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Roberto Carifi. Il sisma silenzioso del cuore

di Andrea Galgano 8 gennaio 2019

leggi in pdf ROBERTO CARIFI IL SISMA SILENZIOSO DEL CUORE

Pubblicato sulla rivista Clandestino

La poesia di Roberto Carifi (1948) è segnata dal senso tragico del destino e impregnata da una sorta di umbratile e sognante polimorfia orfica[1]. Il segno dell’infanzia è abitato da una «vertigine vuota e distante», in cui l’illuminazione del mito annuncia ma non redime, dove la salvezza si nasconde nella scaturigine pietosa della mitezza e in cui il grido inane, la parola consumata, la cosmologia ombrata imprimono una scenografia «della ricezione pura del dono (della vita) perché lì si è ancora immersi nel segreto dell’apertura originaria» e dove accade

«la ferita di un peccato originario, di una colpa che viene dall’infanzia, come l’eredità di un gesto incosciente, come un evento caduto nel nostro pensiero prima che il linguaggio potesse nominarlo (ma in fondo, essendo l’uomo sempre incosciente rispetto a Dio, tutta la vita umana ai suoi occhi è un peccato originale). Il senso del tragico è propriamente il senso dell’ineluttabilità del destino, l’impossibilità cioè di uscire dalla condizione che ci è data […] L’ineluttabilità del destino, comunque, è paradossalmente la condizione perché accada l’evento salvifico, che è sempre in eccedenza rispetto alla nostra disperata speranza. Eppure, dentro questi saldi confini, il mito si insedia in un’icona condannandosi a un involontario e doloroso idillio».[2]

Nella antologia dell’opera in versi Amorosa sempre. Poesie (1980-2018)[3], appena edita da La Nave di Teseo, a cura di Alba Donati, Giulio Ferroni, nella prefazione, afferma che la poesia di Roberto Carifi si inscrive

«[…] sotto il segno dell’infanzia, percepita come scaturigine e motivazione originaria della parola, del suo cercarsi e pronunciarsi. Ma non si tratta della ricerca dei segni perduti del “vert paradis des amours enfantines”. […] L’infanzia evocata da Carifi non è un’infanzia del “prima”, ma un’infanzia del “dopo”: un “dopo” che si sostanzia dell’esperienza individuale dell’autore, della traccia di un’infanzia personale segnata da una guerra non vista, una guerra da poco conclusa, ma che vi ha pesato come un lascito di macerie, rovine, lacerazioni, negazioni; in una dolorosa persistenza a cui, nell’ambito più privato, si è accompagnato il precoce abbandono da parte del padre e un più stretto e intenso legame con la madre. Così questa poesia tende a rapportarsi ad un inizio in cui l’avvolgente protezione dell’universo materno, del mondo delle madri, si intreccia con la paura e l’angoscia dell’abbandono, del persistere delle rovine. Sul tempo del gioco e dei balocchi, sull’annuncio delle infinite possibilità che pure si disegnava nell’animo del bambino, proiettata verso l’incanto di un orizzonte “celeste”, gravavano l’eco della guerra recente e l’ansia del distacco e dell’addio; e nel desiderio poetico dell’adulto ne restano macerie, da cui sprigionano lampi di gioia e di paura, che fanno coesistere affermazione e negazione, un muoversi verso il cielo e un ricadere nella polvere della terra, una tensione verso la bellezza e una percezione del suo frantumarsi».[4]

Il mito fondante, dunque, che avverte l’eco della radicalità di Celan e dell’istanza simbolista tragica di Trakl[5] o Rilke, si attesta sull’emblema della lacerazione come scaraventata lotta e graffio, strappo e dramma della nascita, solitudine e calma sanguinante di azzurro: «A volte l’azzurro è una piaga / che rompe il quadrato / dove il mondo riposa ed ognuno / ha una gloria da condurre / nel seno della terra, una ferocia / orfana che chiama amore / e stringe chi lo separa / dalle stagioni, il buio».

