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Ausonio,Claudiano,Rutilio Namaziano: La vela obliqua della latinità

di Andrea Galgano                                         12 ottobre 2013

Poesia Latina

pdf Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano: La vela obliqua della latinità

Ausonius

Le corti imperiali della seconda metà del IV secolo portano il nido di una interessante produzione poetica. La presenza di un pubblico importante e colto, la possibilità di una intensa carriera poetica dopo un carme ben composto, l’interesse suscitato dall’imperatore e dalla sua famiglia che nella pagina degli autori potevano diffondere la loro ideologia soprattutto ai ceti dominanti, rappresentavano, per i poeti e gli scrittori del tempo, una decisiva visibilità espressiva.

Uomini di ogni estrazione, dall’otium dei ricchi signori, fino a rispettabili maestri di scuola o uomini viandanti, componevano in modo variegato, intrisi di tradizione e vicinanza ai classici e fermi nell’immagine di Augusto, imperatore illuminato e uomo di pace.

Decimo Magno Ausonio (Burdigala, odierna Bordeaux, ca. 310- dopo il 393), insegnante di retorica prima a Tolosa e poi nella città di origine per trent’anni, amico e corrispondente di Simmaco, fu il più celebre tra i grammatici di Gallia, percorse una splendida carriera di onori.

Fu chiamato nel 365 dall’imperatore Valentiniano I alla corte di Treviri come precettore di Graziano che, quando fu imperatore, lo volle questore del palazzo imperiale, prefetto per Gallia, Italia e Africa, e console per l’anno 379. Morto Graziano nel 383, si ritirò nella sua città. L’imperatore Teodosio (379-395) lo considerava al pari dei grandi letterati dell’età augustea, chiamandolo parens (padre).

Scrive Luca Canali: «Intanto il Cristianesimo pervadeva la società, entrava nelle corti, conquistava gli imperatori, ma con ciò stesso si snaturava, diveniva lassista, a volte si corrompeva, perdeva lo slancio evangelico, si faceva opzione opportunistica per la carriera, o peggio, come scrisse impietosamente Salviano, il retore gallico fattosi poi monaco rigorista, si abbrutiva in «ricettacolo di tutti i vizi», «contro i quali ci si scaglia in pubblico per poi praticarli in privato». All’interno del cristianesimo la crisi morale – prima ancora di quella teologica e intellettuale delle eresie – spinge al monachesimo ascetico “grandi intellettuali” come Paolino da Nola, che ripudierà l’intera sua formazione culturale classica, mentre san Girolamo continuerà a coltivare la tradizione letteraria latina ma sentendosi dolorosamente “diviso” fra Cristo e Cicerone»

L’anima cristiana di Ausonio era imbevuta di ispirazione profana. La sua abbondantissima produzione, dai Versus Paschales, chiusa degli Epigrammi, fino all’Ephemeris, ai Parentalia, all’artificio del Technopaegnion, alle sofferenze d’amore del Cupido cruciatus o alla Bissula e alla Mosella, e la tensione poetica verso la tradizione, a lui precedente, rappresentano lo sfondo di una intensa ispirazione, concentrata sul lavorio verbale e sulla polimetria, che danno vita a un accentuato e un virtuosistico sperimentalismo di carte affastellate.

La transizione tra il mondo antico e quello tardo medioevale, già percorso dai barbari, segna in lui un vortice prezioso e debole, il limite del vissuto che, però, ha sempre bisogno di riflettersi in sfoggio retorico, misura, spregiudicatezza.

L’originalità del suo gesto, ricolmo di interessanti forme grafiche, assume su di sé il domino della lingua, l’originalità dell’espediente che scoperchia la tradizione, per assumere freschezza di ombre e ambiguità di apparenze.

Bissula è il nome privato e intimo dell’amore, «forse la prima figura germanica vista da vicino, senza deformazioni prospettiche», come scrive Francesco Arnaldi, che si unisce all’amore «per i suoi e per la sua terra fanno di Ausonio un romantico provinciale, in cui, se è vano cercare una grande arte, il lettore attento può sempre trovare una vena di sentimento poetico. Di fronte a questo, merita appena d’essere rilevato il fatto che dalle svariatissime produzioni poetiche di Ausonio, noi possiamo farci una chiara idea delle opere dei neoterici, poeti latini del sec. II che amavano dire di ogni argomento in versi rari. E se c’è nell’ammirazione per Ausonio dei suoi protettori e nel suo cattedratico orgoglio molta ingenuità da Medioevo, noi oggi possiamo, pur sorridendo, comprendere quell’entusiasmo».

