Un litro e un pugno d’equilibrio artistico

di Guido Rutili 6 novembre  2019

leggi in pdf Un litro e un pugno d’equilibrio artistico

Certe opere richiedono uno studio attento, di altre basta conoscere titolo e autore, di alcune ci interessa l’ultimo dei riferimenti bibliografici; appunti e sintesi sostituiscono le più inflazionate, poi ci sono quelle che leggiamo in atteggiamento volutamente sognante, gli articoli e i quaderni, poesie d’avanguardia e sonetti classici, montagne di volumi, rilegature e fogli, raccolte lecite e segreti dossiers.

Librerie accessibili a chiunque e inaccessibili ai non autorizzati, ovunque si desideri, a patto che niente esca dalla nostra vita.

Il testo che non sfugge all’esistenza di un uomo sempre ci sarà (folle l’esistenza che rifugge il testo), e chi riesce a creare librerie universali nel proprio passaggio in questo mondo, fa parte degli argonauti della collettività, di coloro che scrivono nel genoma e arricchiscono il patrimonio universale della specie. Perché ciò si realizzi serve però la capacità di raccogliere un impulso, l’unica ed ultima concessione degli dei agli uomini caduti, ovvero la creatività, nell’altisonanza del termine, che la configura come capacità di
ricostruire la forma, a prescindere dai pezzi, ovunque si trovino sparsi.

Leonardo Rocco Antonio Maria Sinisgalli, polimorfo come un nome che lo proietta nel multiverso dello scibile compreso, duttile come il maestro Leon Battista Alberti che inaugura la prima pagina del Furor
Mathematicus, ineluttabile come la coppa disegnata da Lucantonio degli Uberti che fregia l’ultimo foglio del libro, c’insegna a essere in ogni opera letta, in ogni esperienza acquisita, in ogni algoritmo della mente e nel fulmineo flusso inconscio.

Senza sentire il tempo, simultaneamente.

Un evento quantico, come suggerirebbe quel Carlo Rovelli che ritrova il “Furor” nel proprio “Ordine del tempo”, che ci giunge alleviando l’onere di contare i minuti, troppo spesso pesanti nella legislazione della vita; per Sinisgalli l’ordine s’intesse sull’armonia, non sull’ascissa conologica.

In quel vuoto cartesiano, di cui non si sente alcuna mancanza, le coordinate sono paradossalmente ben identificate: l’autore vive in coerenza con ciò che scrive, per questo l’insalata scientifico-umanistica che propone ha un sapore indimenticabile, è una creazione da grande chef.

Sinisgalli sogna matematica e fisica all’Università, intanto pubblica poesie e s’intende d’azienda, salvo poi laurearsi in ingegneria meccanica col progetto di un motore per aeroplano leggero: quella ghisa che leggiadra prende il volo – cosa che a raccontarla farebbe ridere – nel contesto non ci scompone, anzi desta interesse, appare umile e realizzabile.

E qui si compie l’opera unificatrice nucleare di questo artista, capace di tramandare la geometria senza mai
chiamarne in causa le formule:

“L’inverno ci stringe d’assedio nella nostra solitudine. Il corpo è aspro e pulito: l’aria di certi giorni tersa più della falce. Nelle nostre stanze il fuoco ha questo crepitìo continuo, questo attizzarsi, questo mangiarsi il proprio cuore insaziabilmente. Quando eravamo ragazzi ci bastava, per scaldarci, un pezzo di brace raccolto nel cavo delle mani: vi soffiavamo fino a consumarlo col nostro fiato. […] Ci eravamo fatti del mondo l’immagine di un corpo duro che d’inverno ritrovava la sua rigida compattezza, il suo estremo di solidificazione sonora, contro cui la mazza batteva i suoi colpi e si alzavano ripe di sostegno alle frane, si scavavano mine nella roccia”.

Ogni interfaccia col cavo di quella mano rende il solido vivo al punto di ricollegarsi al corpo duro e compatto che può forgiare, non in una sterile danza di riga e squadra, ma nella pulsante cadenza dell’azione senziente e sognante, di chi le due cose sa intrecciarle bene: ecco che la geometria s’imprime come un lampo, per non decadere più.

L’autore lo sa, perciò conclude con un’affermazione tranciante:
“Nessuno ormai dubita dello stimolo che venne a Cartesio dal calore acido della stufa quando, in quel lontanissimo inverno, stendeva le prime miracolose pagine del Discorso”.

Mentre il saggio ci degna della propria presenza osmotica, il precettore sorveglia prestazioni in divenire, il santo frammenta intorno a noi parole infuse ed il maestro c’invita ad osservare l’orma dei propri passi, la figura che nel Furor Mathematicus riveste l’autore è quella del comandante solitario, le cui Moby Dick stanno dietro l’interesse che nutre per ogni flutto. Egli tramanda il fenomeno della curiosità causale senza ulteriore intento di renderci suo equipaggio, volendo leggere a chi ascolta un diario di bordo, suo unico e gradito compagno.

Certo che c’illumina, quando parla dell’attrito come “perdita con cui la natura si ripaga”, come contromisura per fare “di ogni fenomeno un avvenimento sigolare” che ci “toglie qualunque illusione di
perpetuità” e che incarna quel “residuo che dà l’avvertimento più certo della presenza della materia come degradazione, chiusura, ripetizione”. Non potrebbe essere altrimenti, poiché la sua freccia centra l’essenziale con una grazia inattesa, che deve sconvolgere, pena la rilettura coatta finché questo risultato non si verifichi.

Leonardo (solo il nome, nomen omen, di lui che come l’omonimo da Vinci fregia la copertina e poi la firma) soddisfa il limite di ogni ingegnere, raccontandogli finalmente come il giunto cardanico sia la geniale trasposizione in meccanica dell’opera organica compiuta da Dio, ma al contempo meraviglia il poeta, che si nutre affascinato non del concetto sotteso alle parole ma della permeanza dell’intelletto gravido d’eros con cui viene esposto.

Grazie a questa sua mirabile capacità non indispettisce, pur passando di lì al poco al “carciofo alla romana”, nella sfumatura con la quale esso s’innesta nel modello matematico di resa delle superfici complesse: in quel dialoghetto riportato i suoi eminenti interlocutori glissano ma il lettore no, e sorride compiaciuto al prodotto della mente che è passata oltre il calcolo differenziale, non senza averlo prima ben compreso. Se d’insegnamenti dobbiamo parlare quest’ultimo elemento mi è d’aiuto: raramente un testo sorprende per la ricchezza delle conoscenze che lo generano. Spesso un’opera di saggistica indugia in settori tecnici, come invece un bel romanzo parla del piacevole nulla, ma quasi mai si riesce ad odorare il nous generativo dell’opera, con la stessa attitudine che ci restituisce il profumo inconfondibile di casa.

Il Furor Mathematicus non viene mai meno, non delude né abitua anzi, in modo attento impedisce alla “mania di comprensione” di esplodere ed alla “frustrazione di non sapere” di sopraggiungere, in ritmo serrato e cadenzato: chiuderlo prima d’averlo reso inconsciamente proprio, è del tutto impossibile.

È un evento, come ho già detto.

Neanche il cambio psicoide, o solo futurista, del colore degl’intermezzi o la frammentazione dei pensieri randomici, cambiano il magnetismo della seduzione sinisgalliana.

Sono dapprima dialoghi, il cui carattere surreale presto diviene frugale e corroborante come un pasto domenicale, poi discorsi in prosa o aforismi della sera, versetti senza metrica che però s’incollano, in terribile risonanza, a qualcosa di ideico e già noto.

L’intermezzo tra i fogli grigi sorprende, e lo fa con la lama del ricordo; l’autore, quello della memoria che “s’intorbida quando la interroghiamo in un modo brusco o inatteso”, evidentemente sa contemplare immagini senza togliere loro il tempo di rinvenire nella forma.

È un ricordo consapevolmente illusorio e mai idealizzato, dove all’improvviso sorge la struttura dell’anatomia della mente, resa con capacità ritrovata e trasversale, degna di un vecchio professore in medicina che, abbandonata l’aula consueta dei bramosi, decide di dedicarsi ai poveri e i passanti di “là fuori”.

In qualche momento al lettore prende un tremito: qui c’è l’Albero di Porfirio! Gli occhi indugiano senza desiderare, è un meraviglioso viaggio quello in cui ci porta il “Furor”: nessuno vuole più scendere!

Sinisgalli è l’equilibrista che, calcolato il baricentro, s’accorge di camminare sul filo impossibile delle chimere della mente, che in piedi nel mondo non potrebbe stare, eppure da solo “tiene” il peso e la sostanza.

Insomma gli alchimisti non sono scomparsi, neanche nella contemporanea fuga da ogni cosa delle società, ormai apparentemente liquide e segretamente stremate dalle crociate contro i propri fantasmi: prova ne sono ancora i testi, non digitali frutti dell’albero “in cloud”, ma vecchie pagine che vogliamo ancora di colore diverso, perché diverse siano nel contributo alle nostre anime per sempre antiche.

Chiudere un libro, farlo con un ringraziamento nello scoprire che abbiamo nuovi occhiali per vedere ogni cosa, è un complimento per pochi pionieri di ogni futuro, senza che il calcolo delle probabilità che ne sancisce la mutevolezza spaventi più di tanto; ora quel libro chiuso è un’opera d’arte, che un uomo eccezionale ha reso patrimonio comune.

Leonardo Sinisgalli, Furor Mathematicus, a cura di Gian Italo Bischi, Mondadori, Milano 2019.

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato anche su “Roma – Cronache Lucane”, 6 novembre 2019

Un litro e un pugno d’equilibrio artistico, Roma Cronache Lucane, 6 novembre 2019

L’oltre-tempo di Jorie Graham

di Andrea Galgano 8 ottobre 2019

leggi in pdf L’OLTRE-TEMPO DI JORIE GRAHAM

Jorie Graham at Harvard’s Fogg Museum, Cambridge, Massachusetts, 2003

L’ultima raccolta del premio Pulitzer Jorie Graham (1950), Fast[1], una delle più alte voci della poesia americana, a cura di Antonella Francini, si apre con un segno di Robert Browning, come epigrafe, che insegue il rapido assedio del tempo, la sua consunzione e la sua dilatazione, la sua trattenuta elegiaca e il suo arrestarsi e il suo respiro che declina e risorge.

Ma il tempo di Jorie Graham, pur percependo l’obliata transizione delle sue linee, rimane la cifra del passaggio della sua densità. L’attraversamento nella velocità di ciò che passa, se da un lato espone il cuore dell’istante a porgersi, come dono e come atto d’amore, dall’altro fronteggia il mormorio della finitudine.

Stringerlo per la sua unicità, afferrarlo per respirare il continuo entrare nei luoghi. Il posto è il punto in cui io dice io, la vertigine umbratile e luminosa del qui e ora e l’espansione dell’altrove ma anche, la tensione all’alterità, all’empatia, all’affectus come adesione alla verità e all’attrazione verso la bellezza.

Ci troviamo, dunque, di fronte alla drammatizzazione dei passaggi e alla loro condensazione in un fluido mentale condiviso. Le pause del tempo sono quelle del pensiero, della mente che guarda, del movimento dello sguardo che è cammino eidetico addensato. Il suo viaggio epistemologico si appropria della metamorfica mutevolezza per farsi veglia di cellule, aggroviglio di identità, suolo rarefatto che entra nella luce imprigionata, ammanettata a un vortice e a un posto sospeso. La corposità della parola si rapporta  alla fittezza dell’istante e all’epifenomeno dell’atto[2]:

 

«Ammanettata a un vortice. Chiedo alle piante di darmi la mia piccola identità. No, ai pianeti. / Messaggeri che s’inarcano, le loro viscere d’orbita fanno un cenno, e un bruco su una foglia, muffa, / campane, una pergola-tutto in transizione-in-svolgimento-riversandosi in un po’ di vita cellula / dopo cellula nel vento come questo / fruscio di scarabocchi sulla / carta. Sto precipitando / credo. Ricordo la terra. Il terriccio giace / quieto, sotto di me, aspetta di fare di noi quel che può, anche il fumo, aspetta / d’essere l’origine d’un posto nuovo, fantasmatico l’altro, intralciata l’entrata, / sempre più entrate-ho passato la vita a entrare- la faccenda del posto sospesa sopra di me / anno dopo anno-il mio rarefarsi sempre qui in spirito, dentro di me, lontano da me, dietro di me, / intima con insetti, uccelli, pesci-ma perché solo vittime – / che io possa divenire-vetro-che dopo diverremo fusione / glaciale- morena che disvela gramigna, erbacce, la carezza d’una gelida madre / preistorica-o un dito / nell’atto di toccare / una pelle quieta, di scorrere sulla sua polvere, un’unghia che turba il bordo / dell’aria, fruga nella sua assurda fine immaginata / all’infinito-salta-atterra al tocco. Una mano. Su chi. Un solco attraversato dove un dio / muore. Vellutato prima della ferita. Un universo può morire. Che si possa sempre avere o essere un corpo. Afferrati poi per i lunghi capelli / e trascinati giù per un canale / nell’essere. Uno. Ora ascolta i pini, la fioritura, il suo luccichio, il tossire secco e selvaggio del mare, una piega in ogni rivolo, un vortice di pieghe-ascolta-odi lo sciogliersi, interminabile, delle pelli-odi una pelle che si stringe su ciò che ora non è più / assente. / Eccoti dice una voce nella luce, la luce imprigionata. Sii felice» (Ceneri).

 

 

In Nido d’Ape, Jorie Graham compie un periplo febbrile di magmi incandescenti che, partendo dalla luminescente ultimità di W.B. Yeats, dalla finitudine espansa di T.S. Eliot, dai Cantos di Ezra Pound e dall’oltre-evento di Virginia Woolf in Gita a Faro, si muove in una definitività immersa nel limite dell’essere e della mancanza, attraverso tracce non rintracciabili. È come se il blocco sequenziale delle immagini reclamasse il suo posto e la scoperta irriducibile della sua lettera al mondo[3].

L’inconoscibile ha bisogno di rivelarsi, lasciare manifestazioni e segni, essere significato e farsi permanente. In tal caso, la fenomenologia di Graham è legata anche al mistero dell’inizio e della fine, al respiro delle ellissi e all’essenzialità ritmica  come ebbi a scrivere, parlando de Il posto:

«La poesia di Jorie Graham chiede un atto ineffabile, evita di dissotterrare la nostra messa in gioco, invita a rischiare la parola per recuperarla nei fondi, non concedendo distrazioni. Lo sguardo si muove nello sciame della realtà e del suo flusso, ricercando l’inscrizione di un germogliata mutevolezza, di una cattura di consistenza abbandonata, dove la precisazione diventa l’irrimediato mondo della scrittura, come acqua che si squarcia nel suo minuto iridescente».[4] :

Il lungo dispositivo tipografico che accompagna e sussegue le parole, solo parzialmente frammentano la lunghezza della sua epicità, che procede per accumulo. La sua opera è manifesto di una dilatazione e di una esplorazione della finitudine dell’umano, del post-umano e delle sue inquietanti trasgressioni.

La poesia metamorfica, dunque, esplora il tempo geologico, storico e personale attraverso sì la fusione ma attraverso, soprattutto, attraverso la reificazione del mito. È un orfismo concettuale che trattiene ciò che può svanire, coltiva lo stupore come riscrittura verbale del visibile, verso il segreto che intride l’ascesa e la discesa di ogni spaesamento. Nella sua terra vi sono tutti i punti di contatto: ciò che cambia forma e l’inerzia, la labilità e la permanenza, il dramma della nascita e l’opzione del confine, come avviene in Autoritratto a tre gradi, il cui titolo si riferisce alla temperatura media dello spazio cosmico in scala Kelvin: «toccherò le cose → ecco / ecco come guardarle → tutti i punti di contatto → entropia, diminuzione, premendo e poi ritraendosi e guardando, lasciando soltanto → inimmaginabile → un significato in / ogni passo».

Nella nota d’apertura, Antonella Francini, introducendo la molteplicità di voci che si incontrano e si sovrappongono nel libro, scrive che Jorie Graham qui:

«racconta il viaggio dal non-essere all’essere, la linea di confine fra vita e morte e fra naturale e artificiale, esplorando quell’istante di tempo in cui avviene la transizione da una forma all’altra. In questi interstizi temporali, messi a fuoco e ampliati, entra l’io narrante, si scinde in più voci e cede il suo ruolo anche al non-umano – gli oceani violati, il vento, la lingua della tecnologia – per rappresentare, da una prospettiva post umana, un mondo in rapida dissoluzione. Che si tratti del lamento di ecosistemi in pericolo, del continuo brusio digitale che azzera i rapporti umani, della morte del padre, della vecchiaia della madre o dell’esperienza della malattia, gli immensi testi corali e elegiaci di Graham creano imprevedibili connessioni, dialoghi tra soggetti distanti, la documentazione in presa diretta del momento in cui i nasce o si estingue una vita. In questo processo vengono forzate la lingua e le sue regole grammaticali e sintattiche, la punteggiatura e il modo con cui si compongono i versi e le strofe».[5]

È l’esito della sua totalità mossa e segugia che recupera la parola alla sua sopravvivenza, che solca il significante per individuare la visione, il dolore, le righe dei dettagli aperti. Questa totalità non vuole abdicare e cerca

«tutte le modalità in cui gli uomini hanno lasciato una traccia. Un atto corporeo tangibile. La Sacra Sindone, qualunque cosa sia, è fatta di fluidi corporei, tracce di sofferenza e di scelta umana. Scelta di fronte al destino. Di fronte all’incomprensibile. Scelta fatta per istinto, con informazioni insufficienti, un salto di fiducia. Scelta umana, in altre parole. Una macchina intelligente avrebbe visto molto rapidamente, in modo algoritmico, come non finire su quella croce. E dove saremmo allora?».[6]

La traccia non è solo il passaggio digitale o fisico di un transito. È la composizione unica e irripetibile dell’esplorazione del mondo, della forma anche sovraffollata, dell’enigma del passato, attraverso una intera una vocalità cosmica di spaesamenti di anima e mente, per osservare, intingere gli occhi generativi nel tempo e restituire alla possibilità della parola di farsi autentica, registrandone un’unica esistenza mortale: «o avrai fame. Troppo. O non abbastanza. Oppure. Nient’altro? / Nient’altro. Troppo forte troppo veloce troppo organizzato troppo invisibile. Sopravvivremo chiedo al bot»

Lo strazio brusco della morte e della malattia un gesto vivente che fronteggia non già la sua fine ma il suo finire. Vi è una inesausta precisione, lo scorrere del sangue e il suo passato, la notte che scende, la lettura ad alta voce che diventa frammento dinanzi a un letto, inventa altre possibilità di parola per dire la vita anche dinanzi alla sua migrazione, al suolo sradicato e a tutte le sue frazioni, a cui aggrapparsi, come accade nel respiro-grido di Medium o come qui in Il Post umano: «Il sole e l’alluminio – non si toccano più di te e me ora? / Ora. È un luogo ora. Tu hai un ora?».