A tal proposito, Valentina Giuliani:

«Nella poesia di Carifi, coesistono una concezione dell’angelo come spettacolo dell’altrove, epifania dell’oltre (ed in questo caso indubbia è la filiazione dall’angelo rilkiano) e quella dell’angelo contaminato che muore nell’abbraccio degli amanti, la cui ascendenza è piuttosto trakliana che rilkiana»[6].

E per dirla con Isabella Vincentini:

«I topoi della poesia di Carifi sono allo stesso tempo metafore letterarie e filosofiche: esilio, erranza, evento, destino, caduta, vuoto, cenere, rovine, disastro, debolezza, tracce, simulacri, distanza, infanzia e luogo, angelo e dimora, viandante e straniero, viaticità ed abitare. Sono metafore che si radicano al colloquio tra parola filosofica e parola poetica, all’Heidegger che legge Hölderlin, Rilke, Trakl e George, al Celan della “via creaturale” e dell’evento, allo Jabès dell’interrogazione e del silenzio, al Nietzsche che inaugura il pensiero del “sospetto”. Richiamano l’angelo caduto, della custodia o maledetto, l’angelo di Baudelaire, di Hölderlin o di Artaud, la casa e l’infanzia: Hölderlin, Novalis e Trakl; l’Empedocle sempre di Hölderlin: il pensatore e il cantore, la vicinanza tra pensiero e poesia. Le metafore di Carifi nascono da questa vicinanza e da Rilke a George, i poeti prediletti sono pensatori che parlano poeticamente e da Nietzsche a Heidegger, i filosofi sono quelli che parlano attraverso le immagini dei poeti».[7]

L’atto di resistenza del pensiero poetante fa avvertire il senso della soglia e del confine tra la materia vivente e ciò che vivente non è, racchiuso in una gioia povera che fronteggia la polvere e la crudezza e non vede la trasparenza del cielo, che tocca, poi, l’ordine e la sventura, l’obbedienza e i bordi della vertigine.

Il tempo di Carifi afferma i passi del fuoco, lo splendore furente dei percorsi leggeri e delle figurine increspate, della «barca prima del respiro», inginocchiata alle sillabe che «gelano al bacio della prima voce»:

«L’infanzia, ripostiglio di bambole dall’anima di piombo, scena di angeli e paure: tempo della gioia e della sventura, del pianto e delle madri, barlume di parole dettate da una voce che ordina. Tempo dell’obbedienza, di un rigore tragico e destinale, di corse eroiche e sanguinanti. Il mito, appunto, di un’infanzia custodita nel fondo del linguaggio come luogo primordiale della sua voce più dolorosa ed esatta: quella dei poeti, dei “più dicenti”, come li ha chiamati Heidegger».[8]

Il grembo racchiude la forza fecondata dell’esilio, la madre e il grembo e l’infanzia di ogni goccia che cade: «Quante volte, tra le pagine / una mano lanciata come un sasso / negli anni che sono gocce, / centimetri del tuo sangue / e la parola adolescente che consumi / come un cuore inzuppato… / finché un raggio ferisce tutto / anche gli attimi invincibili / e un angelo si solleva, / con esattezza, / trafigge la tua domanda / proprio lì, / nelle vocali».

La trasfigurazione del vissuto tenta legami impossibili tra corpo e paesaggio interiore, cosicchè la lingua, calma nel precipizio, resta nel ferro dei balocchi e nella perdita dura della vita-sorella (denso richiamo a Pasternak), come una parola oscura, in un deserto di luce o in una stagione prosciugata: «Alcuni, nell’amore, hanno parole soffocate / un gelo che disperde nei giardini / dove un angelo si inginocchia / e scavano nella tua voce / orme fecondate dalla stessa ira, / quando un grido infantile / ritorna nelle bambole / ognuno ha una sorte viicinissima al vuoto».

È, dunque, un’esistenza snidata, in cui la trama vivente sente la decisività del segno come tensione amorosa, del perdono come disposizione che si scioglie e lacerata soglia.

