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Il sangue amaro di Valerio Magrelli

di Andrea Galgano             23 aprile 2014

recensioni Il sangue amaro di Valerio Magrelli

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Il nuovo libro di Valerio Magrelli (1957), Il sangue amaro, edito da Einaudi, fodera la quotidianità in un paesaggio di voci dispiegate, dediche improvvise, riferimenti estesi ad amici e anime interlocutrici, ai vocativi allusi.

Il dialogo si frastaglia in un contatto che riflette e confessa, si allontana dalla figuralità di immagini e apre la sua scena alla simmetria degli specchi e dei suoni, ai chiasmi del timore e del tremore, della convivenza sociale e della lotta civile

In un articolo su «Il Sole24 ore» del 17 marzo 2014, Gabriele Pedullà scrive che: «Questo affollamento ha sicuramente a che fare con l’approfondirsi di una vena civile che nelle prime raccolte sarebbe stato difficile da prevedere. Quando è che l’io incontra il noi? Dietro l’omaggio o il saluto, di là dal vetro i nomi e i referenti particolari sembrano rimandare a una comunità perduta, o a una ipotetica comunità a venire. Nel presente, invece, c’è solo il vuoto. Curiosamente infatti, non appena entriamo nei testi, ci accorgiamo che, esclusa la famiglia, le poche entità collettive evocate si reggono tutte su una privazione originaria: i giovani senza lavoro, gli odiatori disperati che scrivono insulti nei bagni pubblici, gli uomini bruciati assieme nelle Torri Gemelle o, con un altro rogo, gli operai periti nell’incidente della Thyssen. All’impossibilità kantiana di attingere alla cosa in sé si aggiunge ora, dunque, una paralisi storica. Al punto che, nell’età della trasformazione della politica in scienza della governamentalità e della governance, le dediche si rivelano altrettanti tentativi di fare gruppo: se necessario oltre lo spazio e il tempo. Invocazioni di aiuto almeno quanto profferte di affetto ai vivi e ai morti».

L’io, pertanto, vive «l’aria del nostro tempo» (Gabriele Pedullà), come squarcio ferito di ansia, confine che «avvampa e non consuma», come un bisticcio con l’esterno che stritola, annienta, sbilancia la sua malinconia nei paradisi perduti della lettura «Trovarsi a fianco qualcuno assorto nella lettura, / mi porta a domandargli. Dove sei? / per questo cerco di cercarti dentro, / di raggiungerti dentro quel dentro / da cui mi sento irrimediabilmente escluso».

La sua esattezza di figura, se da un lato condensa il proprio residuo interiore, dall’altro esprime la vertigine franta delle cose, articolando la concreta condensazione vista in Ora serrata retinae (1980), attraverso la nominazione e la paura insozzata delle soglie: «Da una finestra aperta non entra soltanto la luce; / a volte può entrare dell’altro che non avresti voluto. / Lo schifo, lo schifo, lo schifo di un animale che vola / in mezzo alle cose di casa violando lo spazio privato, / quell’unico spazio che resta di qua dalla finestra» o ancora adempiere l’infernale ignoto di una tecnologia avara e della burocrazia che sembra lasciare un vuoto estinto: «Natale, credo, scada il bollino blu / del motorino, il canone URAR TV, / poi l’ICI e in più il secondo / acconto IRPEF – o era INRI? / La password, il codice utente, PIN e PUK / sono le nostre dolcissime metastasi. / ciò è bene, perché io amo i contributi, / l’anestesia, l’anagrafe telematica, / ma sento che qualcosa è andato perso / e insieme che il dolore mi è rimasto / mentre mi prende acuta nostalgia / per una forma di vita estinta: la mia».

Commenta Pedullà: «Generalizzando, si potrebbe dire che in questo nuovo Magrelli le parole ripetute alludono a una tragedia (o comunque a un trauma) che si ripresenta rigorosamente in forma di commedia. A essere amaro, in queste poesie, è infatti soprattutto il riso. Il quale non è mai stato così abbondante nelle opere precedenti di Magrelli, ma – contrariamente a quanto asserisce il noto proverbio – qui non “fa buon sangue”. Mai».

Sono oggetti violenti di mete ignote di cittadino, luce orfana di un movimento, come «un vento che soffia da dentro / per scuotere le foglie delle dita / e non si ferma più» e questo stormire di fronde porterà a una tramutazione «in betulla / o in un cipresso sul bordo del fiume, / con quel tremolare di luci / alzate dalla brezza. / mi farò soffio, mi farò soffiare, / panno lasciato al sole ad asciugare».

Il disfacimento disincantato del gesto poetico di Magrelli ha l’amarezza del riso e del sangue, l’esterno che penetra lo sporgersi verso l’abisso («Ecco perché vengo avanti piano piano, / come sull’orlo di un baratro. / Ecco perché mi protendo verso il vuoto / in fondo al quale posso a malapena intravederti»), il diario del tempo che squaderna le ferite e il disincanto escluso, come una smarrita enclave di parola silenziosa («Il vuoto del tuo corpo, / il suo silenzio, / dimostrano che il padrone non è in casa. / resta solo il cappello, posato sulla sedia / per occupare il posto dell’assente. / Quando leggi, vai via, e mi lasci solo») oppure il ritmo della vertigine dell’ansia che «è una domanda più totale, che include l’origine e la fine di ogni nostro «sistema fluviale», cioè di ogni nostra vita, che «nasce dal disgelo delle vette, dov’è il regno del cuore». Non solo una suggestiva immagine, in cui il nostro circuito cardiovascolare diventa una complessa rete fluviale vivente, ma il segno di una profonda richiesta di appartenenza», come scrive Bianca Garavelli su “Avvenire”.

L’estuario di Magrelli si attesta sul suo tempo elicoidale che vela il mondo e descrive la nascita, il suo affidamento, la sua parola segreta, come anello solstiziale: «Cinquanta volte giugno, / e sarei io, l’anello? / l’anello è lui, questo tempo elicoidale / che torna su se stesso / sempre uguale e uguale mai, / mio giugno, anello solstiziale / di sangue, di nozze di addio, / eterna vigilia di quella vacanza / che infine giungerà pura / nudissima luce definitiva, / mio sabato dell’anno, rompendo / finalmente l’anello sisifale».

È spesso il tempo dell’esclusione dal tempo («Riuscire a condividere quello spazio / da cui mi escludi, e che esiste soltanto / perché tu me ne escludi») a ridisegnare lo strappo sgualcito della separazione che genera nostalgia, che implora il corrimano del corpo, che invoca la bellezza dai regni interiori e «dei fondi incantanti del non-io».

Il suo calendario è un brusio che apre il ponte levatoio per varcare le stagioni e gemmare sugli affetti, promettere redenzione, toccando persino il rovinoso suburbano, come un occhio poetante «che intravede la vetta, la bellezza / come promessa di felicità», che soffre «il barbarico barbaglio» di luglio ma «resta il cielo a ricordarci un tempo / in cui la vita respirava piena. / Ma resta un cielo a ricordarci il tempo / in cui respirerà piena la vita».

I ritratti raccolti in questo testo si fondono e si raccolgono in un delta a distanza che mette a nudo, in cui personaggi come Carlo Betocchi, Leon Bloy, Pier Paolo Pasolini, Mircea Eliade, Gian Lorenzo Bernini, Ettore Petrolini, Totò rappresentano il sintagma fluviale di un ponte inesausto che si rivela, l’otobiografia che rumoreggia i passi della vita che attraversa «tutte le forme possibili di esperienza “fluviale”: un simil-Mekong italiano e Piazza Navona con la sua celeberrima fontana, l’autolavaggio e il gran Canyon, i ponti cittadini e la fonte Castalia che rende poeta colui che beve alla sorgente, la Neva ghiacciata e il rompersi di un tubo che porta alla luce il “sistema sanguigno” della casa» (Gabriele Pedullà).

I paesaggi laziali, l’immersione nella lettura con la donna amata irraggiungibile avvertono come una fragile impossibilità esclusa, il segno di un incontro e di una comunione mancata, uno stampo nell’ombra di se stessi: «Invisibile e invincibile / è lo stampo che porto dentro me, / stampo del mondo impresso a me nel mondo / e che mi fa essere al mondo / soltanto nella forma dello stampo. / Dov’è la libertà, se la malinconia / raccoglie le sue nuvole senza nessun perché? / sto qui e subisco il loro lento transito / solo aspettando / all’ombra di me stesso».

Spesso è il fuoco ad accompagnare il ritratto di queste danze amare, una città incendiata di un’ansietà che avvampa e non consuma, come una specie di falso fuoco che brucia e si lascia bruciare, in una sconfitta consustanziale, in un attimo sparuto.

Magrelli ci consegna una ferita esclusa ma non vinta, la precarietà prigioniera (««Non siamo a casa neanche a casa nostra, / anche la nostra casa è casa d’altri, / la casa di qualcuno arrivato da prima /  che adesso ci caccia. / Vengono a sciami / si riprendono casa, / la loro casa, / da cui ci scuotono via, / punendoci per la nostra presunzione: / essere stati tanto fiduciosi / da credere che il mondo si potesse abitare»»), le mattinate apocrife che gocciolano notte, il raspamento di qualcosa che si contrae per «ottenere che lentamente, esile, torni / il moribondo flusso di corrente / ed un nuovo splendore inondi i giorni. / Solo così rinasce quel potente / getto di sole che rimette in moto / ruota, ciclo, marea, nascita, photos».

Ma in quel punto raschiato, in quel segno di ferita rimane l’accorata preghiera clandestina, come una sorta domanda grande e spiata a Dio ultimo e reietto fra i reietti: «Dio delle baraccopoli, Gesù dei clandestini, / nato nella favela, ultimo fra i bambini, / creatura della notte, amato dai reietti, / scintilla nelle tenebre, abisso degli eletti. / Gesù di baraccopoli e Dio dei clandestini, / nell’ultima favela neonato fra i bambini, / amato dalla notte, creatura dei reietti, / abisso nelle tenebre, scintilla degli eletti. / Abisso e baraccopoli, scintilla e clandestini, / quanto amato in favela!, creatura dei bambini, / ultimo nella notte, neonato fra i reietti, / Gesù dentro le tenebre, Dio di tutti gli eletti».

978880621845GRA

Valerio Magrelli

Il sangue amaro       

Einaudi, pp. 149, 13 euro

 

 

Magrelli V., Il sangue amaro, Einaudi, Torino 2014  

 

Il limite terso di Mario Benedetti

di Andrea Galgano             9 aprile 2014

recensioni Il limite terso di Mario Benedetti

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L’ultima opera poetica di Mario Benedetti (1955), Tersa morte, edita da Mondadori, amplia e si appropria di una più chiara visuale memoriale.

La perdita, la mancanza, la morte della madre e del fratello, accresce non il congedo, ma la testimonianza di uno sdoppiamento, in cui l’esperienza estrema si raccoglie in una tessitura densa e netta che concede il senso profondo di una chiarificazione.

L’estremo possibile cerca la sua via dall’abisso, con l’aiuto di una parola scarna ed essenziale che vela e rivela il ritrovamento nascosto di un dolore che specchia la sua fragilità, il passo della luce, il silenzio franto.

Il ritorno alle cose care, già visto in Umana gloria (2004), laddove la rimemorazione dei luoghi e dei passaggi percepiscono la sintesi di stupefazione e nominazione, e in Pitture nere su carta (2008), in cui il gesto reliquiario sollecita paesaggi dilatati, attimi di quiete lenta e di sfarzo, terrore anomalo, sillabando lo stupore, qui racchiude una processione di tempo nel tempo, in una goccia minimale e singola.

La solitudine abbacinante inventa la sua testimonianza e, allo stesso tempo, la sua docile paralisi. Entrambe si affidano a un sosia che possa dettare, scrivere e raggiungere le infinite profondità: «Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero / prendermi i giorni, le settimane, i mesi, il tempo / portato addosso, il sosia a cui chiedo di aiutarmi. / Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco. / adesso è sua. Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi. / Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto. / Sollevare dei pesi, deporli. Lo sguardo s’incuriosisce nella forma / di una porta marcita dove abita una signora anziana da sola. / Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello / o gli scrive. Pensa al protrarsi della vita che mi sopravvive» (Transizione, maggio 2010).

L’ultimità di Benedetti è una perentoria realtà di sopravvivenza e referenza, in cui la parola percepisce il peso dell’ombra delle cose e in quella stilla di dolore estremo conferma il suo pianto miracoloso e vivo: «La porcellana insaporita della cena, / la casa nuova con i contributi della legge / dopo il terremoto. Tutta una vita / per chi vi deve ricordare, per chi vi piange. / E piange la parola che riesce a dire».

Scrive Alessandro Zaccuri: «In Tersa morte, invece, prevale la sdrucitura, il dramma, e così l’intonazione scivola verso la prosa, che in più di un’occasione prevale. Questa volta è la regola ad avere la meglio: il lutto per la morte del fratello sta all’origine della scrittura e intanto la ostacola, impedisce alla forma di articolarsi. Non è, per quanto mi riguarda, un limite. Ho una simpatia istintiva per i libri in cui qualcosa è, o appare, fuori posto. Il magma di Moby Dick, per esempio, ma anche gli esametri sospesi dell’Eneide o Dostoevskij, che lavora di furia alla prima parte dei Fratelli Karamazov, il capolavoro destinato a rimanere incompiuto. E la Bibbia stessa, dove il sublime prevale sul bello. «Dai del tu ai morti, stai al posto di te, anche», scrive Benedetti.  Non  è musica, questa. Non è stile. Ma è la lingua madre del dolore, e chi l’ha parlata – fosse pure per una sola volta – ne riconosce l’esattezza, ne condivide la pena».

In un bellissimo articolo su «Nuovi Argomenti», Giorgio Meledandri afferma che «[…] Mario Benedetti rappresenta un’altra morte e scrive un grandioso ed intenso epitaffio in memoria delle parole. Tutta l’opera non fa che rimarcare l’impotenza espressiva del soggetto, l’indicibilità delle cose, l’esaurimento del linguaggio. […] Solo dentro questa cornice, nell’eco delle parole che muoiono, l’autore può mostrare altre esperienze di lutto. Tenta quindi di recuperare le immagini, i fotogrammi di chi non c’è più: una vera e propria evocazione di luoghi e di date nel corso della quale l’io lirico si diffrange in una molteplicità di soggetti, si mescola con i morti, si sovrappone agli oggetti fino a scomparire».

La diffrazione, il mescolamento, la sovrapposizione e infine la scomparsa sono lande che attestano l’indicibile di impronunciabili scomparse, come «Tra il ferro arrugginito dei vagoni di treni dismessi / la discarica delle parole di poesie che respingono. / Sguardi brevi, arrovellamenti, alberi a caso, afasie».

Le vite pronunciano una stasi scissa che si compenetra nel linguaggio, si appropria nelle parentesi care di ogni vita che sono «interezze create continuamente / per un dopo che non ci sarà più o è già stato».

Tali interezze proclamano la loro tersa continuità, le parole che «sono nelle storie che mi hai fatto vedere», sollecitano una testimonianza di tensione e domanda, per «Stare nelle ore / per altre ore, nei giorni che ci saranno», rievocano l’oscillazione di un martirio testimoniato, «Come testimoniare i morti, / vivere come lo fossimo, / morire come siamo. Per la vita / è la scoperta / della morte e della vita», e, infine, riportano, come sostiene Tommaso di Dio «alla “carne” che siamo, carne mortale».

La nudità lucente della vita che si rivela, il dolore del limite, della carne che percepisce il vuoto bagliore della mancanza reale e vivente, svelano il tempio di una figura che ha generato vita, nella quotidiana altezza del gesto: «Cosa devo guardare per sentire che non è così vero, / e riuscire a spostarti nelle faccende di casa, / a risospingerti lungo le strade. E tra le righe / vicine dei capelli guardo i sentieri del sottobosco / ingiallito. E riesco a vedere i vicoli di Napoli, / gli anni trenta, i gatti, le gonne lunghe di una ragazza. / e tu mi dici: tu lo sai che è vero, tu resta forte e sereno, / quanti giorni hai davanti! Io sono morta di lunedì, / tu sei arrivato a guardarmi, ero una cosa vestita / con l’abito blu che mi avevi regalato e tutto il ricamo / del foulard. Così tanto elegante, così tanto bello».