Uno schizzo, un bozzetto e un invito a decretarne la bellezza, l’incarnazione racchiusa di un volto che si apre e si svela: «Né cera né colore possono rappresentare il volto di Bissula / la sua nativa bellezza non si presta agli artifici della pittura. / Vermiglio e bianco possono riprodurre altre fanciulle: / la mano del pittore non conosce la proporzione giusta dei toni per rendere il volto. E dunque, pittore, / mescola alla porpora della rosa una vena di giglio, / e quel chiaro color d’ari che ne verrà, quello sia il colore del suo viso».

Ma è nel poemetto Mosella (satura odeporica, epibaterion, encomio, epillio o idillio, ecfrasis?) che Ausonio offre la sua visione narrativa e descrittiva: «egli sa giocare come pochi con le ombre capovolte, con i riflessi trascoloranti degli alberi nelle acque dei fiumi, con le brevi e rapide composizioni sui sessi incerti o doppi e incompleti nella loro castrante duplicità, gli innamoramenti impossibili e mortali, le disperazioni inconsolabili risolte in autodistruzioni liberatorie». Il grande fiume che nasce sui Vosgi, si getta nel Reno e sulle cui rive si sporgeva la capitale Treviri (Trier) è un transito di freschezza, in cui il paesaggio arioso e libero, dove Satiri e Ninfe abbandonano il loro corpo alla danza tattile nella canicola solitaria.

Pur nella abbondante misura retorica, l’ispirazione è levità che si poggia sulla limpidità, sulla pienezza dei vigneti e dei declivi e sull’ariosità del cielo.

Aveva trascorso molti anni a Treviri, lì aveva svolto la funzione di precettore al figlio dell’imperatore Valentiniano e alla Mosella porge il suo canto mai sfiorito, come passo di danza inattesa e dipinto di suono: «Salve, o fiume elogiato per i campi che ti costeggiano / lodato per i tuoi coloni; / a te i Belgi sono debitori delle mura degne della sede imperiale, / i cui colli sono coltivati a vigneti dal succo fragrante, / o fiume verdissimo che scorri fra le rive erbose! (vv.23-26).

I riflessi sono ombre ricolme e piene: «quando il glauco fiume riflette l’ombra dei colli e sembra / che le sue acque frondeggino e nella corrente siano piantati tralci di vite. / Quale colore nei flutti quando Vespero sospinge le sue tarde / ombre e soffonde la Mosella del verde dei monti! / Gli interi gioghi nuotano negli increspati movimenti dell’acqua / trema l’immagine dei pampini e i grappoli sembrano più turgidi / nelle vitree onde. / l’illuso battelliere conta le verdi viti, / quel battelliere che sulla barca scavata in un tronco d’albero oscilla / sulle acque in mezzo alla corrente là dove il profilo d’un colle / si confonde col fiume, e il fiume intreccia fra lori i confini delle ombre (vv.189-199)».

È una freschezza flessibile ed evocatrice che cadenza il ritmo vitale, come il pescatore che si curva e i cui ami spazzano frotte di pesci impigliati nei nodi delle maglie e sentono la ferita mortale delle esche.

L’angolatura prospettica condensa tutte le possibili intensità visuali, che riuniscono mondo umano e mondo vegetale e animale, come vivente trama e sbocco poetico, come navigazione fanciulla e stuporosa verso i rapimenti dei transiti, l’affetto dei paesaggi, l’incontro.

L’abbandono, che pur ama frequentare la catalogazione erudita, deve abbracciare l’evasione crepuscolare, la metafora maestosa e serena del fischio del tempo, dell’ironia, del battito lieve e non ancora rassegnato. Qui la sua forza e la sua perdita, come il limite di un ristoro momentaneo.

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La poesia di Claudio Claudiano (370-404 d.C.) è erranza itinerante. Nato ad Alessandria d’Egitto, attivo alla corte d’Occidente dopo Ausonio, celebra il suo imperatore, all’interno dell’amministrazione imperiale (fu tribunus et notarius). Egli, giunto dall’Egitto, bilingue scaltrito di cultura greca, come una voce lontana che disegna la romanità, si trova nel quadro della celebrazione di Roma e di Stilicone (De bello Gildonico, De consulatu Stilichonis, De bello Gothico, così come le lodi alla benefattrice Serena, moglie di Stilicone), in uno di quei scrinia, tempio di decisioni segrete e di fedeltà incrollabili. Si trasferì poi a Milano, entrando nelle grazie di Onorio, imperatore di Occidente.

L’esametro dei panegirici, delle invettive, contro Rufino ed Eutropio, dei poemi storici e mitologici, degli epitalami, dei carmi in greco (la Gigantomachia tanto cercata da Poliziano nelle sue missive a Bembo) è la sua coltre prigioniera che inquadra il tempo, tenta di sforarlo, scompaginarlo, viverlo.