Giulio Ferroni afferma: «Parole rivolte verso nessuno, voci che si cancellano senza rimedio, cenere e sangue, cielo e gelo, lumi, lampade e fili di lana, vetri rotti e altri segni di lacerazione, in uno spazio linguistico che si sente come solcato da un’emergenza segreta, qualcosa che lo percorre e lo ara, come un campo […][9]».

L’abisso di Carifi[10], pur nella squarciata fenomenologia dell’istante, rivela non solo lo spazio intatto dell’infanzia, ma porge la sua domanda indimostrabile, la parola muta e trascinata dal freddo, il senso della fine come un transito sbriciolato o nascita pura, e la morte di qualunque angolo della vita che trema mostrando il suo argine sbattuto dal vento.

Esiste una cadenza della fine, della guerra, del limite ma non tanto il loro ineffabile contrario quanto piuttosto il canto, la voce che colloquia con il passato, il respiro e «la grazia / nei grammi di questo vetro rotto». È l’esilio delle periferie lunghe e dei vetri spalancati sulla polvere, quel contatto funambolico, caro a Cioran, tra la presenza, dichiarata a bassa voce, e il nulla. Non a caso una delle sezioni di Occidente (1990) è dedicata a Marina Cvaeteva, la poetessa del campo aperto alle bufere, che ha avvertito il dramma esiliato e la lontananza dell’amore della prossimità:

«A occidente affondano le navi. Quando? / È giusta la voce che racconta il nulla? / scintillano, a volte, ma non è sole / piuttosto un fuoco, un fuocherello acceso nella notte. Accade a occidente, soltanto a occidente / se danno l’ordine le mani / e comanda il gesto spaventoso. / È ora di scendere, degradare laggiù, / verso le nebbie, arrancare se occorre / come morti che cercano l’uscita: / questi sono gli ordini, poi basta. / È neve la donna che saluta i marinai, / si scioglierà dietro l’angolo, / si annullerà in segreto, / quando si accende la brace dei ricordi / a occidente è perduto chi salpa».

Nella raccolta Il figlio (1995), il «significato cristico», racchiuso nella raccolta, afferma, appieno, «[…] una franta ma irriducibile speranza fondata sulla scandalosa e denudante gratuità del dono e dell’amore[11]», e

«nella condizione filiale viene come a prolungarsi, inverarsi e trasformarsi l’essere “dopo” dell’infanzia, il suo proiettarsi in una vita adulta alimentata dal rapporto vivo con l’universo materno, con la sua durata. È una durata minacciata nel suo persistere, ma dal cui cuore ansioso scaturisce una più intensa apertura verso le presenze, gli oggetti e le forme del mondo[12]».

Attraverso l’attrito dialogico, Carifi avverte tutta la precarietà dei passaggi e dei transiti, gli allontanamenti e i non-respiri, il dolore muto dei rifugi: «Perché non durano le madri / e i figli sono un transito muto / ponti, contrade che hanno solo vento, / i figli durano fino alle madri / e poi trascorrono, si scolorisce in loro questa parola semplice, / la vita, nella penombra / dove saranno allontanati. / Perché si perde il viso delle madri, / il viso dura al cuore dei figli / dopo non batte, non respirano / hanno quell’invisibile nel cuore, / i figli».

Come l’emblema dello scialle materno, che avvolge il segno incavato nel nulla e la notte nel cuore, o l’uscio che è limen di due territori come greti. Nella preghiera elementare di Carifi, si scova tutto il dramma dell’essere, da un lato la frangibilità di figlio, dall’altra l’evocazione suprema del rapporto tra Cristo e Sua Madre.