Il gesto-dimora offre il suo palcoscenico di durezza e dettaglio luminoso: la madre, alla quale appartiene solo lo sproposito e la dismisura, il tempo infinito che sembra concretarsi in uno spasmo di apparizioni e le coltri dense di ricordi frammentati: «Devo tenerlo per mano, / non vedo nessuno tenere per mano i bambini. / Vicino alla manica lunga del braccio /  i suoi occhi liberi, e tante madri, / tanti cuccioli di cagne e mucche insieme ai vitelli / che dormono come bambini».

La morte diviene l’ampio gesto della vita che si spegne e si afferma, in un doppio movimento che appare e scompare, si eclissa nei vertici fenomenici di freddi senza riparo: « Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere /  la pura inconcepibile assenza, non distrarti». L’accortezza di non avere solo vent’anni è lo spazio vergine di una sopravvivenza decisa e assorta, che assolda doppi e sosia per comunicare uno spiraglio di consapevolezza e di voce non rabbiosa, ma accorata e descrittiva di una rarità spettrale che termina nell’ora assente: «È un’ora assente. Mi guardi. Si vive ancora, sì, si vive ancora. / Ma non c’è la mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia».

«Per tutto il libro, Benedetti fa oscillare le proprie immagini in un verso anfibio, debolissimo, raramente inarcato, sempre sul punto di sconfinare in ritmi ipermetri e ipometri, prosastici; fra di essi, a tratti appaiono figure ritmiche incalzanti, che presto però si sfaldano in soluzioni neutrali, sottotono. Il verso rispecchia una ricerca formale inquieta e liberata da schemi di illusionismo metodico. Tutto trema: come i contorni delle bottiglie nei quadri di Giorgio Morandi, ogni cosa è lì, ben visibile, impressa; ma in una forma che non sa stare se non oscillando, crepata da appena percepibili anacoluti. C’è in questi nuovi versi di Benedetti – e segnatamente nelle ultime sezioni – una sobrietà formale che rasenta l’impressione di negligenza; essa enuclea uno stile “a dispetto” di ogni possibile orpello retorico. È come se ci ricordasse continuamente quanto il senso dell’esperienza e il contenuto sopravanzino ogni possibile stilistica; tanto che risulta particolarmente impossibile qui – o quanto meno totalmente inutile – quello che mai dovrebbe accadere di fronte ad un opera letteraria: godere della forma senza aver aderito al messaggio espresso dal libro, senza averlo fatto proprio». (Tommaso di Dio).

Un viaggio nella pena della morte, non dell’annichilimento. Benedetti si sporge nell’abisso dell’assenza della sua «impietrata lava», «il tempo venuto addosso come suo dovere. / I lutti delle case, del vivo chiamarci a colazione a cena. / la panca di un giardino, i tuoi pianti nella macchina a ore, / i torrenti e le pozze dove nuotare. Cosa ti diceva / è bello stare qui?, umiliata, pestata nella macchina a ore», «nell’ora dell’azzurro cupo», nei fotogrammi dei «gualciti / accappatoi rivoltati dal vento ieri notte »raccoglie i cari per aggrapparsi alla vita e, nel vuoto del sangue, delle «parole in fila» che «mostrano la pioggia sulla strada e nei campi. / Gli occhi che guardano scriverle non ci saranno. La strada / ha gli alberi lontani, l’erba è alzata  respirare, a respirare / come uno di noi. È giusto che io non veda questo mai più».

tersamorte1MARIO BENEDETTI, Tersa morte

Mondadori, pp.86, euro 16 

Benedetti M., Tersa morte, Mondadori, Milano 2013.

Id., Pitture nere su carta, Mondadori, Milano 2008.

Id., Umana gloria, Mondadori, Milano 2004.  

 

La terra promessa di Leif Enger

di Andrea Galgano             2 aprile 2014

letteratura americana La terra promessa di Leif Enger

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La narrativa di Leif Enger (1961), autore nativo del Minnesota (Osakis), dove vive con la moglie e due figli, è una filiazione di approdi, un’avventura che sollecita sponde come epica salvata.

Il suo primo libro La pace come un fiume (2001) è un dramma di respiro che ama le nascite e le tregue, la speranza di un tempo imprevisto di attesa che ama i confini per superarli, l’origine per vivere.

Il romanzo, ambientato agli inizi degli anni Sessanta, condensa il suo presente vivo e memoriale di nostalgie morbide, la cui stoffa sibila suono e fiato di occhi bambini: «Sin dal mio primo respiro in questo mondo tutto ciò che ho sempre voluto sono un paio di polmoni e l’aria per riempirli […]. Pensate al vostro primo respiro: un vento sconvolgente che con estrema facilità vi si infila giù per i polmoni, mentre voi siete ancora lì che vi rigirate nelle mani del medico. Che urlo avete fatto!».

Il respiro, che deve lottare per liberarsi dai suoi precipizi e aprirsi alle feritoie del vento insperato e sconvolgente, ha nel protagonista, l’undicenne Reuben Land, figlio di Helen e Jeremiah, la destinazione del sangue-fiato, che sin dalla nascita sembra non avere avvii, scaraventata nel mondo senza possibilità.

Se non fosse per suo padre, Jeremiah, che con il soffio indomito della sua preghiera nel vento, invoca inizi: «Reuben Land, in nome del Dio vivente ti sto dicendo di respirare».

Commenta padre Antonio Spadaro: «Non si fa fatica, leggendo le prime tre pagine del romanzo, a cogliere che il primo respiro in questo mondo (first breath in this world) è rinvio a quel «soffio» che aleggia sulle acque della terra informe e deserta di cui si parla nel libro della Genesi (1,1). Il respiro è passaggio dal caos dell’asfissia mortale all’ordine del mondo creato come buono, bello, vitale. Il passaggio qui è garantito da un «miracolo» compiuto dal padre del bambino».

Salvato sul bordo del precipizio, Reuben raccoglie il suo miracolo. Inizia ora l’avventura della famiglia Land, nei termini del mondo: «I miracoli veri danno fastidio alla gente, come quegli strani improvvisi malesseri sconosciuti alla letteratura medica. È vero: confutano ogni legge da cui noi bravi cittadini traiamo conforto. […] Io credo di essere stato salvato da quei dodici minuti senz’aria per diventare un testimone e, in quanto testimone, fatemi dire che un miracolo non è una cosa carina, è piuttosto un colpo di spada».

Ecco lo strappo al nulla in una provincia indenne, che non si allontana mai dal limite dei segni e delle ferite, come Jeremiah abbandonato dalla moglie, i figli Swede e Davy, il tentato stupro di Dolly, la giovane fidanzata di Davy, da parte di due ragazzi, Israel Finch e Tommy Basca, che minacciano vendetta. I due rapiranno la piccola Swede e copriranno di catrame la casa dei Land. Davy li sorprenderà in casa propria e, con feroce determinazione, porrà fine alla loro esistenza.

L’armonia che lotta con il caos, genuflessa ai limiti, apre il corso di esistenze nuove e fuggiasche. Davy viene processato e gli viene imputata la premeditazione, allora inizia il suo tripudio di esilio e ricerca: «Quando fu che Davy Land si rese conto che l’esilio è un paese dai confini mutevoli, difficile da abbandonare ma altrettanto da sopportare, non importa quanto siano larghe le tue spalle, o quanto indurito il tuo cuore?».

Lo spazio aperto delle terre del North Dakota è la frontiera delle badlands, il selvaggio confine dell’ombra e dell’assedio. La sua famiglia si mette alla sua ricerca, a bordo della Plymouth, per cercare di trovarlo prima della polizia. In una inesausta battuta d’aria e di inverni, l’irraggiungibilità esiliata di Davy non ha riparo, mentre la ricerca di Jeremiah non proclama inerzie, ma si compone di fede e preghiera, come la sua Bibbia sfuriata e sfogliata.

Scrive Antonio Spadaro: «Il tema classico della vita on the road – che qui viene rielaborato efficacemente con gli elementi del romanzo poliziesco e della saga familiare – dà vita a un’epica della vita ordinaria illuminata dalla fede, dalla speranza e dall’affetto profondo, al di là di ogni vano sentimentalismo. L’elemento «maledetto» e selvaggio delle storie on the road viene trasfigurato nello stupore del «miracolo» e della speranza contro ogni apparenza», proprio come dice Reuben, narratore di questo viaggio: «Tutto questo, lo capite, traeva ispirazione solo dalla pura fede. […] La fede ci aveva condotto a questo. La fede, secondo papà, ci aveva mandato la roulotte Airstream, e la fede avrebbe guidato il nostro viaggio».

Ma la paolina sostanza delle cose sperate e l’anticipazione delle cose che non si vedono non è una sospesa chiarità, bensì una robusta visione che permette di «vedere le cose, di toccarle, di attenderle» (Antonio Spadaro). Ed ecco che il viaggio inscena la trama vivente del sacrificio, della speranza, della salvezza promessa come una terra, gettata nel dolore e nella domanda, bisognosa e mendicante. È, in sostanza, un esodo di luce.

Il respiro di Reuben, che figura ritmi e viaggi, poggia la sua forza sulla pagina, raccoglie paesaggi e soste di incontri indicibili e viventi, come Roxanna Cowley che indica gli occhi e una meraviglia carnale. Reuben vedrà Davy che vive con il losco Jape Walzer e Sara, la sua donna schiava, ma questi gli impone di non far parola con nessuno. Un peso segreto tremendo che egli porterà con sé. Jeremiah e Roxanna sviluppano il loro cuore e Reuben vedrà «le loro mani toccarsi, non una stretta appassionata, ma uno scambio semplice ed eterno, antico come la Sacra Scrittura».

Le fughe di Davy portano mani fuggiasche e conclusioni estreme: porta con sé Sara nel suo paese d’origine e viene raggiunto da Jape che spara ferendo Jeremiah e colpendo mortalmente Reuben, ma «misteriosamente e miracolosamente avviene una sorta di scambio in un capitolo ambientato in una zona, un aldilà, tra la vita e la morte, dove Reuben gusta la beatitudine. Il ragazzo rinviene e Jeremiah muore, lasciando però al figlio, miracolosamente guarito dall’asma, un messaggio di fiducia e salvezza. Davy riprenderà la fuga. Swede diventerà scrittrice. Reuben sposerà Sara» (Antonio Spadaro).

In un’intervista rilasciata a T.Wiss, in Inside Borders dell’ottobre del 2001, il riconoscimento della sostanza del reale sostanzia la pagina e Leif Enger sostiene che: «Non so come sia possibile scrivere un libro senza che la tua fede appaia. […] La tua fede ha sempre a che fare, io penso, col modo in cui tu vedi il mondo, e dato che il mio modo di vedere le cose è quello cristiano, questo è il modo in cui il mio libro va letto. Detto questo però, il mio libro non è un tentativo di fare evangelizzazione. È realmente la storia di un ragazzo alle prese con la fede che gli è cresciuta dentro e che si gioca in termini di lealtà e sacrificio […]».

Ad Andrea Monda su “L’Osservatore Romano” del 15-16 giugno 2009, risponde che: «Una persona può discutere sul fatto che l’atto dello scrivere sia esso stesso un atto di fede – perché ognuno crede in qualcosa, si affida a un qualche vangelo, quello di Dio o il proprio – e la scrittura è un’espressione di quella fede, ma in fondo alla strada giace la teologia, che è un territorio che mi confonde. Per dirla più onestamente possibile, io scrivo perché amo il linguaggio e le storie e voglio vedere come le cose si sviluppano. Il mio primo obiettivo quando lavoro a un romanzo è scoprire cosa succederà e far girare la storia in un modo tale che il lettore possa salire a bordo, godersi il viaggio, e lasciarlo soddisfatto. Per quanto riguarda il fatto di eternare la bellezza, sicuramente un libro è un modo per provarci, ma ce ne sono migliaia altrettanto buoni o migliori, come allevare figli, costruire navi, riparare tetti, coltivare giardini. Io sto provando a fare qualsiasi lavoro che mi è a portata di mano, e lascio decidere a Dio cosa mantenere e cosa buttare via».

In Così giovane, bello e coraggioso siamo nel Minnesota del 1915. Lo scrittore Monte Becket che aveva scritto un romanzo nel Far West è in crisi creativa, e allora decide di risalire il fiume salendo su una barca a remi, guidata da Glendon Hale, un rapinatore di treni, fuggiasco e  ricercato dalla polizia e dal detective Charles Siringo, verso la California, dove questi deve arrivare prima di morire per chiedere perdono alla sua moglie da lui abbandonata. Tra i due nasce un’amicizia profonda che cambierà e renderà autentico il cuore inquieto di Monte, vero alter-ego dell’autore.

Paolo Pegoraro, in un articolo su «Famiglia Cristiana» del 2009 afferma: «Eppure, dietro l’apparenza del racconto volutamente spensierato e melodrammatico, Enger dice qualcosa di più. I suoi personaggi dovranno rinunciare a ciò che più vogliono per poterlo ritrovare, sia esso la libertà o il desiderio di scrivere. E viene da chiedersi se, dietro la storia di Monte Becket, non ci sia un risvolto autobiografico: anche Enger infatti è del Minnesota, sposato, autore di un solo bestseller uscito ben sette anni prima di questo nuovo romanzo. Avrà affrontato anche lui una crisi creativa? e come ne sarà uscito? Forse proprio come il suo personaggio, abbandonandosi senza troppe preoccupazioni alla prorompente e romantica avventura della vita. E in fondo non è questo che c’insegnano, i romanzi d’appendice? G.K. Chesterton li definiva «letteratura a sensazione», «un vangelo più schietto e valido di tutti gli iridescenti paradossi etici… semplice come il tuono del cielo ed il sangue degli uomini».

La frontiera, la terra, il destino, l’epica rappresentano la vita come tensione inesausta verso la pienezza, amore implorato e incendiato, vivezza di carne e radicalità, nulla è come prima, perchè «è strano, quando raggiungi la tua meta: pensavi di arrivare lì, fare quello che ti proponevi e andare via soddisfatto. Invece, quando ci sei, ti accorgi che c’è ancora altra strada da fare» e in cui il fiume rappresenta sempre «un luogo che ha a che fare con la trascendenza. Metti una canoa nell’acqua che fluisce e sei subito spinto rapidamente dalla corrente con nessun impegno da parte tua; diventi così una creatura differente, una creatura del fiume, capace di odorare strane cose, vedere creature viventi al di sotto del livello dell’acqua, sentire il gracidio di invisibili uccelli acquatici. Anche il tempo cambia sul fiume. Non c’è altra esperienza che così rapidamente rimuove la pressione dalle tue spalle, la vita sul fiume si percepisce come un dono forse più che in altre situazioni. Mark Twain ha scritto che “la vita è potentemente libera, tranquilla e comoda su una zattera” e aveva ragione».

 

Enger L., La pace come un fiume, Fazi, Roma 2009.

Id., Così giovane, bello coraggioso, Fazi, Roma 2009.    

Spadaro A., «La pace come un fiume». Un romanzo sulla famiglia, la fede e i miracoli, in «La Civiltà Cattolica», IV, 2002.

Wiss T., «A miracle of a novel», in «Inside Borders», october 2001.

Il posto di Jorie Graham

di Andrea Galgano             27 marzo 2014

recensioni Il posto di Jorie Graham

sul sito della poetessa nella Bibliografia ufficiale  http://www.joriegraham.com/bibliography

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Si chiama Il posto (Mondadori 2014), la nuova raccolta di Jorie Graham (1950), una delle più alte voci della poesia americana. Dopo la scelta antologica, edita qualche anno fa da Sossella, L’angelo custode della piccola utopia, ci giunge questo testo di scheggia e potenza, acutamente tradotto da Antonella Francini.

Premio Pulitzer nel 1996, dal 1997 al 2003 Chancellor of the Academy of American Poets e premio Nonino 2013, per aver «intarsiato i suoi versi sul mito, sulle dicotomie e polarità dell’esistere, scandagliando e sperimentando profondamente tutte le sensazioni della poesia […] dove la parola ritrova la sua eticità e spiritualità tendendo all’infinito», Jorie Graham è nata a New York nel 1950, ha vissuto fino ai diciotto anni a Roma (e il suo iter sembra attestarsi su Pavese. Montale e prima Petrarca) e ha studiato sociologia a Parigi, prima di terminare la sua formazione negli Stati Uniti, dove oggi insegna, ad Harvard, retorica e oratoria.