La carne è il varco del tempo. Dove la lacerazione della malattia, della morte, della fine raccontano del suo respiro arato e del ritmo del suo sciame verbale. Cos’è l’ora dei luoghi? Cosa sono i dettagli e i particolari quando vanno via e tutto è sospeso, le ombre, il corpo come un discorso, una dichiarazione che brucia il giorno. Graham è poeta del termine non della fine. E se lo è, ne rappresenta l’immagine del cum finis, della sua esatta osmosi, della unione di dinamica scientifica e processo immaginativo, come se fosse un monologo ordinato, una sorgiva abbondanza di veglie, una memoria immensa di salvezza e caduta, di tempi e corpi che cambiano:

«siamo ben oltre / il presentimento / passato / amico: il passato di → puoi solo pensarci → non ci sarà per te → puoi solo parlarne → se ne sono andati quelli venuti prima → non ci hanno lasciato
nulla eccetto noi stessi → sulla nostra minuscola asse di sangue → circondati da tutte le colonne infrante → il marmo che s’arrenderà → al tempo → alla radioattività → a → siamo tutto ciò che siamo mai stati →»

 In Crio, Graham affronta la possibilità di preservare criogenicamente la propria mente dopo la morte in modo di tentare di evitare o alterarne la sua potenza nullificante. In un solo salto, un corpo criogenicamente congelato, ma la mente continua a funzionare in un oltre-tempo. Quali saranno le nostre parole intruse? Cosa vedremo? : «ora arriva il mio non-io, il mio io più silenzioso, troppo sottile, esposto, figura d’una completezza smarrita, ma liberandosi d’ogni bordo, dentro non c’è nulla, per quanto piccolo non c’è nulla, della sua stessa tinta-vuoto, estremo, ma non finale-torna indietro su sé stesso per scoprire che nessun sé arriva al bordo del fatto del detto-».

In Doppia elica, la prima immagine di provvisoria precarietà («Un uccello vicino alla casa    corvo / che fa esistere all’improvviso / la provvisorietà del muro / un richiamo nel / sopraggiungere del temporale l’annuncio / da greggi e sciami / le aiuole ruotano nel sistema solare / ascolta-/ Schubert e il tordo all’unisono e / in un punto nello spazio noi / sospesi siamo sospesi») aggiunge un mosaico di conclusività spalancate e metafisica, biologia molecolare e foresta in fermento, per concludere con il gesso sul nero contro il nulla, il vuoto, il non Esser-ci. Per sempre.

[1] Graham J., Fast, a cura di Antonella Francini, Garzanti, Milano 2019.

[2] Pople I., Jorie Graham, Fast, “The Manchester Review”, May 2017.

[3] Ricciardi C., Graham, seduzioni dl post-human, in “Il Manifesto”, 29 settembre 2019.

[4] Galgano A., -Battaglini I., Il posto di Jorie Graham , in Frontiera di Pagine II, Aracne, Roma 2017, p. 795.

[5] Francini A., Nota della Traduttrice, in Graham J., cit., p.5.

[6] Fraccacreta A., Jorie Graham: «La poesia e le seduzioni del postumano», in “Avvenire”, 24 settembre 2019.

Graham J, Fast, a cura di Antonella Francini, Garzanti, Milano 2019, pp. 284, Euro 20.

 

Graham J, Fast, a cura di Antonella Francini, Garzanti, Milano 2019.

Fraccacreta A., Jorie Graham: «La poesia e le seduzioni del postumano», in “Avvenire”, 24 settembre 2019.

Galgano A.,-Battaglini I., Il posto di Jorie Graham , in Frontiera di Pagine II, Aracne, Roma 2017.

Nelson C., A review of Jorie Graham’s Fast, Under a Warm Green Linden, Online, August 14, 2017.

Pople I., Jorie Graham, Fast, “The Manchester Review”, May 2017.

Ricciardi C., Graham, seduzioni dl post-human, in “Il Manifesto”, 29 settembre 2019.

Un viaggio oltre-tempo lirico con Jorie Graham – Cronache Lucane, 19 ottobre 2019

CapoVersi #1#2#3

di Andrea Galgano 16 settembre 2019

leggi in pdf  ASHBERY-CHODASEVIC-PARRA

Si intitola capoVersi, la nuova collana della Bompiani, con i primi tre titoli: Autoritratto entro uno specchio convesso di John Ashbery, Non è tempo di essere di Vladislav Chodasevič e L’ultimo spegne la luce di Nicanor Parra.

JOHN ASHBERY: L’INELUDIBILE LIMINALE

John Askbery photo by Lynn Davis

Autoritratto entro uno specchio convesso[1] di John Ashbery, vincitore del Premio Pulitzer nel 1976, del National Book Award e del National Book Critics Circle Award, a cura di Damiano Abeni e con un saggio di Harold Bloom, rappresenta una frantumazione linguistica che tenta di esplorare, raggiungere e rappresentare il reale, in ogni sua forma compulsiva, negli anfratti che segnano il Tempo, attraverso l’ordito della figurazione quotidiana, la scompaginazione della prospettiva e il territorio dello spazio mentale.

Già nel 1983, Garzanti pubblicò, nella storica traduzione di Aldo Busi, impreziosito da una introduzione di Giovanni Giudici che ne sottolineò la genesi germinale del Tempo, obbligato e cadenzato dal reale: «In Ashbery la coscienza umana, nella ricerca di dare senso al fluire inarrestabile dell’esistenza, resta vuota, frastornata e attonita, tuttavia carica di un’energia che sfavilla, lasciando intendere sogni, scommesse, emozioni, desideri e chissà quali speranze di felicità[2]».

John Ashbery avverte tutto il potere dei passaggi liminali, non soltanto nella diffrazione tra presente e intonazione passata, ma nella convessità del tempo e nei suoi dispositivi:

«Quelle intricate versioni del vero vengono / sbrogliate, i ringhiosi grovigli estirpati / e sparpagliati. Dietro la maschera / permane una comprensione continentale / del bello, che s’appalesa di rado e quando lo fa già / muore sulle ali del vento che l’ha portato sulla soglia / della parola. Racconto consunto dal raccontare. / Tutti i diari s’assomigliano, limpidi e gelidi, con / la prospettiva di un gelo interminabile. Vengono collocati / in orizzontale, paralleli alla terra, / come i morti che non ci intralciano. Giusto il tempo di rileggere / e il passato ti scivola tra le dita, augurandosi che tu sia con lui».

Il sole si sfarina, il volo aspro delle parole come una pienezza in uno sguardo di specchi aumentano il desiderio di pienezza e separatezza, immedesimazione, ombra e riflesso di una leggibilità nascosta, laddove il mondo non viene rappresentato bensì è esso stesso proprietà, avviluppo e inconoscibilità:

«dalla notte affiora il ricordo / le sue foglie come uccelli che si posano all’unisono sotto un albero / raccolto e scosso di nuovo / messo giù in rabbia fiacca / sapendo come lo sa il cervello che ciò non si può mai inverare / non qui non ieri nel passato / solo nella lacuna dell’oggi che colma se stessa / mentre il vuoto è suddiviso / nell’idea di che ora sia / quando quell’ora è già passato».

In tale inconoscibilità che non ammette conclusione nette e risposte preconfezionate, il challenging di Ashbery squilibra le pupille del senso, in un universo di perfezione che non teme irresolutezza e luci dissipate, e che, nel dono essudato della parola, pone la sua linea, il tatto che si sottrae, la scatola intonsa di un monologo ritagliato:

«Uno sguardo di specchio ti arresta / e tu passi oltre scosso: ero io il percepito? / Mi hanno notato, stavolta, così come sono, / o tutto è ancora rimandato? I bimbi / ancora intenti ai giochi, nuvole che salgono con agile / impazienza nel cielo pomeridiano, per dissiparsi / quando scende il limpido, denso crepuscolo. / Solo in quel colpo di clacson / là in fondo, per un attimo, ho pensato / che l’insigne evento formale stesse iniziando, orchestrato, / i colori addensati in uno sguardo, ballata / che abbraccia il mondo intero, adesso, ma con dolcezza, /ancora con dolcezza, ma con ampia autorità e tatto. / La prevalenza di quei fiocchi grigi che cadono? / È pulviscolo di sole. Hai dormito al sole / più della sfinge, ma non ne sai più di prima. / Entra. Ho pensato che un’ombra tagliasse la soglia / ma era soltanto lei venuta a chiedere ancora una volta / se intendevo entrare, e in caso contrario di prendermela calma. / La lucentezza della notte s’insedia. Una luna dal pallore cistercense / ha scalato la vetta del firmamento, vi si è installata, / socia adesso nell’affare del buio. / E un sospiro sale da ogni minuscola cosa terrena, / da libri, carte, vecchie giarrettiere, dai bottoni di sottomaglie e mutandoni / riposti in una scatola di cartone bianco chissà dove, e tutte le versioni / inferiori di città rase al suolo dalla livella della notte. / L’estate troppo esige, troppo prende, / ma la notte, schiva, reticente, dona più di ciò che sottrae».

Anche il dettaglio partecipa alla scena. Un dettaglio frazionato e scomposto che aggredisce dolcemente la pagina. Se di postmoderno si tratta, il postmodernismo presunto di Ashbery è un oltre di senso disfatto e raggiunto, laddove l’orizzonte spazio-temporale conosce i salti e l’incorruttibilità e l’inerzia.

Il colore si accompagna alla stasi sconvolta, per schernire luci ventose e planare con l’acuto diaframma della distopia, della forma scomparsa ma emersa all’improvviso e dell’inconscio sottaciuto nei nomi che germinano e nell’attesa piena. Le parole sono anti-figura, effigiano spaesamenti, mimano immanenze. Sotto l’elusività esiste la necessità di una materia cangiante, come

«qualcosa di incandescente, di urgente, di vero, e che anzi questa verità si possa cogliere solo rinunciando a quella sorta di coazione alla coerenza che costituisce in fondo una della illusioni fondanti del cogito: se la poesia di Ashbery, come ha scritto qualcuno, rischia di «far sentire stupidi», questo andrà considerato come il primo necessario passo per una maturazione profonda che implica persino, come dichiara lo stesso poeta americano in una risposta alle mie domande, un accrescimento di sapienza o di saggezza[3]»:

«Vede i quadri alle pareti, / mero campione del vero. / Ma non se ne ha mai abbastanza. / Il vero non appaga. / In una vaga stanza d’albergo / le sfilze di chiazze lievitate / dal crepuscolo erano giorni e notti / e al largo sul mare / perdurava il desiderio di essere un sogno a casa / nuvola o uccello assopito nell’abbeveratoio / d’acque digressive».

Il territorio della poesia raggiunge gli argini della mitopoiesi e della metalinguistica, li alterna, sfrangia i codici, frequenta la parodia e la dissacrazione come riflessione fatale:

«Come un temporale, diceva, le trecce di colore / mi dilavano e non sono per niente d’aiuto. O come chi / a un banchetto non mangia, perché non sa scegliere / tra i piatti fumanti. Questa mano amputata / impersona la vita e per quanto vaghi, / est o ovest, nord o sud, è sempre / un estraneo che mi cammina accanto. O stagioni, / bancarelle, chaleur, ciarlatani dai capelli scuri / ai margini di qualche fête rurale, / il nome che buttate lì senza mai dirlo è il mio, mio! / Un giorno mi rivarrò su di voi per quanto logoro / sono a causa vostra ma nel frattempo il giro / continua. Si uniscono tutti al giro, / pare. E poi, che altro ci sarebbe?»

Spingere la parola, partendo dall’abisso della cifra ricolma ed orfica di Whitman, dalla densità separata di Emily Dickinson, dalla nudità suprema di Emerson e Wallace Stevens, al battito surreale e improvviso della Beat o l’impronta rinascimentale, fino all’amato Raymond Roussel e ai Surrealisti degli anni ‘20, cercando però un’espressione che sia distruzione convenzionale e celamento, è il suolo poetico di Ashbery, dove il sotterraneo rivelato si unisce al visibile:

«L’ombra della veneziana sulla parete dipinta, / ombre di sansevieria e cactus, animali di gesso, / inquadrano la tragica melancolia dello sguardo che acceso / fissa il nulla, un buco simile ai buchi neri nello spazio. / In reggiseno e mutandine raggiunge leggera la finestra: / zip! S’alza la tenda. Un fragile teatrino di strada si palesa / con ostie di pedoni che sanno dove andare. / La tenda scende lenta, lente si schiudono le lamelle. / Perché deve sempre andare a finire così? / Un podio con donna che legge, con il parapiglia dei capelli / e il non-detto di lei che ci riattira a lei, con lei / nel silenzio che la notte di per sé non può spiegare. / Silenzio della biblioteca, del telefono con il suo blocco- note, / ma nemmeno questi li abbiamo dovuti reinventare: / se ne sono andati nella trama di un racconto, / nella parte sull’“arte” – sapere quali dettagli di rilievo lasciar fuori / e il modo in cui si costruisce un personaggio. Cose troppo reali / per porvi troppo pensiero e quindi artificiali, eppure ormai sparse a coprire la pagina. / L’interno con l’esterno che diventa parte di te / nel vedere che non hai mai smesso di ridere in faccia alla morte, / lo sfondo di tralci scuri sul contorno della veranda».

Anche per Ashbery vale la tela verbale di un ipotetico dripping pollockiano, composto di epifanie spaiate, dove la poesia diventa possibilità, ritratto di luce e sua eventuale esplosione:

«Vivere con la ragazza / venne gettato a pedate nella zolla delle cose. / Ci fu una gran scenata a fine giugno, / gente che va e viene / prima che si lasci perdere la faccenda. / Ma rimane, come lei che accenna appena / ad accigliarsi, o le foglie che sgocciano / di rabarbaro e malvone, / anch’esse temporanee nella sconfitta. / Nessuno ride ultimo».

O ancora la cifra della torva fecondità:

«Quasi subito l’olio ha / preso il posto del / buio che ti circonda. Tutto è andato / come predetto, ma / comunque non è mai suonato bene: / una frazione qui, una lisca dove non aveva importanza. / Va offerto / attraverso un varco inappellabile: peri e fiori / un supremo muro resinoso / che si crogiola nel clima temperato / della tua identità. Torva fecondità / da tenere d’occhio».

Costruzione e non già distruzione, quanto filo invisibile:

«Così ciascuno si trovò preso in una rete / come una moda, e ogni sforzo per districarsene / lo avviluppava di più, inesorabilmente, visto che tutto / là esisteva per essere raccontato, sparato / da confine a confine. Qui c’erano pietre / che si leggevano come chiazze di sole, c’era il racconto / dei nonni, del giovane campione vigoroso / (le battute un tempo assegnate a un altro, adesso / restituite al nuovo oratore), cene e riunioni, / la luce nella vecchia casa, il modo segreto / delle stanze di sfociare l’una nell’altra, ma tutto / era circospezione del tempo che contemplava se stesso / poiché nulla nell’intricato racconto si espandeva di fuori: / la grandiosità nell’istante del narrare restava irrisolta / finché la sua sovrabbondanza di eventi, dolore commisto a piacere, / non sbiadì nell’attimo esatto dell’esplodere / in fioritura, la sua crescita statico lamento».

Il titolo della raccolta, che riprende l’opera del Parmigianino del 1524, raggruma il richiamo della deformità dello specchio convesso alla limpida costruzione dello spazio geometrico e lineare. La mano della tela sovrappone due dimensioni di realtà, due spazi prospettici. Essa entra nel quadro, come una vasta porzione:

«Come lo fece Parmigianino, la mano destra / più grande della testa, protesa verso lo spettatore / mentre con naturalezza sfugge, come a proteggere / ciò che sfoggia. Qualche vetro piombato, travi antiche, / pelliccia, mussola pieghettata, un anello di corallo confluiscono / in un movimento che sostiene il volto, che fluttua / avvicinandosi e allontanandosi come la mano / tranne che è a riposo. È quel che è / sequestrato».

Harold Bloom commenta:

«Il gesto difensivo della mano è una formazione reattiva o illusio teorica, dato che ciò che si vuol dire è che la mano agisce come per promuovere ciò che protegge. Qui lo sfuggire è un’altra modalità del riposo, così che la difesa non tanto protegge quanto sequestra, termine il cui antecedente tardo-latino aveva il significato di “rinunciare per mettere al sicuro”. Ashbery cita la descrizione di Vasari della sfera di legno tagliata a metà su cui Parmigianino ha dipinto quella che il poeta descrive come l’ “onda reiterata / d’arrivo” del volto[4]».

Il dualismo dell’anima e del corpo segna la sovrapposizione del ritratto. È un attimo di rêverie che soggiace a un indizio di melanconia alchemica, tra le mani dell’arte. La poesia-specchio del mondo che, pur rendendo temporale il gesto, lo eternizza. Essa richiama, rinvia, sfugge la propria genesi come uscio interminabile («Può darsi la mano / abbia volontà sua di ingigantirsi sul muro, / di farsi più grande e greve e forte / del muro; e che la mente / ricorra ad allegorie solo sue e proclami: / “Quest’immagine, quest’amore, di questi / mi compongo. In questi mi manifesto esteriormente, / in questi, mi vesto d’un lindore essenziale, / non come nell’aria, che tende all’azzurro acceso, / ma come nel possente specchio del mio desiderio e volontà”»):

«L’anima instaura se stessa. / Ma fin dove può fluttuare lontano attraverso gli occhi / e ancora tornare sana e salva al proprio nido? Essendo / la superficie dello specchio convessa, la distanza aumenterà / considerevolmente; vale a dire quanto basta per asserire /  che l’anima è un prigioniero, trattato in modo umano, tenuto / sospeso, incapace di incedere molto oltre / il tuo sguardo che intercetta il dipinto».

Ancora Bloom:

«Ashbery va a caccia dell’anima, seguendo Parmigianino, e trova solo due entità disparate, una mano “grande abbastanza / da sfasciare la sfera”, e un vuoto ambiguo, una stanza senza recessi, solo alcove, uno studio che resiste a ogni cambiamento, “stabile / nell’instabilità”, un pianeta come la nostra terra, in cui “non ci sono parole per la superficie, cioè, / nessuna parola per dire ciò che è in realtà”[5]».

La caccia dell’anima è mutila d’interezza. Un incanto distopico e intenso che racchiude tagli, luci e simboli. Nella superficie avviene quel che c’è, senza cui nulla può esistere, nemmeno il corso del tempo. La superficie è orizzonte profondo e instabilità stabile di analessi. Il suo dislocamento rimane una protrusione di sogno, simile al vivere, o meglio al gesto vivente e la sua kenosis, per dirla alla Bloom:

«La kenosis è la ratio prevalente in Ashbery, e tutta la sua poetica sta nell’“[esalare] la propria forma con un gesto che esprime quella forma”. Cos’altro, se non la forza del passato, il vigore della sua tradizione poetica, avrebbe potuto portare Ashbery alla sua soglia successiva, allo stacco disgiuntivo o attraversamento del solipsismo che lui oltrepassa tra il terzo e il quarto paragrafo in versi? La transizione avviene “dal sogno alla sua codifica” fino alla sorpresa angelica o demoniaca del volto di Parmigianino/Ashbery. Il Portentoso o Sublime fa il suo ingresso sia attraverso la repressione del ricordo del volto sia attraverso un ritorno del represso grazie a ciò che Freud ha definito Negazione».[6]

Ecco Ashbery:

«Mentre comincio a scordarmene, / ripresenta il suo stereotipo / ma si tratta di uno stereotipo inconsueto, il volto / all’àncora, scaturito dai rischi, che di lì a poco / altri ne avrebbe abbordati: “piuttosto angelo che uomo” (Vasari). /  Forse un angelo ha le sembianze di tutto / ciò che abbiamo scordato, intendo dire di cose / scordate che non paiono familiari quando / ci imbattiamo di nuovo in esse, perdute indicibilmente, / seppur nostre, una volta».

