioterapia psicofarmacologica o potenziare quella in essere: diciamo che può funzionare, almeno fino all’arrivo di un COVID-20, poi dovremmo tornare sulle parole precedenti.
Allora cosa ci resta?
Soli, senza saperci stare, senza poter contare su supermercati con gli scaffali ineluttabilmente straripanti, paranoici, perché chi ci faceva coraggio adesso è potenziale nemico, immaturi, perché non abbiamo mai pensato che la psiche potesse essere una risorsa nel periodo del benessere digitale, ci crediamo perduti.
Vanno riesumati psicologi e psicoterapeuti, dinosauri cultori dell’anima, che l’angoscia la conoscono bene e possono indossare la veste druidica per riorientarci ed invocare su di essa una magia.
Perché c’è una formula magica che ne parla, che se rammentata la trasforma finalmente in carrozza e che suona all’incirca così: l’angoscia è mortifera finché non le si trova un nome.
Ora che tutte quelle manifestazioni psico-socio-somatiche sono passate e che la causa scatenante è riapparsa all’orizzonte, ognuno può fermarsi, riflettere, dare un nome alla propria angoscia, contenerla senza più sintomi.
Certo che serve coraggio, ma l’alternativa, qui alla resa dei conti, è la perdizione.
Non è certo un processo indolore, gli effetti collaterali sono molti, ma impareremo a sopportarli: dal giorno dopo non saremo più manager (o lasceremo tale identificativo ad una voce sulla job description), i selfie con la famiglia non infonderanno automaticamente l’amore sempiterno tra i suoi membri, per dimagrire dovremo solo mangiare meno, sarà meglio sapere tante cose che mostrare di non saperle con sette lauree, rifiuteremo stage finalizzati alla fotocopia, sapremo che ogni cosa “fissa” è impossibile per forme di vita evolutive e transitorie e riscopriremo il piacere di andare in bicicletta, che da sola non fa le curve e neanche riesce ad avanzare: soprattutto non avremo più l’illusione dell’immunità.
Non saremo immuni, dall’angoscia, dai malanni (soprattutto quelli della psiche), dalla morte.
Come in ogni vaso di Pandora che si rispetti, tuttavia, troveremo sul fondo la più grande speranza possibile: la consapevolezza.