L’eidetica di Jorie Graham, quasi di neoavanguardia, «[…] ci fa entrare nella forza magmatica della poesia, la sua capacità di testimoniare l’umanità, di risvegliare la mente attraverso i sensi, le presenze vitali del mondo, una «fiumana di sangue» che procede attraverso un deserto. In una fusione coinvolgente di musicalità poematica e densità narrativa» (Bianca Garavelli, da “Avvenire”, 17 marzo 2014).

Ed ecco che i sintagmi intessuti nella pagina acquistano una scaturigine di terra e ferita, il conflitto (persino quello sociale) e la gioia, il crampo del cuore, il tocco, il registro e la trascrizione dell’atto del reale.

È l’inatteso, il blocco superno della realtà che reclama il suo posto, lo spazio di scoperta del mistero che incide l’inconoscibile, che si appropria dell’amore, del tempo presente dilatato e dell’immaginazione: «E vento accolto dal velo d’acqua. / Guarda: l’accoglienza ha una forma […] Ogni cosa nel sole / improvvisa a ritroso, / buttando giù frasi veloci e nervose […] ogni cosa nel sole che tenta d’incarnarsi attraverso qualcos’altro […] Certo il futuro / un tempo non era affatto là […] Parla della lunga catena a ritroso / all’inizio del “mondo” (come lo chiama) e poi, infine, al grande non / inizio. Sento il no iniziare. / Il seguito ronza leggero intorno a me, / cancella le mie impronte», […] Canta dice l’acqua che ripiomba su acqua più ferma – che scorre dove l’altra si rompe. Cantami / qualcosa (il suono del rompersi basso dell’onda) / (gli accordi dove laggiù deposita materia di vita / sulla rampa di spiaggia) (anche la molteplicità / di profondità e rivestimenti dove sorge la chiarezza come una moltitudine) / (mentre l’onda s’abbatte sul suo frangente) / (per squarciarsi all’unisono) (sul suo rifrangersi) – / canta qualcosa, e cantando dissenti».

La poesia di Jorie Graham  chiede un atto ineffabile, evita di dissotterrare la nostra messa in gioco, invita a rischiare la parola per recuperarla nei fondi, non concedendo distrazioni.

E la parola, scomposta, segmentata e frammentata richiede il suo posto, per inebriarsi di mistero, stare dietro la luce del giorno che «sussulta / dietro di noi / ed è un tesoro immenso per esempio oggi / un uomo a cavallo galoppava / leggero su Omaha / sopra la mia spalla sinistra / giungendo veloce ma / leggero e inaudito finchè non mi sono voltata / senza un motivo / come se ciò ch’è dietro di noi / avesse sussurrato / cosa posso fare per te oggi e io mi fossi appena / voltata a / rispondere e la risposta alla mia / risposta scaturisse dalla battigia nell’ultimo sole in cui lui /loro stavano entrando».  

Il respiro precede così l’incedere del verso e il battito, incalzante e vivido, implora la sua esplorazione, quasi che l’istante proclamasse la sua densità e l’immagine si imporporasse di suoni.

Claudio Magris, in un articolo sul “Corriere della Sera” del 20 gennaio 2013, dal titolo La poesia ricuce il mondo, scrive:

«La sua lirica cattura una totalità mossa, spezzata, mutevole, imprevedibile, multipla e simultanea, che il suo verso epicamente lungo e digressivo o concentrato ed essenziale come quello di un haiku coglie con bruciante verità. La sua totalità comprende l’individuo – i suoi sentimenti, passioni, smarrimenti – ma anche la specie e l’incertezza radicale del suo, del nostro futuro. La sua opera esprime una radicale verità della nostra condizione, la vigilia di un ignoto e sconvolgente cambiamento: la possibile – concretamente possibile – assenza di futuro, la morte della nostra specie o una trasformazione tale da renderla non più umana, da aprire l’era del non-umano. […] Il tempo geologico è tanto più grande di quello storico, ma forse il tempo non c’è, non esiste, perchè nel ticchettio dell’orologio non c’è niente, solo un secondo in cui non può esistere nulla e lo spazio fra un secondo e l’altro in cui egualmente non può accadere nulla, eppure la poesia va alla ricerca di questo tempo e di ciò che esso (forse) contiene; ascolta gli uomini, ma anche la foglia, lo scirocco, il cristallo come le vicende d’amore, gli eventi storici e quelli mai es empre esistiti del mito, «il bagliore che assomiglia allo svanire», perchè ogni Io ha dentro di sè il suo «animale morente». La sua Euridice, come quella che ho cercato di rappresentare anch’io, desidera sparire in quello sguardo di Orfeo che si volta».

Il posto, pertanto, è l’osservazione avventurosa del mondo, il gemito del creato, che, anche quando sembra superfluo, si intride di rivelazione, come scrive in Cagnes sur mer 1950: «Sono l’unica a ricordare / la voce di mie madre nell’ombra particolare / dell’arco romano ricolmo di cielo / che oscura le pietre sulla strada in discesa / da dove lei ora risale all’improvviso. / Come l’arco, la voce e l’ombra / violentemente afferrano il piccolo triangolo / della mia anima, un film muto dove note di piano / diventano un corpo impazzito / per le immagini squillanti dello spirito – patria abbandonata – miracolo da cui / si riemerge vivi. Così qui, io di nuovo / rileggo il libro del tempo,

il mio unico tempo, come se ci fosse un fatale errore la cui / natura non so rintracciare – o la forma –  o l’origine – / prendo la creatura e la riporto / sul posto dove io sono un minuscolo serbatoio di sangue, cinque chili d’ossa / e tendini e altre cose – già condannata a quest’unica anima – che dicono pesi meno d’una piuma, o tanto / quanto un centinaio di grammi quando cresce – come in un viaggio ripercorro / quelle arterie, il prezioso liquido, il campo di metodi, agonie, / stupori – che io non sprechi gli stupori – / che non uccida per errore fratello, sorella – mi siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio […]».

L’espansione dell’opera di Jorie Graham si nutre di una vocalità cosmica e di uno spazio di macerie insalubri, di spaesamenti di mente e mondo, e costringe a non cambiare itinerario di affinamento, per osservare, intingere gli occhi nel tempo per «restituire alla mente, in modo nuovo per ogni generazione, la sua parola e le parole al loro mondo tramite un uso preciso. Ogni generazione di poeti ha questo dovere, e ogni volta deve svolgerlo ripartendo sostanzialmente da zero», per «riportare la parola umana nella cosa immortale; assicurare che il rapporto, anche se per un istante soltanto,  sia vitale e autentico Far sì che le parole siano canali fra mente e mondo. Renderle di nuovo pregnanti».

È la sua personale ricostruzione della parola segmentata nel mondo, il gesto sopravvivente nella strada al margine del campo, «per vedere / nella spumeggiante fine del giorno / il posto dove tutto davvero / risiede, desiderato o sopra- / valutato / dalla mente umana, che può / se lo vuole / portarlo alla luce / con l’immaginazione – non c’è invenzione – oppure c’è – finchè / esiste, la mente può / farlo – […] il mondo ha aperto la sua veste / e tu / eri libera di guardare / senza nessuna / frenesia, nessuna canzone, semplicemente così, polmoni sospesi, le / cesoie sospese / lì nella mano, / la siepe selvatica accanto a te, / e tu puoi – sì – sentirla scorrere / per le sue migliaia / di steli – e più vicino ora / anche lo stelo / esile e solo».

L’osmosi di corpo e mente, la sopravvivenza della parola alla storia e nella storia, l’immaginazione, che non tralascia nemmeno il fare politico, invita alla redenzione e la poesia diviene «un atto di profonda responsabilità spirituale … Io utilizzo la poesia per essere obbligata a rimanere nella storia». come disse a Firenze il 20 dicembre 2006 nel laboratorio della rivista “Semicerchio”, l’azzardo e lo scandaglio abissale delle sue pagine diventano espressione di concrezione di passato e  ferita, di persone e luoghi, in un fertile connubio di comunione.

Recuperare la parola alla sua sopravvivenza, come solcare le retine di una presenza di senso che essa contiene, senza la scheggia di vaniloqui possibili e di ovvietà spezzate, per cercare, infine, il disegno delle danze, la visione delle colline lontane, il trampolo dei sogni.

La scena diviene, pertanto, una gemma di macerie recuperate, di splendente vacuità sulle foschie e laddove la resistenza, la geniale trasposizione umana sono «ancora il segreto del terreno / arato di nostra creazione / respiro dopo respiro».

Scrive Antonella Francini: «Nell’intervista rilasciata a “The Paris Review”, Graham ricorda che Roma ha rappresentato per lei il tempo storico, uno spazio dominato da un «imponente senso della storia», dove la «percezione della dimensione temporale, della vita e delle azioni del passato»  la facevano sentire come un fantasma, «un’anima in pili nell’enorme massa di detriti umani». Al lato opposto della sua esperienza Graham mette il tempo “geologico” del Wyoming, le vaste distese di spazio dove si sentiva ugualmente un fantasma, dove «questioni di giustizia, cause ed effetti della storia svaniscono», dove la coscienza individuale non ha accesso e «qualsiasi assunto sull’importanza degli esseri umani su questo pianeta» deve necessariamente essere corretto. […] Il periodo intermedio della Francia e dell’esperienza politica ha rappresentato invece l’apertura alla realtà, ad «altre forme del presente definite pili dalle idee che dalle sensazioni, dall’immaginazione, dal mito, dalla storia». Queste tre dimensioni possono essere associate ai tre grandi blocchi tematici della poesia di Jorie Graham: il tempo geologico dell’Ovest americano fa da sfondo alla meditazione metafisica, quello romano al tema della storia (personale, collettiva e culturale) e quello francese alle questioni socio-politiche».

È nella dinamica dell’altro e dell’altrove, dalla esperienza e dall’avvenimento della poesia, che può essere rintracciabile la sua origine e l’affettività della sua conoscenza che implorano «la morbida deviazione mutata in bellezza».

Ancora una volta, la parola, come annota Antonella Francini è «scardinata da ogni vincolo sintattico, ma tuttavia risalta e risuona dalla posizione di isolamento in cui Graham la pone avvertendo il lettore postmoderno che, anche se erosa dagli attacchi teorici e dalla retorica, può sempre creare significato. Le parole, così messe sotto il riflettore, impongono ed esigono una ri-definizione, creano una vibrante tensione fra occhio e immagine grafica, rispuntano ossessivamente in una sorta di gioco del gatto e del topo con un poeta determinato a costruire una nuova colonia per il suo “sciame”, a sondare per loro tramite i misteri della vita umana. In quest’appassionata ricerca della minima essenza di lingua e materia, parola e silenzio devono in qualche modo coincidere […]».

La sua poesia proclama il risveglio di una conquista, non solo di forma o di distesa emersa, ma un posto umano che si impenna, si concede, offre il suo fianco vitale, per «Essere una persona / umana e poi donna. / Essere una che ha avuto / abbastanza. / Abbastanza sottosuolo. / Abbastanza giardino / col suo muro alto anche se non alto abbastanza con tutti / gli spioncini a meno che non fossero / soltanto cretti accidentali / da cui vedere / il mondo».

Poi il mondo, che corre famelico, che nasconde le mani. Resta in ascolto l’anima socchiusa, la nota lunga del tempo, come una creatura che abita le soglie e il dolore esaminato, la maestria delle forme umane. Dove un grido o forse, meglio, un canto tralasciano il loro sangue per darsi avvio e pronunciare tutto il loro magma di spaesate gemme.

 

3Dnn+9_2B_pic_9788804635796-il-posto_originalJORIE GRAHAM, Il posto

Mondadori, pp.240, euro 18    

 

  

Graham J., Il posto, Mondadori, Milano 2014.

Id., L’angelo custode della piccola utopia. Poesie scelte (1983-2005), Luca Sossella Editore, Milano 2008.

(a cura di) Graham J.- Lehman D., The Best American poetry 1990, Collier Books, New York 1990.  

Il minimale spasmo di Umberto Fiori

di Andrea Galgano             13 marzo 2014

recensioni Il minimale spasmo di Umberto Fiori

umberto fiori

La lingua poetica di Umberto Fiori (1949) afferma l’artiglio pieno dell’essere che incide il tempo, uno scarto o una frangia di verso che si appropriano del passaggio comune delle cose.

La descrizione dei paesaggi urbani, i protagonisti, spesso periferici, delle sue condensazioni di tempo sollecitano l’anima scorta e memorabile di uno sguardo e di una appropriazione che impara subito il tessuto dell’anima, il suo poema compatto, perché, come scrive Andrea Afribo, nella raccolta antologica, recentemente edita da Mondadori (Poesie 1986-2014) «c’è quasi sempre una storia nelle poesie di Fiori, munita di personaggi, di un minimo ma sufficiente ancoraggio spazio-temporale, e costantemente seriata in due momenti. Il primo, esplicitato oppure solo alluso o dato per scontato, descrive la routine di ogni giorno, rassicurante ma soporifera, protettiva ma devitalizzante. Il secondo sovverte il primo, e lo fa all’improvviso, trafiggendolo con un evento tanto banale e casuale quanto, negli effetti, eccezionale».

È la sopravvivenza di un miracolo che sporge la sua impronta, il tratto improvviso e tenace: «Ogni nome ha ragione, / ed ogni cosa sta / in pace / nel suo nome. / Soltanto il mio / suona come un allarme / nell’altra stanza, / come un rimprovero».

La permanenza della parola poetica esprime il suo fischio lontano, condensa l’essenziale allontanandosi dallo spumoso spazio della ridondanza, dove l’io tocca il suo risveglio: «In piena notte / sui viali scatta un allarme. / Si ferma, e poi ripete / due note acute, tremende, con la furia / di un bambino che gioca. / nei muri bui dei palazzi lì sopra / le finestre si aprono / si accendono. / Tranne la strada / in mezzo ai rami, vuota, / niente si vede. / Si tirano le tende / e si rimane intorno a questo urlo / come si sta in un campo intorno a un fuoco».

Lo scarto del silenzio e dell’allarme non distolgono il miracolo di ciò che accade, come se la poesia inseguisse non la sua sopravvivenza, ma il bagliore dell’avvenimento che condensa i suoi confini, apre spazi, favorisce le sue concessioni quotidiane: «Alte sopra la tangenziale, chiare / due case con in mezzo un capannone. /  È questa l’apparizione, / ma non c’è niente da annunciare. / Eppure solo a vederli / Là fermi, diritti davanti al sole, / i muri ti consolano / più di qualsiasi parola. / Cancellate, ringhiere, / scale, colonne, cornicioni: / ha l’aria, tutto, come se qualcuno / dovesse veramente rimanere».

È la testimonianza dell’io che si spinge fino al suo testimone segnico, dove il “voi”, il “tutti”, la “gente”, il “due” (nella sua prima raccolta Esempi (1992) abolisce, in forma inibitoria, la prima persona) caratterizzano il puntuale crocevia e il ventaglio dell’esistere, come avviene nella raccolta Voi (2009) dove egli sostiene che  «Le due persone in gioco nel libro non si equivalgono; non sono solo impari, sono incommensurabili: è di questo che Io si dispera. Voi è innocente per definizione: è una persona astratta, disincarnata, un generico Prossimo, a cui Io deve tutto e dal quale nulla può pretendere. A Voi spetta il primato morale. Un primato assoluto, indiscutibile. Io è la colpa incarnata, un “difetto” di Voi: solo Io è chiamato a rispondere di fronte a Dio (al Senso, all’Essere) di ciò che fa, addirittura di ciò che è, della sua stessa esistenza. Solo Io muore. Solo Io si perde, si salva. […] questa disparità viene presentata come l’assurdo, il mistero, il santo enigma di cui ogni singolo deve venire a capo» verso ciò che Fiori chiama la sua «parola normale», come afferma in un’altra intervista rilasciata a Fabio Giarretta.

La parola normale di Fiori, pertanto, è l’esito di una fedeltà dichiarata alle cose, che persino nella sua sovente impersonalità concentra le locazioni, le indeterminatezze e laddove il paesaggio urbano, ricolmo di piazze, angoli, anditi lievi, rivela l’illuminazione di uno scavo interiore che si riporta all’esterno, come misterioso segreto concreto di nudità che decide l’intero senso del mondo: «Ecco: le cose. / Dove tutto si perde e manca, / rimangono. Si lasciano / ascoltare e vedere. / Sono vere, le cose, e saranno vere: / per questa promessa anche ora, / nascoste nel loro buio, / anche in corsa, / ti sembrano care e buone».