Mauro Germani afferma:

«Occorre, però, precisare che si tratta essenzialmente di  un cristianesimo dell’abbandono,  in cui il Figlio sembra quasi  non avere un padre, in quanto viene definito anche l’Orfano, carico di dolore, portatore di una redenzione più misteriosa che certa. Egli è una figura priva di qualsiasi segno di potenza o di tri­onfo, che è chiamata dalla solitudine e dal dolore degli uomini e avanza nella notte e nel gelo del mondo; è domanda e ferita della carne, e consapevolezza della gratuità scandalosa dell’amore».[13]

L’anima orante, pur percependo sparite lontananze, vive l’attesa e la tensione, la doglianza e la penombra dell’argento che inargenta il viso, gli occhi che tremano, la benedizione e l’orfanità come inizio di poesia e, infine, l’esilio come nudità viandante: «Padre, padre / la colpa fiorisce dove secca il seme / tu sei quel male che ho visto nelle case / nella luce che separa il desco, / nella voce che non ama: / sia fatta la tua volontà / in questo esilio, / nell’ombra che sorveglio / e sangue sarà chiamato il frutto / grazie per la preghiera che mi acceca, / per le ginocchia devastate» (Padre Nostro).

Ma se la cifra poetica scopre abissi inusitati, la sua continuata sete d’amore ritrova la parola in una dimensione affettiva vera, che ha origine da una dimensione di bene e di opzione finale positiva:

«Esatta è la parola / che viene a noi dal bene, / che afferra come la mano del destino / e piega le ginocchia / e l’uno all’altra ci abbandona. / Se resta un’ombra, amore, / non sarà l’ombra del peccato / ma quella che protegge dalla luce estrema, / che custodisce lo sguardo di chi ama. / A volte il tuo viso muta, / un fragile tremore bacia le tue labbra: / soltanto il bene si mostra così, / nella minuscola piega della pelle, / nel battito sottile dello sguardo. / Il male non ha rossori, / nulla lo lascia impallidire / e si nasconde».

 Nell’oblio, nel tremore lacerato, nello sradicamento e nella disappartenenza, e nella parola accesa che, pur nel «rispecchiamento inadempiuto», nell’addio, nel sospiro innominabile, dice l’indicibile della luce estrema, la presenza arata delle cose vive, cosicchè la più logora delle parole

«è atto estremo, teso ai limiti dell’essere e del linguaggio, che prodigiosamente annuncia se stessa e la possibilità etico-estetica del dialogo, la paradossale efficienza del celaniano Atemkristall  : un flatus vocis fattosi cristallo per fragilità ma anche per purezza, nitore che garantisce un disarmato baluardo contro il nulla, proprio perché si fonda sul riconoscimento e l’apertura nei confronti di tutto ciò che è altro».[14]

L’immagine destinale dell’autunno contempla il pianto e la nostalgia di un dilagare perduto, laddove i segni del reale sono vissuti non solo in una dimensione memoriale, bensì anche prolungati nella loro ombra e sogno sparito.

«Le cose non dimenticano, / hanno troppa memoria. / Si rammenta di noi questa finestra / che un tempo, chiusa, proteggeva / i nostri corpi, lasciava passare / uno spiraglio che ti baciava il viso. / Chi sa se vedeva la minaccia, / chi sa se piange la finestra! / Ma noi duriamo, nelle cose. / E parlano, ragionano di noi, / specialmente se si accende un lume / e lo porta una mano misteriosa. / Chi sa se piangono le cose, / se questo freddo è la loro nostalgia. / Ricordi, stanza, come l’aspettavamo? / E tu, quaderno consumato, e voi, / finestra, porta, sedia con le sue forme, / terrazzo che mi somigli, cosí sospeso, / avete atteso invano il suo ritorno?»

La figura della madre, perduta nel 1997, diviene in Amore d’autunno (1998), la sua destinazione del sangue, ora scomparsa in una dimora inabitabile («Chi mai ti racconta di me, / chi mai ti rammenta il mio nome / nel regno dei non più nominati?»), «quando l’estate devastò il suo mare» e il suo scialle, contenuto nella luce notturna.

È una gioia spiata nelle ombre nude, il sorriso lasciato nell’azzurro degli alberi sottili, il messaggio scritto a singhiozzi con un cuore che saluta nella pena singolare ed universale, come avviene in La pietà e la memoria (2003): «La sentinella attende dove muore il giorno / quando ignota irrompe una natura ostile, / la specie oscura dove Dio si eclissa, / immobile custodisce un regno che vacilla / nella vertigine del lutto, / e nel suo sguardo la vecchia tessitrice / ricuce il tempo al vuoto».

