di Serena Baroncelli, psicologa, allieva della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato
30 gennaio 2016
Il contenuto è sicuramente scottante, seppur con una vena provocatoria! È uscito il 7 gennaio per l’autorevole the Guardian, firmato da Oliver Burkeman Therapy wars: the revenge of Freud (long read version) un articolo di grande interesse per l’establishment psicoanalitico internazionale, che sancisce la validità e l’efficacia della terapia psicoanalitica. Questo non implica una critica negativa nei confronti di altri modelli, tuttavia abbiamo ritenuto doveroso, dopo le innumerevoli sanzioni dei detrattori della psicoanalisi, portare all’attenzione del nostro pubblico la graffiante disamina di Burkeman sui risvolti “a lungo termine” delle psicoterapie: sulla distanza, soltanto la psicoanalisi del profondo garantisce una completa risoluzione delle cause alla base del disagio psichico.
Il Polo Psicodinamiche si è subito mobilitato per dare a tutti i colleghi italiani l’opportunità di conoscere i dettagli. Di seguito una traduzione per il nostro pubblico in Italia, dalla dott.ssa Serena Baroncelli, psicologa, e Allieva della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato. Abbiamo pensato di tradurre revenge con rivincita anziché vendetta, più letterale ma sicuramente meno “sportivo”! Vediamo i tratti salienti del documento.
La terapia cognitivo-comportamentale, o CBT, è una tecnica che si concentra sul presente anziché sul passato, non volge la sua attenzione a misteriosi e sconosciuti impulsi ma sull’aggiustare pattern di pensieri disfunzionali che sono la causa delle emozioni negative. L’obiettivo degli esercizi della CBT è quello di identificare i cosiddetti “pensieri automatici” che caratterizzano l’atteggiamento tipico dell’individuo quando si interfaccia con le diverse situazioni di vita, come essere criticato a lavoro ad esempio.
Sviluppatasi tra gli anni ’60 e ’70, la CBT è una delle principali “terapie supportate empiricamente”, basata cioè sui fatti, dura meno rispetto ad una psicanalisi, per cui la probabilità di portarla a termine è maggiore. L’elemento intorno a cui i due tipi di psicoterapia, la psicanalisi e la CBT, differiscono, ruota intorno alla concezione di essere umano e di sofferenza. La CBT abbraccia una visione particolare del concetto di emozione: nello specifico, le emozioni disturbanti sono primariamente qualcosa da eliminare e nel caso non si riuscisse in questo, quanto meno renderle tollerabili. Sembra che raggiungere la felicità sia abbastanza semplice secondo questo approccio: il disagio è causato dai nostri pensieri e credenze irrazionali, sta a noi prenderne consapevolezza e cambiarli. Per l’approccio psicanalitico invece le cose sono molto più complesse e complicate di quanto emerga dalle concettualizzazioni cognitivo-comportamentali. Innanzitutto, il dolore, la sofferenza psicologica, non deve essere eliminata ma compresa, ascoltata e capita: la depressione di un paziente, in questo senso, ci comunica sempre qualcosa ed è necessario scovare quel qualcosa. L’essere umano pertanto è molto complesso: spesso le persone possiedono motivi molto convincenti per non cambiare niente della loro vita, nonostante entrino in analisi proprio per cambiare qualcosa della loro stessa vita. Noi vediamo la nostra esistenza tramite le lenti delle primissime relazioni, lenti di cui generalmente non ne siamo coscienti: tutto questo appartiene al campo dell’inconscio. Tuttavia per esplorare l’oceano dell’inconscio non sono sufficienti gli strumenti della CBT, semplici e standardizzati.
Se in un primo tempo questo approccio sembrava mostrare la propria superiorità in termini di efficacia sugli altri, dagli inizi degli anni ’70 questa concezione è andata diminuendo a seguito di numerose ricerche sperimentali che hanno dimostrato che la maggior parte dei pazienti (ricoverati per depressione) trae maggior beneficio, sia a breve che a lungo termine, da un trattamento psicanalitico piuttosto che da tecniche combinate, tra le quali la CBT. Questi risultati confermano l’opinione di molti psicanalisti, i quali sostengono che la preminenza della CBT nel corso del tempo sia stata costruita su basi di sabbia, effimere.