Annota Andrea Afribo: «Non si cerchi poi di capire in quale città si svolgano i fatti. La ricorrente presenza di strade, viali, angoli di strada, tangenziali, semafori (e ancora sottopassaggi, tram, macchine, giardini, autosilo, piazzale, cantieri, scavi, asfalto) dice chiaramente che siamo dentro uno spazio cittadino o meglio metropolitano. Può essere Milano, ma può essere qualsiasi altra città».

L’evento che si svela coglie rimanenze lasciate come «Una fila di esempi, una serie / di facciate di case, rapide e serie», partecipa all’esperienza di una illuminazione allusa e integrante e che invita all’interpretazione, al passaggio netto, all’esclusione come gemma nativa di una perdita: «Le mie poesie sono nate dalla perdita di una biografia (delle sue nostalgie, dei suoi programmi, dei suoi rimorsi, delle sue promesse); sono nate non da me, dalla mia storia. Qualcosa mi impediva di mettere al centro dell’attenzione non solo la mia personale vicenda, ma qualsiasi elemento che rimandasse a uno svolgimento, a un divenire, a un prima e a un dopo intensi in senso forte. Se cerco l’origine del mio lavoro trovo questa esclusione».

Altrove Umberto Fiori, in un’intervista a cura di Maria Borio su Pordenonelegge.it, sulla mancanza, come cellula dello sguardo, afferma che: «L’occhio ha l’illusione di non far parte della scena che sta osservando: è immate­riale, invulnerabile, domina il mondo. In una poesia di Esempi, d’altra parte, si dice: “Più grande di tutto è lo sguardo / ma le case sono più grandi”. Lo sguardo, insomma, è radicato in un corpo, le cose guardate possono essere (in molti sensi) più grandi di quel corpo e dell’occhio che le osserva e crede di dominarle. Nella Bella vista il verbo “mancare” viene utilizzato in un senso un po’ diverso, come sinonimo di morire, non esserci più. lo chiedo alla “Bella vista” di insegnarmi ad accettare l’inaccettabile: il mutamento, la fine. Lei stessa, l’immensa Bellezza, la potentissima Natura, l’ “eternamente salva”, si è piegata al tempo, è scomparsa (o così sembra): l’uomo, invece, non capisce, non riesce ad accettare di “mancare”».

L’apologia delle sue storie intesse l’appartenenza dell’individuo alla comunità, come rapide di immagini che recano fasci inattesi, epifanie e apparenze di una quotidianità franta ma sempre ricca di exempla e di baluginii di tempo: «Chi potrà più trovarci, / chiedere conto, / domandare perché, / dove cosa? Noi siamo / tre piccioni che beccano / la pozza di gelato sul marciapiede. / Siamo il busto di bronzo, / la targa del furgone, l’altra bottiglia / che porta il cameriere. / Chi potrà dare / torto o ragione?».

Il prodigio del tempo possiede la scheggia di una lezione che sembra non riuscire a rivelarsi, nella potenza di una forza buia, ma che non smette di desiderare l’avvento, l’attesa di spasmo che contiene lo scavo dell’umanità in tutte le sue forme, come l’interno di casa in cui «mentre le stanze passano / e se ne vanno, viene / come una spinta dentro, / come un’invidia. / Ci si sente mancare, / in queste scene. Si è come tenuti fuori. / Ma in fondo poi / vedere come tutto / procede bene / anche senza di noi, / fa quasi ridere. / E si diventa liberi, leggeri: / non si è più lì, si ragiona / come già morti, come / mai nati.[…] / Eppure questo, / questo che tutti vedono / là, nei soggiorni / e nelle camere, non smette di mancare: / essere così chiari / senza saperlo, / stare soprappensiero / un attimo, nel pieno dell’attenzione».

La scrittura di Fiori si appropria, pertanto, di una scena, una scheggia di tempo infilata nel tempo, non si discosta mai da ciò che accade e implora chiaritudine «per spremere una lezione salutare da quei fatti quotidiani che sinteticamente racconta» (Andrea Afribo): «Quello che siamo qui / nell’ansia di questa luce / in questa data, / giorno per giorno va. È frecciame: / schegge, polvere, trucioli».

La sua poesia stuporosa insegue l’imprevisto e la restituzione, il cerchio di una pienezza che si vede e si invoca, la chiarità del limite, la figura forsennata che prepara inattese trasparenze.

«I momenti che preparano l’epifania», scrive Andrea Afribo, «che aprono una breccia liberatoria nel muro dell’abitudine, consistono tutti in zone di scivolamento minimo ma sufficiente, interne all’ogni giorno. Sono piccoli guasti, interruzioni del continuum, imprevisti banalissimi ma inderogabili e disarmanti. Soprattutto sono ingorghi del traffico, ritardi, incidenti con annesso capannello di curiosi, tamponamenti da constatazione amichevole, una lite, uno scontro involontario tra due passanti, il già visto scatto di un allarme, lo squillo di un telefono o di una sveglia nell’appartamento del vicino, eccetera. E poi tutto quanto può capitare in una discussione: perdere il filo del ragionamento, bloccarsi, un silenzio a sorpresa».

L’enunciazione è un longevo dialogo di vuoti in attesa, l’indefinito fronteggiato, la rissa dell’anonimo, ma tutto proteso al miracolo incombente, all’offerta estrema: «Sento le piante crescere, sento la terra / girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto / deve ancora succedere».

Nelle sue case, nei palazzi, negli spazi che abitano la gemma miracolosa che sorregge il mondo, la sospensione di Fiori è pronta a donare i suoi fatti, come chi è teso a invocare e gridare fatti e prove e «proprio allora, lontani come sono, / rivedono il miracolo: / che sia una la stanza, / che sia lo stesso / il tavolo dove battono».

 

UMBERTO FIORI

Poesie 1986-2014

Mondadori, pp. 272, Euro 20

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Fiori U., Poesie 1986-2014, Mondadori, Milano 2014.  

Id., Tutti di tutti, in «Il gallo silvestre», 11, 1999.

La lotta di Herman Melville

di Andrea Galgano             26 febbraio 2014

letteratura moderna La lotta di Herman Melvilleindex

Il prezioso equilibrio tra allegoria e simbologia e tra esperienza vitale e magma narrativo trova in Herman Melville (1819-1891), l’indizio di uno scandaglio universale.

Il dettaglio minuzioso che scopre l’approdo di vita vissuta su terre sconosciute, che non teme l’arcaica promessa di un incanto selvaggio, come testimoniano Typee (1846) e Omoo (1847), si unisce alla pervicace sapienza analitica che compone cromature inaspettate e si appropria della minuzia dell’anima «che tutto il pensiero profondo e serio non sia che lo sforzo intrepido dell’anima per mantenere l’aperta indipendenza del mare».

Ecco cosa scrive Melville all’editore Murray, il 25 marzo 1848: «la ripetuta accusa di essere un romanziere travestito mi ha indotto finalmente alla decisione di mostrare […] che un vero romanzo mio non è né TypeeOmoo ed è fatto di materia totalmente diversa […]. Procedendo nella mia narrazione di fatti ho cominciato a provare per essi un inguaribile disgusto; e un desiderio di spiegare le mie ali in volo; e a sentirmi infastidito, ostacolato e inceppato dal dover arrancare con banali luoghi comuni».

La rivista inglese John Bull commentò così il prodigioso Moby Dick uscito nel 1851: «Fra tutti i libri straordinari usciti dalla penna di Herman Melville questo è di gran lunga il più straordinario. Chi sarebbe andato mai in cerca di filosofia tra le balene e di poesia nel grasso di balena? Eppure pochi, tra i libri che trattano professionalmente di metafisica o reclamano una parentela con le muse, contengono vera filosofia e genuina poesia come la storia del viaggio a balene del “Pequod”».

Del resto lo stesso Melville scrisse della sua lotta con i propri fantasmi: «Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che mi interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. […] Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi getto in mare».

Nel 1951 Cesare Pavese, traduttore e colui che per primo ha introdotto in Italia questo testo, un secolo dopo l’uscita di Moby Dick, parlando della perfetta fusione di Melville con Poe e Hawthorne, annota: «[…] In altre opere, come Typee, Omoo e White jacket, vediamo Melville ispirarsi maggiormente alle proprie esperienze autobiografiche. Moby Dick, invece, possiede una qualità stilistica molto alta spesso paragonata al linguaggio biblico. […] Si legga quest’opera tenendo a mente la Bibbia e si vedrà come quello che potrebbe anche parere un curioso romanzo d’avventure, un poco lungo a dire il vero e un poco oscuro, si svelerà invece per un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano. Dal primo estratto di citazione «E Dio creò grandi balene» fino all’epilogo, di Giobbe «E io sono solo scampato a raccontarvela» è tutta un’atmosfera di solennità e severità da Vecchio Testamento, di orgogli umani che si rintuzzano dinanzi a Dio, di terrori naturali che sono la diretta manifestazione di Lui».

La straordinarietà dell’opera congiunge un doppio movimento: l’epopea eroica, innervata nella luce, nel buio e nella lotta contro il male e la poesia metafisica di una tensione netta e distinta, in un continuo alone e in una affermata processione di condizione.

«Melville», scrive Paolo Gulisano, «realizzò l’epica della giovane America dell’Ottocento che aveva conquistato con la forza l’indipendenza, distaccandosi dalle sue radici britanniche ed europee, lanciandosi alla conquista di nuove frontiere. È l’epica di una nazione ma anche di un tempo, l’Ottocento positivista e scientista, che vuole sfidare le leggi della natura e di Dio, che con la tecnica decide prometeicamente di scalare i cieli».

Il romanzo narra infatti le avventure marinare, predestinate e fatali, del capitano Achab, assetato di vendetta nei confronti dell’eburnea (una sensazione di morte, di vuoto, di nulla) balena Moby Dick («se il suo petto fosse stato un cannone, gli avrebbe sparato il cuore»), colpevole di avergli mozzato una gamba.

«Chiamatemi Ismaele» è il celebre incipit (come il nome nel libro della Genesi di uno dei figli di Abramo) che raffigura l’inizio di una autobiografia spirituale, l’incendio di una lotta e di un archetipo, mantenuti su un livello evidente e costante di realtà, simbolo e esperienza universale: «Ma per quale motivo io, dopo aver ripetutamente fiutato l’odore del mare in qualità di marinaio mercantile, mi fossi messo in testa di andar per balene; a questa domanda l’invisibile poliziotto delle Parche, che costantemente mi sorveglia, e segretamente mi pedina, e in modo inesplicabile m’influenza, potrà rispondere meglio di qualunque altro. E, senza dubbio, il fatto che io intraprendessi il mio viaggio a balene faceva parte di quel grandioso programma della Provvidenza che fu tracciato tanto tempo fa».

Il realismo di Melville si carica della profezia che contiene moltitudini e l’influenza biblica non si afferma solo nella scelta nominale, nelle citazioni trasparenti, ma nella forma “impura” che avvicina mondi e specchia temi sparsi: «Dove infatti, se non nella Bibbia, una coinvolgente epopea popolare viene improvvisamente raffreddata da capitoli di precettistica, una scelta di battaglia bilanciata da un trattato architettonico, una storia passionale contrapposta a elenchi genealogici, un racconto delle origini seguito da istruzioni rituali che comprendono persino la macellazione animale? Da quando l’umanità ha cominciato a scrivere non è mai apparso un testo altrettanto “impuro”, ovvero altrettanto impastato nelle vicende quotidiane degli uomini» (Paolo Pegoraro).

«C’è in ogni uomo che si eleva al di sopra della mediocrità un qualcosa che, per lo più, si percepisce d’istinto […]», scrive Melville, «Io amo tutti gli uomini che si tuffano. Qualunque pesce sa nuotare vicino alla superficie, ma ci vuole una grossa balena per scendere a ottomila metri o più, e se questa non ce la fa a toccare il fondo, beh,  tutto il piombo di Galena non basta a forgiare lo scandaglio in grado di farlo. Sto parlando dell’intero corpo dei “palombari del pensiero” che si sono immersi nel fondo per ritornare a galla con gli occhi iniettati di sangue da che è cominciato il mondo».  

Il giovane newyorchese, annoiato dalla vita, proietta lo specchio di Melville e, nella sua risorsa vitale, è attratto, in una sorta di brivido mistico, dall’oceano misterioso e immenso: la sua acqua, purificatrice, simbolica, originaria, cosmica.

Due episodi segnano la sua partenza, da una parte l’incontro con Queequeg, giovane tatuato pagano idolatra, appartenente a una tribù di cannibali della Polinesia e il sermone di padre Mapple sul racconto biblico di Giona.

È questa doppia marcatura che segna, dilata, il pernottamento nella Locanda del Baleniere. Egli si affida a Dio e inizia a compiere una scoperta incredibile: «Quantunque egli fosse un selvaggio, e orribilmente sfregiato in faccia, pure, a gusto mio almeno, aveva nell’espressione qualcosa che non era per niente spiacevole. Non si può nascondere l’anima. Nonostante quei tatuaggi pazzeschi, mi pareva di scorgere le tracce di un cuore semplice e onesto; e negli occhi grandi e profondi, fieramente cupi e arditi, si leggeva un coraggio da sfidare mille diavoli. E oltre tutto questo, il portamento di quel pagano aveva in sé una certa dignità che neppure la sua rozzezza poteva del tutto avvilire».

Il ramponiere Queequeg desta la simpatia e l’ammirazione di Ismaele ed accende la sua prossimità, e la spiritualità che questo incontro afferma, in una vertigine di accoglienza e mistero. Entrambi si dirigono verso l’isola di Nantucket, l’ultimo avamposto di iniziazione, l’angolo naufrago e il frammento di croce. La visita di Ismaele alla cappella del baleniere, prima del viaggio, è un incendio di anima, dove «il Dio dei venti favorevoli o contrari viene per la prima volta invocato perché mandi brezze benigne. Sì, il mondo è una nave su cui si compie una traversata e non un viaggio di andata e ritorno; e il pulpito è la sua prora».

Trovano imbarco sulla baleniera Pequod, popolata di gente di ogni sorta, tra cui Starbuck, primo ufficiale, concreto uomo prudente e antitesi di Achab, descritto come una sorta di antico cavaliere, Stubb, uomo tranquillo e allegro e Flask, il tozzo uomo di bordo.

Capitano della nave è Achab, Vecchio Tuono, come il nome nel primo Libro dei Re: «Sembrava un uomo strappato al rogo quando il fuoco gli abbia già trascorso e devastato le membra senza distruggerle né portar via nemmeno un briciolo della loro compatta e annosa robustezza. Tutta la sua alta e vasta figura sembrava fatta di solido bronzo, e forgiata in uno stampo inalterabile, come il Perseo fuso dal Cellini».

Quell’uomo è marchiato nella sua cabina, eroso dall’odio per la Balena Bianca, con la sua mutilazione, figlia di un destino avverso e di un rimpianto. Vuole schiacciare quel mostro, vendicarsi, ucciderlo. La sua cicatrice è il volto infernale della balena, il gemito di una lotta primaria con gli elementi, la furia che gela l’esistenza: «Ciò che ho osato, l’ho voluto; e ciò che ho voluto, lo farò! Mi credono pazzo… Starbuck per esempio; ma io sono un ossesso, sono la pazzia impazzita! Quella pazzia furiosa che è calma solo per comprendere se stessa! La profezia diceva che sarei stato smembrato e io… sì! Io ho perduto questa gamba. Faccio la profezia, ora, di smembrare chi mi ha smembrato. Siamo, dunque, ora, profeta ed esecutore la stessa persona. Questo vuol dire essere più di quanto voi, grandi dèi, siate stati mai. Vi derido e vi urlo dietro. […] La strada del mio fermo proposito è percorsa da rotaie di ferro, per andar sulle quali è scanalata l’anima mia. Su precipizi senza fondo, attraverso il cuore rigato delle montagne, sotto i letti dei torrenti io mi precipito infallibile! Niente è d’ostacolo, niente piega questa strada di ferro».

Scrive Ferdinando Castelli: «Achab è il prototipo tragico che richiama alla memoria prometeo della letteratura classica e romantica; ricorda anche il Capaneo del XIV canto dell’Inferno dantesco: pur sotto il martirio del fuoco, sembra sfidare la potenza divina».