Irene Battaglini afferma:

«Carifi scrive la battuta d’arresto del cuore di fronte alle cose come si offrono all’esperienza dei dettagli che può essere solo del poeta. In questo sisma che con un intaglio netto enuncia la bassa marea della rinuncia alla interezza della ragione, il cardiogramma dei versi di Carifi è una cesura delle parole a favore delle cose immaginarie in cui la fantasia è un metodo ordinato di amare dentro la vecchia promessa di una eterna rima che mai si presenta. Egli fa tornare a leggere la poesia con quella delicata intersezione dell’intarsio che è sempre timida nell’avvicinare al chiaro il più chiaro e allo scuro il meno scuro, per poi disegnare una bellezza che strizza l’occhio all’infinito e prende di mira l’Altro, cui si rivolge con determinata eleganza, nel suo limite umano che nel verso si innalza a domanda di domani, e così fai i conti, Carifi come il lettore, con l’estrema ratio della cosa da sola, quella che non ha altra risposta se non con il vissuto della parola piena».[15]

In Il gelo e la luce (2003), Carifi, come sostiene Nicola Vacca, tenta di strappare al messaggio divino una promessa di redenzione[16], e dove «Il gelo e la luce insieme  scandiscono il cammino  dell’esistenza: tra notti siderali, vertigini del Vuoto e stelle di terrea notte, che si affacciano alla finestra del silenzio, Carifi si avventura per cercare l’uomo nel sogno improvviso di ombre colme di luce[17]»: «Parlavo d’amore alla morte, / indossavo la notte, / un ciuffo di capelli intirizzito, / tenevo nel palmo della mano / l’occhio materno, / gelò in piena estate vestito di pietra / lo volle la notte, / la morte abitò come un’alba il suo giorno, / facevo battere un cuore / con le poche parole rimaste / e al nulla parlavo d’amore».

Il mondo di Tibet (2011), la compattezza del mondo, l’ascesa della trascendenza, il visibile che coincide con l’invisibile[18], conducono, come testimoniato dalla sua conversione al buddismo, «ad un affidamento al negativo che salta la contraddizione del nichilismo occidentale: ora la voce tende ad una cancellazione luminosa di sé, approda a una negazione dell’io e ad un movimento di identificazione con un nulla/nirvana[19]».

Il rovesciamento dell’io è qui conquista, grazia ed abbandono, esilio e benedetta vitalità che erompe dai margini, diventando oltre, metanoia: «Scopri dov’è il nulla, / dov’è la tua divisa e la tua neve / poi comincia a salire / sempre più su, fino all’aperto / e da lì senti l’ululato / che piange, che piange / ti sentirai trasformato / fino alle braccia spalancate», o ancora il rastremato istante che si porge in tutto il suo tragico volo d’infanzia: «Ora è l’attimo che attende, / è l’istante che prepara i tempi / a un altro istante dove si deve attendere l’infanzia, / quella bastarda che era là, tragico volo dei bambini, / poi arriva la giovinezza senza tragedia / solo una pelle che prepara l’ictus, / allora sarò fatto santo […]».

Nel dialogo evocativo di Madre (2014), la memoria frammentata della madre, gli oggetti franti, l’immagine della quotidiana disadorna[20] (il tavolo di noce, il cappellino rosso, i boschi di mirtilli, il gladiolo nella mano), attestano lo sforzo di un approdo assottigliato, di un pronunciamento insonne: «Amorosa sempre, con quel vestito rosa / e un ciuffo di gladioli nella mano / ora sono tanti anni che sei partita, spero / in un lampo di santità, dammi un segno / della tua compassione, della tua carità, / attendo con pazienza anch’io invecchio / un giorno sarò un altro e ci incontreremo / in ogni forma di vita, ti riconoscerò da quel / gladiolo nella mano».