La frammentazione degli istanti è il sussurro, la rimembranza fuori dal tempo. La frattura e il tormento, la stanza radiosa, la luce di aprile e il limite raccontano la precocità precaria di un abisso che si consegna, immolando tutta la sua totalità:

«Ogni cosa accade / sul suo balcone e viene ricapitolata al suo interno, / ma l’azione è il freddo flusso sciropposo / di una sfilata in maschera. Ci si sente troppo limitati, / setacciando in cerca di prove la luce di aprile, / nella pura immobilità della serenità del suo / parametro. La mano non regge alcun gesso / e ogni parte dell’insieme si deteriora / e non può sapere di aver saputo, se non / qui e là, in gelidi recessi / di rimembranza, sussurri fuori dal tempo».

[1] Ashbery J., Autoritratto entro uno specchio convesso, a cura di Damiano Abeni, con uno scritto di Harold Bloom, Bompiani, Milano 2019.

[2] Affinati E., L’energia di Ashbery il più grande poeta di quest’epoca, in “Roma Sette”,  18 settembre 2017.

[3] Gezzi M., Benvenuti in un mondo che non può essere migliore. Intervista a John Ashbery, in «Poesia», XXII (2009), 234, gennaio 2009.

[4] Bloom H., Frantumare la forma, cit.

[5] Id., cit.

[6] Id., cit.

 

 

 

 

 

 

 

Vladislav Chodasevič: la frattura del buio

In Non è tempo di essere[1], a cura di Caterina Graziadei, che contiene testi da Giovinezza (1908), La casetta felice (1914) e Raccolta dei versi (1927), Vladislav Chodasevič (1886-1939) osserva il mondo, contemplandone l’oscurità separata, la non-appartenenza, la scissione martire e la frattura abbuiata che respira finestre di tempo come distanze.

La studiosa afferma:

«La finestra è centro di uno stralunato universo, lente e focus di un occhio testimone, di un poeta che è soprattutto sguardo. […] Discrimine fra interno ed esterno, la finestra diverrà nel tempo soglia creativa, trasparenza da cui si vede e si è visti, duplicità dello sguardo riflesso, che accoglie in sé i molti significati dell’occhio, della rifrazione. Infine, già nell’infanzia, essa prefigura la costante attrazione per la vertigine all’ingiù, per il suicidio. Di un’accidentale e fortunosa caduta dalla finestra scriverà nella prosa autobiografica Infanzia (1932), stilizzata sul modello baudelairiano delle Fusées o del Peintre de la vie moderne, dove il poeta ricorda il primo formarsi del gusto, il viluppo di inclinazioni e sensi che formeranno poi l’ordito di molta sua poesia e di altrettante scelte di vita».[2]

Morto in esilio nel 1939, a Parigi, nella vigilia del secondo conflitto mondiale, schiacciato dal lungo calvario che toccò anche Mandel’stam e Pasternak, nella ideale triade che ne fece Renato Poggioli, negli anni ’40 e ’50, egli è il poeta che, diacronicamente, avverte il peso dell’eclisse dello sradicamento, in quella meraviglia complicata, come disse Nabokov, che rimane lacerto di ferita insanguinata ma che resiste nella sua tramontata e scabra perfezione, annunciando, così, la vertigine dell’orrore degli specchi infranti, la rifrazione dello sguardo nella notte europea del secolo[3] e il tremore della morte.

E nella intonazione insonne della sua malattia,  come «Baudelaire “dandy précoce”, egli partecipa della qualità androgina che da quel mondo deriva e sembra distinguere l’artista, il funambolo, o il ballerino[4]».

Chodasevič avverte la dissonanza come febbrile esecuzione dell’anima[5], l’infero che diviene dimora in un universo doppio, in una disgregante armonia di suono e disvelamento, ed è nella morte che tocca la sua ferita aperta e febbrile, che si afferma  la sua luce attardata e intiepidita («Come tedio si riversa / nel fumaiolo gelato – l’urlo del vento! / Attorno a me si stringe il cerchio, / attorno alla fronte Angoscia intreccia / il mio fatidico serto»), come uno scarto di sogno inchiodato che scandisce la storia («Solo, fra le anse del fiume, / allo stridìo di attardate gru, / oggi di nuovo apprendo / la muta sapienza dei campi. / Si fanno più occulti, più gravi i pensieri, / più cauto il fruscìo della canna. / Alla foglia caduta nel letto sabbioso / offre il fiume tetra sepoltura»).

In un dittongo impronunciabile, essa decifra il percorso di una «una psicanodia, percorso dell’anima che aspira a abbandonare l’involucro del corpo per rientrare alla patria celeste e insieme narrare le sue sofferenze, le difficoltà di questo accidentato cammino. Un itinerario all’insù che volge in uno sciagurato precipizio: se il volo d’Icaro era fallito per arroganza, l’anima invece si perde per lo sconforto[6]».

Chodasevič compone il suo territorio di vastità immemori ed escluse, fondendo il volto del fato in danza incerta e verticale di metafisica e di respiro quotidiano, muovendosi «lungo una dinamica costante di attrazione-repulsione, alto-basso, cielo e terra; spesso con uno scarto irritato per la volgarità e l’usura dei giorni feriali rovescia la divagazione filosofica, la visione ultraterrena nello stretto orizzonte del cortile, comprime e riduce la tensione metafisica nei logori stampi di una trivialità cittadina, quotidiana[7]»:

«Come una silhouette sull’azzurro lunare, / nereggia un ramo in merletto bruciato. / Come un fantasma sei sorto sull’erba, – / come una silhouette sull’azzurro lunare, – / hai levato al fogliame incurante / immote braccia contorte in meandri… / Come una silhouette sull’azzurro lunare, / nereggia un ramo in merletto bruciato. // II  Da dietro i tronchi la riviera immemore / dondola chiazze di puntillismo lunare. / Oh, quanto pura, quieta, spensierata / da dietro i tronchi – la riviera immemore! / Oscura arrivasti da lontano / in cerca di oblio, di una sosta alla culla lucente. / Da dietro i tronchi la riviera immemore / dondola chiazze di puntillismo lunare…».

Ecco, dunque che il destino del poeta diviene furtivo e rarefatto. Un’oscura e solitaria lacrima di incontro. Come scagliato dall’abisso respira l’inestinguibilità del suo vocabolo di fuoco, vibrando il suo stelo sottile che non vacilla nell’aria diafana.

Vi è, allora, un offuscamento nel suo gesto lirico che tocca gli occhi esausti degli ardori primaverili: una lunga passeggiata che cerchi pace e possa portare all’anelito dell’anima, come una quieta salmodia di tenebre che risale fino a Puškin.

L’imprevedibilità dei suoi contrasti dissipa gli orientamenti in una calibrata vertigine calante, dove i sogni dell’anima attraversano tende arabescate e segni cifrati che varcano il tempo e lo spazio, fino alla calamità dei cretti:

«È bello che al mondo / ci siano magiche notti, / il ritmico scricchiolio dei pini, / l’aroma di comino e camomilla / e la luna. / È bello che al mondo / ci siano ancora bizzarrie del cuore, / che la principessa, pur senza amare, / conceda un bacio impresso / sulle labbra. / È bello che in forma di ali / sullo stradello d’argento, / si sciolga in ombra lieve, / e oscillando si afflosci, / un nastro nero. / È bello sorridendo pensare / che la principessa (pur senza amare!) / non dimentichi la notte di luna, / né i baci, e me neppure, – / ora né mai!».

Il suo scavo insegue la densità della materia, entrando nella penombra del tempo incerto e maturo, sconfinato nella morte e nel varco della ultimità e del rinnovamento: «Brilla d’oro nel suo palmo il chicco di grano / nella terra nera destinato a cadere. / E là dove cieco il verme si apre il cammino, / in un tempo segreto morrà per germogliare. / Così va la mia anima per la via del grano: / scesa nel buio morrà – per rivivere ancora. / Tu pure, mia terra, e tu con lei, suo popolo, / traversando questo anno morrete a nuova vita, – / poiché una sola saggezza ci fu data: / tutto il vivente vada per la via del grano».

In Chodasevič, troviamo la cifra di un allarme imminente: « Anche in sonno l’anima non ha riposo: / sogna la veglia, inquietante, terrena, / e attraverso il sonno odo un delirio, / che a stento la vita del giorno mi ricorda».

È come se tutta la radiosa trama del paesaggio fosse minacciata da un sabotatore interno, un’anima inquieta, una nera coltre socchiusa e acrobata che disgrega gli inizi di ogni corso segreto, di ogni attesa leggera e di un fuoco che fa chiudere gli occhi:

«Come accade / quando col remo stacchiamo la barca / dalla riva sabbiosa; ancora il piede / tocca netta la terra sotto la chiglia, / e vicino appare il verde della riva, / la catasta di legna; poi una scossa – / e la riva si allontana; più piccolo / si fa il boschetto dove noi vagavamo; / sale dal bosco un fumo; ed ecco – oltre / gli alberi già la radura appare col rosso / capanno termale. / Così me stesso / vidi in quell’istante, come quella riva; / vedevo d’un tratto di lato, quasi / guardassi un poco dall’alto, a sinistra. / Sedevo, le gambe incrociate, sprofondato / nel divano, la sigaretta ormai spenta / tra le dita, pallido e smagrito. / Gli occhi erano aperti, ma la loro / espressione non potevo vedere. / L’altro me stesso, seduto di fronte, / non percepivo. Mentre chi mi guardava, / con occhi forse incorporei, a suo agio / sembrava, leggero e tranquillo. / E l’altro, seduto sul divano, / mi apparve soltanto un amico di sempre, / estenuato da un lungo viaggiare. / Quasi fosse venuto mio ospite, / e, di colpo, ammutolito nel quieto discorso, / scuotendosi, morisse in un solo sospiro. / L’amaro sorriso abbandonava il volto / rasserenato. / Così vidi me stesso per poco: certo / la lancetta dei secondi non aveva / compiuto un quarto del giro dovuto. / E come prima non per mio volere / avevo abbandonato quell’involucro – / così di nuovo vi tornai. Pure / duravo pena e fatica al ritorno, / sgradito persino allo stesso ricordo. / Non diversa angustia patisce e pena / il serpente costretto a inguainare / di nuovo la pelle appena scrollata… / Di nuovo / rividi innanzi a me i libri, / riudii le voci. Mi era fatica / ancora sentire quel corpo, le mani… / Così, lasciati i remi e balzando a riva, / ci sentiamo a un tratto più gravi. / Fluiva in me nuovamente il languore / come di un lungo remare, – nell’orecchio / suonava indistinto un rumore, un’eco / prigioniera di vento lacustre o di mare».

Il suo abito di sogno avverte la ruvidezza del corpo fiaccato e della finitudine. Il suo orizzonte proclama il riflesso di una imminenza di fine frustrata, ricolma di dissonanze e senso disperato: «È la mia anima come una luna piena: /  limpida e fredda. /  In alto splende e risplende – / né le mie lacrime asciuga; / non si dà pena della mia sventura, / né ascolta il gemito delle mie passioni; / l’anima che brilla non mette cura / a quanto mi fu dato patire».

La luce di Chodasevič diviene un fulcro di gemme flebili e aggrottate, il ricordo del meriggio è materia finita che percorre le linee della immota realtà, il mysterium tremendum il buio di luna verde e anima che vacilla e sgambetta sulla scena azzurro-lunare. È la conclusione della sua nigredo che tutto ammanta e fa perire:

«Ogni suono mi tormenta l’udito, / gli occhi ferisce ogni raggio. / Comincia a spuntare lo spirito / come un dente fora la gengiva gonfia. /  Spunterà, spogliandosi della scorza consunta. / In mille occhi svanirà nella notte, / non in questa notte cinerina. / E rimarrò qui lungo disteso – / banchiere trafitto da un apache – / con la mano premendo la ferita, / a gridare e dibattermi nel mondo vostro».

O ancora: « Guardo dalla finestra, e disprezzo, / Guardo me stesso, pure disprezzato. / Invoco tuoni sulla terra, / senza credere al cielo. Avvolto dal fulgore diurno, / vedo solo un buio senza stelle… / Così sull’aiuola si torce il verme, / reciso dalla vanga pesante».

Caterina Graziadei commenta:

«La diffrazione dello sguardo scaturisce da una prospettiva metafisica che altera e separa, sdoppia la realtà. È un demone che propaga dissonanza nell’anima e nei versi del poeta. Ed essa risulta artificio strutturale della poetica di Chodasevič, presiede alla dicotomia dei due emisferi in cui è spezzato il mondo, aiuola dove il poeta si torce come «verme reciso da una vanga pesante» (Guardo dalla finestra, e disprezzo…). Dissonante è l’inframondo terreno, popolato di piccoli demòni stolti, opposto all’empireo inattingibile dell’anima, oppure il quotidiano che d’improvviso irrompe nella speculazione metafisica, secondo uno schema a contrasto in cui spesso la stanza o il distico finali contraddicono il senso dei versi precedenti, con effetto sentenzioso o sarcastico, fissato nella brevità dell’aforisma: «… ma stràppati: pietra da una fionda, / stella, spiccata nella notte… // […] Chissà cosa borbotti fra te e te / in cerca delle chiavi o del pince-nez» (Travalica, trasalta…)».[8]

L’inerzia malevola della realtà stringe gli strati della terra, il fruscìo del requiem, la mano estranea assiderata, dove volge la cifra del tormento flebile come risveglio trascinato e minacciato che affronta gli ossimori di anima e corpo, come un’anamorfica erma bifronte: «Allora le cose attraversano il corpo fisico del poeta e ne invadono, aggrediscono lo spazio interiore, psichico: la centralità dell’io è dislocata ai margini con violenza, il voyerismo è il segno della sua perversione[9]».

La poesia diventa così presagio di angoscia e di pena, un vicolo lontano dove l’acero ingiallisce e il nero cappello si rotola sulla sabbia, e dove «anche attraverso l’afa spiri / dell’Ade la frescura».

Il verso è disadorno e nudo, l’anima essenziale, dimessa e disadorna la linea che prosciuga il vivente in un frattale oppositivo, quasi sentenzioso, per far affiorare la dimensione interna o ciò che si affaccia all’esistere, come può essere una strada.

È il sintomo del suo esilio:

«Alla mia mano non è dato sollevare / il velo dell’occulta Maia, / ma prodigioso un mondo si specchia / nella tua pupilla dilatata. / Là con unione inconcepibile / si palesano l’amore e la strada: / l’ardere dell’etere fiammante / insieme al disgelo di primavera. / Un cosmo luminoso vi affiora / dalla mossa cortina delle ciglia, / vortica e fiorisce come la stella / dei raggi in una bicicletta».

Lì si innerva la sua misura, spesso luttuosa e recisa, dove il mondo ctonio emerge in tutta la sua innervata tenebra, in cui il dialogo con Dio ha il sapore di una consegna di anima che liberi il corpo, nonostante Egli diventi spesso un rivale, divenendo però il tramite per una trasfigurazione simbolica.

Solo lì l’anima acrobata afferma il momentaneo orizzonte della leggerezza, il suo precario spirito che crepita. Chodasevic afferma il suo esilio fioco e orfico: «Risplendi nel fulvo riverbero, / e strida la penna solerte. / Vive nel suo rapido crepitio / tutto l’anelito del mio essere».

L’anima è divisa. Le certezze sono labili come il tempio della vanitas di tutto ciò che c’è, salvate da un lieve affioramento di schegge antiche e pesante lira: «I piedi alla infera fiamma, / la fronte alle stelle vaganti».

È come la sua Pietroburgo disseminata di cielo ed ombre, tramortita dal buio tombale della Russia. Tutte le sue slogature interiori passano da un selciato dismesso, consegnano la lingua umana, contrassegnata da una libertà severa.

La Musa de La notte europea è inquietante, laddove il supplizio sensoriale si esplica nella minaccia della città, nelle sfere estranee dell’essere, nel cielo cieco e nella notte che estende il giorno.

In una tragica Berlino (il poeta l’aveva raggiunta nel 1922 con Nina Berberova), che assomiglia tanto a San Pietroburgo, Chodasevič sente tutto il peso della sua finitudine tragica. Non solo per la conformazione della città e il suo grigio-brunastro invernale, ma per il senso di troncamento, di tenebra e di ombre allungate. Un bagliore secco e fosco che genera doppi, trasfigurazioni mostruose e stridore cacofonico di un mondo altro:

«L’Ade, sempre così prossimo ai versi di Chodasevič, appare adesso come una realtà quasi tangibile, Berlino diviene anche per lui antiporta del Tartaro, prefigurazione dell’Apocalisse che travolgerà l’Europa fatiscente sotto la spinta della nuova barbarie, attesa e preconizzata da alcuni intellettuali europei prima del nazismo. Nella Berlino “meccanica”, come a Saarow, vicino luogo di

villeggiatura dove Chodasevič è ospite di Gor’kij, anche la natura non offre consolazione: è matrigna, infuoca e arroventa una «erba sbiancata, mezzo tramortita», oppure bagna, fradicia, imputridisce».[10]

Nel suo colore smarginato come una sorta di anti-paradiso, nella catabasi di illusione e vitale prospettiva, nella malìa come sospensione fotografica, nello straniamento distorto, Chodasevič colloca la sua creazione ammutolita e il piombo dell’inattingibile sul sogno deluso: «Non è tempo di essere, ma di sostare, / non tempo di vegliare, ma di dormire, / come dorme l’embrione dall’erta fronte, / e nella molle eternità di nuovo / ravvolgersi come dentro un utero».

 

[1] Chodasevic V.F.., Non è tempo di essere, a cura di Caterina Graziadei, Bompiani, Milano 2019.

[2] Graziadei C., Un’intonazione senile, in Chodasevic V.F.., Non è tempo di essere, cit., p.7.

[3] De Michelis C.G, L’undicesimo poeta russo, in “La Repubblica”, 23 luglio 1993.

[4] Graziadei C, cit., p.7.

[5] Id., La dissonanza nella poesia di Vladislav Chodasevic, in «Europa Orientalis», 4, 1985.

[6] Id., Un’intonazione senile, cit., p.9

[7] Graziadei C., La dissonanza…, cit., p.82.

[8] Id., cit, p.9.

[9] Id., cit., p.84.

[10] Id., cit., p. 11.