Se, come commenta Paolo Gulisano: «Achab presenta tutte le caratteristiche peculiari dell’eroe tragico; faustianamente egli trascende la propria condizione deciso a perseguire il suo scopo fino all’estremo, condannando se stesso e i suoi marinai all’annichilimento della ragione e della morte», la sua è una lotta di demoni, dove l’accanimento si specchia nel corpo straziato e nell’anima ferita e persino nell’incuria, dove il viaggio persegue la sua specola di tappa e il suo dramma.

Guidato da Achab, il Pequod si inoltrerà nella vastità dei mari, ad oriente, doppiando Capo di Buona Speranza, giungendo nell’Oceano Indiano percorrerà il mare di Giava, fino all’isola di Borneo e nelle Filippine e toccherà l’Oceano Pacifico: «Questo Pacifico misterioso e divino cinge tutta la massa del mondo: fa di tutte le coste una sua baia; sembra il cuore della terra pulsante di maree. Sollevati da quegli ondeggiamenti eterni, vi è giocoforza riconoscere il seducente iddio, e chinare il capo dinanzi a Pan».

Poco dopo la baleniera punta a sud e raggiunge l’Equatore. Qui Achab è convinto che si trovi la Balena Bianca, il mostro che lo ha reso «balordo e incavigliato» e che ha dato origine alla sua cerca, all’opposizione verso un tempo sconosciuto e reale che si accanisce.

Vuole possedere quella creatura che, come scrive Pavese, «assomma in sé la quintessenza misteriosa dell’orrore e del male dell’universo».

La tensione verso questa ombra sfuggente, calante e inseparabile, tocca l’imperscrutabilità di un odio: «Quella cosa imperscrutabile è l’oggetto primo del mio odio; la balena bianca può esserne l’agente, la balena bianca può esserne il mandante: io quest’odio lo sfogherò su di lei. Non parlarmi di empietà amico: colpirei il sole, se mi offendesse. Perché se il sole fosse capace di questo, io dovrei essere capace di quello; c’è sempre una certa lealtà nel giuoco, poiché la rivalità presiede a tutte le cose create. Ma nemmeno quel giuoco leale, amico mio, può farla da padrone con me. Chi c’è sopra di me? La verità non ha confine».

È nello scontro con qualcosa di misterioso e leviatanico, forse ubiquo e immortale, che ha origine la sua sfida senza tempo, in una vigilia di vita insonne.

Alla vigilia dell’ultimo combattimento, il capitano Achab sale in coperta e si affaccia sul mare, accanto a lui c’è Starbuck: «Oh, Starbuck, è un vento dolce, e un cielo dall’aspetto dolcissimo. In un giorno simile, di altrettanta dolcezza, ho colpito la mia prima balena: ramponiere a diciott’anni! Quaranta, quaranta, quaranta anni fa! Quarant’anni di caccia continua. Quarant’anni di privazioni e di pericoli e di tempeste! Quarant’anni sul mare spietato! Per quarant’anni Achab ha abbandonato la terra tranquilla, per quarant’anni ha combattuto sugli orrori dell’abisso! Proprio così Starbuck; di questi quarant’anni non ne ho passati a terra tre. Quando penso a questa vita che ho fatto, alla desolazione di solitudine che è stata, all’isolamento da città murata di un capitano, che non ammette che ben poche delle simpatie della verde campagna esterna… quando penso a tutto questo, sinora soltanto sospettato, non mai veduto così chiaro, e come per quarant’anni non ho mangiato che cibo secco salato, giusto emblema dell’asciutto nutrimento della mia anima! Mentre il più povero uomo di terra ha avuto frutta fresca quotidiana e ha spezzato il pane fresco del mondo, invece delle mie croste muffose… lontano, lontano oceani interi da quella mia moglie bambina che ho sposato dopo i cinquanta, mettendo la vela il giorno dopo al Capo Horn e non lasciando nel cuscino nuziale che un’ infossatura… Moglie? Moglie? Vedova piuttosto, col marito ancor vivo. Sì, quando ho sposato quella povera ragazza io l’ho resa vedova, Starbuck. E poi, la pazzia, il delirio,l il sangue in fiamme e la fronte bollente, con cui in migliaia di discese il vecchio Achab ha dato la caccia furiosa, schiumosa, alla preda, da demonio più che da uomo.. Mi sento stracco a morte, piegato ricurvo come fossi Adamo, barcollante dal tempo del Paradiso sotto il cumulo dei secoli. Stammi accanto, Starbuck; fammi guardare un occhio umano; è meglio che guardare nel mare o nel cielo; è meglio che guardare in Dio».

Paolo Gulisano afferma che «Il mito di Moby Dick ci parla anche del problema del dolore: il male oscuro che tormenta Achab, il dolore acuto del capitano Gardiner, che incrocia il Pequod, e che ha il proprio figlio disperso in mare, un dolore al quale il sofferente Achab rimane totalmente indifferente, troppo preso dal proprio inseguimento della Balena Bianca per perdere tempo ad aiutare chi ha bisogno. […] Achab è l’icon dell’uomo della modernità, deluso dall’arroganza dell’antropocentrismo da un lato e disilluso nei confronti di Dio».

Ecco l’uomo abbandonato alla fioca esilità della miseria e alla nostalgia esiliata, tremenda di luce e felicità, come un re ferito e mutilato che scrive la sua mappa afflitta. E allora Starbuck tenta di distoglierlo e lo invita a ritornare a Nantucket e ai suoi dolci colori azzurri: «Che cosa è mai, quella cosa senza nome, imperscrutabile e ultraterrena è mai; quale signore e padrone nascosto e ingannatore, quale tiranno spietato mi comanda, perché contro tutti gli affetti e i desideri umani, io debba continuare a sospingere, ad agitarmi, a menare gomitate senza posa, accingendomi temerario a ciò che nel mio cuore vero, naturale, non ho mai osato nemmeno di osare? È Achab, Achab? Sono io, Signore, che sollevo questo braccio, o chi è? Ma se il sole immenso non si muove da sé, e non è che un fattorino del cielo; se nemmeno una stella può ruotare se non per un potere invisibile, come può dunque questo piccolo cuore battere, e questo piccolo cervello pensare, se non è Dio che dà quel battito, che pensa quei pensieri, che vive quella vita,e  non io?». Così Achab è di fonte al suo esodo di solitudine, davanti al mare e al dramma della sua libertà che sfida un dio minore, un diavolo bianco che fa vittime e corrode il destino.

Il dramma inizia ad avere compimento. La baleniera, dopo ripetuti contatti, si perde nell’abisso assieme a tutto l’equipaggio e Achab lancia il suo ultimo e spaventoso grido: «Io volterò la schiena al sole. […] mi è tolto anche l’ultimo caro orgoglio del più meschino capitano naufrago? Oh, una morte solitaria dopo una vita solitaria! Ora sento che la mia maggiore grandezza sta nel mio maggior dolore. Olà, olà!. Dai più lontani confini rovesciatevi ora quaggiù, flutti audaci di tutta la mia vita trascorsa, e ammucchiatevi in questo grande cavallone della mia morte! A te vengo, balena che tutto distruggi ma non vinci, fino all’ultimo lotto con te; dal cuore dell’inferno ti trafiggo; in nome dell’odio, vomito a te l’ultimo mio respiro».

Il suo ultimo arpione come il suo ultimo respiro trascinato. Si salva solo Ismaele, aggrappato alla bara che Queequeg aveva costruito per il suo corpo. Verrà raccolto da un veliero, la “Rachele” che raccoglie orfani e salva dal naufragio.

L’uomo di Melville è in bilico su un disastro. Incalzato, spintonato dai mari dell’essere e della vita, afflitto dalle sue lotte, piene di lampi, contro miserie, tradimenti e lacerazioni.

Scrive un libro malvagio e si sente immacolato come un agnello, come egli stesso afferma in una lettera del 1851, sosta nell’ombra per dipanare una luce fioca, confusa e predestinata, quasi di esclusione.

Nell’esclusione e nella ribellione, la carità suprema attracca nel suo porto celeste e immolato, un disegno che accetta, un’ombra che si muove.

 

 

Melville H., Moby Dick, Rizzoli BUR, Milano 2012.

Id., Opere scelte, Mondadori, Milano 1972-1975.

Id., Viaggi e balene. Scritti inediti, Clichy, Firenze 2013.  

Amoruso V., Alla ricerca di Ismaele. La narrativa di Herman Melville, Graphis, Bari 2005.

Bacigalupo M. (a cura di), Rotte di lettura intorno a «Moby Dick», Marietti, Genova 1992.

Baird J., Ishmael, Harper, New York 1960.

Bianchi R.., Invito alla lettura di Melville, Mursia, Milano 1997.

Castelli F., Herman Melville: «Moby Dick», in «La Civiltà Cattolica», IV, 2012.

Gulisano P., Fino all’abisso. Il mito moderno di Moby Dick, àncora, Milano 2013.

Storia letteraria degli Stati Uniti, vol.2, il Saggiatore, Milano 1963.

Pavese C., La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi 1951.

Pegoraro P., Moby Dick ovvero l’importanza della forma, «www.zenit.org», 5 aprile 2011.

Weaver R.M., Herman Melville: Mariner and Mystic, Doran, New York 1921.

 

Il viaggio inciso di Charles Wright

di Andrea Galgano                                         5 febbraio 2014

poesia contemporanea Il viaggio inciso di Charles Wright

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La poesia di Charles Wright (1935), è una immersione nell’esperienza totale. Nato nel Tennessee, dopo aver studiato nell’Iowa e insegnato nella California, oggi insegna a Charlottesville, in Virginia. Vincitore di premi prestigiosi, come il Ruth Lily Poetry Prize o nel 1998 del Premio Pulitzer per la poesia nel 1998, è anche noto traduttore di Montale e Campana e inseguitore dei crocevia danteschi.

Nella visionarietà torrenziale ed ulteriore si trova la traccia potente e dolce del suo slargo, in cui alla solida poesia statunitense di Whitman, Dickinson, Wallace Stevens o Pound, si accompagna una sua peculiare intensità epifanica, fradicia di talento e immagine: «le nostre preghiere – come vestiti, come scaglie di cenere – che prendono il volo senza di noi / in un sempiterno, / che continua senza di noi, / azzurro dentro azzurro dentro azzurro – / le nostre preghiere, come schegge di vetro esauste d’acqua, / vorticanti nella risacca, levigate e indistruttibili e lucenti, / le nostre vite un graffio nel cielo, indolori, impossibili da rievocare» (Vita negativa).

Commenta padre Antonio Spadaro: «Poeta di epifania spirituale, Wright è poeta legato, sia per immagini sia per atteggiamenti interiori, ai paesaggi rurali o comunque connessi alla natura selvaggia. Sembra così accostare implicitamente le foreste indiane alla selva oscura dantesca con echi e rimandi di grande intensità alla ricerca di una via».

La via aurale e concepita scommette invocazioni, apre schemi essenziali come scrittoi stellati e insolubili: «Inizio di novembre nell’anima, / Pioggia forte e oro scuro / dagli alberi, luce obliqua / del pomeriggio inoltrato e greve peso sul cuore. / Come sempre svigorito e spento. / Sessantaduenne, voce incolta, incline alla notte, / sono in piedi e tranquillo sul vialetto vuoto. / Sblocca il mio habitat, luce stellare, fammi insolubile».

La contemplazione del divino scardina nuove sorprese, in cui l’architettura intensa e perfetta dei versi forgia le sue forme in una coincidenza ultima, in una estremità di viaggio peregrino, teso alla redenzione, come un diagramma che si estende fino all’anima: «E qui, dove il cigno mugola nel suo incavo, dove la sanguinaria / e la belladonna insistono a confortarci […] come una goccia di limpido olio il Guaritore ruota nel vento della notte».

Pertanto già nei suoi primi testi, come Bloodlines (1975) e China Trace (1977), come afferma Antonella Francini, «si trovano già definiti gli inconfondibili tratti della sua scrittura dal taglio fortemente autobiografico (aneddotico, appunto), affidata ad una lingua icastica, netta, che sembra incidere la pagina. Vi si trovano già la struttura del viaggio, la figura di un alter ego in cammino verso un’elusiva e improbabile spiritualità, cosciente dei propri limiti conoscitivi; il tema dei morti chiamati in causa come ispirazione e monito per chi vive, metafora estrema dell’inconoscibile, presenza eterna nella continua rigenerazione del mondo di cui tutta la poesia di Wright è un altissimo canto; la percezione di un io inquieto che continua a interrogarsi sul suo viaggiare («E dove ci porta, pellegrino, / questo andare avanti e indietro sulla terra, sapendo / che niente cambia, o tutto; / e, per raccontarlo,  solo questi tristi segni, / frasi analizzate a metà, ellissi e fregi sul terreno?»); il ruolo fondamentale del paesaggio che freme di invisibili presenze metafisiche epifanie; la struttura geometrica, infine, a chiudere il tutto».

I suoi lampi di memoria costeggiano la dimensione terrena, inseguendo redenzioni e impronte salve, rigenerando la superficie del mondo, in una geometrica compiutezza che richiama patrie e risurrezioni («Se noi, come siamo, siamo polvere, e la polvere, com’è certo, risorge» o ancora «allora risorgeremo, e ci raduneremo / nel vento, nella nuvola, e saremo il loro effluvio, / una cascata di cose nella cascata del mondo, e scivoleremo / fra i rami puntuti e le giunture schiantate dei sempreverdi»): «Le foglie mi cadono dalle dita. / Fiori di mais si spargono sui campi come stelle, / come stelle di fumo, / presso i binari del treno, le foglie turbinano / sotto le nuvole lente / e i nove gradini ai cieli, / la luce cade a grandi lenzuoli fra gli alberi, / lenzuoli quasi veri. / Penso che la trasfigurazione comincerà così, / fiato mozzato, / lama veloce tra gli alberi, / qualcosa di rosso che mi cade dalle mani, / l’aria che si raffredda … / E allora / uscirò da questo corpo stanco, un nodo sanguigno di luce, / pronto ad accogliere in me il buio. / – O per l’arrivo del vento / che, osso dopo osso, mi trasporterà per il cielo, / la sua ostia un’ustione sulla mia lingua, / il suo vino oblio profondo».

Le presenze invisibili abitano il presente nel loro sipario mitico, il ricordo effonde il suo richiamo di spazi fragili e potenti, si assiste, persino, all’interrogazione sul destino ultimo dei cieli, alla popolosa partecipazione dell’essere («Che c’entri tu, anima mia, col Paradiso?») e alla domanda di folgore che incanta e poi scompare, per scrivere poesia «su Dio o sull’uomo – e credo che esistano poche altre categorie – il solco da lui tracciato ci precede. Non ci resta altro che seguirlo».

«Wright», ha scritto sul “Corriere della Sera”, Sergio Perosa il 19 luglio 2001, «gioca superbamente con ciò che resta e non resta, ci elude e ci afferra, ci incanta e scompare; è un metafisico del cuore e del quotidiano, con voce cristallina»: «Lentamente una foglia si sgancia da un ramo. / Lentamente le mani velate dei morti svolazzano dai loro antri. / Una fiammella rosata è estinta nella mia bocca».

L’ombra che si staglia e affossa ritardi, pregna di immagini care, estremità correlata, nascosta realtà trascendente che sistema le presenze e le assenze in un messaggio partecipe e invisibile. Non si allontana mai dal vissuto la sua frequentazione di dolore e gioia, come una persistente iconografica che disegna viaggi nel mondo, raggiunge l’indaco sidereo delle costellazioni, si dissolve nelle tappe dell’io proteso all’infinito: «Come sempre il silenzio avrà l’ultima parola, / e Venezia s’adagerà come seta / sul bordo del mare e del cielo notturno, / albeggiante di luna. / Si vive tutti la stessa vita / se si vive abbastanza».

Ma c’è sempre un andirivieni di alterità non toccate, nei lividi verdi, nelle promesse alle finestre, nelle sopravvivenze ripetute per sempre: «Ho parlato d’una una cosa sola per trent’anni, / l’ho detta e ripetuta, / vento come grossi pali fra gli alberi – / voglio dire il piccolo punto immobile nel punto dove tutte le cose si incontrano; / voglio dire la forma che muove il  sole e le altre stelle».

Nelle sue trilogie, il passo del tempo è una sfaldatura di suono, una scatola che contiene punti nascosti ed emersi che percorre la volta delle cose in una viva e sperata estremità: «L’Orsa Maggiore mi ha seguito ogni giorno della mia vita. / Sotto le sue stelle di latta ilo mio passato è arrivato e partito. / Stanotte, nello smalto d’aprile / e negli intagli eburnei del cielo, / mi benedice ancora una volta / con la sua acqua nera, e mi spinge avanti».