Vi sono luoghi di Terra Pura con vesti chiare e trasparenti, Nirvana, Grande Nulla e spazi di aria, confusioni di tempo[21] che ricongiungono estremità come incidenti impalcabili e veli («Dieci anni fa stavo per morire. Poi fui trasportato / in uno spazio di recupero, sprofondato in una sedia a rotelle / e non parlavo più. La notte sentivo che mi parlavi, avresti / voluto piangere o forse era la madre di un bambino morto, / pregavo per te, pregavo per tutti, a volte ti vedevo soltanto io / passeggiare come un’ombra») che definiscono l’ultimo e insaziato riscatto.

[1] Pratesi D., La solitudine corale di Roberto Carifi, in «La Vita», 24, 19 giugno 2011.

[2] Temporelli A., Il pathos del sublime. La poesia di Roberto Carifi, (www.andreatemporelli.com/2017/02/20/poeti-contemporanei-roberto-carifi/), 20 febbraio 2017.

[3] Carifi R., Amorosa sempre. Poesie (1980-2018), a cura di Alba Donati, prefazione di Giulio Ferroni, La Nave di Teseo, Milano 2018.

[4] Ferroni G., Prefazione, in Carifi R., cit., pp.17-18.

[5] Galaverni R., L’infanzia non è un Eden. Anche il male comincia da lì, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 23 dicembre 2018.

[6] Giuliani V., L’eredità di Rilke nella poesia di Roberto Carifi, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990, p. 19.

[7] Vincentini I., Topografia di una metafora, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990, pp. 36-7.

[8] Carifi R., cit., pp.25-26.

[9] Ferroni G., cit., p.19.

[10] Cfr. Scorrano F. A., La conoscenza dell’altro. – L’uomo del pensiero: Roberto Carifi, Edizione Polistampa, Firenze 2006.

[11] Mussapi R., nota a Il Figlio, Jaca Book, Milano 1995.

[12] Ferroni G., cit., pp.19-20.

[13] Germani R., Roberto Carifi: la domanda e l’attesa, (https://poetarumsilva.com/2014/09/08/roberto-carifi-la-domanda-e-lattesa-di-mauro-germani/), 8.09.2014.

[14] Marchi M., L’angelo spoglio di Roberto Carifi, (https://www.quotidiano.net/blog/marchi/lamore-dautunno-di-roberto-carifi-83.34156), 16 dicembre 2015.

[15] Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2018-2019.

[16] Cfr. Bartoli R., La tragica religiosità di Roberto Carifi, in «Poesia», 137, marzo 2000.

[17] Vacca N., Carifi e la filosofia di un poeta, (https://zonadidisagio.wordpress.com/2015/03/07/carifi-e-la-filosofia-di-un-poeta/), 7 marzo 2015.

[18] Cordelli F., Carifi oltre il tetto del pensiero, in “Corriere della Sera”, 30 maggio 2011.

[19] Ferroni G., cit., p.21.

[20] Cfr. Ramat S., Roberto Carifi nel nome della madre, in “Il Giornale”, 1 settembre 2007.

[21] Grattacaso G., Supplica alla madre, (www.succedeoggi.it/2014/04/supplica-alla-madre/).

Carifi R., Amorosa sempre. Poesie (1980-2018), a cura di Alba Donati, prefazione di Giulio Ferroni, La Nave di Teseo, Milano 2018, pp. 357, Euro 18.

Carifi R., Amorosa sempre. Poesie (1980-2018), a cura di Alba Donati, prefazione di Giulio Ferroni, La Nave di Teseo, Milano 2018.

Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2018-2019.

Cordelli F., Carifi oltre il tetto del pensiero, in “Corriere della Sera”, 30 maggio 2011.

Galaverni R., L’infanzia non è un Eden. Anche il male comincia da lì, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 23 dicembre 2018.

Giuliani V., L’eredità di Rilke nella poesia di Roberto Carifi, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990.

Grattacaso G., Supplica alla madre, (www.succedeoggi.it/2014/04/supplica-alla-madre/).