 

 

 

 

 

 

 

Nicanor Parra: il poeta sceso dall’Olimpo

Nicanor Parra (1914-2018) esplora la prolifica sperimentazione laica della poesia, attraversando la vertigine terragna dell’essere e, come scrive Matteo Lefèvre, nella raccolta L’ultimo spegne la luce[1], appena edita da Bompiani,

«ha saputo condurre agli estremi le possibilità della creatività in versi, inaugurando il “genere” dell’antipoesia e riuscendo a scardinare dall’interno il sistema delle lettere sudamericane grazie a una beffarda, ostinata azione corrosiva. Ed è andato anche oltre: da questa violazione, dal lavorìo ai fianchi di Calliope e dei suoi sacerdoti e adepti, ha dato vita a un nuovo modo di concepire la scrittura lirica, alimentando una musa prosaica in grado di accogliere nel suo regno quanto in precedenza da esso era proscritto poiché intollerabile a livello di linguaggio e di argomento, inaudito in termini di motivi e protagonisti».[2]

L’erosione della cultura poetica tradizionale, la frantumazionedisincantata della forma lirica, lo scompaginamento della retorica e dello stile, la sapida mordacità, il Cile come patria tracimata (nacque a San Fabián de Alico, vicino a Chillán, nella regione centrale del Paese, da una famiglia della piccola borghesia di provincia) segnano il gesto poetico di Parra, visto non già nell’opposizione poetica, ma come agone a una certa idea paludata di poesia, ristretta in uno stantio e processuale iter poematico, in cui il poeta smette di avere un crisma di profezia, divenendo margine precario e vitale e dando voce alla bellezza impenetrabile delle metropoli latinoamericane, guidato

«dal desiderio sessuale più che dal trasporto amoroso, da una fame picaresca più che dalla coscienza di classe, dal culto dell’opportunità materiale più che da qualsiasi anelito trascendente. Nell’opera di Parra sfila dunque un’umanità sbilenca, spesso senza storia e senza memoria, una moltitudine di figure antieroiche che fanno dei bisogni primari e di un’esistenza ordinaria, triviale, la propria bandiera; e tra costoro si inserisce anche lo stesso autore, il quale nei suoi vari autoritratti si definisce perlopiù come un individuo sgangherato, un uomo qualunque, materiale e prosaico, un soggetto dimesso, nient’altro che un “insegnante in un liceo oscuro”, un impiegato “abbrutito dalla cantilena / di cinquecento ore a settimana”».[3]

Lefèvre afferma ancora:

«I versi di Nicanor Parra mettevano in crisi un sistema che in Cile si era retto per decenni su un comodo, rassicurante equilibrio degli opposti, su un pantheon di figure accreditate che rappresentavano sia la linea conservatrice sia il suo rovesciamento più o meno polemico in nome di uno stanco epigonismo delle correnti primonovecentesche oppure di una poesia organica al dogma politico e sociale di turno. Per intenderci, da un lato resistevano vecchi moduli modernisti accanto ai temi senza tempo della lirica (amore, morte, Dio, natura ecc.), abbinati spesso al culto delle radici storiche del paese e dell’intero continente, dalla mitologia indigena ai luoghi selvaggi della Patagonia; dall’altro si trascinavano stancamente linee di scrittura e compromesso che riprendevano una sperimentazione ormai trita oppure gli assiomi propugnati dall’ideologia, specialmente quella socialista, che cominciava a dare alla letteratura patria anche una visibilità su scala globale».[4]

L’antipoeta è un funambolo provvisorio che abita il ciglio dell’essere, lo vive nel’abisso della dimora e dell’incontro con figure di ogni risma estrema, dove il feroce affresco si unisce al territorio fantasmatico della volubilità, della transitorietà dei passaggi e dell’ontologia distorta.

Il poeta stesso diventa, dunque, persino parodia non di se stesso, ma dell’aurorale sacralità del suo messaggio, inscenando il teatro dei segni, mostrando inquietudine e visceralità, ritratto e acume di sogno caustico.

Nella o-scena demitizzazione della poesia, egli compie un’anti-missione, una vertigine anti-tradizionalista, dove il contrario, l’ossimoro, l’opposizione si aggrappano al relitto divino, allo smascheramento borghese della società, e dei suoi relitti, denudati davanti allo specchio: «Non gettiamoci polvere negli occhi / L’automobile è una sedia a rotelle / Il leone è fatto di agnelli / I poeti non hanno biografia / La morte è un’usanza collettiva / I bimbi nascono per essere felici / La realtà tende a scomparire / Fornicare è un atto diabolico / Dio è un buon amico dei poveri».

L’individuo diviene l’incisione irrigata della realtà, il limen navigato, la meta viandante e spericolata di una umbratile tensione conoscitiva, dove il tessuto paradigmatico e paradossale si spinge oltre l’apparenza, la cifra stilistica e la creazione, per divenire radicata suspension of disbelief.

Parra rappresenta la traslazione della fuga attraverso l’azzardo, l’alternanza di codici, la taglio della poesis, l’embrione della parola corrosiva che si appropria della quotidianità per diventare linea lapidaria e spesso ironica, urgenza e gesto vivente di domanda fino all’oblio azzurro («Oggi di primavera è un giorno azzurro, / Credo che morirò io di poesia, / Di quella malinconica ragazza / Io non ricordo ormai neppure il nome. / So solo che passò per questo mondo / Come una colomba fuggitiva: / Io l’ho dimenticata, lentamente, Come tutte le cose della vita»):

«Questo indistinto signore assomiglia / A una figura da museo di cere; / Guarda attraverso le tendine logore: / Che vale di più, l’oro o la bellezza? / Vale di più il ruscello che si muove / O la pianta ben salda sulla sponda? / In lontananza si ode una campana / Che apre un’altra ferita, o che la chiude: / È più reale l’acqua della fonte / O la ragazza che si specchia in essa? / Non si sa, ormai la gente non fa altro / Che costruire castelli di sabbia: / Conta di più il bicchiere trasparente / O la mano dell’uomo che lo crea? / Si respira una fragile atmosfera / Di cenere, di fumo, di tristezza: / Ciò che è stato una volta non sarà / Più così, dicono le foglie secche. / Ora del tè, pane tostato, burro, / E tutto avvolto come in una nebbia».

Se la ricerca poetica abbraccia ogni contatto, lo svolge attraverso un indocile apprendistato (Huidobro, Pablo de Rokha, Gabriela Mistral e il giovane Neruda, fino ad Alberti e Lorca), avvertito in Cancionero sin nombre (1937), successivamente inizia a comporre la sua fertilità eversiva, come avverrà in Poemas y antipoemas (1954), prima cifra di una luce nuova, in cui emerge il signum contradictionis della sua parola, che unisce oscurità e suolo umano («Guarda la gamba umana che pende dalla luna / Come pianta che cresce verso il basso / Quella gamba temibile che galleggia nel vuoto / Illuminata appena dal bagliore / Della luna e dall’aria dell’oblio!»), come avviene in questo Epitaffio:

«Statura nella media, / La voce né sottile né profonda, / Primo figlio di un maestro elementare / E di una sarta di retrobottega; / Magro fin dalla nascita / Pur se devoto della buona tavola; / Dalle guance scavate / E dalle orecchie piuttosto ingombranti; / Con un volto squadrato / Nel quale gli occhi si aprono a stento / E un naso da pugilatore creolo / Scende a una bocca da idolo azteco / – Tutto questo condito  Da una luce tra il perfido e l’ironico – / Né troppo furbo né scemo completo / Io fui così: un misto / Di buon olio da tavola e di aceto / Un insaccato d’angelo e di bestia!».

Parra alterna registri, dall’invettiva al ritorno alla primordialità, dalla meta-letteratura, avvertita nella sotterranea vocazione senza regole, alla instabilità creativa che deve divenire ultimità incresciosa e disposizione umana.

Esiste nella poesia di Parra un conflitto irrisolto tra la pars destruens e quella construens come infinita spaccatura e fuoco solitario. Non solo di stile o lirica che sembrano rinnovarsi e ampliarsi in un gioco linguistico, bensì strutturate o in una luce sinistra, ribelle e scientista (spesso idiosincratica e avversativa, si pensi all’imbonitore di Sermones y prédicas del Cristo de Elqui), o in una istantanea conversativa e distopica, o in una irredimibile confessione che entra nelle trame affettive proponendo la rievocazione, il tempo irriso e riletto.

Il valore del cardine poetico diventa ineliminabile, ma in un contesto comune, nei particolari di ogni giorno, nasce nel cuore del cuore, vive della nudità di spighe e di occhi. È poesia dell’alba, della terraferma. Essa scende dall’Olimpo per porgersi come ombra umana e creaturale di un «rumore moltiplicato dal silenzio: media aritmetica tra il tutto e il nulla».

Il linguaggio si lacera, rappresenta frammenti senza battesimo. In un universo disaggregato, Parra concepisce una salmodia come una lunga sequenza che aggrega polifonie, immagini, sentenze, parola rimestata, numerologie, collage di asprezze e nomi sparsi (Alonso de Ercilla e Gabriela Mistral, Octavio Paz e Juan Rulfo, Ernesto Cardenal, Tomás Lago, Che Guevara):

«Signore e signori / Questa è la nostra ultima parola / – La nostra prima e ultima parola –: / I poeti sono scesi dall’Olimpo. / Per i nostri padri / La poesia è stata un oggetto di lusso / Però per noi / È un bene di prima necessità: / Non possiamo vivere senza poesia. / A differenza dei nostri padri / – E dico questo con tutto il rispetto – / Noi sosteniamo / Che il poeta non è un alchimista / Il poeta è un uomo come tanti / Un muratore che costruisce un muro: / Un costruttore di porte e finestre. / Noi conversiamo / Nel linguaggio di tutti i giorni / Non crediamo in segni cabbalistici».

Matteo Lefèvre commenta:

«Il valore essenziale della poesia, qui accostato a un “bene di prima necessità”, è ricondotto nell’alveo della normalità, delle urgenze concrete dell’essere umano e coincide altresì con un provvidenziale abbassamento della missione dell’artista, a cui non si tributa un sovrappiù di responsabilità morale o anche solo estetica rispetto alla massa; nell’antipoesia non c’è spazio per alchimie linguistiche e concettuali né per alcun privilegio di casta, poiché il poeta “è un uomo come tanti”, è aperto alla vita, al lavoro e alla lingua di tutti i giorni».[5]

La morte rappresenta, come affermato anche da Roberto Bolaño, il segmento apotropaico di una rivelazione che, ironicamente, data anche la longevità dell’autore, diventa una consegna, una smorfia, una sottile concessione. O come accade nei 4 Sonetti dell’Apocalisse, una interminabile successione di croci si evidenzia sulla pagina. L’intima espressione di un sacrificio segnico. Il cuore di una scrittura finale.

[1] Parra N., L’ultimo spegne la luce, traduzione e cura di Matteo Lefèvre, Bompiani, Milano 2019.

[2] Lefèvre M., Un antipoeta alla corte della poesia, in Parra N., L’ultimo spegne la luce, cit.

[3] Id., cit.

[4] Id., cit.

[5] Id., cit.

 

 

 

 

 

 

Ashbery J., Autoritratto entro uno specchio convesso, a cura di Damiano Abeni, con uno scritto di Harold Bloom, Bompiani, Milano 2019, pp. 240, Euro 18.

Chodasevic V.F.., Non è tempo di essere, a cura di Caterina Graziadei, Bompiani, Milano 2019, pp. 400, Euro 20.

Parra N., L’ultimo spegne la luce, traduzione e cura di Matteo Lefèvre, Bompiani, Milano 2019, pp. 432, Euro 20.

 

Ashbery J., Autoritratto entro uno specchio convesso, a cura di Damiano Abeni, con uno scritto di Harold Bloom, Bompiani, Milano 2019.

Chodasevic V.F.., Non è tempo di essere, a cura di Caterina Graziadei, Bompiani, Milano 2019.

Parra N., L’ultimo spegne la luce, traduzione e cura di Matteo Lefèvre, Bompiani, Milano 2019.

De Michelis C.G, L’undicesimo poeta russo, in “La Repubblica”, 23 luglio 1993.

Graziadei C., La dissonanza nella poesia di Vladislav Chodasevic, in «Europa Orientalis», 4, 1985.

Moscardi I., Due poeti (e un antipoeta), in “Corriere della Sera – La Lettura”, 8 settembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

August Von Platen: il nitore senza sosta

di Andrea Galgano 9 agosto 2019

leggi in pdf AUGUST VON PLATEN. IL NITORE SENZA SOSTA

Il gesto lirico di August von Platen (1796-1835) è una materia solitaria e fugace, che si dipana in un’epoca pervasiva di attriti e ombre, la Goethezeit («possiede qualità brillanti, e tuttavia non possiede l’amore», così affermò, di lui, Goethe), che tenta una via peculiare, che si discosta tanto

«dalla generazione dei Romantici, che a quell’influenza avevano cercato in tutti i modi di sottrarsi, quanto da quella dei suoi coetanei, che con fatica cercavano una propria via capace di condurli, che con fatica cercavano una propria via capace di condurli oltre le premesse. Solo e solitario per destino ma anche per vocazione, Platen seguì un proprio itinerario nel quale giocò un ruolo fondamentale l’idea, e l’ideale, della bellezza. […] Il mito della bellezza si esprime così in una poesia che, frutto di studio appassionato, aspira al nitore, alla perfezione e alla pregnanza della lirica classica e come questa tende a celebrare il poeta come divino artefice; ideale luogo di ambientazione di questo progetto tanto ambizioso quanto utopico è il paesaggio italiano, da Platen vissuto – sia a livello di reminiscenza, sia nella realtà fattuale – come un Altrove benefico rispetto all’angustia ispiratagli dal suo paese e dal suo tempo».[1]

La pubblicazione, presso Elliot, grazie alla solerte cura di Andrea Landolfi, delle Poesie (1816-1834)[2], restituisce una sosta di forma e di bellezza, e di nitore viandante, riappropriandosi, così, di un equilibrio raffigurativo fatato, quasi aereo: «Venne Flora, alle tue foglie / il profumo tolse, e disse: / Tu sarai gioia per gli occhi, / l’oro l’aria inebrieranno».

Il marchese di Hallermünde, il cui rapporto con la Germania, risulta essere conflittuale e straniante, sia per il conflitto della sua omosessualità e sia, come sostenuto da Landolfi, per una sorta di poetica «di impronta fortemente elitaria e solipsistica, che tende a trasformare il proprio sostanziale isolamento nella altera solitudine di colui che si sente prescelto a più alti destini[3]», avverte tutta la lacerazione splendente della materia, il suo irretimento e la dolcezza immortale: «Se fanno una ghirlanda questi fiori / a ornarti il capo di colori belli, forse / mi dirai grazie e non me ne vorrai / per quel che è buono e quel che lo è di meno: / Che mai potrebbe darti la poesia? / Tu stesso sei per me un dolce poema, / e se anche il tedio spesso ti intristisce / tu metti ali al canto del poeta».

O ancora, come una invocazione solenne e leggera, il canto di Platen è un’anima nascosta e febbrile, si espande come meta incerta, occulta sentimenti per renderli vitali e feriali nell’orizzonte sottile della poesia:

«Nel maggio voluttuoso della vita / quando l’anima ferve di entusiasmo / io sento che nel desiderio ardente / la mia fiamma vitale si consuma. / Non un vento che tiepido e dolce / mi sorprenda, mi scompigli i capelli; / oppresso e vuoto, inerte navigante / vago per il silente deserto dell’Oceano. / Chi mi dirà cosa devo fare? / Se valgo qualcosa, se posso tentare? / Se otterrò ciò che devo senza pianto? / Tanta fatica al prezzo di un sudario! / Venite dolci canti, dopo il lungo sonno / infondete coraggio al mio cuore / affinchè non sprofondi nel sogno, / non si perda in passioni sviate».

In mezzo l’aspra polemica con Heinrich Heine, che nei Bagni di Lucca, ne denigra la figura e la sua latente omosessualità, costretta ad essere occultata e dissimulata, nel sistema culturale tedesco del tempo e pagata a caro prezzo («Solo lievi parole avete per giudicarmi, / leggere nel mio cuore non vi è fato: / ah, ogni scherzo è solo oblìo di me, / ogni sorriso pago a caro prezzo»):

«Un animo gentile si esprime solo in forma confacente, e questa la si può apprendere solo dai greci, o dai moderni che tendono alla perfezione greca, pensano alla greca, sentono alla greca, e in tal modo comunicano all’uomo i propri sentimenti”. «All’uomo, s’intende, non alla donna, come sogliono i poeti romantici», osservai» […] «il volume recava sul frontespizio: “Poesie del conte Augusto von Platen”, […] e, sulla pagina interna, la scrittura a svolazzi: «Pegno di calda, fraterna amicizia.».[4]

Già nei Diari, Platen aveva espresso tutta la potenza del dolore cieco, la refrattaria precarietà, il suo amore sperduto per lo studente ventunenne Eduard Schmidtlein e per un primo, iniziale per una giovane nobildonna, la ferita o-scena e irrimediabile dell’indicibile, e il patimento oppresso e muto dell’alterità: «Io vado errando / oppresso e muto / chiedi perchè? / Oh, non lo chiedere! / Troppo dolore / mi opprime il cuore: / come potrei / non esser triste? / Si secca l’albero / smuore il profumo, / le foglie cadono / ingiallite al suolo, / un freddo brivido / irrompe impetuoso: / come potrei non esser triste?».

Lo stesso amore è una scheggia infilata nelle carni, un rimando di sogno e ardore, dove la stoffa onirica sedimenta la materia della poesia, il suo gesto vivente e alchemico che invoca la luce, prima di ogni tempo, e che fronteggia l’anima dispari di Arimane, già messo a fuoco da Leopardi:

«Cos’è che ci consola, che ci dà / voglia e coraggio di indugiare quaggiù? / Noi sogniamo vivendo, / noi viviamo sognando. / Non appena cediamo al sonno / ci abbandona il vano nostro io / e da altre sfere brividi presaghi / accorrono benigni a cullarci. / Dopo aver scontato dure pene / e superato prove dolorose / possiamo sperare di svegliarci / là dove ci addormentammo. / Lasciateci dunque aspirare / con fede e coraggio ai più beati spazi, / perché noi sogniamo vivendo, / perché noi viviamo sognando».

Ma le stagioni più profonde e intense, Platen le vive in Italia. Raggiunge Roma il giorno del suo trentesimo compleanno, Napoli e la costiera (Sorrento, Capri, Paestum, Amalfi, tra il 1827 e il 1834)  nel 1828, e poi ancora il Nord Italia e il Sud, tra Basilicata, Calabria, e l’ultima meta della Sicilia.

Andrea Landolfi scrive:

«l’Italia di Platen […] è minuziosa e minima […]. Libero dalle costrizioni e dalle dissimulazioni impostegli dal proprio ambiente, Platen trova in Italia una sua dimensione all’insegna di un vorace e febbrile attivismo volto a immagazzinare quante più immagini, nozioni, sensazioni, esperienze possibili. Ciò che soprattutto lo attira, accanto alle sopravvivenze dell’Antico, è quella presunta “innocenza” che, a lui come già al Goethe soprattutto siciliano, la tragica arretratezza del paese sembrava garantire».[5]

Camilla Miglio gli fa eco:

«Il suo non fu un Grand tour tradizionale. L’andare a sud non era solo una ricerca di radici culturali, o goethiani ringiovanimenti dell’anima, quanto una fuga. Il suo viaggio si può leggere anche come tentativo di sottrarsi a chi intendeva sorvegliarlo, e soprattutto punirlo, in seguito agli scandali sessuali che ne provocarono l’allontanamento dalla scuola militare e poi dall’università. Classicista ma anche orientalista, era preso dal demone della bellezza e della lontananza (degli antichi greci e latini ma anche dei persiani medioevali, maestri di versificazione erotica)».[6]

Negli anni napoletani e in particolar modo nel settembre del 1834 conosce Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri. Alla vista del poeta recanatese scrive:

«Chi conosca Leopardi soltanto delle sue poesie proverà, al vederlo, un certo pavento. Egli è infatti piccolo e gobbo, ha il volto pallido e sofferente e accresce i suoi dolori col modo di vivere, poiché scambia la notte con il giorno e viceversa. Senza potersi muovere né, a causa dello stato dei suoi nervi, impegnarsi in alcuna attività, conduce un’esistenza davvero triste. Tuttavia, conoscendolo più da vicino, la sgradevolezza dell’aspetto scompare al cospetto della raffinata cultura classica e della simpatia della persona».[7]

È una vicinanza di intenti, la misura più vicina alla dismisura che li accomuna.

La stretta congiuntura della ricerca estetica e della forma conclusa, del paesaggio in fieri, lagunare o rurale, del labirinto dell’essere, come iato inscindibile, non riescono a sanare una ferita di sperdimento: un amore totale, un desiderio ineffabile.

I suoi sonetti offrono il gesto chiaro di un mysterium tremendum, che tenta di rifuggire i falsi incanti, la sofferenza e la sparizione, ma che sente il duro e irrefrenabile bisogno di felicità, come cortina inafferrabile.