Venezia, Verona, il Tennessee o gli Appalachi impongono percorse immersioni attonite, dialogo serrato con i trapassi, respinti dai limiti, ma uniscono distanze reali e ideali «verso un’agognata quanto elusiva epifania spirituale dell’autobiografico protagonista e narratore che instancabilmente rivisita i luoghi che sente legati a intense emozioni e rivelazioni, e pertanto, a lui “sacri”».

Il paesaggio, la lingua, l’idea del divino coordinano il suo azzardo imprevedibile, la frontiera delle cose perdute e ritrovate, come le pietre nere e rare degli episodi, della mitologia e dei segreti.

Il paesaggio, «risurrezione della parola», raccoglie il ciclo delle stagioni, il vetro segreto degli anni, le rive altre dei fiumi che amano giocare nelle foglie quando il crepuscolo raggruma di ombre l’aria e l’argenteo alfabeto del mare: «è di legami che sto parlando, / di armonie e strutture / e di tutte le cose che serrano i nostri polsi al passato. / Qualcosa d’infinito appare oltre ogni cosa, / e poi scompare. / è solo questione di come / si restringono le superfici. / è solo questione del nostro posto nel cielo».

La natura si accende, proclama i suoi chiarori lunari, tinteggia i meriggi e scoperchia le notti assorte, per raggiungere il remoto avamposto dell’io, immerso in un lembo remoto: «Immagino sempre una bocca / dentro di me che comincia a aprire / le sue labbra blu, un braccio / che s’incurva triste su una finestra aperta / la sera, e rospi che balzano nell’erba umida. / Di nuovo il silenzio dei fiori. / Di nuovo le flebili note di musica di piano là nei boschi / Come riempie facilmente la stanza l’estate».

La comparsa e disparizione delle cose non concedono un terrificante progetto di nulla, ma conoscono il chiaroscuro delle autobiografie, in cui il paesaggio non è cornice, ma bagliore innamorato, solco di vento, segno di lingua addosso che si appropria di blues, contry, jazz e gospel: «Tutto è più essenziale nella luce del nord, cavalli / distesi sul prato secco, / nuvole in fila come carri di pionieri / sul bordo sinistro dell’orizzonte, / forbici di rondini si tuffano ad angelo, / bip d’api e cantilena di mosche, Dio con l’orecchio buono / al suolo. / Tutto è più intenso, il vento / ristagna quasi invisibile tra i larici, / linfa dorata sull’ombrello del pino, / un mosaico bizantino / dentro la cupola del giorno, / caratteri cuneiformi sfumati sul fondo della foresta. / Tutto sembra immediato, / come schegge del divino / d’improvviso screziate sulla punta delle nostre dita, / conoscenza proibita dell’oltre ciò che possiamo appena / decifrare, / fili d’erba inclini ad abbagliare e piegarsi, / acque mnemoniche, picchi, uccelli del crepuscolo».

La caccia e l’inseguimento a Dio che compie Charles Wright è un abbaglio scomparso che ogni volta, prepotentemente, torna a galla per accarezzare il limite e attendere trasmutazioni «dalla prospettiva di un monaco nella sua cella»: «Cammino nel freddo della notte d’autunno pieno / come Orfeo, / pensando il mio canto, ansioso di voltarmi, / la mia vita svanita un ornamento, una / nuvola alla deriva dietro di me, / dolce trascendenza di cenere / sepolta e risorta una volta, e poi ancora / e ancora …».

Antonella Francini scrive che: « […] Il paesaggio e la lingua sono il negativo del trascendente, come il passato lo è del presente. La poesia metafisica di Wright lavora nello scarto minimo tra il visibile e il buio, in una zona di crepuscolo che prelude all’inevitabile sconfitta della luce e del poeta affinchè un nuovo viaggio inizi e la mappa dell’anima continui ad estendersi entro le sue geometriche strutture come, secondo un’immagine cara a Wright, una ragnatela sempre più ampia concentrica alla sua origine»: «Sotto i peschi, gli ideogrammi che le foglie gettano / sull’erba acconciata dal sole dicono / purgatio, illuminatio, contemplatio, / parole còlte in una luce dolce e duratura, / al contrario di quella dove conducono, / la cui vista ci fa colare a picco e incolti come campi abbandonati».

Il suono scrive e cerca la sua redenzione, come quando risuona il fiume «E siamo ancora qui fuori immobili a guardare lassù, a guardare lassù i cieli pensando» (Sky Diving). Il paesaggio è lì, tramato nelle percezioni memoriali, negli sconquassi dei fatti minimi, nei confini di vetro istoriato che affresca il suo tempo mitico, in una traccia visibile che sfiora l’invisibile tempo «nel punto in cui tutte le cose s’incontrano»: «La raffica di pioggia si è bloccata di schianto, / ciondolano seducenti le fronde della palma. / La vita, come si dice, è bella».

L’estensione dell’io, come la sua contrazione e la sua sfrangiatura, accerchia la sua domanda elementare, spinta verso l’alto e indomita nei suoi chiari abissi di vertice ascendente: «Cosa c’è per noi d’imperturbabile nelle stelle? / Quale impulso, quale bassa marea / ci attrae lassù come vertigine / quale / inversione di quota ci spinge verso i loro abissi chiari? […] Chi dirà che il respiro d’un angelo non m’ha sfiorato l’orecchio?».

La sua «dolce trascendenza di cenere» ammanta i suoi punti inafferrabili ma toccabili, come ricami in filigrana, sospesi tra le stelle e i loro vortici. Il tempo è inviolato, la coltre è una luce accesa: «C’è un’ultima solitudine dove non sono ancora giunto, / la stanchezza come polvere in gola. / Ma fremo dentro il suo contorno, / e mi sento al sicuro, mentre le stelle traboccano, per una notte ancora / come un viandante medievale affrescato con in mano il suo poema, / intorno sempre i cieli. / E come lui, qualcosa di rosso e inviolato sotto i miei piedi».

 

Wright C., Crepuscolo americano e altre poesie (1980-2000), Jaca Book, Milano 2001.

Id., Breve storia dell’ombra, Crocetti, Milano 2006.

Spadaro A., Nuova poesia degli Stati Uniti, in «La Civiltà Cattolica», II, 3767, 2007, ora in Id., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013. 

La lancia di Frank O’Hara

di Andrea Galgano                                         16 gennaio 2014

poesia contemporanea La lancia di Frank O’Hara

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Frank O’Hara (1926-1966) ha scritto la sostanzialità della concretezza, l’emergenza sorgiva, la finitudine di una parola-scoppio come una nervosa grazia che irrompe scoperchiata.

Incontrato in un party nel Village, Marisa Bulgheroni così lo ricorda:

 

«[…] stava tra gli altri, pittori, poeti, musicisti, gente di teatro, i protagonisti della Scuola di New York, come un re in incognito, arrivato lì per caso, la polvere del viaggio sulla giacca stinta a righe bianche e celesti, gli occhi irrequieti azzurrovioletti, tagliati in una materia mobile come vento o come neve, intensamente presente benché forse sul punto di andarsene, un perfetto abitante della vorticosa Manhattan delle sue poesie. Già allora la sua grazia nervosa, la sua volontà di vivere e scrivere in un unico gesto, di rendere durevole il precario, di trasmettere alla parola l’istantanea del passo e del respiro avevano per i più giovani la forza di un contagio e la sua stessa vita, scoperchiata, giocata con grandiosità, «tenuta insieme precariamente nella mano veggente di altri», la sua omosessualità, la sua abissale trasparenza di uomo che si riconosce molteplice erano leggenda ancor prima che morisse, nel luglio ’66, in seguito a un incidente simile a uno spettacolare appuntamento. Il suo sand buggy – costruito per corse veloci sulla spiaggia – saltò in aria su una duna di Fire Island, la storica isola, piatta come una lingua di sabbia appena affiorante dall’oceano, dove Thoreau, nel 1850, andò a cercare i relitti del naufragio in cui era perita Margaret Fuller».

Ma se la poesia di O’Hara «non è fatta di strumenti / che funzionano a volte / poi ti lasciano / ridono di te vecchio / si ubriacano di te giovane / la poesia è parte di te», vero è quel che ha scritto Donald Allen, usando la parola record, come registrazione che rifiuta l’aspetto combinatorio del gesto poetico e si attesta alla diretta espressione dell’energia vitale.

È la registrazione dell’esperienza vitale soggiace ad ogni suggestione, movimento, denso incontro.

Nel suo manifesto, Personism, O’Hara giunge a far crollare ogni confine tra la vita e l’arte: «la poesia non è tra due pagine, ma tra due persone».

Questo incrocio di incontri è il nemico dell’astrazione e si incide in una magmatica apertura di suggestione ed emozione: «L’astrazione (in poesia, non in pittura) comporta la rimozione della persona del poeta. […]. Il Personismo, un movimento che ho fondato recentemente e che nessuno conosce, mi interessa molto perché è completamente opposto a questo tipo di rimozione astratta».

L’attestazione pittorico-musicale e la poesia come atto creativo nascono da una lotta furiosa che risale a Pollock, de Kooning fino al realismo immaginario, si richiama a Picasso e i suoi collages, risale ai simbolisti francesi, si appropria di Apollinaire e come scrive acutamente John Ashbery: «[…] parole e colori che potevano essere presi liberamente a prestito qua e là per costruire grandi strutture ariose, mai viste fino ad allora nella poesia americana e in genere in tutta la poesia, più simili alle circonvoluzioni erranti di una mente aperta fino al punto della distrazione. Ne scaturiva una libertà di espressione poetica che era davvero praticabile e che, insieme ad altri tentativi analoghi sul versante tecnico (Charles Olson) e psicologico (Allen Ginsberg), spianava la strada a tutta una generazione di poeti più giovani».

In un articolo apparso su «Poesia» del dicembre 1997, intitolato Frank O’Hara e la poesia dell’emergenza, Roberto Ferdani scrive che «La poesia, in O’Hara, accade, come accade la vita; nasce da (e richiede) un atteggiamento essenzialmente emozionale, destrutturato, immediato; è ciò che fluisce dall’essere quando la logica – luogo di separazione, di finitudine e di temporalità – si arresta e arrestandosi permette lo scorrere inarrestabile del movimento dell’essere fattosi parola. Per lui l’azione poetica non avviene attraverso un atto intellettuale bensì attraverso un’apertura emotiva. […] Frank O’Hara ha composto, attraverso il dire poetico, il suo “diario intimo”. […] Motore e forza unificante della poesia di O’Hara è dunque quell’io che si fa centro di irradiazione e luogo nel quale il fenomenico viene non solo percepito ma ricreato. Di più, l’io multiforme e onnivoro di O’Hara crea se stesso attraverso il contatto con il mondo; si fa cioè luogo di rifrazione del mondo; si dà, keatsianamente, forma».

Ed ecco che l’immersione nella città, con le sue creatività caotiche, impara a cacciare la preda invisibile del tempo, l’immagine che implora e sfugge, il cosmo che si trasforma e l’incontro che mette a nudo.

La poesia di O’Hara non ama l’intellettualismo cieco perché, in esso, non trova la linfa e la sorgente. Il  magma poetico ha bisogno di scivolare come aggredito, di amalgamare suggestioni, depositarsi nel fondo dell’essere.

Pur non trovando né stabilità né protezione, sperimenta la leggerezza di un’emergenza, come scrive ancora Marisa Bulgheroni: «La metropoli è per lui un cosmo compiuto, contenente quanto occorre per sentirsi vivi, il verde sufficiente, vette e gole montane e marine, luce e uomini in movimento: tocca al poeta riscoprirla come natura, vedere nella sua eterogeneità, nella sua discontinua corporeità, un modello di linguaggio alternativo rispetto a quello della tradizione letteraria. Da un lato l’io poetico si nega e si dissolve nel caos dell’esperienza urbana, produttrice di sempre nuovi automatismi fisici e mentali e quindi di inedite associazioni di immagini, di inattese identificazioni con gli oggetti che affollano simultaneamente il campo visivo; dall’altro si rappresenta come punto di riferimento, nucleo di energia psichica, protagonista e possente cronista della velocità di cui partecipa».

L’avvenimento della sua poesia si appropria di un linguaggio che si afferma nei ritmi biologici, come rapidità sollecita e cenno di vertigini e abbandoni. La sua geografia, che attraversa New York quasi sbandando, è la memoria del desiderio che si poggia, gocciolando, sulle cose.

Nessun oggetto finito né un confine accertato, ma una traccia in divenire rapida e riprodotta che si fa colloquio e riferimento, come scrive Nicola D’Ugo: «La poesia di Frank O’Hara costituisce un fenomeno raro e prezioso. Il suo modo di scrivere è colloquiale. La sua sapienza sta nel rendere tale colloquialità priva di scosse retoriche, con andanti minimali e accostamenti di immagini che anziché esaltare l’io poetante riducono qualsiasi argomento socialmente ammaliante ad una dimensione svuotata della sua appetibilità. L’io poetante non si fa voce privilegiata della società, ma uomo, e quest’uomo che ne vien fuori, con le sue debolezze e la sua minuta dignità, è ancora più amabile degli smaglianti contesti sociali cui ha un accesso privilegiato: siano essi di cultura elitaria o d’entourage economico. O’Hara accosta la cultura di massa alla tradizione ‘alta’, alla quale fa sparsi ma puntuali riferimenti, non tanto per sminuirla, ma per mettere in luce che tutta la sua cultura mitica la si ritrova più compiutamente nell’incontro con l’uomo comune e non per questo meno affascinante, come nella celeberrima Prendere una coca-cola con te»: «Non starò sempre a piagnucolare / né riderò tutto il tempo, / non mi piace un “motivo più dell’altro. / Avrei l’istantanea di pessimi film, / non solo di quelli barbosi, ma anche del genere / di prima classe delle megaproduzioni. Voglio esser / vivo quantomeno come il volgo. E se qualcuno / appassionato alla mia vita incasinata dice: “Non è roba / da Frank!”, tanto meglio! Io / non mi metto sempre abiti grigi e marroni, / o sbaglio? No. Per l’Opera indosso camicioni da lavoro, / spesso. Avere i piedi scalzi voglio, / voglio un viso ben rasato, e il mio cuore … / non puoi programmare il cuore, ma la sua parte migliore, la mia poesia, è allo scoperto».

La polisemia dei significati non si apparta con l’io, egli si gioca la vita e l’anima scrivendo, («Quanto è successo ed è qui, un / foglio sfregato contro il cuore / e troppo fresco ancora per la cornice»), spende il lauto pasto dell’esperienza, con la cromatura delle note e dei passaggi instaura rapporti duraturi ed estremi, dove la gioia e il dolore, il pranzo e lo sgomento, toccano gli anelli della vita con trasparenza, fruizione temporale, spazi bianchi di cosmo.

La germinazione dei luoghi non viene corretta da regole e imposizioni, bensì è l’incontro aperto e crudo a divenire istinto di vita che si apre («Sono una casa piena di finestre»), come un «luogo vuoto continuamente sostituito da segni, presenze, abitanti imprevedibili» (R.Ferdani).

Nei Lunch Poems (1964), il poeta della città si immerge in New York, con il suo tocco di attrazione e repulsione, e vive il suo slancio di nervi e sangue.

Il rapimento sensuale è un approdo di latitudini, perché «Mangiare e amare, andare a pranzo e andare a letto vivono in questa poesia come i termini della stessa equazione. Amare è sentire il richiamo del pranzo; pranzare è sentire il richiamo dell’amore» (Paolo Fabrizio Iacuzzi).

Il poeta lotta con le sue parole, l’io che mangia se stesso, si separa e si riunifica (Per il capodanno cinese), rumina il torpore della sua infanzia e adolescenza, immerge il suo atto creativo nel reale: «I Lunch poems non sono soltanto il diario dell’io, ma della memoria dei pasti nel corpo, come avviene nel Diario di Pontormo» (P.F. Iacuzzi).

L’attraversamento teatrale diviene epica del quotidiano, ritorno al punto primigenio dell’infanzia orfana e abbandonata (Allen Ginsberg dirà il suo canto a Frank: «Spero tu abbia saziato il tuo amore per l’infanzia / la tua fantasia per la pubertà / il tuo marinaio per punizione sulle ginocchia / la tua bocca per ciuccio»).