Marchi M., L’angelo spoglio di Roberto Carifi, (https://www.quotidiano.net/blog/marchi/lamore-dautunno-di-roberto-carifi-83.34156), 16 dicembre 2015.da, Parma-Milano 1998);

Pratesi D., La solitudine corale di Roberto Carifi, in «La Vita», 24, 19 giugno 2011.

Scorrano F. A., La conoscenza dell’altro. – L’uomo del pensiero: Roberto Carifi, Edizione Polistampa, Firenze 2006.

Vacca N., Carifi e la filosofia di un poeta, (https://zonadidisagio.wordpress.com/2015/03/07/carifi-e-la-filosofia-di-un-poeta/), 7 marzo 2015.

Vincentini I., Topografia di una metafora, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990.

 

Tribunale UE: bandi di concorso in tutte le lingue

SSSS-bandiera-Europa

di Emanuele Mascolo    6 ottobre 2013

Con ricorso al Tribunale UE, L’Italia ha denunciato una discriminazione nella pubblicazione di alcuni bandi nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (GUUE), scritti solamente in lingua inglese, francese e tedesca.

Il riscorso è stato accolto dal Tribunale UE, sezione V, che ha riconosciuto tale discriminazione, dando ragione all’Italia e pronunciandosi sulla questione con la sentenza n. T- 126/09 del 12/0972013.

In particolare, la questione ha riguardato i bandi pubblicati il 14 gennaio 2009 riguardanti i concorsi generali EPSO/AD/144/09, nel settore della pubblica sanità, EPSO/AD/145/09, nel settore della sicurezza alimentare (politica e legislazione), EPSO/AD/146/09, nel settore della sicurezza alimentare (audit, ispezione e valutazione), per la costituzione di un elenco di riserva per l’assunzione di amministratori (AD 5) aventi cittadinanza bulgara, cipriota, estone, ungherese, lettone, lituana, maltese, polacca, rumena, slovacca, slovena e ceca, pubblicati nelle versioni tedesca, inglese e francese della Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea.

Nel ricorso, l’Italia, deduceva la violazione degli articoli 1, 4, 5 e 6 del regolamento n. 1, del Consiglio, del 15 aprile 1958, che stabilisce il regime linguistico della Comunità economica europea, degli articoli 12 CE, 39 CE e 290 CE, dell’articolo 1, paragrafi 2 e 3, dell’allegato III dello Statuto dei funzionari delle Comunità europee, dell’articolo 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata il 7 dicembre 2000 a Nizza, dei principi di non discriminazione, di motivazione, del multilinguismo, di tutela del legittimo affidamento e di proporzionalità, nonché uno sviamento di potere.

Pertanto, a sostegno del suo ricorso, argomentava due motivi: il primo attinente alla pubblicazione dei bandi di concorso controversi in sole tre lingue ed il secondo attinente alla limitazione a tre lingue per le comunicazioni con l’Ufficio europeo di selezione del personale (EPSO) e per le prove dei concorsi.

Quanto al primo motivo, sosteneva che i bandi di concorso avrebbero dovuto essere pubblicati in tutte le lingue ufficiali, facendo valere che la Commissione non avrebbe potuto limitare la scelta dei candidati a sole tre lingue per le loro comunicazioni, con l’EPSO e per le prove dei concorsi, infine durante l’udienza, ha sollevato il problema degli effetti di tale annullamento sugli elenchi di riserva risultanti dai concorsi. Successivamente, rispondendo ad un quesito del Tribunale, la Commissione ha precisato che tali elenchi erano stati prorogati fino al 31 dicembre 2013.