La sua libertà, promessa e colta come falce, diventa nostalgia, struggimento, bellezza irraggiungibile, come la gloria di Venezia («Perchè dov’è bellezza regna amore / nessuno si dovrà meravigliare / se non saprò nascondere del tutto / che l’anima ho divisa dal tuo amore. / Lo so, mai invecchierà il mio sentimento, / ché s’avvilupperà stretto a Venezia: / sempre dal petto sorgerà un sospiro / per una primavera appena in boccio. / Come può lo straniero ringraziarti / se anche il cuore tuo volle allietarlo / blandendo così in dolci pensieri? / mezzo non v’è che mi avvicini a te, / e solo vedi me muovere il passo / su e giù ogni notte per piazza San Marco»), perduta dentro un sogno di ombre, o di Firenze, anime immobili e respiri di carne:

«Libero io mi vorrei serbare, / nascosto al mondo intero / navigare vorrei su quiete acque, / dall’ombra delle nuvole coperto. / Accompagnato dagli uccelli in volo / dal peso della terra liberarmi, / cullato dal più puro elemento / fuggire gli uomini e le loro colpe. / Solo di rado toccherei la terra / e senza mai lasciare il mio vascello / un bocciolo di rosa coglierei / per ritornare poi subito al largo. / Vedrei da lungi pascolare i greggi, / crescere fiori e rinnovellarsi, / le contadine cogliere le uve, / falciare gli uomini il grano odoroso. / E null’altro godrei che il chiarore / del giorno, eternamente puro, / e una coppa d’acqua fresca, / che mai il sangue possa accendermi».

Il tempo dei Ghazal è un crampo di desiderio. Un sogno straziato, un pendolo continuo dell’io tra la fatalità e la fralezza, la diversità e la bellezza. Quest’ultima avvinta e ricercata, in tutto il suo tremendo e fertile dominio.

In questa ebbrezza, quasi intontita e chiara, si afferma tutta la vertigine della sua salmodia, l’appartenenza al sublime e chiaroscurale movimento dell’essere.

Platen è il poeta della spezzatura sontuosa dell’essere. Il cui regno radicale è quello della Bellezza, della primavera, della fioritura umbratile delle cose e delle sue piaghe.

Come se fosse presente alla tavola dell’amore. Un bacio, una bocca, un fondo di volti e notti estive, che nutrono abbondanze e giovinezze, che sentono la pena del cielo stretto e che diventano canto di ombra spaventosa:

«Se tacere dovrà i propri pensieri, / se la ragione cederà all’insania, / se la mollezza bacerà la sferza / del forte come un sacro scettro: / allora, sazio del variopinto giuoco, / mosso da brezze più serene e pure / il manto deporrà dell’illusione / e dei sensi la tramata veste”. / Esistono due anime che in tutto si comprendano? / Chi scioglierà l’enigma? Chi un’anima affine / di cercare non smetterà fino alla morte, / fino alla morte continuerà a cercare».

Nel 1835, Platen fugge da Napoli in mano al colera (se ne ricorderà Emilio V. Banterle nell’opera teatrale Leopardi. Storia di un’anima) e si imbarca per Palermo, passando per Caltagirone e Segesta. Poi sulla costa orientale, trova ospitalità presso il conte Landolina e qui si ammala di tifo. Gli sarà fatale. Muore il 5 dicembre e viene sepolto nel parco di Villa Landolina (oggi Museo Archeologico) a Siracusa.

Nel 1930, Thomas Mann innalza lo strazio di Platen attraverso un tempo oltre-tempo. Per la sua novella La morte a Venezia, cifra il protagonista chiamandolo Gustav, che oltre ad adombrare Mahler, diviene anche l’anagramma perfetto di August e il suo cognome Aschenbach, non è altro che il suono consonante di Ansbach, la città natale di Platen. Nella luce sirena di Venezia, appoggiato all’orizzonte, guarda ciò che prima sorgeva: le cupole e i campanili del suo sogno. La poesia era compiuta come un tremendo passaggio di bellezza nuda.

[1] Landolfi A., August von Platen o la trappola della bellezza, in Von Platen A., Poesie (1816-1834), cit., pp.11-12.

[2] Von Platen A., Poesie (1816-1834), a cura di Andrea Landolfi, Elliot, Roma 2019.

[3] Landolfi A., cit., p.12.

[4] Heine H., I bagni di Lucca, in Heine A., Italia, impressioni di viaggio, Rizzoli, Milano 1951. Vedi anche  Mayer H., La lite tra Heine e Platen, in I diversi, Garzanti, Milano 1977 (poi 1992), pp. 194-209.

[5] Landolfi A., cit.p.13.

[6] Miglio C., Le strade del desiderio in Heine e Platen, in “Il Manifesto”, 7 settembre 2014.

[7] Von Platen A., Die Tagebücher des Grafen August von Platen, a cura di G. von Laubmann e L. von Scheffler, 2 voll., Stuttgart, Cotta 1896-1900; ristampa anastatica: Hildesheim Olms, 1969, vol. II, p.962.

Von Platen A., Poesie (1816-1834), a cura di Andrea Landolfi, Elliot, pp. , Euro 19,50.

 Von Platen A., Poesie (1816-1834), a cura di Andrea Landolfi, Elliot, Roma 2019.

  • Die Tagebücher des Grafen August von Platen, a cura di von Laubmann e L. von Scheffler, 2 voll., Stuttgart, Cotta 1896-1900; ristampa anastatica: Hildesheim Olms, 1969, vol. II.

Heine H., I bagni di Lucca, in Heine A., Italia, impressioni di viaggio, Rizzoli, Milano 1951.

Mayer H., La lite tra Heine e Platen, in I diversi, Garzanti, Milano 1977 (poi 1992), pp. 194-209.

Miglio C., Le strade del desiderio in Heine e Platen, in “Il Manifesto”, 7 settembre 2014.

La mezzanotte vana di Virginia Woolf e Vita Sackville-West

di Andrea Galgano 26 giugno 2019/ 12-13 luglio 2019 “Cronache Lucane”

leggi in pdf LA MEZZANOTTE VANA DI VIRGINIA WOOLF E VITA SACKWILLE-WEST

LA MEZZANOTTE VANA DI VIRGINIA E VITA

L’amore tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West, le cui lettere, dal 1924 al 1941, vengono pubblicate da Donzelli, in una elegante edizione dal titolo, Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio[1], a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, è un compendio di ardori e di sogni, segreti, intermittenze cifrate, ombre rifratte, intimità sognate e rarefatte:

«Perché se Vita pratica da tempo con nonchalance e senza pruderie una libertà sessuale che le permette di cogliere il piacere in contatti che indifferentemente la portano nel letto di un uomo, più spesso di una donna; se sa distinguere con chiarezza tra la passione travolgente che prova per la femmina d’uomo, e l’amore casto e volto alla riproduzione che vive con un maschio, il marito, di cui è profondamente amica; se, ripeto, Vita è una donna libera che distingue tra due diversi tipi di amore, quello casto, coniugale, e quello passionale; per Virginia è diverso. Virginia è sì una donna libera, indipendente, ma è anche una donna «sessualmente codarda», impaurita, insicura, che del corpo e del piacere sessuale non conosce l’ardimento. Ma quando incontra Vita, «la donna promiscua», ecco che, miracolo dell’amore, affiora in lei un’altra se stessa, e scopre di essere una donna che ama le donne. Sì, grazie alla saffica Vita, Virginia arriva a conoscere l’amour passion. Tardi, ma lo fa, e grande è per lei la sorpresa».[2]

Il respiro di queste pagine innerva una costellazione di libertà e visione. I sospiri, i viaggi di Vita assieme al marito diplomatico Harold Nicolson (Teheran, Sahara, America), le gratitudini indifese e il desiderio segnano cifre di pensieri avvolto, destinano la lettera a ritmare il sangue, rallentare distanze, narrare il territorio della propria finitudine espansa.

Come un incontro con la realtà più lontana, come la scoperta della proprio respiro vitale che riflette l’esistenza, la «comune progenie» della scrittura e delle sue scadenze, l’ancestrale gioia mistica e coribantica di una visita proibita, di una scintilla di occhi e di una stella immensa. Il loro luogo, nato nella differenza di età (Virginia aveva quarant’anni e scriveva Mrs Dalloway), si perpetua in una sceneggiatura di pudore, foga, segreto e passione.

È un amore che tocca la propria genesi, il proprio solco di energia e desiderio florido, di incarnato fulgido e virgineo, e che scrive la nostalgia e si orienta nelle tenebre, curando gli anditi della letteratura (che non diviene sterile esercizio ma tellurica materia da incidere), come sostiene Nadia Fusini,

«per darsi un appuntamento, per scusarsi dell’assenza, per rimproverarsi di un ritardo; e in ogni caso è l’amore della lingua, che trionfa. Il gusto dei soprannomi, la fantasia delle maschere di animali con cui si travestono, i sottintesi, le allusioni, i silenzi pudichi e le metafore ardite che inventano per dare corpo di parola alle loro emozioni, sono tutti qui, in bella evidenza, in queste lettere di due women in love, di queste due donne innamorate».[3]

La luminosa e remota vicinanza è stordimento di emozioni, voracità di bellezza, stordimento e paura.

«Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Stanotte avevo composto per te una lettera bellissima, nelle ore insonni, piene di incubi, ma è tutta sparita: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano. Tu con tutte le tue lettere intelligenti, non scriveresti mai una frase così elementare; probabilmente non la concepiresti nemmeno in questi termini. Eppure credo che sentirai un piccolo vuoto. Ma lo apparecchieresti in una frase così bella, che finirebbe per perdere un po’ della sua verità. Mentre per me è totale: mi manchi più di quanto potessi credere; ed ero preparata a sentire la tua mancanza, parecchio. Così, in verità, questa lettera è solo un grido di dolore. È incredibile quanto tu sia diventata essenziale per me. Immagino che tu sia abituata a sentirti dire cose del genere dalle persone. Maledetta te, creatura viziata. Non riuscirò a farmi amare di più da te, scoprendomi fino a questo punto – ma tesoro mio, non posso essere furba e distaccata con te: ti amo troppo per farlo. Troppo sinceramente. Tu non hai idea di quanto posso essere scostante con le persone che non amo. Ne ho fatto un’arte sottile. Ma tu hai fatto a pezzi le mie difese».[4]

In quella incarnazione purpurea e femminile, Vita è l’insondabile piega opulenta della realtà, la donna che, proprio in quanto donna, porta con sé l’archetipo della possibilità. Essere primavera e splendore di tenebra. Virginia l’attende come un rovescio rorido di acqua bassa («Per favore, in mezzo a tutta questa baraonda, continua a essere una stella luminosa e costante. Davvero poche cose rimangono a indicare la strada: la poesia, e tu, e la solitudine[5], scriverà Vita a Virginia»), eterea intelligenza di cristallo e incanto, come un lungo abisso splendente e sacro che teme l’oscurità radente della sua amata e ne è pervicacemente avvinta, pur manifestando una sorta di distacco quasi febbrile. Un daimon: «Creatura carissima, era molto molto bella la lettera che hai scritto alla luce delle stelle a mezzanotte. Scrivi sempre a quell’ora, perché il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi. Da qualche parte ho visto una pallina che continuava a saltare su e giù sul getto di una fontana: tu sei la fontana, io la pallina. È una sensazione che mi dai solo tu[6]».

Ma è lei a compiere il primo gesto sul divano che esplode nella stanza. Non c’è resistenza. Solo la prima unione e l’ingresso in un mondo nuovo. Le irresistibili e giocose metamorfosi di Vita e il desiderio per lei continuo e viscerale, quello che toglie l’anima e, allo stesso tempo, la fa diventare corpo. Vita è per Virginia un fuoco immenso che abita antiche epoche inoltrate:

«Il fascino per quel mondo antico c’entra con l’attrazione che prova per Vita. L’attrazione ha molto a che fare, le pare, con quella profondità storica che sente alle spalle di Vita. Ma c’è anche dell’altro, e di che altro si tratti, prova a spiegarselo. Si auto-analizza13: forse è per puro egoismo, per puro narcisismo che ama Vita: le piace l’idea di piacere a Vita. Ama non Vita, ma il fatto che Vita l’ami. Puro egoismo. Ma è un fatto, pur sempre un fatto che si tratta di un affair ardente, focoso, travolgente. E insieme innocente, giocoso. La verità incontrovertibile è che quando è con Vita si sente completamente e assolutamente felice. Si sente agile, sciolta, trasportata dalla sua energia, quasi fosse una pallina in acrobatico equilibrio sul getto di una fontana, o un bebè a cui venga offerto del latte zuccherato».[7]

Pietro Citati scrive:

«Virginia Woolf incontrò per la prima volta Vita Sackville-West il 14 dicembre 1922; e la invitò a casa sua a Richmond l’11 gennaio 1923, quando le fece visitare la Hogarth Press, la piccola casa editrice che apparteneva a lei e a suo marito Leonard. Da principio, Virginia era diffidente. Ma le piacquero moltissimo le gambe di Vita: quelle esili colonne o quelle betulle, che si slanciavano trionfalmente verso il tronco, piatto come quello d’ un corazziere. Le piacque il volto, simile a uva matura: il labbro sporgente, la peluria di pesca che velava l’incarnato della guancia: l’aria opulenta, la collana di perle, i brillanti, sgargianti colori dei vestiti; e le viole inumidite degli occhi. Quella donna risvegliava in lei l’impressione di un tempo molto antico: l’Inghilterra elisabettiana e shakespeariana, con i suoi castelli, i suoi cavalli, i suoi cani, le sue cacce a perdifiato, le sue passioni incandescenti».[8]

Per i quindici anni della loro storia, Vita e Virginia sono fuochi di stanze osmotiche. Nella lussuria incandescente e nella gioia umbratile, nella furia incendiaria e nella trasparenza centrale, e oltre le regole borghesi, vibra l’ignota destinazione del sangue e la protezione reciproca, in ogni luogo del possibile e dell’inviolabile, come una carezza insonne e perpetua: nella casa dei Woolf a Londra o nella campagna a Rodmell, nelle case di Vita, a Long Barn, Sissinghurst, nel castello di Knole o in Francia.

Vi sono assenze di «giorni sottolineati» e distanze che sembrano attese eterne («Non mi scrivi mai e la tua immagine s’è rimpicciolita nella distanza come l’ombra pallidissima della luna vecchia: ma proprio mentre Vita stava per svanire, è apparso un sottile spicchio d’argento, e ora pendi sulla mia vita come una falce[9]») , nomi-bestiari per ridisegnare il mondo, la forza di Eros che travolge, le infedeltà di Vita e la gelosia di Virginia (chiamerà le amanti di lei «letargiche ostriche oscene e lascive»).

Virginia ridisegna le linee del loro amore. Orlando è il deposito di un mutamento affettivo, la trama arguta e sottile di una linea nuova.

Nadia Fusini scrive:

«Virginia, la scrittrice, prova a slacciarsi dai lacci della seduzione, grazie alla potenza dell’unico potere che è suo, quello dell’immaginazione creativa. S’inventa la «sua» Vita. Sostituisce Mrs Nicolson con una creatura di sua invenzione, ne fa un doppione, un golem infinitamente più affascinante della persona umana. Il personaggio di Orlando è questo. È la Vita di Virginia. Tutta sua. Trasformandosi in un redivivo Minnesänger, Virginia canta l’amata in quella «fantasia» scherzosa – quel divertissement sublime che è Orlando, dove con eccelsa ironia attacca gli stereotipi di genere e descrive le avventure di un personaggio, che è Vita, che nasce maschio nel Cinquecento e diventa femmina nel Settecento e attraversa con scanzonata allegria i secoli, fino al 1928, anno della pubblicazione del romanzo».[10]

Irene Battaglini afferma:

«Non ci sono presupposti morali sufficienti per stabilire se un amore sia autentico oppure no; a maggior ragione non è possibile stilare un codice di trascrizione psicoanalitica dell’amore, che è e deve restare un mistero nell’enclave intrisa di segreto e di simbolo, secondo una chiave di decrittazione nota – solo, e forse neppure a loro stessi – agli amanti. Tuttavia un così ricco e colto, ironico e smascherato, ricorso all’eros per fare della letteratura il cuore trascendente tra Vita e Virginia, può essere anche ricollocato in una lettura di transfert, con la dovuta delicatezza, con il rispetto per quel segreto inespresso, che si è avvalso della metafora epistolare per essere non tanto detto, quanto mostrato, tra le maglie sgranate di un tempo in cui il dialogo amoroso tra due donne era da considerarsi un segno chiaro di eversione, di devianza sociale. Per questo Virginia sceglie la strada della speculazione letteraria, mentre Vita la via del potere e della seduzione. Lo scenario tra Vita e Virginia è solo apparentemente saffico. È almeno parzialmente legato all’evocazione di un transfert plurimo e condensato, in cui maschile e femminile non sono che versanti di un grande archetipo primigenio, di un amore primario che sembra più vicino ad uno stadio avanzato della seduzione narcisistica di Racamier tra madre-figlia, oltre che alla matrice – edipica, incestuale? – di un attaccamento più o meno declinato intorno alla dialettica oggettuale tra distanza-avvicinamento, tra evitamento ed accostamento, tra eccitazione e gratificazione, in un desiderio riconosciuto e chiesto, ma mai esploso, mai confermato dalla parola chiara: ma sempre sotto lo scacco della rivelazione ai limiti del possibile (oltreché del concesso). È questo che rende a tratti perverso un elemento che sarebbe altrimenti carico di bellezza e poesia, di Amore: il non-sapersi dire a loro stesse, in un tra-noi che rinuncia alla metafora ellittica. Il non sapersi dire amanti, ma solamente sfiorati dall’amore, che sembra invece un giocare un ruolo di sfondo, di orizzonte. Un forse verso il destino, attratto dalle vele di un vento sempre e solo immaginato, che non porta a navigare ma a tessere, issare, calare le vele senza mai solcare la rotta: un mare che così, non può tradire. Ad una lettura profana, è Virginia a cadere nell’inganno della donna di mondo Vita, abile manipolatrice delle pulsioni erotiche di femmine acerbe e opportuniste che mettessero in risalto la sua bellezza androgina e sovrana. Ma Virginia sa bene di essere sola, di essere oggetto di quelle pulsioni e contenitore regolativo, e lo fa attraverso un discorso interno in cui Vita è presa a prestito dal suo genio letterario, per rendere omaggio nelle sue opere non tanto a Vita (e ai suoi tentativi goffi di elevarsi ad amante di rango di una delle più grandi scrittrici del suo tempo) quanto all’Amore Perduto, per la madre che nel cuore non ebbe mai, forse, quel linguaggio di amore che Vita spacciò per oscena tenerezza. Per questo, parafrasando Emily Dickinson, non si può dire che questo amore sia stato vano».[11]

Le fughe, gli allontanamenti, le riappacificazioni sono materia vivente anche sotto le bombe, tra doni di burro dal sapore di rugiada e miele e patè, e quello mancato dei pappagallini che lasciano. Il cuore dell’esistenza è fatto di mani, però, che si avvicinano e si raggiungono, fino all’ultimo e all’acqua gelida dell’Ouse: «Mi hai dato tanta felicità» e Vita, subito dopo, le scrive, come penna strappata al cigno:

«Tesoro, quanto mi ha commossa la tua lettera stamattina. Mi è quasi caduta una lacrima dentro l’uovo in camicia. Le tue rare dimostrazioni d’affetto hanno sempre avuto il potere di emozionarmi moltissimo e – siccome suppongo che in questi giorni siamo tutti un po’ tesi (più che altro inconsciamente) – oggi mi arrivano in picchiata, dritte al cuore, come un proiettile che sbatte sul tetto. Ti amo anch’io. Lo sai».[12]

[1] Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, Roma 2019.

[2] Fusini N., Due donne in amore, in Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte, cit., p.9.

