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Il condominio: spazio idoneo per le condotte persecutorie. (I PARTE)

vicini_di_casadi Emanuele Mascolo

12 marzo 2014

 

Con la pubblicazione che segue facciamo chiarezza circa la possibilità e la realtà di condotte persecutorie all’interno del condominio. Stiamo parlando dello stalking condominiale.

Lo stalking condominiale è generato dai vari e facili litigi, contrasti e rancori che possono nascere all’interno del condominio. Il tutto può partire anche dal dissenso o un punto di vista diverso, di un condomino rispetto agli altri. Per cui ci si può sentire perseguitati.

Spesso in condominio capita di essere a mò di satira insultati o additati, attenti: può configurarsi lo stalking.

Tantissime sono le richieste di aiuto e di sfogo che possono leggersi solo sui social network.

L’articolo 612bis del codice penale così definisce gli atti persecutori: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio
.”

Nell’ambito del condominio si può trattare dunque, di ingiurie, ma anche di molestie causate dal lancio di cose pericolose, concretizzando così l’astrattezza del’articolo 674 del codice penale, secondo il quale, “ Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a euro 206.”

Sul punto la recente giurisprudenza di legittimità ha ampliato l’ambito del reato di gettito di cose pericolose. In particolare, la Corte di Cassazione, ha rigettato il ricorso, dando ragione Giudice di prime cure adito, che aveva dichiarato l’imputato  colpevole dei reato di cui agli artt. 81 cpv e 674 cod. pen. per avere arrecato molestie,” in quanto, “ aveva gettato nel piano rifiuti, quali cenere e cicche di sigarette, nonché detersivi corrosivi, quale candeggina, e la ha condannata alla pena di euro Euro 120,00 di ammenda.” [1]

 

 



[1] Cassazione penale , sez. III, sentenza 11.04.2013 n° 16459.

L’uxoricidio

uccide-mogliedi Emanuele Mascolo

25 febbraio 2014

Poiché le fonti non sono molte a riguardo e, perchè il caso in essere è stato abrogato con la Legge numero 422/1981, parleremo, in maniera essenziale, dell’uxoricidio, che, sostanzialmente, è l’omicidio della moglie causato per gelosia o per onore.

Ma alla luce di una Sentenza della Corte di Cassazione del 2012, possiamo comprendere  che è dato incontestato che il delitto de quo ebbe a maturare in condizioni molto particolari, visto che a stimolare l’azione delittuosa fu certamente la condotta della parte offesa, affetta da una forma psicotica ingravescente, con disturbi paranoici, resasi autrice di condotte, da un lato provocatorie nei confronti del marito, accusato ripetutamente – quanto del tutto pretestuosamente – di furti di vestiti, dall’altro di contrapposizione “a prescindere” su qualsivoglia scelta della vita quotidiana. E’ emerso che tale situazione era risalente nel tempo e che la carica di esasperazione si era accumulata, fine a che non occorse un fattore scatenante, che produsse nell’imputato l’esplosione, allorquando la donna, non contenta della sistemazione del televisore, buttò il telecomando a terra e lo ruppe. Questa situazione, così come rappresentata, delinea senza forzatura alcuna quella forma peculiare di “provocazione”, c.d. da accunulo o sedimentazione (Sez. I 13.1.2011, n. 4695), che presuppone sempre e comunque lo “stato d’ira” ispiratore dell’azione offensiva, che a sua volta rappresenta la ragione giustificatrice del riconoscimento di una minore gravità del fatto. La particolarità del caso di specie sta nel fatto che il fatto scatenante l’ira trova origine nella malattia della persona offesa. A fronte di questa realtà peculiare, la corte territoriale ha ritenuto di escludere che la condotta tenuta dalla vittima possa essere considerata obiettivamente ingiusta, poiché derivante dalla malattia di cui la vittima era sofferente, malattia che l’imputato ben conosceva, con la conseguenza che la reazione avuta dal ricorrente non poteva che valutarsi del tutto inadeguata.Tale modus operandi si discosta nettamente dalla linea interpretativa segnata da questa Corte di legittimità, che ha affermato che il “fatto ingiusto” può essere costituito da ogni comportamento, intenzionale o colposo, legittimo o illegittimo, purchè idoneo a scatenare la reazione altrui, presupponendo esclusivamente la volontarietà dell’atto, nel senso chi viene meno solo quando la reazione iraconda sia determinata da un fatto del tutto accidentale (Sez. I, 17.2.1999, n. 6285). In altre parole, l’ingiustizia del fatto deve essere valutata alla luce di parametri oggettivi, a nulla rilevando le condizioni psicologiche di colui che provoca o vessa, poiché ciò che deve essere considerato è l’attitudine del comportamento a provocare lo stato d’ira: anche il comportamento di una persona non sana di mente è idoneo a provocare un turbamento nell’animo di chi lo subisce, a cui non si può fare carico di una capacità di autocontrollo tale da portare a resistere non ad uno, ma ad una serie di atti similari ripetuti nel tempo, capaci di potenziare la carica offensiva e provocatoria e tale da incidere sul funzionamento dei freni inibitori.” ( Cass. n. 14270/2012)

La moderna scienza penalistica insegna, tuttavia, che il desiderare, il volere un determinato risultato non esclude per ciò solo l’esistenza del dolo concernente un diverso, più grave evento prodotto dalla condotta dell’agente.