Per ciascun motivo il Tribunale Europeo ha motivato la sua decisione come segue:  “ ai sensi dell’articolo 1 dell’allegato III dello Statuto, il bando di concorso viene emanato dall’autorità avente il potere di nomina dell’istituzione che organizza il concorso stesso, previa consultazione della commissione paritetica, e deve specificare un certo numero di informazioni riguardanti la procedura di selezione. A seguito della decisione 2002/620/CE del Parlamento europeo, del Consiglio, della Commissione, della Corte di giustizia, della Corte dei conti, del Comitato economico e sociale, del Comitato delle regioni e del Mediatore, del 25 luglio 2002, che istituisce l’Ufficio di selezione del personale delle Comunità europee, i poteri di selezione conferiti segnatamente da tale allegato alle autorità che hanno il potere di nomina delle istituzioni firmatarie della decisione stessa sono esercitati dall’EPSO.

 Orbene, conformemente all’articolo 1, paragrafo 2, dell’allegato III dello Statuto, il quale stabilisce specificamente che, per i concorsi generali, deve essere pubblicato un bando di concorso nella Gazzetta ufficiale, in combinato disposto con l’articolo 5 del regolamento n. 1, il quale dispone che la Gazzetta ufficiale è pubblicata in tutte le lingue ufficiali, i bandi di concorso devono essere pubblicati integralmente in tutte le lingue ufficiali.

Poiché tali disposizioni non prevedono alcuna eccezione, non si può considerare, nel caso di specie, che l’avviso sintetico, pubblicato nella Gazzetta ufficiale in tutte le lingue lo stesso giorno, ha posto rimedio all’omessa pubblicazione integrale nella suddetta Gazzetta ufficiale dei bandi di concorso controversi in tutte le lingue ufficiali.

Ad ogni modo, anche se l’avviso sintetico conteneva un certo numero di informazioni relative ai concorsi, partendo dalla premessa che i cittadini dell’Unione leggano la Gazzetta ufficiale, in mancanza di pubblicazione nella loro lingua materna, nella loro seconda lingua e che tale lingua sia una delle lingue ufficiali dell’Unione, un potenziale candidato la cui seconda lingua non fosse una delle lingue in cui erano stati pubblicati integralmente i bandi di concorso controversi avrebbe dovuto procurarsi la Gazzetta ufficiale in una di tali lingue e leggere i bandi in tale lingua prima di decidere se presentare la propria candidatura a uno dei concorsi.

Un candidato siffatto era svantaggiato rispetto ad un candidato la cui seconda lingua fosse una delle tre lingue nelle quali i bandi di concorso controversi erano stati pubblicati integralmente, sia sotto il profilo della corretta comprensione di tali bandi sia relativamente al termine per preparare ed inviare una candidatura a tali concorsi.

Tale svantaggio è la conseguenza della diversità di trattamento a motivo della lingua, – vietata dall’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali e dall’articolo 1 quinquies, paragrafo 1, dello Statuto, – generata dalla pubblicazione di cui trattasi. Tale articolo 1 quinquies dello Statuto prescrive, al paragrafo 6, che, nel rispetto del principio di non discriminazione e del principio di proporzionalità, ogni limitazione di tali principi deve essere oggettivamente giustificata e deve rispondere a obiettivi legittimi di interesse generale nel quadro della politica del personale..

Ne consegue che la prassi di pubblicazione limitata non rispetta il principio di proporzionalità e configura pertanto una discriminazione fondata sulla lingua, vietata dall’articolo 1 quinquies dello Statuto.

Di conseguenza, nel caso di specie, la pubblicazione completa dei bandi di concorso controversi nelle sole lingue tedesca, inglese e francese non rispetta il suddetto principio di proporzionalità e configura una discriminazione siffatta, cui la pubblicazione dell’avviso sintetico non ha potuto porre rimedio.

 In terzo luogo, deriva da quanto precede che non può, comunque, essere accolto l’argomento della Commissione, secondo cui incombe alla Repubblica italiana dimostrare che la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dei bandi di concorso controversi in sole tre lingue ha impedito a tutti i cittadini dell’Unione di prendere conoscenza della loro esistenza in condizioni di parità e non discriminatorie.

 Il Tribunale considera che, al fine di preservare il legittimo affidamento dei candidati prescelti, occorre non mettere in discussione i suddetti elenchi di riserva.”