[3] Id., cit., p.9.

[4] Lettera di Vita a Virginia, 21 gennaio 1926, Milano, spedita da Trieste; infra, p. 63.

[5] Lettera di Vita a Virginia, 8 gennaio 1926, Long Barn; infra, p.62.

[6] Lettera di Virginia a Vita, 7 ottobre 1928; infra, p.176..

[7] Fusini N., cit., p.17.

[8] Citati P., Il mio amore con Virginia Woolf, in “La Repubblica”, 27 agosto 2002.

[9] Lettera di Virginia a Vita, 29 dicembre 1928; infra, p.180.

[10] Fusini N., cit., p. 19

[11] Battaglini I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato – Padova, a.a.  2018-2019.

[12] Lettera di Vita del 1° settembre 1940; infra, p. 249.

Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, pp. 304, Euro 24,00.

 

Woolf V. – S. West V., Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò, con un saggio di Nadia Fusini, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini, Donzelli editore, Roma 2019.

Battaglini I., Commentari e Lezioni di Psicologia dell’Arte, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Prato – Padova, a.a.  2018-2019.

Benini A., Lettere rubate, in “Il Foglio”, 23 marzo 2019.

Bentivoglio L., Cara Virginia, Scrivimi ancora, “ La Repubblica – Robinson”, 12 maggio 2019.

Citati P., Il mio amore con Virginia Woolf, in “La Repubblica”, 27 agosto 2002.

Franco T., Strappa una penna al cigno!, in “Il Sole 24ore”, 9 giugno 2019.

Marzi L., Se sapessimo tessere il tempo, in “Letterate Magazine”, 20 maggio 2019.

Pigliaru A., Vita e Virginia, nel cuore delle parole, in “Il Manifesto”, 15 maggio 2019.

Note critiche a “Non vogliono morire questi canneti” di Andrea Galgano

di Diego Baldassarre

17 giugno 2019

Leggi in Pdf Nota a Non vogliono morire questi canneti

L’ultima opera di Andrea Galgano “Non vogliono morire questi canneti” è una silloge poetica che mostra come l’autore sappia mescolare attentamente modernità e linguaggio poetico classico. Leggendolo si sente prepotente la forza evocativa di D’Annunzio ma anche l’insegnamento filosofico di Leopardi.

Già dal titolo si può evincere l’influenza del poeta di Recanati. I canneti come metafora di frapposizione tra interiore ed esteriore che già caratterizzava la “siepe” dell’Infinito.

Canneti, cresciuti tra la sabbia della spiaggia e il mare, che simboleggiano anche quel limbo dove il poeta sovente si pone. Uno spazio angusto eppure immenso da cui osservare in ogni direzione.

E non vogliono morire questi canneti, nonostante la siccità della vita ordinaria o le alluvioni della vita interiore.

Il libro si compone di tre sezioni.

La prima, intitolata “Cartografie”, ci presenta una serie di acquerelli poetici che trattano di strade (Via del Popolo(PZ); Via Lillo; Via Gioberti e Via Panzani a Firenze) e di luoghi della memoria affettiva legati a Maratea e al Golfo di Policastro, con tutti i colori di un mare che ad ogni ora del giorno pervade ogni poesia con il suo panorama esteriore e interiore.

Tra questi dipinti poetici spiccano, come soggetto, anche molte città care all’autore. E sono tutte città di mare. Quasi a voler sottolineare  quel rapporto tra realtà e anima che l’acqua suggerisce. Infatti troviamo Livorno dove “ … l’anima terrazza / ha balaustre e scacchi di albe / sul sibilo dei porti,/ sulle cale di Calafuria …” ma anche San Pietroburgo, il luogo in cui “… le sponde della Neva / vibrano di sangue notturno / e il lampo della luce genitrice, / la gloria dell’oro di sant’Isacco / che scorta i nugoli rossi / di bionde e magre matriosche…”; e poi Rimini in cui “… la terra di sale delle darsene / sostiene i moli trasparenti / e i crepuscoli della stazione …” e ancora il sole di Salerno che inonda la città e il golfo; ma anche Marsiglia con le sue case d’avorio.

Questa sezione è un viaggio che Andrea Galgano percorre con le sue parole e in cui trascina  per mano il lettore, avvolgendolo con  i colori e le emozioni che ha vissuto. E nel descrivere i luoghi utilizza lo stesso sguardo esterno che porta verso l’interno proprio del pittore  Edward Hopper  a cui  ha dedicato la poesia “Monopoli”.

La seconda sezione “Je suis un autre” sembra quasi una parafrasi del “Je est un autre” di Rimbaud.

Ma al contrario del poeta francese qui l’Io non è impotente di fronte al pensiero ma è il pensiero stesso che si immedesima in altri “Io”.

E troviamo personaggi che hanno attraversato l’immaginario del poeta, attori come Massimo Troisi o Paolo Villaggio, ma anche cantanti come Mango e Jannacci e persino un giocatore simbolo della sua generazione quale Paolo Maldini.

Sempre in questa sezione troviamo anche l’aspetto più religioso dell’autore. Dio e la fede si affacciano tra le pagine del libro nei ritratti di Don Giussani, e di altre persone che in un modo o nell’altro hanno significato qualcosa di spiritualmente importante per il poeta come “ Mancusedda” , “Anna Antonia” , “ Michele”, “Mel”.

L’immedesimazione dell’autore prosegue in questa sezione con i quadri dell’amica pittrice  Irene Battaglini  (“Tra bore” e “Dioniso in esilio”), e con la fotografia di Renato Maffione (“La donna ospite”). Il tutto a sottolineare ancora una volta  un rapporto strettissimo tra Andrea Galgano e l’arte figurativa.

L’ultima sezione “Algoritmi” è la sezione più intimistica dell’autore. Sono 7 poesie in cui l’io poetico non parla a se stesso ma a qualcun altro. Sono poesie affettive ricolme di passioni colorate, malinconiche eppure vivaci nel descrivere un sentimento antico e profondo quale è l’amore.

La poesia che chiude la raccolta, forse la più ricca di suggestioni dell’intera silloge, è  il suggello ad un libro che può essere considerato come l’approdo di Andrea Galgano alla propria maturità poetica.

Il cielo crisalide di novembre

apre la tenebra

e il temporale sui pioppi tremuli

lo spiraglio del viale che trepida

e il tuo cappello viola

 

sembrò venire

dagli altipiani

il rovaio sulle eriche,

il lungo sorriso

come un damasco di nebbia

 

fece chinare gli occhi

il tremore di essere due

le mani che principiavano

gli uccelli e le camelie

 

le nostre uve bionde

e il sigillo delle brine

 

il taglio del nudo mondo

ci insegue

nei muri spezzati

 

è grazia

è terra.

Rivoluzioni frommiane #4

di Guido Rutili 9 giugno 2019

PARTE QUARTA

leggi in pdf RIVOLUZIONI 4 

“Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche sé stesso; se può amare

solo gli altri, non può amare completamente.

Se l’amore per sé stessi non è disgiunto dall’amore per gli altri come ci spieghiamo l’egoismo, che ovviamente esclude qualsiasi interesse genuino per altri?

L’egoista s’interessa solo di sé stesso, vuole tutto per sé, non prova gioia nel dare ma solo nel ricevere. Vede il mondo esterno solo dal punto di vista di ciò che può ricavarne; non ha interesse per i bisogni degli altri, né rispetto per la loro dignità e integrità. Non riesce a vedere altro che sé stesso; giudica tutto e tutti dall’utilità che gliene deriva; è fondamentalmente incapace d’amare.

Questo non prova che l’interesse per gli altri e l’interesse per sé stessi sono alternative inevitabili?

Sarebbe così se l’egoismo e l’amore per sé stessi fossero la stessa cosa. Ma questa convinzione è l’errore che ha suscitato tante conclusioni errate riguardo il nostro problema.

Egoismo e amore per sé stessi, anziché essere uguali, sono opposti”[1].

Archimede, con una leva fisica, prometteva di sollevare un mondo particolarmente retrogrado rispetto alla propria capacità inventiva.

Erich Fromm, 1700 anni più tardi, costruiva una leva diversa, sociale, che avrebbe sollevato non solo il suo ma molti altri mondi a venire; negli anni ’60 del secolo scorso ridefinì l’amore per sé stessi.

Un’alternativa e non un sinonimo di egoismo, qualcosa di sovrapponibile all’amore per gli altri: principio fatto di una sostanza biofila capace di portarlo all’interno dell’individuo e veicolarlo verso gli altri con la medesima, sana, modalità propulsiva.

Una forma erotica produttiva che, al tempo in cui veniva pubblicato “L’Arte di Amare”, pareva presentare lacune importanti dovute a fattori sociali ed ambientali che rendevano difficile l’espressione lineare di una tendenza altruistica.

C’era forte necessità di rivendicare o rafforzare diritti umani a malapena sopravvissuti all’organizzazione precedente, belligerante, ormai superata.

L’individualità (intesa come attributo della persona, dello stato etc.), in un contesto in cui il mutuo aiuto era stato per duri anni rimpiazzato dall’aridità dell’affermazione individuale, aveva preso le sembianze di un’istanza potenzialmente pericolosa.

Ecco che l’egoista diveniva lo stereotipo del distruttore, dell’aggressore, di colui che cresceva nutrendosi dei frammenti di nemici onnipresenti, anche fantasmatici, anche ingiustamente investiti di questo ruolo.

Nel turbine di un tale stato reattivo, non c’era terreno che consentisse il fiorire di un amor proprio virtuoso, privo di effetti collaterali.

La consapevolezza che per dare in modo significativo è prima necessario essere, e che un’autenticità dell’essere presuppone la coscienza della centralità del Sé, non riusciva ad attecchire.

Eppure un Sé pienamente espressivo, capace di armonizzarsi alla comunità, abile ad erogare verso l’esterno in termini energeticamente positivi, non può esercitare nessuna funzione senza la contemplazione del proprio, solido centro.

Oggi le condizioni al contorno non sono le stesse: i valori conquistati e radicati dalle generazioni precedenti tremano sotto il peso di una coscienza collettiva annoiata, che li dà per scontati.

Non c’è belligeranza manifesta, ma solo aggressività velata.

Non si corrono pericoli e l’unica cosa che fa provare un brivido alle masse è l’horror vacui da assenza di saggi da seguire e nemici da debellare.

L’egoismo contemporaneo ha le spoglie del narcisismo maligno; non dunque quello che nutre il nucleo pulsante del singolo per permetterne la crescita, ma quello “fine a sé stesso”, che svaluta e appiattisce tutto ciò che lo circonda, al solo scopo di rivalutare la propria, neutra planarità.

Se l’egoismo di Fromm confliggeva con l’amore per sé stessi, l’odierno narcisismo cozza con l’individuazione dell’Io, aggravando la profondità del problema.

L’Io senza una casa non è più capace di amare, né in modo centrifugo né in modo centripeto, può solo illudersi di farlo, fraintendendo l’amore con una spinta di diversa origine.

La curiosa manifestazione sintomatica consiste nell’attribuzione di colpa verso un fantomatico neo-egoista dai tratti troppo tenui per godere del beneficio della rendicontazione verso la società.

La figura in luce, quella a lui contrapposta, è altresì l’enfatico promotore di un’affettività marcatissima, visibile anche ai miopi.

Ecco che torna il testo del maestro Fromm, che spiega bene questo neo-altruista nella metafora della “madre troppo premurosa”: “Mentre lei crede di essere particolarmente attaccata al suo bambino, in realtà ha una profonda, repressa ostilità per l’oggetto del proprio interesse.

È eccessivamente premurosa, non perché ami troppo il proprio figlio, ma perché deve compensare la sua incapacità d’amarlo[2].

Eccoci al punto.

Il problema non è più discernere tra egoismo e amore per sé stessi ma riuscire a salvare l’amore per sé stessi (fonte d’altruismo sano) dal falso altruismo (lampante ma caustico divoratore d’eros relazionale).

L’etero-tendenza spuria è infatti il fattore sociale dell’eccessiva (ma inautentica) preoccupazione per il bene di chi ci pare dipendente o richiedente: figlio adottivo di una collettività purtroppo incapace di concedersi eros ego-diretto.

Cogliendo la metafora della madre troppo premurosa, scoviamo così l’ombra motrice dell’accoglienza cieca: puro odio per il prossimo.

Abbiamo il vecchio problema del Super-Io inflativo, che taccia d’egotismo ogni faticoso moto auto-centrante, senza considerare il paradosso sotteso ad ogni intervento di castrazione: la rivoluzione del bene nel male e viceversa.

D’altra parte in psicoanalisi ogni atto positivo eccessivamente palesato è campanello d’allarme, poiché tende a cercare l’assoluto nel buono, esperienza soggettiva per eccellenza.

L’atto compiuto correttamente rende l’agente soddisfatto, la necessità di rimarcare il proprio operato lascia invece trasparire l’insoddisfazione strisciante e dolorosa di chi non ha tratto alcun piacere dalle proprie condotte.

La tendenza altruistica di oggi fa esplodere fragorosamente all’esterno un vuoto interiore incolmabile, nella falsa illusione che possa essere il fragore del botto a creare sostanza.

“L’egoista non ama troppo sé stesso, ma troppo poco; in realtà odia sé stesso. Questa mancanza di amore per sé, che è solo un’espressione di mancanza di produttività, lo lascia vuoto e frustrato.  È solo un essere infelice e ansioso di trarre dalla vita le soddisfazioni che impedisce a sé stesso di raggiungere.  Sembra interessarsi troppo di sé, ma in realtà non fa che un inutile tentativo di compensare la mancanza di amore per sé.  […] È più facile capire l’egoismo se lo si paragona ad un morboso interesse per gli altri”[3].

Si torna alla madre che enfatizza moti d’amore e cela l’odio, scambiando in definitiva l’autentico col falso.

L’obiettivo è morboso, come dice il sociologo tedesco, e porta ad un aggressivo interesse per l’altrui mondo, deformato dall’inflazione di elementi che non aveva e -probabilmente- neanche voleva.

Non c’è nulla di catartico, solo prodotti di scarto.

Quale tra tutti?

Frustrazione.

è sorpresa scoprire che (l’individuo), ad onta del proprio altruismo, è assai infelice e che i suoi rapporti con coloro che lo circondano non l’appagano[4]

La frustrazione è il primo stato psicologico a dominare il singolo e le masse che non nutrono il proprio nucleo narcisistico primario, secondo una sana ricetta a base di amore autentico per sé stessi.

Tale elemento, centralmente radicato nella struttura di personalità, è il sale della vita biologica, tanto da essere innato, bio-innestato.

È il successore della scossa coatta che porta lo spermatozoo a dimenarsi in modo tale da andare in una direzione ed un verso: dritto, avanti.

È il pronipote della forza che muove il primo respiro e il vagito liberatorio.

È la fame, la sete, la ricerca evolutiva.

Possiamo pensare che certi fattori, favorevoli alla vita, possano essere efficaci se presenti soltanto nel prossimo contestuale e non in noi?

No, assolutamente!

Ecco che compaiono dunque i casi particolarissimi di cui ci stiamo occupando: al “buon egoismo”, sfiorando l’ossimoro, accostiamo il “buon altruismo”, che si ottiene in primis dalla negazione dei luoghi comuni, passando dall’amore per sé stessi.

Oggi è un amore per sé stessi delicatamente ricodificato nei meandri di qualcosa di antico e primitivo, concesso dagli dei all’uomo per la virtù d’essere sceso dal paradiso terreste: la libertà di elargire amore, purché continui ad esistere, senza badare al luogo in cui lo si ripone, poiché più lo si usa, più si è capaci di generarne.

Come il Meister Eckhart citato nell’Arte di amare, siamo quindi capaci di affermare che “Se ami te stesso, ami gli altri come te stesso. Finché amerai un’altra persona meno di te stesso, non riuscirai mai ad amare te stesso, ma se ami tutti nello stesso modo, compreso te stesso, li amerai come una persona e quella persona è sia Dio sia l’uomo.

È grande e giusto chi, amando sé stesso, ama in egual modo il suo prossimo.”[5]

 

[1] Erich Fromm, L’arte di amare

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Ibidem

[5] Ibidem

 

LEGGI LE TRE SEZIONI PRECEDENTI

Rivoluzioni frommiane #3

 

Rivoluzioni frommiane

 

Il cuore australe di Pablo Neruda

di Andrea Galgano 23 maggio 2019

leggi in pdf  IL CUORE AUSTRALE DI PABLO NERUDA

R

L’intenso saggio di Gabriele Morelli, Neruda[1], appena edito da Salerno Editrice, nella collana Sestante, permette di guardare alla vibrante e vertiginosa consegna della poesia nerudiana, attraverso uno studio che si mette al servizio dei suoi transiti elementari, custodendone la forza e l’abbandono.

La materia di Neruda è un solco primigenio di ombre lucenti. La danza della pioggia australe di Temuco condensa i suoi petali oscuri, il tempio selvaggio della natura, i mantelli dei compagni ferrovieri del padre, l’immagina india di Gabriela Mistral, il legno della casa, la calura estiva e il mare come un universo d’acqua,

«alberi, insetti e oggetti di uso comune, come le scarpe consunte, i vestiti logori e bagnati, immagini che restituiscono contatto e calore umano nella solitudine del vasto e desolato panorama della selva australe. Colpisce e sgomenta il piccolo Neftalì il rumore delle tavole scosse dal vento e il sibilo lontano del treno condotto dal padre, che corre sbuffando lungo le radure del bosco».[2]

È il suo pianeta di terra e di notti oceaniche dove regna il vento, di albe solitarie sui frutteti verdi come un lungo fondo di chiarità e stupore. E poi la rincorsa dello pseudonimo, trovato per caso su una rivista, che parlava del poeta praghese Jan Neruda, che diventa la destinazione del suo sangue. Il ragazzo iperestesico scrive il suo Crepusculario di infanzie perdute come fragranze di sogni che tremolano sotto il cielo di seta e il vento, il mare, «i fiammeggianti crepuscoli sono immagini che aprono il primo spazio biografico del giovane Neruda, già cosciente dell’importanza del linguaggio creativo, ma anche preoccupato per un futuro senza speranza[3]», e l’amore infinito per Albertina Rosa Azócar (Marisombra), Terra Vàsquez (Terusa), Marìa Parodi, Laura Arruè, una terra straniera che fa terminare l’infanzia e la forma dell’adolescenza, mostra il senso del limite e la solitudine, il diario dei crepuscoli, la prima luce dell’alba e l’idillio della provincia incantata, che segnano la scrittura dell’anima come una coltre di lettere: «Oh amore / dalla prima luce dell’alba, / del rovente mezzogiorno / e delle sue lance, / amore con tutto il cielo / goccia a goccia / quando la notte passa / per il mondo / con il suo intero naviglio, / oh amore / di solitudine / adolescente».

Nel libro Veinte poemas de amor, Neruda confonde soggetto e oggetto in una fatidica alternanza[4], e, dunque, la poesia diventa la rivelazione di una pienezza oppositiva che combatte il dolore, l’angoscia, la penuria.

È l’inizio del suo simbolismo maturo che diventa rarefazione di immagine. Marina, soprattutto, ma anche immagine di donna plasmata dalla natura, che diviene equorea e madreperlacea, lunare e ricolma di attese vigili, come l’azzurro delle notti che mescolano tessuto urbano e estuari di sogno, oceani e grida. È la dilatazione vergine dello spazio, proteso alla sensualità, al nostos, alla tensione creazionista, ai colori come vertigini iconiche.