Invero, proprio in tema di omicidio la Suprema Corte ha specificato che il criterio distintivo tra omicidio volontario e omicidio preterintenzionale consiste nell’elemento psicologico, nel senso che nell’ipotesi della preterintenzione la volontà dell’agente è diretta a percuotere o a ferire la vittima con esclusione assoluta di ogni previsione dell’evento morte, mentre nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è quella di uccidere la vittima. Tale volontà deve ritenersi sussistente non soltanto quando l’agente abbia agito con l’intenzione di uccidere, ma anche quando egli si è rappresentato l’evento morte come conseguenza altamente probabile della sua condotta che, ciò nonostante, ha posto in essere (Cass. pen., Sez. I, 03/03/1994, Mannarino; Cass. pen., Sez. I, 14/12/1992, Di Grande; Cass. pen., Sez. V, 28/05/1990, Moschetti).

La domanda che, dunque, occorre porsi nel caso di specie è se la morte dell’aggredito possa ritenersi come evento non voluto dall’imputato neppure nella forma eventuale ed indiretta della previsione e del rischio. Ed a tali fini occorre avere come parametro di riferimento la risolutiva statuizione delle sezioni unite della Suprema Corte  (Cass. pen., Sez. un., 14/02/1996, n. 3571 Mele), secondo cui “Sussiste il dolo eventuale quando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, agisce accettando il rischio di cagionarle; quando invece l’ulteriore accadimento si presenta all’agente come probabile, non si può ritenere che egli, agendo, si sia limitato ad accettare il rischio dell’evento, bensì che, accettando l’evento, lo abbia voluto, sicchè in tale ipotesi l’elemento psicologico si configura nella forma di dolo diretto e non in quella di dolo eventuale.” È quanto sostiene chiaramente il Tribunale di Rossano del 04/10/2002.

L’ ”animus nocendi” nel delitto d’onore

delitto d'onoredi Emanuele Mascolo

7 febbraio 2014

Cos’è il delitto d’onore, o meglio quando si configura?

Il delitto d’onore ha la caratteristica di avere alla base dell’actio criminis: l’emotività soggettiva di colui che lo commette.

Di solito viene commesso nell’ambito della famiglia e alla base c’è la difesa dell’onore, fino ad arrivare all’annientamento fiscio e morale di un altro soggetto.

La legge riconosce l’onore come un “ valore socialmente rilevante” da dover difendere visto che la mente umana, soprattutto a contatto con la tradizione, può arrivare a commettere gesti seppur istintivi, ma disumani ed estremi come quello di uccidere e pertanto deve tenersi conto dell’ “animus nocendi,” cioè della volontà di nuocere ad altri.

Fino a qualche anno fa, in Italia, per reati finalizzati a difendere l’onore, le sanzioni penali venivano comminate tenendo conto delle attenuanti ritenendo che per la difesa dell’onore, commettere un reato era una provocazione per riparare l’onore compromesso o perduto.

Il codice penale, all’articolo 587, nel testo originario, prevedeva espressamente che “ chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.”

È evidente che la norma faceva riferimento ad uno stato d’ira seppur temporaneo.

Attualmente le disposizioni sul delitto di onore, nello specifico, non esistono perché abrogate dalla Legge n. 422/1981.

Attenzione però a non confondere i delitti d’onore di cui stiamo parlando con i delitti contro l’onore disciplinati dal codice penale, che sono tutt’altra cosa.

La Cassazione, recentemente, ha ritenuto, richiamando l’orientamento univoco dellaGiurisprudenza, che, “la cd. causa d’onore non può assurgere al rango di circostanza attenuante generale secondo il dettato dell’art. 62 c.p., n. 1, in quanto espressione di una concezione angusta e arcaica del rapporto di coniugio, apertamente confliggente con valori ormai acquisiti nella società civile che ricevono un riconoscimento e una tutela anche a livello costituzionale, quali il rispetto della vita, la dignità della persona, l’uguaglianza di tutti i cittadini senza discriminazioni basate sul sesso, l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi all’interno della famiglia, quale società naturale fondata sul matrimonio (Cass., Sez. 1^, 8 febbraio 1988, n. 12863; Cass., Sez. 1^, 6 marzo 1992, n. 5428; Cass., Sez. 1^, 14 ottobre 1992, n. 9254; Cass., Sez. 1^, 26 settembre 1977, n. 15665). Pertanto l’omicidio commesso dal marito per salvaguardare l’onore asseritamente offeso da una pretesa relazione sentimentale della moglie e dettato da un malinteso senso dell’orgoglio maschile è l’espressione di uno stato passionale sfavorevolmente valutato dalla comune coscienza etica, in quanto manifestazione di un sentimento riprovevole ed esasperato di superiorità maschile(Cassazione penale , sez. I, sentenza 10.10.2007 n° 37352)

Abuso sessuale: come e quando

violenza-bambinidi Emanuele Mascolo

22 gennaio 2014

 

 

 

Con questa pubblicazione, voglio parlarvi seppur in breve di come e quando si configura un abuso sessuale, che è un reato perseguibile penalmente.