La lunga rapsodia della città è una natura che fa folla del suo io, sono le sue poesie-lance, e non solo poesie di pranzo, che egli scaglia nel languore e nel tremito dell’«umidità luminosa», del suono variegato, della luce dei grattacieli, della scomparsa del tempo nelle rifrazioni e movimenti, in una scrittura di terra dinamica e mordace.

La carne, il respiro di una città che vive, irrora l’io con le sue rapide impetuose e il profumo dolce e malinconico delle epifanie. «La New York di O’Hara partecipa all’infinito dinamismo della vita», scrive Roberto Ferdani, «che non è una qualità delle cose ma un flusso che le attraversa e le sospinge. New York è presa e trasformata così come la luce aggraziata è “sospinta” da un grattacielo all’altro. Questa città è una vasta mappa emozionale; è la geoscrittura di un io che scivola attraverso librerie, cinematografi, negozi ed emozioni private. Tutta la città e i suoi abitanti sono presi da un dinamismo straordinario che O’Hara rende attraverso quell’affabulazione che ha ereditato da Whitman».

Un io che non ha paura della cancellazione delicata nel desiderio, dell’incanto che nasconde dolore e perdita, come imprinting nervoso che avvolge impressioni e precisioni lievi, odori e sapori, come l’aspirazione della sua cucina.

Si consegna al poema che dipinge, all’apocalisse che si mette il vestito della festa e non teme, appunto, i vortici dei venti, la fusione delle lontananze e l’evento sensuale delle assenze rubate, degli amori buttati, delle fusioni dei turbini.

È jazz, pittura, sguardo di caffè, alito vitale, la sua cosmogonia che omaggia gli amici (Pollock, Billie Holiday) e consegna la sua realtà vitale delle sue metafore, l’impulso grafico della sintassi, la percezione che si fa carico dell’esistenza, non per annullarsi ma per dire “io” davanti alle estremità della vita, alle profondità del cibo, alle mancanze, come «un bacio. Sensuale, misterioso, allegro, divertente e alcolico. Molto alcolico» (Allen Ginsberg).

 

O’hara F., The Collected Poems of Frank O’Hara, a cura di Donald Allen, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1995.

Id., Lunch poems, Mondadori, Milano 1998.

Id., Jackson Pollock, Abscondita, Milano 2013.  

Bulgheroni M., Chiamatemi Ismaele, Il Saggiatore, Milano 2013.

D’Ugo N., La traduzione di poesia(http://poesia.blog.rainews.it/2011/02/22/la-traduzione-di-poesia-nicola-dugo/)

Ferguson R., In Memory of My Feelings: Frank O’Hara and American Art, University of California Press, Los Angeles 1999.

LeSueur J., Digressions on Some Poems by Frank O’Hara, Farrar, Straus and Giroux, New York 2003.

Shaw L., Frank O’Hara: The Poetics of Coterie, University of Iowa Press, Iowa City 2006.

Smith H., Hyperscapes in the Poetry of Frank O’Hara: Difference, Homosexuality, Topography, Liverpool University Press, Liverpool, 2000.

Le vele di Billy Collins

di Andrea Galgano                                         8 gennaio 2014

poesia contemporanea Le vele di Billy Collins

billy collins

La tensione poetica di Billy Collins (1941), poeta laureato del Congresso degli Stati Uniti nei primi anni 2000, si dispiega in una concretezza visiva che impone altezze d’anima, sollecita slanci e agilità, impone tensioni.

Quando scrisse che scrivere versi è fare «sci d’acqua / sulla superficie di una poesia», come afferma in Introduction to Poetry, egli si attesta sul bordo ruvido e sullo sfioramento agile delle pagine, ma la scrittura è anche «la cartolina illustrata, una poesia sulla vacanza, / che ci costringe a cantare le nostre canzoni in piccole stanze, / o a pesare i nostri sentimenti col bilancino. / Scriviamo sul retro di laghi o cascate, / e aggiungiamo al paesaggio una didascalia convenzionale» (American Sonnet).

Commenta padre Antonio Spadaro:

 «L’occasione per far poesia non è mai in sé elevata né epica. La poesia scaturisce dalla vita ordinaria, dal mondo dischiuso da un dettaglio accolto senza enfasi e retoriche. Qualunque cosa sia – scrive in American Poetrydeve avere / uno stomaco capace di digerire / gomma, carbone, uranio, lune, poesie. Vale per lui l’immagine del granello di sabbia nel quale è possibile, secondo il celebre verso di William Blake, vedere un intero mondo. Si scrive sul retro della realtà, come se si scrivesse su una cartolina. Questo è ciò che ci sembra più tipico della sua poesia: essa parte da un dato concreto, semplice, ordinario, spotless, cioè candido, senza macchia, per aprire questo dato alla ricchezza dell’immaginazione».

La tensione dello sguardo non si ammaina a favore di una semplicistica immersione conoscitiva, bensì sfuma e si bagna nell’ordinario, in cui veleggiare (sailing), come dinanzi a «vaso di peonie / e accanto un  binocolo nero e un fermaglio per i soldi / proprio il tipo di cose che oggi preferiamo, / oggetti che si dispongono quieti su un verso con lettere minuscole».

A vela in solitaria intorno alla stanza (2013) rappresenta il viaggio che diventa, come scrive Franco Nasi, «l’esplorazione di un mondo qualunque, fatto di cose senza importanza, durante il quale il protagonista, un professore universitario di Letteratura, bianco, anglosassone, di formazione cattolica, di origine irlandese, sornionamente seduto nella sua barca a vela, annota gli oggetti del suo soggiorno o trascrive i sogni a occhi aperti che gli capita di fare sfogliando un’enciclopedia. Un diario di bordo redatto in una casetta tranquilla di una periferia borghese, a un’ora di treno da New York».

Gli appunti di Collins, pertanto, inseguono la linea e lo slargo di una nominazione appuntita, in cui la prospettiva trasforma la coltre ordinaria degli oggetti, degli spunti, degli orli o degli angoli, sviluppando quello che lo stesso Nasi chiama acutamente «svolte inattese»: «Qui non ci sono abbazie né affreschi che si sbriciolano o cupole / famose, e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione di re […] Quant’è più bello disporre dei semplici spazi di casa / che sentirsi schiacciato da un pilastro, un arco, una basilica».

Le sue vele scoperchiano un mondo improvviso, che solo apparentemente appare inanimato. Sembra quasi disarcionare l’inerzia, in un vivido paradosso, che se da un lato, richiama la porzione più viva delle cose, dall’altro ama la sfrontatezza delle azioni e delle vicissitudini, come il bonsai che visto da vicino sembra un enorme albero che permette di toccare l’orizzonte e scorgervi persino una balena, con accanto i fiammiferi-zattere («Guardalo dall’ingresso, / e il mondo si dilata e si gonfia. / Il bottone che gli sta accanto / è ora una ruota di perla, / i fiammiferi Minerva sono una zattera, / e la tazza del caffè una cisterna / che raccoglie la stessa pioggia / che bagna le sue piccole zolle di terra scura e muscosa. / […] Il modo in cui si piega verso l’entroterra, / m’invoglia a farmi strada / fino alla cima del suo fogliame spinoso, / a restare attaccato con tutta la forza / e guardare la furia della tempesta marina, / nella speranza che appaia una piccola balena»), oppure sognare di attraversare a piedi l’Atlantico e provare a immaginare come «debba sembrare tutto questo ai pesci là sotto: / il fondo dei miei piedi che appare, scompare», o ancora versarsi un bicchiere di vino al tramonto e accorgersi di non aver toccato mai la voce di anima viva, salvo poi ricordarsi di aver parlato con la tartaruga, incontrata durante una camminata o la sua cagna, alla quale aveva spiegato che non era ancora ora di cena.

In un articolo su “Avvenire” del 10 dicembre 2011, Roberto Mussapi scrive: «I suoi versi non manifestano alcuna pulsione conoscitiva, ascensionale, nessun senso della finitudine, da cui nasce la poesia. […] Per riempire i teatri e ricevere la corona d’alloro, come è riuscito lui, bisogna scrivere una poesia semplice e fruibile. Come? Abbandonando la grande linea del Novecento americano, Eliot, Pound, Hart Crane, Stevens. Cioè abbandonando monumenti di poesia che da americani sono diventati universali: la grande poesia moderna parla elio tese, poiché eliotianamente pratica il “correlativo oggettivo”: parlare di realtà immateriali e atemporali attraverso immagini concrete».

La dilatazione e il rigonfiamento del mondo spesso acquisiscono non solo humour intenso e geniale, ma anche la sovrapposizione di suoni, l’indizio surreale e lo scarto improvviso.

Ecco cosa racconta in Un altro motivo per cui non tengo una pistola in casa: «Il cane dei vicini non smette di abbaiare. / Abbaia sempre lo stesso alto, ritmico abbaio / che abbaia ogni volta che vanno fuori. / Si vede che lo accendono quando escono. / Il cane dei vicini non smette di abbaiare. / chiudo tutte le finestre di casa / e metto una sinfonia di Beethoven al massimo / ma lo sento ancora ovattato sotto la musica, / che abbaia e abbaia e abbaia, / e ora lo vedo seduto nell’orchestra / a testa alta e sicura come se Beethoven / avesse inserito una parte per cane che abbaia. / quando alla fine il disco finisce abbaia ancora, / seduto là, nella sezione degli oboe, abbaia, /  con gli occhi fissi sul direttore che lo / guida con la sua bacchetta /  mentre gli altri musicisti ascoltano in rispettoso / silenzio il famoso assolo per cane che abbia, / coda infinita e causa prima dell’affermarsi / di Beethoven come genio innovativo ».

L’acutezza di Collins ama questa sovrapposizione e dilatazione per scrivere la realtà, nell’arguzia di un wit fruibile intenso, che afferma e sollecita misura e discrezione. Se è vero, come egli sostiene, che «Il candore è nipote dell’ispirazione», il suo tratto è una spoliazione e una continua ripulitura: «[…] non esitare a prendere / per i campi e a sfregare il fondo / dei sassi o a spolverare sui rami più alti / della buia foresta i nidi pieni di uova. / Quando ritroverai la strada di casa / e riporrai spugne e spazzole sotto il lavello / vedrai la luce dell’alba / l’altare immacolato della tua scrivania, / una superficie pulita al centro di un mondo pulito» (Consiglio agli scrittori) o come avviene in Purezza: «Mi tolgo i vestiti e li lascio in un mucchio / come se fossi morto sciogliendomi e il mio lascito fosse solo / una camicia bianca, un paio di pantaloni, e una teiera di tè non più caldo. / Poi mi tolgo la pelle e l’appendo a una sedia. / La sfilo dalle ossa come fosse un vestito di seta. / Lo faccio perché quel che scrivo sia puro, / completamente sciacquato dal carnale, / incontaminato dalle preoccupazioni del corpo. / infine mi tolgo tutti gli organi e li dispongo / su un tavolino accanto alla finestra. / non voglio sentire i loro ritmi antichi / mentre cerco di battere a macchina il mio intimo battito».

La sua spoliazione, pertanto, è un nudo slittamento che insegna a percepire il fitto folto di vita e morte. Scrive Charles Simic: «A un poeta come Billy Collins una poesia offre l’opportunità di distanziarsi dalla “Poesia”. Il mai-visto-prima, il mai-sentito-prima è ciò a cui aspirano i poeti del suo tipo. Essi si affidano al loro senso del comico per difendersi da una retorica d’accatto. Per quel che li riguarda, è meglio sentirsi accusare di fare i buffoni o i matti che non avere la taccia di pappagalli e indossare il costume di una qualche antiquata moda letteraria».

Il vestito di Collins non è una «corda legata a una sedia», come certi critici o professori tentano di fare della poesia, per «torturarla finchè non confessi», colpirla con un tubo di gomma «per tirar fuori che cosa davvero vuol dire», anzi, come avviene in Balistica (2011), la sua tensione originaria mira alla linearità dei bersagli, alla primordialità dei passaggi e degli spazi nuovi, alla voce non sovra strutturata, come approdo, tregua e scandaglio di abisso.

Chiede ai lettori di unirsi a lui per iniziare una fitta sassaiola contro gli insegnanti che domandano cosa stesse cercando di dire il poeta (cita a tal proposito Thomas Hardy e Emily Dickinson imbrigliati nella loro incapacità di dire bene ciò che volessero dire), ma alla fine «noi nella classe di Inglese della terza ora della prof Parker / qui al liceo di Springfield ce la faremo».

La sua poesia mal sopporta questa imbrigliatura, l’interpretazione come sponda di senso. Il suo gesto poetico ama le ospitalità, i transiti aperti del mistero, l’accessibilità che introduce a inattesi spostamenti verso «reami di inscrutabilità, dove ci si può avvicinare alla verità solo con un gesto. Se ogni verso in una poesia fosse chiaro allo stesso modo, saremmo privati delle ambiguità e dei segreti di cui la poesia, da sempre, è stata il mezzo migliore di esplorazione; se ogni verso fosse illeggibile non avremmo terreno su cui stare in piedi, non avremmo un posto da cui guardare il grande enigma al centro delle nostre esistenze».

Ecco il fuoco di Billy Collins che porta in giro la sua voce nel mondo, allontanandola dalla vivisezione dell’anatomista. Il suo microcosmo compare per mettere in scena un proiettile che corre preciso, come quello che ha perforato un libro di un poeta non amato, facendo esplodere le pagine. La pallottola perfora ogni anfratto di carta delle poesie della sua infanzia, fino alla foto dell’autore «attraverso la barba, gli occhiali rotondi, / e quello speciale cappello da poeta che gli piace indossare».

Lo humour serve l’ordinario in una grande arguzia associativa, in cui i connubi della sua arte realizzano teatro e abisso, voce aperta e sintassi accesa, poesia di linee e quadro scrostato.

In una intervista rilasciata a Franco Nasi, al quale si deve il merito di aver fatto sfociare la sua poesia in Italia, Collins ricorda le sue influenze. Dal latino imparato senza particolare attenzione, quando serviva messa e poi risultato essere un’ arcana espressione sensoriale, alle rubriche di bridge delle riviste che hanno scoperchiato in lui un orizzonte e un linguaggio quasi esoterici, che riportano a Stevenson e al Settimo Sigillo di Bergman, persino in frasi come «Sud vince con l’asso del morto, prende l’asso di picche e taglia quadri», infine  ai cartoni animati di Warner Brothers.

La suggestione dell’abisso è la sua coperta apertura di una narrazione scomposta e poi continuamente ricomposta, come la morte di un suo vicino di casa con un figlio, che mescola indirizzi e numeri in una strana pioggia di maniche vuote, «Il peso dei miei abiti, non dei suoi / potrebbe essere appeso nell’oscurità di un armadio oggi».

La sua vocazione diviene segno e fenditura di una rivelazione che svolta nell’esistenza, come scelta dell’essere: «Se mai ci fosse un giorno di primavera così perfetto, / reso ancor più bello da una calda brezza intermittente, / da spingerti a spalancare / tutte le finestre di casa, / e ad aprire la porticina della gabbia del canarino, / anzi, a rimuoverla dallo stipite, / un giorno in cui i vialetti di freschi mattoni / e il giardino che scoppia di peonie / sembrassero incisi nella luce del sole / da farti venir voglia di prendere / un martello per il fermacarte di vetro / del tavolino del salotto / e liberare così gli abitanti / dal cottage coperto di neve / perché possano uscire / tenendosi per mano e ammirare / questa cupola più grande azzurra e bianca, / be’, oggi sarebbe proprio un giorno così» (Oggi).

  

Collins B., Balistica, Fazi, Roma 2011.  

Id.,  A vela in solitaria intorno alla mia stanza, Fazi, Roma 2013.

Antonelli S. (ed.), Ritratti americani. 15 scrittori raccontano gli Stati Uniti, Elleu Multimedia, Roma 2004.

Darlin R., Billy Collins: Sailing alone around the room: New and selected poems, «http://www.expansivepoetryonline.com/journal/rev112001b.html».

D’Orrico A., Billy Collins senza humour non c’è poesia, in “Corriere della Sera”, 25 settembre 2011.

Hilbert E., Wages of fame: The case of Billy Collins «http://www.cprw.com/Hilbert/collins2.htm».

Simic C.,  recensione a A vela in solitaria intorno alla stanza, trad. di P.F. Paolini. in «La rivista dei libri», 11, 2006.

Spadaro A., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013.