Il silenzio dell’amore è un anello di stelle, gli occhi volano via, la voce è assente, un bacio che chiude la bocca, un respiro di sorrisi lontani:

«Mi piaci quando taci perché sei come assente, / e mi senti da lontano, e la mia voce non ti tocca. / Sembra che gli occhi siano volati via / e sembra che un bacio ti abbia chiuso la bocca. / […] Lascia che ti parli anche con il tuo silenzio / chiaro come una lampada, semplice come un anello. / sei come la notte, silenziosa e piena di stelle. / Il tuo silenzio è di stella, così lontano e semplice. / Mi piaci quando taci perché sei come assente. / Distante e dolorosa come se fossi morta. / Una parola allora, un sorriso bastano. / E sono felice, felice che non sia vero».

Il corpo della donna amata è il corpo del mondo. Ed ecco che l’io. lacerato e contuso, raggiunge la bellezza o-scena dell’essere, l’inappagamento straziato dell’inafferrabilità e il ricordo lontano e naufrago, come i falò pallidi che si agitano ai bordi delle notti.

L’Oriente di Neruda, poi, è l’abisso smagato e lucido, l’epifania fragrante della realtà, la gemma vivente e sola: «E salpai per i mari ai porti. / Il mondo fra le gru / e le cantine della sordida riva / mostrò nelle sue crepe ciurme e mendicanti, / gruppi di spettrali affamati / sulle fiancate delle navi».

Oriente è anche Borges[5], vicino e distante, allo stesso tempo, l’Europa di Madrid e Guillermo de Torre, Parigi e la nudità incaica della parola di Cesar Vallejo, la comunione e la libertà con Federico García Lorca come un lampo, e il duro bacio selvaggio del suono della femminilità.

In Residencia en la tierra, la lunga enumerazione della realtà, il caos archetipico, l’intuizione percettiva del mondo, gli oggetti senza risposta testimoniano la cifra di un viaggio oscuro in una vastità che incombe, sgretolando, in un mistero che è frattura di pienezza e di intimità. È un punto di crisi tra la cosa e la parola che sfugge, tra l’io e le sue relazioni, tra il corpo e la sua consistenza nel reale. Il suo dolore ancestrale è un pianto sgranato che reca stanchezza e scarto come un tango vedovo: «Per questo il giorno il lunedì arde come il petrolio / quando mi vede arrivare con la mia faccia da carcerato, / e ulula nel suo corso come una ruota ferita, / e muove passi di sangue caldo verso la notte».

Con la vittoria di Franco ha inizio la grande diaspora degli esuli repubblicani che sono costretti a fuggire dalla Spagna alla ricerca di rifugio nell’America del Sud. La Spagna è, per il poeta, la genesi delle sue radici. Lo sarà anche il suo impegno politico, la ricerca della primordialità umana, la vertigine tellurica ed elementare e il soffio divino, e la linea di un amore: Delia del Carril: «Delia fra tante foglie / dell’albero della vita, / la tua presenza / nel fuoco, / la tua virtù / di rugiada: / nel vento iracondo / una colomba».

La residuata vitalità di Neruda è una vibrazione di accumulo, di detrito e trasfusione immaginativa[6], dove il quotidiano e il suo sconvolgimento semantico affermano lacerazioni e luci, vastità di oceano e amorose, percezioni di senso estremo e impulso, sinfonia di suono e derive di inconscio.

Poi la furia e la pena, la disperazione della Terceira Residencia, dove la denudazione istintuale, il ricordo dell’amore selvaggio, l’oblio, i margini e il dispendio isolato del mondo, i lillà. La sua materia è il vivente, ciò che si libera e ciò che è sente il limite e anche il suo calore, la sua sperduta forma ostinata, gli oggetti  e le superfici di un coro di sangue e terra di umide viole.

Gabriele Morelli afferma: «Il processo immaginativo di Pablo Neruda è ancestrale e cosmico, guarda al caos primigenio del mondo e all’atto della trasformazione della materia, teso a oggettivare il flusso dell’io lirico mediante una profonda indagine metafisica[7]».

Il Canto general (1950) nasce nella difficoltà della fuga, dopo l’ordine emanato dal presidente Gabriel Videla, di arresto e prigione. Fuggiasco, braccato come la primigenia e cosmogonica natura dell’America, il tempo della storia e la sua epica. Un deposito mitico che restituisce un territorio arcaico e oracolare, un passato popolato e scandito dalla coltre autentica dei passaggi. È una domanda sofferta che ama il fondo della terra, che lotta contro le ingiustizie e i soprusi, che narra lo spazio australe della nominazione, la forza elementare della realtà e della creazione, come ciò che forma l’oscurità spezzata e il baluginio di ciò che vive, si nutre, palpa pietre notturne, diventa tremula voce di frontiera, la tenue ombra di donna e la sua luce d’universo.

Il discusso premio Stalin del 1953, la sua vicinanza al dittatore, testimoniata nell’ode di commiato dopo la sua morte (salvo poi riconoscere i sui tremendi crimini), e l’adesione al comunismo, come sostiene Alfonso Berardinelli, coinvolgono

«tanto il problema sociale latino-americano che quello del rapporto tra poesia moderna e pubblico. Neruda non aveva ragioni per temere personalmente “il terrore staliniano; quello che ha fatto, lo ha fatto volontariamente”. Non aveva neppure bisogno di opportunismo, perché la sua carriera diplomatica sarebbe stata facile e promettente. In realtà, diventare comunista gli avrebbe complicato la vita. Non era neppure un uomo portato alla fede. Ma alle spalle aveva società latino-americane impoverite, strapiene di diseredati e in cui la democrazia liberale era solo fatta di parole».[8]

Las uvas y el viento misurano il turgore attraverso lo spasmo del tempo, le mani, i contrafforti lunari e Matilde. Il fiore e la bellezza, il mito e la purezza elementare.

Le Odas elementales (1954) rivelano oggetti a riposo, superfici consumate, impurità umane confuse, atti sconci di veglie e sguardi, tersità di azzurri e cortine primordiali[9]: «Odi / di tutti / i colori e grandezze, / serafiche, azzurre / o violente, / per mangiare, / per ballare, / per seguire le impronte sulla sabbia, / per essere e non essere». La semplicità di Neruda è il suo cosmo battuto dalla essenzialità trasparente e dalla inquietudine.

È il suo vocabolario e inventario di sogno vegetale e animale, il dialogo del tempo, simbolico e allegorico, il corpo a corpo con gli elementi, il cibo, le conchiglie. Neruda attraverso la sua profondità elementare coinvolge l’intimità percettiva, la concretezza corposa e luminosa dell’essere, la sontuosità di linee e colori, il colloquio, la lotta.

Extravagario (1958) indica un «ripiegamento, non certo una rinuncia ma uno spazio più attento alla vita, dettato dalla nuova vicenda sentimentale» (p.226) e «registra anche numerosi momenti di dubbio provenienti da lacerazioni che si coagulano in continue domande. Il poeta risponde assumendo su di sé, sull’altra parte inesplorata dell’io, il segno di un comportamento ambivalente, frutto della duplice personalità[10]». Matilde è la cerimonia piovosa dell’argilla e il cuore festoso delle regioni dure, le delizie rosate, il suo corpo dei suoi petali oscuri che costruiscono l’anima. Il poeta vuole il silenzio mentre le cose si risolvono e il suo navigante stravagario che vive nella fragile precarietà, che solleva canti di gesta (da Fidel Castro al guerrillero Che Guevara) e frumento nero quando gli occhi misurano la prateria e cercano l’oscurità, aprendo al mare le porte rotte.

Memorial de Isla Negra (1963) è un abisso germinativo di conoscenza del mondo e di se stessi: il grano che ondeggia sul pendio, l’odore di legname, il rumore della pioggia, l’odore dei boschi, l’infanzia. Vi sono amori che passano e sorgenti di lune, gli anni della lotta politica, il peso dell’aroma. È la sua luce errante come lucciola nella notte e luna oscura di eclisse. La memoria è la grazia, la terra.

La rosa nuda della domanda, i limiti della parola che si riversano nella totalità. L’amore che innalza, il cielo inquieto della natura, lo spazio edenico, la sua fabula di fascino e destino che è in esplorazione, dolore, simmetria  luminosa delle direzioni divine, nascita e domanda: «la domanda nerudiana non vuole essere l’incarnazione pura, sovrumana del senso dell’universo, ma l’esperienza esistente del suo incessante movimento. Anela ad essere l’onda che partecipa all’inquietudine dell’oceano[11]».

È la sua fluttuazione, il senso della fine, la vertigine infruttuosa di ogni geografia, perché la poesia possa essere oltre-misura, dono ontico al mondo e  vita che si espone e si porge come amore finale e corposo.

 

[1] Morelli G., Neruda, Salerno Editrice, Roma 2019.

[2] Ivi, pp.17-18.

[3] Ivi, p.24.

[4] Neruda entre modernidad y postmodernidad, in Los Premios Nobel de Literatura Hispanoaméricanos, ed. de L.Íñigo Madrigal, Genève, Fundación Patiño, 1994, pp.35-36, pp.40-41.

[5] Barrientos J.J., Borges y Neruda, in «Revista de la universidad de México», 2011.

[6] Alonso A., Poesía y estilo de Pablo Neruda, Sudamericana, Buenos Aires 1966.

[7] Morelli G., cit, p.120.

[8] Berardinelli A., Il fallimento di Pablo Neruda, poeta che riuscì a mutilarsi con le proprie mani, in “Il Foglio”, 23 maggio 2019.

[9] Loyola H., Loyola H., Los textos: algunas observaciones dans (Notas Estravagario), De «Odas elementales» a «Memorial de Isla Negra» 1954-1964, (Obras completas, Tomo II), Edición de Hernán Loyola, Galaxia Gutemberg, Barcelona 1999, p.1352.

[10] Ivi, p.226.

[11] Sicard A., Lo breve y lo interminable (A propósito del ‘Libro de la preguntas’ de Pablo Neruda), in « Nerudiana », 1 1995, p.153.

Morelli., Neruda, Salerno Editrice, Roma 2019, pp.315, Euro 21.

Alonso A., Poesía y estilo de Pablo Neruda, Sudamericana, Buenos Aires 1966.

Barrientos J.J., Borges y Neruda, in «Revista de la universidad de México», 2011.

Rodríguez Monegal E., Neruda: el viajero immóvil, Monte Aviles, Caracas 1976.

Berardinelli A., Il fallimento di Pablo Neruda, poeta che riuscì a mutilarsi con le proprie mani, in “Il Foglio”, 23 maggio 2019.

Cortázar J., Neruda entre nosotros, in «Plural», 30 1974.

Favale E., Neruda raccontato da Gabriele Morelli (www.linkiesta.it/it/blog-post/2019/05/18/neruda-raccontato-da-gabriele-morelli-intervista/28029/?fbclid=IwAR1025cw-tzN7mEKP9vulFgjvra12e7qdHgCx_B7J7A18dnODOu_AJNT7eQ), 18 maggio 2019.

Loyola H., Los textos: algunas observaciones dans (Notas Estravagario), De «Odas elementales» a «Memorial de Isla Negra» 1954-1964, (Obras completas, Tomo II), Edición de Hernán Loyola, Galaxia Gutemberg, Barcelona 1999.

  • El joven Neruda (1904-1935), Lumen, Santiago de Chile 2014.

Neruda entre modernidad y postmodernidad, in Los Premios Nobel de Literatura Hispanoaméricanos, ed. de L.Íñigo Madrigal, Genève, Fundación Patiño, 1994, pp.35-36, pp.40-41.

Sicard A., Lo breve y lo interminable (A propósito del ‘Libro de la preguntas’ de Pablo Neruda), in « Nerudiana », 1 1995.

 

Lapo Gianni: la fragile gioia

di Andrea Galgano 23 aprile 2019

leggi in pdf LAPO GIANNI. LA FRAGILE GIOIA

La figura di Lapo Gianni (XIII-XIV sec., morto dopo il 1328) è stata contornata, nei secoli, da poca chiarezza. Non solo per le ipotesi e i dubbi sul suo riconoscimento in Ser Lapo Gianni Ricevuti, fiorentino, «imperiali auctoritate iudex ordinarius et notarius publicus» («per autorità imperiale giudice ordinario e pubblico notaio», come firmò in una pergamena del 2 febbraio 1300), che rogò atti dal 1298 al 1328 tra Firenze, Bologna, Cortona, nel Casentino e a Venezia, e intrattenendo importanti relazioni d’affari col poeta e notaio Francesco da Barberino, autore dei Documenti d’Amore e del Reggimento e costumi di donna,  quanto, come afferma Roberto Rea, nella recente edizione critica delle Rime[1] di Lapo, edita da Salerno, «per l’incerto statuto della sua lirica, collocata dagli studiosi ora al di qua ora al di là della novità del dolce stile, e gravata, inoltre, dalla diffidenza espressa dagli amici di un tempo nei sonetti Se vedi Amore e Amore e monna Lagia[2]».

L’orbita cavalcantiana e l’influsso dantesco, come già espresso da Contini[3], percepito in reciprocità, il possibile amore di lui per una monna Lagia (o Alagia ossia Adelasia) consentono di soffermarci sull’intensità di quel movimento lirico fiorentino chiamato Stilnovo, realtà storica viva e «nodo critico e decisivo della nostra storia letteraria[4]», come sostiene Mario Marti.

Il sodalizio con Guido Cavalcanti, per la verità più nascosto e onirico, e Dante si esprime nel sonetto Guido, i’ vorrei, in cui quest’ultimo, come afferma Roberto Rea,

«colloca Lapo sul medesimo piano del primo amico, rinunciando a qualsiasi gerarchia, affettiva e intellettuale. Benché il destinatario non possa essere che Guido, il sogno dantesco di evasione presuppone, come prescritto dall’ideale classico dell’amicitia intesa come idem velle, la piena corrispondenza ed eguaglianza tra i tre poeti, di cui è emblematico il corale noi collocato a sigillo dell’ultimo verso». Nel De Vulgari Eloquentia (I, 13), inoltre, pur senza qualche controversia di attribuzione, viene citato tra coloro che «vulgaris excellentiam cognovisse sentimus».

In tale eccellenza, se da una parte convergono i topoi cari alla figuralità stilnovistica, dall’altro si evidenziano come questi temi possano essere sottoposti a una sorta di alleggerimento attenuato e di una sovraesposizione meno marcata. Le 17 poesie (11 ballate, 3 canzoni, 2 stanze di canzone e sonetto doppio caudato) testimoniano la sua vigile predilezione per la ballata, non solo nell’eco dantesca e nell’apprendistato cortese.

L’intercessione di Amore, signore assoluto, presso la donna è un lacerto di gioia. Una sorta di meta ultima, sorta dall’inquietudine e permeata dal perdono. Amore si presenta come lenimento delle pene e dei tormenti e si muove a pietà, intercedendo in favore dell’amante, suo servitore fedele. La donna così concede la propria benevolenza, liberando l’amato dai vincoli angusti del dolore e degli occhi coperti, con cortesia affabile e giustizia. Il cuore sarà riportato. Rimanga saldo l’amore buono e puro e degno di lode:

«Eo sono Amor, che per mia libertate / venuto sono a voi, donna piagente, / ch’al meo leal servente / sue greve pene deggiate lenare. / Madonna, e’ no mi manda, e questo è certo; / ma io, vedendo ’l su’ forte penare / e l’angosciar che ’l tene in malenanza, / mi mossi con pietanza a voi vegnendo: / ché sempr’e’ tene lo viso coverto, / e gli occhi suoi non finan di plorare / e lamentar di sua debol possanza, / merzede a la su’ amanza e me cherendo. / Per voi non mora, po’ ch’io lo difendo; / mostrate inver’ di lui vostr’allegranza, / sì ch’aggia beninanza. / Merzé: se ’l fate, ancor poria campare».

Il ringraziamento per l’intercessione si cadenza nel battito delle rime, che seguono l’alternarsi di allegranza e benenanza, asservite al dio benevolo, che dà valore all’innamoramento, che ha permesso di riacquistare il cuore «in perdenza», e attraverso gli appelli verso gli altri amanti che possano, così, condividere il bagliore di questa esperienza.

In Gentil donna cortese e dibonare si assiste a una frattura. Il poeta ha rivelato la sua gioia d’amore, sottraendosi, con colpa, all’obbligo di recare riservatezza e onore all’amata:

«Gentil donna cortese e dibonare, / di cui Amor mi fè primo servente, / mercè, poi che ’a la mente / vi porto pinta per non ublïare. / I’fui si tosto servente di voi / come d’un raggio gentile amoroso / da’ vostri occhi mi venne uno splendore, / lo qual d’Amor sì mi comprese poi, / ch’ avante a voi sempre fui pauroso, / sí∙mmi cerchiava la temenza il core». Si presenta così alla donna, armato di contrizione e richiesta di perdono che viene concesso con intima generosità. Ma vi è ancora ostilità e sdegno, uno strappo che permane come una guerra: «Ora mi fate vista disdegnosa / e guerra nova in parte comenzate, / ond’ i’ prego Pietate / ed Amor che vi deggia umilïare».

Il forte richiamo all’immaginale cavalcantiano segue sbigottimenti e desolazioni. La donna dapprima, spande salvezza, poi, avviene uno stravolgimento delle facoltà psichiche: l’anima e il cuore sembrano fuggire via, in un colpo fulmineo. Lo sconvolgimento dello sguardo è un apice di morte (come il famoso planh, improperium in mortem, della canzone O Morte, della vita privatrice, XIII) e di straniamento. Il cuore, anima sensitiva, è disorientato e spodestato dalla sua sede, in un’autentica afflizione, procurata da Amore.

Spesso l’amore di Lapo è un compendio di gioie improvvise, di abbandoni, laddove la cogitatio amorosa, pur seguendo la struttura trobadorica, ricerca compiutezza, nell’allegrezza e nella gioia. Il sigillo nel libro d’Amore reca conforto, nel luogo in cui la signoria dell’amata si porge in una visione di cortesia e giustizia.

L’anima del poeta unisce dolore e gaudio in un lessico sintomatico che chiede pietà del suo limite, invoca grazia e gentilezza, da cui attingere alimento nel desiderio vago e colpito. La sua sofferenza martoriata assomiglia a un referto di lontananze e leggiadrie sovrannaturali («Angioletta in sembianza / novament’ è apparita, / che·mm’uccide la vita / s’Amor no·lle dimostra sua possanza»), a una epifania celebrata di sogno («Tu vederai la nobile acoglienza / nel cerchio delle braccia ove Pietate / ripara con la gentilezza umana, / e udirai sua dolce intelligenza: / allor conoscerai umilitate negli atti suoi, se non parla villana, / e sembrerà meraviglia sovrana, / com’ formata ’n ‹an›geliche bellezze») e languore («Questa rosa novella, / che fa piacer sua gaia giovanezza, / mostra che gentilezza, / Amor, sia nata per vertú di quella»), che liberano dall’affanno, preghiera, euforia, speranza e nobiltà.

In questa sinossi di gioia, Lapo Gianni incide la sopita vertigine compiaciuta nell’anima, grazie al suo merito di amante che riceve ricompensa e sorriso:

«Appresso le direte che la mente / porto gioiosa del su’ bel piagere, / poi che m’ha fatto degno de l’onore; / e non è vista di cosa piagente / che tanto mi diletti di vedere / quanto lei sposa novella d’Amore; /  e non m’è aviso ch’alcuno amadore, / sia quanto vuol di gentile intelletto, / ch’aia rinchiuso dentro da lo petto / tanta allegrezza ch’apo·mme non moia».