La premessa principale della psicanalisi si basa sulla concezione di inconscio: in particolare sostiene che la nostra vita e tutto ciò che gravita intorno ad essa, siano decisioni, scelte, attitudini, siano in gran parte governate da forze inconsapevoli, inconsce, che ci parlano solo indirettamente, attraverso i simboli, che si esprimono nei sogni, attraverso i lapsus, ma anche nel fenomeno definito come proiezione, per cui quel qualcosa dell’altro che ci fa infuriare è il prodotto di quanto in realtà non accettiamo di noi stessi. Al contrario, comportamentisti come Skinner, hanno mostrato come il comportamento umano possa essere facilmente manipolato attraverso i meccanismi della punizione e della ricompensa; ancora, la rivoluzione cognitiva ha sostenuto l’idea che anche la mente umana, alla stregua del comportamento manifesto, potesse essere manipolata e misurata sperimentalmente. E a partire dagli anni ’40 del 1900, le contingenze della realtà iniziavano a chiedere proprio questo: migliaia di soldati di ritorno dalla seconda guerra mondiale presentavano gravi disturbi di natura emozionale che necessitavano di un trattamento rapido, a basso costo, non anni di conversazione su un divano con il proprio analista.
Secondo l’approccio cognitivo-comportamentale, non è necessario scoprire le ragioni recondite della propria sofferenza attraverso la relazione terapeutica; in analisi, la relazione tra il terapeuta ed il paziente rappresenta una componente di primaria importanza per la buona riuscita della terapia: in essa il paziente riattualizza i suoi modi abituali di relazionarsi agli altri, rendendo possibile in questo modo una migliore comprensione degli stessi. Nella CBT, invece, nella seduta, risulta fondamentale porsi come obiettivo principale l’eliminazione del problema.
Nonostante la CBT possa in qualche modo essere utile nel trattamento di alcuni disturbi, dalla depressione al disturbo ossessivo-compulsivo fino al disturbo post-traumatico da stress, agendo sui soli sintomi manifesti, è innegabile come il modello della mente e della sofferenza dell’uomo manchi di alcuni tasselli importanti, significativi. Le nostre esperienze di vita, le relazioni con gli altri, sono qualcosa di estremamente complesso. La risposta a tutti i nostri dolori può davvero risolversi tramite l’identificazione dei cosiddetti “pensieri automatici”, o nella modifica del nostro linguaggio interno o delle critiche che rivolgiamo a noi stessi? La relazione terapeutica può essere sostituita da un libro o da un computer?
Una possibile risposta ci viene offerta da una paziente, che ha richiesto un trattamento a causa di una depressione post-partum. Tramite la CBT, ha partecipato a delle sessioni inizialmente tramite l’uso del computer. La paziente rivela: “Niente mi ha fatto sentire più sola e isolata quanto avere un programma al computer che mi chiedesse quanto mi sentissi triste su una scala da uno a cinque”. Quello che manca, come vediamo, è un’autentica relazione, il bisogno di essere contenuti nella mente di un’altra persona.
Ricerche più recenti dimostrano ancora la maggiore efficacia dell’approccio psicanalitico rispetto ai “trattamenti abituali”; talvolta la differenza più marcata si ritrova a conclusione della terapia: dopo mesi o anni, i benefici della terapia tradizionale svaniscono, mentre quelli delle terapie psicoanalitiche permangono o risultano addirittura incrementati, suggerendo che la terapia agisce ristrutturando la personalità nel lungo periodo, piuttosto che aiutare semplicemente le persone a gestire il loro umore. Alcuni sostengono che la CBT possa peggiorare il modo di concettualizzare la sofferenza: le tecniche utilizzate sembrano implicare la promessa che esista un modo semplice, composto da fasi, che possa vincere sulla malattia e il dolore. Questa prospettiva sembra rassicurante sia dal punto di vista del paziente che da quello del terapeuta inesperto, perché implica un obiettivo manifesto sul quale concentrarsi. D’altra parte questo approccio non nega completamente l’importanza delle esperienze passate dato che, come afferma il dr Trudie Chalder, professore londinese di psicoterapia cognitivo-comportamentale, i pensieri irrazionali derivano da esperienze di vita precoci.
Come afferma Grosz: “Ogni esistenza è unica e il ruolo dell’analista è proprio quello di scoprire e far emergere la storia unica e specifica del paziente; l’analista deve essere recettivo ai lapsus, alle specifiche parole utilizzate dal paziente, alle sue fantasie, infine utilizzarle per aiutarlo a dare un significato alla sua esistenza”. La discriminante tra i due approcci discussi sinora sembra essere la presenza di un terapeuta amorevole e disponibile. Potremmo concludere allora con le parole con cui Micheal Balint si rivolgeva ai medici in supervisione: “Qual è secondo voi la medicina più efficace e potente da prescrivere?” La risposta è: “La relazione”.