«Il genio di Claudiano», scrive Laura Micozzi, «è allusivo, assimilativo e consapevole; la sua poesia non è certo “ingenua”, ma fondata piuttosto sul lucido governo della tradizione precedente. Il suo stile è un raffinato prodotto di riflesso, saturo di esperienze culturali, fedele all’egemonia dei modelli della grande poesia latina. Tutta la cultura pagana del tardo impero tende del resto a coltivare una letteratura colta, nata nel laboratorio di poeti professionisti (che all’occorrenza si guadagnano da vivere, anche come maestri ed insegnanti), e lo studio dei classici dà in quel periodo frutti rilevanti anche nella lettura e nell’interpretazione dei testi».

«Il primo e più inquietante dei poeti moderni» che suona l’ultima fanfara incompiuta all’Impero, come scrisse Coleridge, getta le sue carte sul tavolo e sono i segni virgiliani e ovidiani di un a Christi nomine alienus (Agostino).

Oltre alla Gigantomachia, anche il De raptu Proserpinae, che narra il mito di Prosèrpina, rapita, nel caldo lussureggiante della Sicilia, da Ade, dio degli inferi, che la sposa nell’Erebo e Demetra, la madre della fanciulla, si mette sulle sue tracce.

I dibattiti sulla datazione dell’opera hanno aperto scenari di composizione che prediligono ora la storia a danno del mito o viceversa, ma di sicuro la sua stesura ha aperto una posizione privilegiata di una elisione e di un enigma. Un fatto di letteratura che racchiude l’inclusione di motivi antichi, varia i modelli, colloca suggestioni nuove.

Dall’invocazione solenne della prima scena, ai sogni e presagi premonitori, la fedeltà alla memoria poetica è un tratto saliente e un gradiente di espressività, che riflette la precarietà del presente con le angosce, le riflessioni, gli sguardi opachi: «I destrieri del rapitore, signore dell’abisso, e le stelle, incalzate dall’ansare del occhio tenario, e il talamo cinto di tenebra di Giunone infernale: questo mi spinge a svelare con l’audacia del canto la mente che trabocca. Fatevi indietro profani! Già il furore divino mi ha sgombrato dal petto ogni senso umano e il cuore è colmo dell’ispirazione di Febo» (vv.1-6).

La scomposizione di elementi diversi, la coerenza, la decadenza che scompagina il testo si afferma in Claudiano, come accensione molteplice di figura.

La scena isolata che profuma splendente, che afferma i dettagli e contorsioni verbali, porta dentro il sentore della perdita, dell’ossessione frequente e infine della lacerazione che indugia, come una irruzione di tempo sparpagliato e cialtrone.

La narrazione dilatata del rapimento si appende al mondo e ne esplora le rifrazioni, i segni sparsi e «come l’Achille staziano, il suo Plutone sperimenta infatti l’amore (non la guerra), e l’eros introduce una dinamica nuova nella caratterizzazione del personaggio, che nei modelli aveva una fisionomia piuttosto stereotipata» (Laura Micozzi).

L’etica mitologica rimane incompiuta, pur cercando di colmare i vuoti del distacco e del tempo lontano della tradizione, per finire nell’ultimo scrigno di una civiltà in declino.

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Nella stessa atmosfera culturale è immerso il poeta gallico Claudio Rutilio Namaziano, altissimo dignitario dell’Impero d’Occidente e praefectus urbi nel 414, di famiglia illustre e pagano convinto.

Quando nel 410, c’era stato il sacco di Roma, compiuto per tre dai Goti di Alarico, queste popolazioni erano risalite in Provenza e in Aquitania, saccheggiando e devastando, il poeta si vide costretto a ritornare in Gallia per sovrintendere alle necessarie riparazioni delle sue terre.

Lo storico Camille Jullian scrive: «[…] Che cos’erano diventati quei templi, quelle terme, quei teatri rurali, dove nei luoghi di fiera o di pellegrinaggio della Gallia romana, da tre secoli si erano distribuiti tanti piaceri e accumulate tante ricchezze? Senza dubbio non erano più che resti di muri a metà calcinati, e non serviranno più che a rifornire di pietre o di marmi i villaggi vicini, il giorno in cui questi si potranno ricostruire. […] Sui colli vicini alle sorgenti, al riparo di boschi profondi, molte ricche villae erano crollate, e nessuno pensava di utilizzarne i resti. A poco a poco la foresta si avvicinava ad essi: essa finirà, poiché nessuno le oppone resistenza, con il ricoprire queste vestigia miserevoli e far sparire e dimenticare sotto le sue fronde rinnovate i ricordi della ricchezza e delle calamità romane».