Nella nozione di abuso sessuale, tra le tante che ci sono, è importante notare come in considerazione dell’abuso rileva non tanto l’atto sessuale intrinseco, quanto la condizione della vittima, spesso un minore, incapace di scegliere se avere o no quel tipo di rapporto e di averlo con quella specifica persona.

L’abuso sessuale è configurabile anche quando la vittima non subisce l’atto, ma viene costretta ad ascoltare discussioni o a visionare video che non abbiano il contenuto adatto alla sua età anagrafica, ciò anche sulla base della recente giurisprudenza. Infatti la Corte di Cassazione, ha ritenuto “ che la nozione di “atti sessuali” di cui all’articolo 609 bis c.p., intende sia la congiunzione carnale che gli atti di libidine.”[1]

Un filone giurisprudenziale ha ritenuto violenza sessuale e dunque abuso, anche quel gesto che comunemente chiamiamo “ toccatina”, poiché “ nella nozione di atti sessuali di cui all’articolo 609bis Cp, si devono includere non solo gli atti che involgono la sfera genitale, bensì tutti quelli che riguardano le zone erogene su persona non consenziente (cfr, ex multis, Cassazione, Sezione terza, 11 gennaio 2006, Beraldo; cfr. Sezione terza, 1 dicembre 2000, Gerardi). E’, infatti, pacifico che la condotta vietata dall’articolo 609 bis Cp ricomprende – se connotata da violenza -qualsiasi comportamento (addirittura anche se non esplicato attraverso il contatto fisico diretto con il soggetto passivo) che sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo il bene primario della libertà dell’individuo attraverso il soddisfacimento dell’istinto sessuale dell’agente. Invero, il riferimento al sesso non deve limitarsi alle zone genitali, ma comprende anche quelle ritenute dalla scienza non solo medica, ma anche psicologica e sociologica, erogene, tali da essere sintomatiche di un istinto sessuale (cfr. Cassazione, Sezione terza, 1 dicembre 2001, Gerardi; cfr, Sezione terza, 66551/98, Di Francia). Pertanto, tra gli atti suscettibili di integrare il delitto in oggetto, va ricompreso anche il mero sfioramento con le labbra sul viso altrui per dare un bacio, allorché l’atto, per la sua rapidità ed insidiosità, sia tale da sovrastare e superare la contraria volontà del soggetto passivo.[2]

Riguardo invece un altro aspetto, quello degli abusi sessuali nei confronti dei minori, di recente la Corte di Cassazione, si è occupata di un caso particolare: abuso sessuale su un minore compiuto da un terzo, di cui la madre del minore era perfettamente a conoscenza.

Un chiarimento è d’obbligo: la giurisprudenza consolidata prende in considerazione la posizione di garanzia di un genitore, che nel pieno dei loro poteri, possono (dovrebbero) impedire la realizzazione di tali condotte sul minore.

Infatti, “ le posizioni di garanzia sono inequivoche espressioni di una particolare solidarietà ed hanno un “innegabile punto di riferimento” nell’art. 2 della Costituzione, norma che nel riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo, esige l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà (politica, economica e sociale).Quanto all’altro aspetto, la funzione delle posizioni di garanzia, la Corte riferisce che: la funzione specifica della posizione di garante è rivolta a riequilibrare la situazione di inferiorità, in senso lato, di determinati soggetti, attraverso l’instaurazione di un rapporto di dipendenza a scopo protettivo La funzione è quindi quella di punire il garante che non ha ottemperato i propri doveri giuridici (di attivarsi in funzione impeditivi dell’evento) permettendo il verificarsi di un evento lesivo in capo al garantito: in altre parole, il garante verrà punito anche se esso non è il soggetto che ha materialmente realizzato l’evento lesivo, ma verrà punito per il sol fatto di non averlo impedito, o meglio, sul presupposto che a causa del suo comportamento omissivo il garantito abbia subito un vulnus.”[3]

Tornando ora al caso in cui il genitore del minore è a conoscenza degli abusi, la posizione di garanzia del genitore viene estesa, come stabilisce la Corte di Cassazione nel 2013, che condanna la madre, per “ non aver impedito la violenza sulla figlia avendo l’obbligo giuridico di impedire l’evento.”[4]

 

 



[1] Suprema Corte di Cassazione Penale, Sezione VI, 22 luglio 2013, n. 31290.

[2] Suprema Corte di Cassazione Penale Sezione III, 26 marzo 2007, n. 12425

[3]  A. Montagni,, La responsabilità per omissione. Il nesso causale. Fenomenologia causale nella responsabilità penale per omissione, 2002, pag. 84.

[4] Suprema Corte di Cassazione Penale, Sezione III, 28gennaio 2013, n. 4127.