La velatura di Vittorio Sereni

di Andrea Galgano                                         30 novembre 2013

poesia contemporanea La velatura di Vittorio Sereni

vittorio-sereni

«Sereni nasce come un ermetico sui generis, che corteggia il racconto esistenziale e non crede nel primato della letteratura sulla vita; è un evocatore di spiriti, ma tiene lontani gli spiritualisti e Freud; s’inventa uno stile magmatico, ma mai avanguardista o espressionista; è un poeta di oggetti concreti, ma al tempo stesso di trasalimenti e indefinibili umori; abbozza affreschi storici, ma malgré lui, perché la storia gli si impone coi contraccolpi che determina nella vita interiore: dà conto della crisi del soggetto, ma non rinuncia a dire «io», oscillando tra polo lirico e prosastico […]; infine, è a suo modo socialista: però si tratta di un socialismo privo delle coperture ideologiche marxiste, che fa tutt’uno con un illuminismo lombardo d’antan aggiornato dall’eclettica fenomenologia di Banfi» (Matteo Marchesini, da «Sereni,  mito esile e prezioso», “Il Sole 24ore”, 27 gennaio 2013).

La poesia e la moralità di Vittorio Sereni (1913-1983) risiedono nella purezza dell’intesa o in quello che Alfonso Berardinelli chiama «attesa ansiosa, nel suo essere sorpreso e strappato a se stesso dalle “visitazioni della poesia”».

Era poeta della guerra, Sereni. Una guerra strappata, vertiginosa e perduta. Ma anche poeta-funzionario editoriale. Egli stesso considerava, infatti, questa professione una espressione di concretezza e di rigore, un lavorìo che parte da lontano, investe l’esilità reticente e il pudore della sua pagina, con l’estremo riserbo di una conversazione che tende via via sempre più al monologo, alla trama della perdita e dell’assenza a bassa voce.

Se in molti videro, in lui,  l’uscita della poesia italiana dall’Ermetismo, egli rappresenta una sorta di enclave poetica, uno spazio vibratile e lirico che canta la terra d’Algeria o espone il suo canto al senso segreto del verso.

Scrive Roberto Mussapi: «La dimensione orizzontale di Sereni, così felice nel suo incanto addolorato per i paesaggi albari e serali, per gli istanti di passaggio che segnano la vita della comunità umana, non esclude una sua esplorazione verticale, in profondità. Semmai la prospettiva si sposta dall’uomo in toto, dalla realtà antropologica, all’uomo Sereni, al poeta che fa della propria cronaca doloroso e luminoso campo di esplorazione della vita. Il dominio del chiaroscuro, della tenuità, la mancanza di visionarietà, generano una poesia misteriosa proprio nella sua nitida leggibilità, tremante e nello stesso rivelante». 

La rivelazione, se da un lato conduce all’agglutinamento espressivo, dall’altro condensa la pagina in una registrazione e in una pressione d’attesa: «Programmare una poesia “figurativa”, narrativa, costruttiva, non significa nulla, specie se in opposizione di ipotesi letteraria a una poesia “astratta”, lirica, d’illuminazione. Significa qualcosa, nello sviluppo d’un lavoro, avvertire un bisogno di figure, di elementi narrativi, di strutture: ritagliarsi un milieu socialmente e storicamente, oltre che geograficamente e persino topograficamente, identificabile, in cui trasporre brani e stimoli di vita emotiva individuale, come su un banco di prova delle risorse segrete e ultime di questa, della loro reale vitalità, della loro effettiva capacità di presa. Produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore… Non abbiamo sempre pensato che ai vertici poesia e narrativa si toccano e che allora, e solo allora, non ha quasi più senso il tenerle distinte?».

La fame di realtà tocca il mondo nei sui punti e nei suoi slarghi, spesso umbratili ed fantasmatici, ma egli, come scrive Daniele Piccini su «Poesia» del settembre 2013, «rimase fedele a quel mondo, per molti aspetti: all’opposizione tra una solarità agognata e il senso di una limitazione oscura e angosciosa (insomma al «cortocircuito fra vitalità e morte costitutivo della poesia sereniana», come si esprime Mengaldo); alla presenza, soprattutto, di una “frontiera”, termine e tema massimamente polisemico».

La vita e la morte in limine, così come lo spazio di percussione tra sogno e veglia, come una peripezia del poeta nello spazio urbano, si appropriano di un punto in movimento che conosce l’esilità fissa della gioia e la dolorosa cronaca della morte, la nullificazione minacciosa e la magia fascinosa dei luoghi.

La partenza e l’arrivo identificano il suo tempo e la concreta esperienza poetica, ossia, come afferma Lanfranco Caretti, «il tempo della lampeggiante chiarezza entro l’aggrovigliato flusso dell’esistenza, nel tempo “presente”».

Il rapporto del tempo presente, pertanto, «porta costantemente in sé il proprio passato: non come ingombro o museo memoriale, bensì come attualità, o per dirla con lui stesso, come una somma di “sostanze, ossia di qualcosa di ben più fondo, ben più inamovibile e inalienabile dei ricordi».

La densità e la complessità del presente illumina porzioni di passato sempre in atto, slanci sperduti, fallite assenze, come «toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce».

L’esistenza, quindi, slancia la sua paratia in un recupero patrimoniale di esperienze e visioni che si sovrappongono, le sfumature riprendono il vertice dei suoni per dare vita a un gioco di specularità e iterazione, dissolvenza e ricorrenza.

Nell’esordio poetico Frontiera (1941), il caleidoscopio sereniano declina le sue pitture e i suoi idilli in un’ombra sfacelante (molto simili al Coleridge de La ballata del vecchio marinaio), dove il delineamento di figure incerte che si attardano e il viaggio acquoso (Luino e il suo paesaggio di confine-limbo) percorrono la sua linea d’ombra originaria, che transita solo per dissolversi e scomparire, per abbandonarsi nella luce e nello strazio di un congedo sfasato («La svelata bellezza dell’inverno»). Un tentativo di accordare immagini minacciose e silenti con il sotteso delle rotture e della fissità sfumata, in ciò che Silvio Ramat definisce come «passione trepida di romanzo»: «Un altro ponte / sotto il passo m’incurvi / ove a bandiera e culmini di case / è sospeso il tuo fiato, / città grave […] Maturità di foglie, arco di lago / altro evo mi spieghi lucente, / in una strada senza vento inoltri / la giovinezza che non trova scampo».

La donna-lago, che chiude l’opera, ammalia e nullifica, colloca l’immagine bianca e invernale del tempo in un rapimento inquietante e immobile, in cui la pienezza vivente si sorprende nell’abito mortale dell’inverno e della sua sospensione tacita: «S’imprimeva in me un senso di diffuso biancore, con riflessi metallici, ghiacciati, invernali, quasi avessi a che fare con una metafora dell’inverno; e già questo era fuorviante, quanto più una giustificazione e una caratterizzazione di ordine visivo mi offriva una scappatoia semplicemente sensoriale rispetto alla reale,e fin lì impenetrabile sostanza del testo».

La stessa atmosfera si riscontra in Diario d’Algeria (1947), dove il diarismo culmina nella dolorosa esperienza personale. Catturato a Trapani col suo reparto dagli Angloamericani nel 1943, venne trasferito nell’Africa del Nord nei campi di prigionia di Orano e Casablanca.

È l’esperienza-limite dei fantasmi della Storia, l’essere margine escluso di qualcosa che si svolge altrove, per essere «morto alla guerra e alla pace», sull’orlo indicibile del tempo, sul trabocco metafisico «tra due epoche morte / dentro di noi». Partecipe e inadatto: «Vado a dannarmi e insabbiarmi per anni» o ancora «Ora ogni fronda è muta / compatto il guscio d’oblio / perfetto il cerchio».

Afferma Daniele Piccini: «Sereni, al contrario di Luzi, è il poeta del cimento, della paziente e difficile conquista di un verso, di una scena, di una figura: non procede con la miracolosa facilità che possiamo riconoscere nel fiorentino e, in modo diverso, in Bertolucci, ma con studio, per filtraggi, per condensazioni».

La sua rarefazione è frutto di uno sforzo ed è sempre minacciata dalla paura del silenzio, dell’angoscia di non poter scrivere, da una permanente perplessità. Egli muove da questi limiti interiori, da questi assilli e trova il modo di superarli, anche attraverso una stratificazione di voci e di registri, di suggestioni e di spunti combinati in organismi complessi e sfuggenti».

La sostanziale purezza lirica che si unisce al suo precedente libro fa spazio all’isolamento e all’inazione, al trauma che scocca i suoi segni, alle ferite partecipate. L’essenziale raspamento, che quell’esperienza porta con se, determina un graduale passaggio viandante e poi prigioniero. Il vento, il sole, le nubi sono legati a una dura sostanza corporea, a una geografia incolore, a uno straziato ed esule cromatismo.

Il residuo della vitalità si richiama nei ricordi, quasi salvati, e allo stesso tempo sfumati, perché «la voce più chiara non è più / che un trepestio di pioggia sulle tende». La mancanza, il vuoto, l’isolamento giacciono nel fondo umano la loro immobilità larvale e purgatoriale, «Sereni», scrive Giulia Raboni, «costruisce nella prigionia un guscio protettivo che finisce per rinchiuderlo in una sorta di limbo, non troppo duro da sopportare ma insieme, anche per questo, tanto più colpevolizzante».

Lo scatto e l’affondo distinguono nuove sovrapposizioni, affermando l’esigenza di difendere i tratti degli istanti significativi, per «produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore». È l’esito di una pronuncia nascosta che cerca salvezze antiche, l’io che sceglie in modo privilegiato.  

La trasformazione e l’ampliamento del lessico di Saba e Montale, se da un lato impongono una modernità verso il basso, precipui a un territorio vastissimo, dall’altro contestualizza l’espressione in un movimento preciso e quotidiano, come testimonia Laura Barile nel suo saggio Amore e memoria, ripercorrendo ciò che lo stesso Sereni afferma: «Un istinto incorreggibile mi indusse a riprodurre momenti, a reimmettermi in situazioni trascorse al fine di dar loro seguito, sentirmi vivo […] Perché facilmente una forma di presunta fedeltà alla propria immaginazione si pietrifica nell’inerzia, in una stortura».

La fase di attraversamento nel tempo del dolore e della perdita diviene esperienza vissuta e coltre d’amore: «ama dunque il mio rammemorare / per quanto qui attorno s’impenna sfavilla e si sfa: / è tutto il possibile, è il mare».

La sovrapposizione di piani, pertanto, accende la sua umbratile luminosità, Ancora sulla strada di Zenna testimonia il riflesso di una esclusiva immanenza; Il muro persegue un dialogo notturno con il padre, mentre osserva una partita di calcio davanti al cimitero di Luino («Dice che è carità pelosa, di presagio / del mio prossimo ghiaccio, me lo dice come in gloria / rasserenandosi rasserenandomi / mentre riapro gli occhi e lui si ritira ridendo / – e ancora folleggiano quei ragazzi animosi contro bufera e notte- lo dice con polvere e foglie da tutto il muro / che una sera d’estate è una sera d’estate / e adesso avrà più senso / il canto degli ubriachi dalla parte di Creva»), La spiaggia condensa passaggi epifanici attraverso una conversazione al telefono.

La perlustrazione del vuoto esprime un movimento inconsolabile, il sigillo di qualcosa di inespresso e perduto: «e dopo / dentro una povere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai», o ancora «E quante lagrime e seme vanamente sparso», «Ancora non lo sai / – sibila nel frastuono delle volte / la sibilla, quella / che sempre più ha voglia di morire – / non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?».

Eppure in Sereni permane, afferma Daniele Piccini «struggente e lucida, direi virile, la suggestione di una gioia che si oppone a quelle ombre e che ne è istantanea e non metafisica risposta. […] La compressione dolente, propriamente angosciosa del discorso di Sereni determina il liberarsi di forze in senso contrario, di fioriture fortunose, che non si attentano a rovesciare il discorso, a risolverlo, ma a tenerlo in una drammatica tensione, in una dinamica aperta a più significati, scaturiti dalla frizione e dalla clausura».

Negli Strumenti umani (1965), l’aggressione alla pienezza della prima persona sembra richiamarsi al silenzio, alla sovrapposizione dei gorghi di voce, all’eloquenza e alla moralità, attraverso «un tentativo», come afferma Franco Loi, «di sfuggire al Narciso, di cogliere, attraverso la poesia, “gli strumenti umani”, le “minime” verità della sua vita, “i minimi atti”, e nel tentare questo la moralità traspariva come specchio, rigoroso varco e “tornasole” per la sprezzata-amata, e tuttavia ovunque riemergente, compiacenza dell’Io».

L’estremo sforzo di riallacciarsi alla necessità delle fatiche, degli amori, della storia degli ignoti diventa il riflesso sulla propria condizione precaria e oscura, in quelle «toppe di inesistenza» che culminano come solitari emblemi e punti ciechi di assenza: «I morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d’inesistenza, calce e cenere / pronte a farsi movimento e luce». L’immanenza trema di gioia, come sperpero di disseminata grazia: «con che fermezza che forza quelle mani / tendevano al sonno gli arbusti / strappati all’ultima riva».

Non esiste, in Sereni, un colore lugubre, né un soprassalto metafisico o una lamentazione, ma la materia del mondo è la sorvegliata misura della morte, che accetta la prigionia in un campo senza cromatismi: «L’anima, quella che diciamo anima e non è / che una fitta di rimorso, / lenta deplorazione sull’ombra dell’addio».

Gli asettici inferni delle fabbriche, l’essere visitatori del mondo, la mimesi del paesaggio toccano il buio della mente, il rumore che si somma per divenire straniero, per credere, come sostiene Mengaldo: «alla funzione rappresentativa anche per altri di una sua particolare esperienza, e della “morale” che ne scaturisce; e in questo senso crede ancora, problematicamente, alla poesia».

Il decorso biografico si appropria dei riflussi, della estrema esiguità di un mito esile: «Siamo passati come passano gli anni, / Altro di noi non c’è qui che lo specimen anzi l’imago / Ma ero / io il trapassante, ero io / perplesso non propriamente amaro».

L’agguato e l’insidia della realtà negativa abita la pagina, come comparsa di lacuna e referto estranei, ma non ammutina la serenità vitale della protezione dell’amicizia, dello scoscio sonoro e del lievito quotidiano, volti a eternare, cristallizzare e conferire la transizione vertiginosa e memorabile del passaggio multiforme dell’esistere: «Niente ha di spavento / la voce che chiama me / dalla strada sotto casa / in un’ora di notte: / è un breve risveglio di vento, una pioggia fuggiasca», oppure «Confabula di te  laggiù qualcuno: / l’ineluttabile a distesa / dei grilli e la stellata / prateria delle tenebre».

La rimarginazione tessuta fino all’osso di Stella variabile (1981) compone il suo referto in una spoliazione estrema: «non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile (/ è il colore del vuoto?».

La trasparenza emorragica dei giorni impone il suo ritardo e il suo rimorso per una mancanza, un’omissione, un ricordo riportato in vita, come aria popolosa. Aveva ragione Fortini, quando scrisse che la poesia di Sereni si muoveva tra indugi elegiaci e scatti di impazienza, quasi a farsi permeare da una crucialità di palcoscenici di varia esistenza e di incertezza.

«Ma da queste situazioni spettrali, prive del risarcimento ideologico che hanno in Montale» sostiene Matteo Marchesini, «Sereni riesce a difendersi. Capita quando intravede un riflesso di quella pienezza vitale che è il suo vero mito. Questa pienezza si rivela nell’amore: ma soprattutto nell’amicizia, e nella grazia dell’efficienza fisica».

Dagli strumenti umani, attraversatori di vita, alla straziata prospettiva stellare, proiettata e dislocata in un ambito memoriale di sogni e trapassi, che trascolora di rinunce, commozioni e stravolgimenti, finisce per «Stringersi / a un fuoco di legna / al gusto morente del pane alla / trasparenza del vino / dove pensosamente si rinfocola / il giorno da poco andato giù / dalle rupi col grido dei pianori / nel vello dei dirupi nel velluto / delle false distanze fin che ci piglia il sonno?».

Il baleno che vive a ridosso della gioia è la stella variabile di un armistizio, verso una memoria che non sfama mai, come il nudo stupore, ricolmo di brivido, verso se stesso, che abbandona e si avvicina alla vita, si sporge dal sogno e dal paesaggio inafferrabile di quel «viandante stupefatto / avventurato nel tempo nebbioso».

 

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