Il viaggio autunnale di Rutilio Namaziano per mare verso la Gallia, dal porto di Augusto ad Ostia, costeggiando le rive del Tirreno fino a Luni, alla foce del Magra, si avvale di brevi tappe e brevi scali in località in cui egli ne approfitta per descrivere luoghi e ricordare amici celebrandoli, lanciare invettive contro gli avversari e i nemici.

Le sfiorenti rovine occupano gli occhi, come commenta Alessandro Fo: «Il mondo che Rutilio ritrae è quello di un’Italia ferita dalle scorribande barbariche, in cui singole località destano memorie storiche o mitologiche, e più spesso offrono l’occasione di segnalare il passaggio o la presenza di amici e nemici. Gli amici sono nobili esponenti di quella aristocrazia senatoria in cui Rutilio ravvisa ancora il baluardo dell’antico valore romano. I nemici sono avversari politici o ideologici: famoso è il suo attacco allo stile di vita monastico, praticato nelle isole di Capraia e Gorgona, davanti alle quali si trova a passare. Rutilio appare fermamente arroccato nel paganesimo della tradizione: vede in Roma personificata una dea, accenna con sguardo partecipe ai culti di Osiride, mentre per il suo poemetto, se si esclude l’aggressione ai monaci, il cristianesimo – di recente assurto a religione ufficiale dell’impero – non sembra neppure figurare nei registri dell’esistenza».

Lo spopolamento, la rovina morale e la distruzione (Ambrogio dirà che gli edifici in rovina «semirutarum urbium cadavera», sono cadaveri di città semidistrutte) di luoghi come Castro Nuovo o Alsio e Pirgi, in passato fiorite d’oro, o Populonia distrutta dal tempo, non portano la resa di un’affezione a Roma, alla quale innalza il fervore di un inno di fede e resurrezione assorta, come proclamazione di un’antica gloria che vale anche per il presente: «fecisti patriam diversis genti bus unam» o ancora «Urbem fecisti quod prius orbis erat».

I monaci che fuggono la luce, rintanati nell’angustia degli occhi e degli spazi, rappresentano, per lui, la coltre di una umanità rinnegata, responsabili del declino dell’Impero.

Un mondo chiuso sottratto al presente rattrappito in una nostalgia che frequenta le ferite e le devastazioni e persino sulla fuga in una illusione antica prigioniera di una sottrazione civile evidente, aleggia l’ombra del multiforme Stilicone, colui che ha aperto le porte dell’Italia ad Alarico e Ataulfo.

il viaggio di un viaggio, condensato nelle divagazioni, nelle chiose, nella trama non sempre fertile dei giorni, apre il suo exitus finale a un tempo che si appropria di esistente e inesistente, come fragile membrana di una promessa irrisolta.

Alessandro Fo, analizzando la complessità dello sguardo rutiliano, commenta ancora: «Oscilla fra dolente constatazione degli insulti del tempo e un ottimismo propositivo fondato sulla fiducia nell’eternità di Roma e nella capacità ricostruttiva dei Romani – da quella dei cittadini che, sotto gli auspici di Costanzo hanno ricostruito Albingaunum a quella di chi, come lui stesso, si accinge a provvedere di persona al restauro dei propri beni.»

La necessità di ritornare alle proprie terre, distrutte dai barbari, rapporta il testo al gemito di una franta umanità, che nel diletto, strappa il mantello della Fortuna e si attesta al tradizionalismo celebrativo: «è tempo di costruire, dopo feroci incendi, su fondi laceri / anche soltanto casette di pastori. / Che se le stesse fonti, anzi, dare voce, / se i nostri arbusti potessero parlare, / con giusti pianti mi stringerebbero mentre tardo / mettendo al mio desiderio le vele».

Il desiderio di vele ama sostare sulla morbida delicatezza del ritratto velato e viandante, come il porto di Centocelle, la rugiada dell’alba sulla porpora, il riflesso della costa sull’orlo dei flutti, l’aurora secca di saline, il nembo tagliato: «La prima luce brillò rugiadosa nel cielo purpureo: / tendiamo le vele inclinate in una piega obliqua. / Per un tratto evitiamo il fondale basso lungo le foci del Mignone: / anguste imboccature vi agitano onde infide. / quindi avvistiamo i tetti sparpagliati di Gravisca, / oppressa spesso in estate, da odore di palude, / ma i dintorni boscosi verdeggiano di fitte foreste / e sull’orlo del mare tremola l’ombra dei pini. / Scorgiamo le antiche rovine, senza alcuna custodia, / e le squallide mura di Cosa abbandonata. / Quasi ci si vergogna a rivelare, in mezzo a cose serie, la ragione / ridicola della disfatta, però mi spiace mascherare il riso (vv.277-288)».

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