 Amor, nova ed antica vanitate, innervata nella sillabazione contrastiva, è

«un’irriverente requisitoria contro il dio tesa a dimostrare l’irrazionalità e l’illusorietà della passione. È questo il componimento di Lapo piú distante dai modelli e dalla stessa ideologia stilnovista. Considerando inoltre che è impostato come una recusatio della passata esperienza amorosa, con qualche passaggio non del tutto neutrale in prospettiva cavalcantiana e dantesca (l’ingannevole potere di Amore di dare sembianze angeliche all’amata; la sua capacità di ottenebrare la mente e infralire la memoria), viene da chiedersi, come già accennato, se non possa avere qualcosa a che fare con il deterioramento del comune ideale di fedeltà al dio imputato a Lapo nel dantesco Amore e monna Lagia».[5]

I parallelismi, le simmetrie, i vocativi introducono, come afferma Donato Pirovano, «una rappresentazione tradizionale del dio: nudo, angelo, cieco, fanciullo, arciere […][6]».

La sacralità del saluto, simile al saluto dei Magi nella natività di Cristo, la celebrazione (plazer), soave ed enumerata di desideri fantastici e raffinati, di cui Amore si fa garante, raffigurate nel sonetto doppio caudato di Amor, eo chero mia donna in domino, narrano di una sproporzione e di una linea che richiamano i paradigmi cavalcantiani e le linee dantesche, e sembrano virare in un’atmosfera demarcata e fragile:

«Amor, eo chero mia donna in domino, / l’Arno balsamo fino, / le mura di Firenze inargentate, / le rughe di cristallo lastricate, / fortezze alt’ e merlate, / mio fedel fosse ciaschedun latino; / il mondo in pace, securo ’l camino, / no mi noccia vicino, / e l’aira temperata verno e state; mille donne e donzelle adornate / sempre d’amor pregiate / meco cantasser la sera e ’l matino; / e giardin’ fruttüosi di gran giro, / con grande uccellagione, / pien’ di condotti d’acqua e cacciagione; bel mi trovasse come fu Absalone, / S anson‹e› pareggiasse e Salamone, / servaggi di barone, / sonar vïole, chitare e canzone, / poscia dover entrar nel cielo empiro: / giovane, sana, alegra e secura / fosse mia vita fin che ’l mondo dura».

 

[1] Lapo Gianni, Rime, a cura di Roberto Rea, Salerno, Roma 2019.

[2]Rea R., Introduzione, in Lapo Gianni, Rime, cit., p. xiii.

[3] Cfr. Contini G., Poeti, ii p. 570.

[4] Marti M., Storia dello stil nuovo, Milella, Lecce 1973, p.337.

[5] Rea R., cit., p. xxv.

[6] Pirovano D., Il Dolce Stil Novo, Salerno, Roma 2014, p. 324.

Lapo Gianni, Rime, a cura di Roberto Rea, Salerno, Roma 2019, pp. 162, Euro 24.

Lapo Gianni, Rime, a cura di Roberto Rea, Salerno, Roma 2019.

Marti M., Storia dello stil nuovo, Milella, Lecce 1973

Pirovano D., Il Dolce Stil Novo, Salerno, Roma 2014.

 

Pubblicato anche su “Roma – Cronache Lucane”, 8 maggio 2019

Gabriela Mistral: il canto e il respiro

di Andrea Galgano 8 marzo 2019

leggi in pdf GABRIELA MISTRAL. IL CANTO E IL RESPIRO

La poesia di Gabriela Mistral (1889-1957) vive nella maestà del respiro, innalzando il tempio dell’anima a una vitalità di appartenenza che, da una parte avverte tutta la potenza della maternità come genesi, dall’altro testimonia l’emancipazione dell’io e la sua trasfigurazione, rivelandone il sedimento, la consistenza mitica e il deposito di ogni negazione.

La pubblicazione di una selezione di poesie, Canto che amavi, per Marcos y Marcos, a cura di Matteo Lefèvre, restituisce l’ispirazione sorgiva e il canto di una elementare essenzialità.

Alessandro Zaccuri scrive:

«Che cosa, infatti, può sfuggire al sonno, all’oblio e all’intorpidimento se non la volontà di prendere la parola, di chiamare la realtà per nome, di ascoltare e ricordare? La volontà, ecco. E l’ispirazione, un’ispirazione sorgiva, a volte addirittura tempestosa. Sono due forze che rischierebbero di entrare in conflitto e che invece nell’opera di Gabriela Mistral trovano, fin dal principio, uno straordinario punto di equilibrio. Forse è per questo che, con il passare del tempo, i suoi versi conservano un’immediatezza non sempre riscontrabile in altri poeti della stessa generazione. […] la dimensione femminile, in lei, si manifesta come sentimento dell’origine, in senso materiale non meno che spirituale».[1]

Nata a Vicuña, in Cile, si chiamava, in realtà, Lucila de María del Perpetuo Socorro Godoy Alcayaga, prima donna a vincere il Nobel nel 1945, appartenente alla piccola borghesia di provincia, Gabriela, sotto l’ala precettrice di sua sorella Emelina, di quindici anni più grande che l’ha iniziata alla carriera di insegnante, ha sentito, partendo dall’attitudine paterna alla versificazione, la stesura della sua poesia (da cui deriverà il suo pseudonimo per firmare i suoi versi, assieme a “Soledad”, “Alguien” e “Alma”) partendo dalla vertigine di Gabriele D’Annunzio e dal senso religioso del poeta francese, in lingua occitana, Frédreríc Mistral, ma anche leggendo la narrativa russa e Montaigne.

In Desolación (1922), la sua prima raccolta, il senso di intimità[2] e di incontro, il freddo nido della morte (il fidanzato suicida Romeo Ureta Carvajal), stesa su una terra soleggiata e il tormento si consegnano alla stanchezza («Si illuminerà il luogo dei destini, oscuro; / saprai che segni astrali la nostra alleanza ordivano / e, rotto il patto enorme, che morire dovevi.»), al silenzio dell’amore che tace e raccontano le brume della Patagonia come stupore di anima e bocca disinvolta:

«Si libra nella scia, sbatte l’ala nel vento, / pulsa vivo nel sole e incendia la pineta. / Non basta ricacciarlo come il brutto pensiero: / tu lo dovrai ascoltare! / Parla lingua di bronzo, parla lingua d’uccello, / timide invocazioni, di mare imperativi. / Non basta opporgli gesto audace, sguardo grave: / tu lo dovrai ospitare! / Ha i modi del padrone; non lo placano scuse. / Rompe vasi di fiori, fende il fondo ghiacciato. / Non basta dirgli che di alloggiarlo rifiuti: / tu lo dovrai ospitare!» (Amo amore).

Sono venti che fanno ronde di gemiti alla casa, vele bianche nel porto, lontane da orti senza luce e lingue strane da passare. La maestà dello sguardo di Dio narra i fiori del tetto come il destino e torna a coprire.

Le piane della Patagonia, dunque, sono radici di fiamme, dove premono i pleniluni e uniscono le ombre dei passanti alle bestemmie amare, agli orli di sentiero insonni e alle ferite di radici straziate di notte.

Un canto che diventa alba diamante e sguardo azzurro che fiorisce come un sogno:

«L’ho incontrato sul sentiero. / Non turbò il suo sogno l’acqua / né fiorirono le rose; / fiorì stupore la mia anima. / E ha una povera donna / il viso pieno di lacrime! / Aveva un canto leggero / sulla bocca disinvolta, / e al guardarmi gli si fece / grave il canto che intonava. / Guardai la strada, la vidi / strana e come di sogno. / E nell’alba diamante / ebbi il viso tra le lacrime! / Proseguì per la via cantando / e si portò con sé i miei sguardi… / Dietro di lui più non fu / azzurra e alta la salvia / Pazienza! Restò nell’aria / frastornata la mia anima. / Pur senza essere ferita / io ho il viso tra le lacrime! / Stanotte non ha vegliato / come accanto alla lampada; / dato che non sa, non punge / il suo cuore la mia ansia; / ma magari tra il suo sonno / passa odore di ginestra, / perché una povera donna / ha il suo viso tra le lacrime! / Era sola e non temevo; di fame e sete non piansi; / da quando lo vidi passare / Dio mi rivestì di piaghe. / Mia madre nel letto recita / per me preghiere devote. / Ma io magari per sempre / avrò il viso tra le lacrime!» (L’incontro).

Poi l’amore che tace e non si affida al parlare dei maschi, così oscuro. Esso nasce dal profondo e consegna la sua cosmica fontana colma:

«Se io ti odiassi, il mio odio ti darei / nelle parole, sicuro e deciso; / ma ti amo e il mio amore non si affida / al parlare dei maschi, così oscuro! / Tu lo vorresti trasformato in urlo, / ma viene dal profondo e ha dissolto / il suo bruciante fiotto, si è esaurito / ben prima della gola e anche del petto. / Mi sento come una fontana colma / mentre a te sembro uno zampillo inerte. / Tutto per l’infelice mio tacere / che è più feroce che andare alla morte!».

Ternura (1924) raccoglie poesie dedicate ai bambini. Il rapporto con la canzone popolare, la filastrocca e la fiaba fanno vivere, nel fragore, l’aroma del tripudio cromatico del girotondo (come il folle azzurro e il folle verde del lino in rami e in fiore o il basilico, la malva la salvia e l’anice), il fiore slanciato della festa, la libertà del canto puro come danza («Dammi la mano e danzeremo / dammi la mano e mi amerai/come un sol fiore saremo / come un solo fiore e niente più»).

L’infanzia diviene il punto della convocazione degli elementi, dove l’anima bambina sente il puro amore trasfuso nel mondo, il dono, anche immobile, di un cerchio di sole.

O dove sorge ogni astro, dove si comunica il santo sorriso da offrire e, infine, la terra india da consegnare, la sorpresa del respiro si sporge: «Sempre lei, silenziosa, come il maestoso sguardo / di Dio su di me; sempre i suoi fiori sul tetto; / sempre, come il destino che non sfuma né accade, / tornerà giù a coprirmi, terribile e stregata».

Il respiro di Gabriela è furibondo. Ma in tale furia occorre guardare la grazia e l’abbandono di una tenacia del vero[3]: «Va via da te il mio corpo goccia a goccia. / va via il mio viso dentro un olio sordo; / vanno via le mie mani in piombo fuso: / vanno via i piedi in due tempi di polvere», o ancora: «Cerco un verso che ho perduto, / che a sette anni mi hanno detto. / Fu una donna facendo il pane, / la sua santa bocca vedo».

In Tala (1938), destinata agli orfani della guerra civile spagnola, l’archetipica e primordiale meraviglia del tempo rappresentano la goccia del linguaggio, il teatro popolare e oscuro della vita che si rivela: «Bugia fu il mio alleluia: ora guardatemi. / Ormai non vedo oltre le mie mani; / lenta, senza diamanti d’acqua, avanzo; / vado in silenzio, e non porto un tesoro, / mi sprofonda nel petto e anche nei polsi / il sangue mischiato di angoscia e paura».

La condizione di estraneità, per Gabriela Mistral, è la esile elegia di un dolore acuto, la morte muta, la lingua che affanna i mari barbari, narrando, non eludendo il deserto umbratile del tempo, frequentando il ricordo di gesti che porgono acqua. Il mondo dove attingere il viso dell’appartenenza.

Nell’immagine tellurica si cristallizza la deificazione materna e femminile. È un processo di originaria sacralizzazione e transito di immagine che diviene grido consumato, dove la consegna al mistero dell’essere si fa volontà di rimanere alla terra «denudata dal mio proprio Padre, / un frammento di Gerusalemme!».

La madre è il sigillo-genitore della sete, assorbita dal dolore[4], che nel suo aspetto mariano, rievoca lo sguardo eterno dell’acqua di terre bambine, la vastità di lodi e di luci trasfigurate dell’infinita Cordigliera, «distesa come un’amante / e nel sole riverberata», il ritorno di aroma gioioso, che afferma l’uscio di una ferita, piena di muschio e silenzio, dove la cantilena del sangue risale l’infanzia dell’abbraccio, come l’arcipelago livido o la pietra di Oaxaca, dalla cui crepa emerge ogni respiro:

«Nella valle del Rio Blanco, / là dove nasce l’Aconcagua /, giunsi a bere, balzai a bere / sotto la sferza di cascata / che cadeva fluente e dura / e si rompeva aspra e bianca. / Porsi la bocca alla sorgente, / e mi bruciava la santa acqua, / tre giorni sanguinò la bocca / di quel sorso dell’Aconcagua. / Tra i campi di Mitla, un giorno / di cicale, il sole, in festa, / mi sporsi a un pozzo e venne un indio / a sostenermi sopra l’acqua, / e la mia testa, come un frutto, / stava in mezzo alle sue palme» (Bere).

Gabriela Mistral addensa immagini eucaristiche e terragne, come il pane, ad esempio, o il sale delle lacrime, dei corpi infranti, dei riflessi delle onde salate come porte che si attraversano («Dalla tavola viene a me; / da camera mia alla dispensa, / Con leggerezza sua di polline, / bagliori rotti di saetta. / Lo prendo come una creatura / e le mie mani lo sparpagliano, / e scivolando con il gesto / di chi cade e si sorregge, / trova la bianca e desolata duna di sale della testa»), annuncia gli argenti delle soglie e delle carni di pietra dell’America che fischiano il colore dell’ambra beduina e della mirra, i pianori lucenti, come se fosse il segreto di un alleluja.

Ci sono assenze come criniere di nebbia, ombre avvinte e amanti che si fanno paese, età sperdute di nomi e patrie lontane dove si vede morire, dove si perdono le isole di canna e di viola, e infine, nella voce che guarda il ginepro e l’olmo come evaporate origini nude:

«Mi è nato da cose / che non son paese; / da patrie e patrie / che ho avuto e perduto; / da quelle creature / che ho visto morire; / da ciò che era mio / e mi ha abbandonato. / Ho perso montagne / su cui ho dormito; / ho perso orti d’oro / dolcezza di vita; / ho perso le isole / di canna e di viola, / e le loro ombre / le vidi a me stringersi / e avvinte e amanti / farsi anche paese. / Criniere di nebbia / senza dorso e nuca, / respiri assopiti / li vidi seguirmi, / e in anni erranti / diventar paese, / e in paese senza nome / io morirò» (Paese d’assenza).

Le sue anamnesi squarciano i cieli delle eternità verdi e delle spigature dell’aria, rievocando il mais di Anahuac, ricordando il bagliore di ogni splendore fuso.

Le sue parole sono il torchio di una grazia senza ritorno, come si evidenzia in Lugar, Torchio (1954), appunto, che cela l’oro della memoria bruciata, che guarda i cambiamenti del suo paese manifestando straniamento ignoto («mi vedrà ignota percorrerlo, / e mi avrà solo la polvere / fugace, e non uno sposo») e bellezza aspra e dolente. che esprime tutta la potenza di un canto, depositato e disilluso nella lingua.

Sono le sue sillabe spogliate e balbettate nell’oblio e nell’amore disimparato. Bruciando nell’allegria, guardando alle cose divine come un albatros ebbro fino all’ultimo orizzonte della luce del giorno o dell’impronta di Dio: «Adesso voglio imparare / il paese dell’asprezza, / disimparare il tuo amore / che era la mia sola lingua, / come fiume che scordasse / letto e corrente e rive»

La forza della visione interiore nasce da una intensità profonda, germinata da porte chiuse e vesti verticali e strade come rughe di terre ardenti. Nella vita di Gabriela risplende la caduta come parola che «rimane da sola come un albero / o come un ruscello a tutti ignoto / che scorre tra una fine e un inizio / e come senza età o come in un sogno»

«Io canto ciò che tu amavi, vita mia,  / nel caso ti avvicini e ascolti, vita mia, / nel caso ti ricordi del mondo che hai vissuto, / nel pieno del tramonto io canto, ombra mia. / Io non voglio restare più muta, vita mia. / Come senza il mio grido fedele puoi trovarmi? / Quale segnale, quale mi svela, vita mia? / Sono la stessa che fu già tua, vita mia. / Né intorpidita né smemorata né spersa. / Raggiungimi sul fare del buio, vita mia; / vieni qui a ricordare un canto, vita mia; / se tu questa canzone riconosci a memoria / e se infine il mio nome ancora ti ricordi. / Ti attendo senza limite né tempo. / Tu non temere notte, nebbia o pioggia. / Vieni per strade conosciute o ignote. / Chiamami dove sei, anima mia, / e avanza dritto fino a me, compagno» (Canto che amavi).

In Poema de Chile, raccolta postuma pubblicata nel 1967 da Doris Dana, sua compagna dalla metà degli anni Quaranta, il caleidoscopio del sole degli Incas e dei Maya che rischiara la Valle, dove il fiore veglia il mandorlo e arde una laguna da sogno che la battezza e la rinfresca nelle alture, riannoda ricordi, in un disco di carne, e passano così «dal primo all’ultimo, / le felicità, i dolori, / il mosto dei ragazzini, / il lento miele dei vecchi; / passano, ardenti, il fervore, / la angoscia e l’affanno, / e il resto; passa la Valle / in curve serpentiformi, / da Peralillo a La Unión, / diversa e una e intera», le araucarie e il lamento del vulcano Osorno.

In un diorama di sogno e memoria, nel tremore oscuro della Patagonia (la Madre Bianca) come un sospiro, vi è lo spazio anche per i Campesinos, che seminano, irrigano «ancora una volta, ancora» e non hanno un loro “pezzo di terra, quando la «Verde patria che mi chiama / con lungo silenzio di angelo / e una infinita preghiera / e un grido che anche ora / odono il mio corpo e l’anima».

[1] Zaccuri A., Per Gabriela Mistral la Patagonia è madre , in “Avvenire”, 8 febbraio 2019.

[2] Massari S., La poesia di Gabriela Mistral, “Canto che amavi”, (http://www.sulromanzo.it/blog/la-poesia-di-gabriela-mistral-canto-che-amavi), 7 gennaio 2019.

[3] Raimondi S., Gabriela Mistral. Canto che amavi, “Pulp”, 2 gennaio 2012.

[4] Cfr. Grandón O. L., Gabriela Mistral: Identidades sexuales, etno-raciales y utópicas, in Atenea (Concepc.), n.500, 2009. Vedi anche: Montecino S. – Dussuel M.- Wilson A., Identidad femenina y modelo mariano en Chile“, en Mundo de mujer: Continuidad y cambio. Fem  Santiago, Chile 1988, pp. 501-522; García J., Poemas de la madre: libros muestran la vocación materna de Gabriela Mistral, in “ La Tercera”, 7 settembre 2015.

Mistral G., Il canto che amavi. Poesie scelte, Marcos y Marcos, Milano 2018, pp. 292, Euro 20.

Mistral G., Il canto che amavi. Poesie scelte, Marcos y Marcos, Milano 2018.

García J., Poemas de la madre: libros muestran la vocación materna de Gabriela Mistral, in “ La Tercera”, 7 settembre 2015.

Grandón O. L., Gabriela Mistral: Identidades sexuales, etno-raciales y utópicas, in Atenea (Concepc.), n.500, 2009.

Massari S., La poesia di Gabriela Mistral, “Canto che amavi”, (http://www.sulromanzo.it/blog/la-poesia-di-gabriela-mistral-canto-che-amavi), 7 gennaio 2019.

Montecino S. – Dussuel M.- Wilson A., Identidad femenina y modelo mariano en Chile“, en Mundo de mujer: Continuidad y cambio. Fem  Santiago, Chile 1988, pp. 501-522.

Raimondi S., Gabriela Mistral. Canto che amavi, “Pulp”, 2 gennaio 2012.

Zaccuri A., Per Gabriela Mistral la Patagonia è madre , in “Avvenire”, 8 febbraio 2019.

 

 

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini