Ausiàs March e l’amore come cono d’ombra

di Andrea Galgano 1 aprile 2020

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La poesia di Ausiàs March (1400-1459) appare nutrita da due linee forti ed evocative: da un lato, la lirica latina e francese e soprattutto italiana, dall’altro irrorata dai Padri della Chiesa, la Bibbia, la filosofia naturale e la trattatistica medica.

Nonostante rappresenti uno dei capisaldi del secolo valenciano, viene offerta oggi, grazie all’acume di due studiosi, Pietro Cataldi e Cèlia Nadal Pasqual, Un male strano. Poesie d’amore[1], edito da Einaudi, riportando alla luce una poesia che ha sicuramente patito la minorizzazione culturale del catalano, la sua originalità e la sua intensità, come scrivono i curatori nella prefazione:

«Il discorso insiste sull’irruzione di un eros perturbante, che porta a fare i conti con l’ideologia e con il corpo in modo drammatico e talvolta brutale, misurandosi perfino con il desiderio femminile e con le contraddizioni più oscure del proprio. In altri casi, predominano i riferimenti alla tradizione della fin’amor, lavorati con intensità inventiva e con una rappresentazione sincera e spesso pungente delle emozioni».[2]

L’agguato del dolore è il suo prisma onirico e la punta estrema del suo desiderio in bilico che rimane avvinto, del passato che rappresenta la dura cortina di un tempo rammemorativo, verso cui porre servizio. Il suo soggiorno eremita è una mentalizzazione ossessiva senza riserve di perdita, di lamento, di abbandono e di assenza. Incrinare l’amore come mondo che fugge, invecchia, si slega al cielo, diventa eccesso di piacere, per trasformare sé stesso in sognatore, malato, condannato a morte.

La condizione dell’innamorato possiede la precarietà fuggevole dell’inganno e del disinganno della storia, della sua fatale fragilità, e allora resta lasciarsi avvolgere dalla ragione, dalla privazione di ciò che quel tempo concede, contemplandolo, abbandonandosi alla forza in salita della realtà esterna, come un grido e un compianto, nati nella burrasca dell’incomunicabile, inscenati in un bisogno di purificazione. Ed è lì che il bisogno di salvezza diventa più grande. È il suo sole estivo che non si abbassa e l’esito di una vertigine verticale che purifica («Piena di senno / donami una crosta / del pane tuo, che l’amaro mi tolga» (2, 41-42)»):

«Come colui che gode in un sogno / e il suo piacere viene da un folle pensiero, / succede a me, che il passato mi tiene. / Sentendo il mio dolore già in agguato, / sapendo che cadrà nelle sue mani, / nessun bene il futuro può più darmi; / ciò che è nulla è il meglio che io ho. / Del tempo passato mi scopro grande amante, / amando il nulla, poiché è già finito. / In questo pensiero soggiorno e mi diletto, / ma quando lo perdo, è più forte il dolore, / come colui che è sentenziato a morte / e lo sa da gran tempo e si consola, / e credere gli fanno che ci sarà perdono / e lo fanno morire senza nessun ricordo. […] Meglio sarebbe soffrirlo, il mio dolore, / che non mischiare un poco di piacere / fra quei mali che impediscono sapere / come uscire dal piacere pensato. / Ahi! Si trasforma in doglia il diletto, / per un poco di tregua si raddoppia l’affanno, / come al malato che per un morso ghiotto / tutto il suo pasto va a nutrirgli il dolore»-

L’esperienza estrema dell’amore si interseca all’incapacità di esprimerne la potenza. Dà tormento la paura del male, il cuore che brucia. I suoi segni, ripresi dalla trattatistica medica, uniscono piacere e paura. Ma anche la diseguaglianza di due mondi, dove l’amata, ancora una volta, piena di senno come un medico esperto si porge a comprendere l’incapacità dell’amante. In March, la forza del contrasto rappresenta l’itinerario di un tentativo di innalzamento.

Da una parte, la vis ragionativa del singolo, dall’altra il bruciore del paziente che rende tutto incerto, che preme e tormenta la sua anima: «è un poeta che pensa, che vuole rendere ragione, dapprima a sé stesso, dei propri dissidi interiori, delle contraddizioni. E questo lavoro, diciamo pure di analisi poetica, è tutto in profondità[3]».

Nicola Gardini scrive:

«La poesia di March è ragionativa, argomentativa, teorica; vorrei dire “matematica”. Sta tutta nella mente e della mente spiega le parti strutturali: la ragione (la parte più nobile dell’individuo), la volontà, il desiderio, l’immaginare, il senno. L’interiorità del poeta si fa scena di un dramma in cui l’istinto di morte si alterna alla tensione verso un ideale di amore puro. La condizione prevalente è il dolore (parola chiave di March): vuoi come rinuncia alla soddisfazione carnale vuoi come caduta nell’esercizio del sesso vuoi come masochismo vuoi come tradimento di sé vuoi come malattia. Raro, ma pur sempre registrato, il trionfo sulle forze contrarie. Notevole è che lo scrupolo razionalistico non spenga affatto la potenza emotiva. Piuttosto, esalta l’emozione in tormento. March analizza il magma, ma non ne placa il bollore. Per certo cerebralismo, può riportare alla memoria i metafisici inglesi. Non arriva, però, al loro lusso figurativo. La sua voce si mantiene, all’inverso, snella, secca, elencatoria. Ogni verso della sua ottava tende a corrispondere a un’unità di senso, e lo svolgimento della composizione si ostina, pur non riuscendoci sempre, a seguire una logica serrata, accumulando puntualizzazioni in un crescendo ossessivo. Viene da fare un paragone – questo non solo analogico, bensì accertabile storicamente – anche con i modi della sestina, la forma metrica dell’ossessione per eccellenza […]».[4]

Amore usurpa il suo suddito forsennato che si stringe attorno alla frammentata distonia del suo io elegiaco, alla confusione non discernita della sua pena, così vicina al morire. La smarrita polifonia di contrasti è il frammento dell’io che chiede e implora la sua salvezza in disparte, come al suo giglio fra i cardi, un’immagine che riporta al Cantico dei cantici, oltrepassando ogni possibile soglia:

«Le cose di Amore non posso ben intendere; / il mio giudizio è pieno di contrasti; / nel giorno non c’è un’ora che non provi una pena, / e penso che dovrò presto l’anima rendere. / Se un’altra voce a me l’immaginare porta, / per dare un segno che io sia creduto, / la morte supplico che mi venga in aiuto; / o la mia verità giacerà morta. / Giglio fra i cardi, a scorgere la porta / dei piaceri sovrani son venuto; / non ci ho bussato, ma ritorno muto, / e del ritorno trovo già la via torta».

Ausiàs March, nel suo excessus doloris, canta la sua perdita di vitalità, la rivelazione di una paralisi che dissolve, di un ripiegamento che incrocia la percezione della realtà e la sua infinità. Procedendo nell’abisso della sua finitudine afasica, egli disserra la sua linea come veleno, nave che periglia nel golfo, tra due venti in contrasto, nello sgomento senza chiarore:

«Cavatemi un occhio per accecare la sorte / e perdere la via che mi ha portato in alto; / ma se da qui dovessi indietreggiare, / in quell’istante la morte mi conosca. / Prima che il fianco mio prema la terra, / in questo spazio la vita abbia fine; / confermi qui il mio stato la morte, / e se lo perdo, di morte amo la guerra. / Giglio fra i cardi, nello spazio della terra / non c’è piacere che duri e che appaghi; / tolto il mio, e non chiedo che aumenti. / Ma il lutto del durare, a pensarci, mi afferra».

Le contrapposizioni, la paura dei gesti (come accade nella rivalità erotica), la castità del desiderio, la saggezza dell’amata, l’onestà del rapporto, le fratture del finito, l’io tacito contengono il dramma di una inconciliabilità di opposti, laddove l’incomunicabilità, l’inconfessabilità, il conflitto tra carnalità e sublimazione avvolgono e riuniscono l’io in una materia vivente che, in questa tragica introiezione, diviene sgranata e flessa in altri sé stesso: «Sempre ho saputo portarmi dentro / contro di me una trista persona: / la stessa che natura a tutti dona, / padrona in molti e in tanto pochi schiava. / Ma ora sento che un terzo mi si scopre, / e ne sentii il potere senza conoscenza».

A proposito del chiarore e della contrapposizione, come semantica essenziale nella trama affettiva, e in riferimento al componimento 27, i curatori affermano:

«L’originalità di March consiste innanzitutto nel risemantizzare in chiave monana ed esistenziale la contrapposizione giorno/notte, investita nel Medioevo da ovvie intenzioni teologiche. Il modo d esercitare questa originalità sta […] nel proporre il tema, così intensamente marchiano, dell’autodistruttività, presentata nella seconda strofa con accenti di disperata violenza: l’io è preda ed è predatore, è assassino e vittima; occupando lui stesso entrambi i ruoli della relazione violenta. Solo il soccorso pietoso della donna, fuggevolmente invocato nella conclusione, potrebbe salvarlo da questa spirale di rovina.

Certo, in March, prevale la forza del proprio essere anche di fronte alle oscillazioni della sua anima, laddove lo stato emotivo diventa compromesso si svela, dove la lotta con Amore diventa agone sintomatico.

La poesia, così, si apre in un codice peculiare di dolcezza, frustrazione e angoscia di un presente disorientato, in perenne ricerca di desiderio. Il proprio vissuto è sottomesso a logiche spazio-temporali impossibili e, rievocando l’atemporalità, cambia modelli, acutizzandoli.

Il ricorso al paesaggio marino, nel quale l’amato agogna l’amata, vive attraverso barriere e ostacoli. Il mare è in ebollizione. La stessa protezione del pensiero dell’amata in pericolo, la paura della morte un pensiero ossessivo. Ma il desiderio, in March, è in lotta con questo scenario interiore ed esteriore, rimane slancio verso un’estremità potente. Sente l’amore fino allo spasmo ma non lo conosce, per timore e tremore del suo lato immenso e insormontabile («Amore, di te ne sento più di quanto so, / ed il peggio di te mi resterà; / più ti conosce chi senza te sta. / Al gioco e ai dadi ti comparerò»):

«Io sono colui che è l’amante più estremo, / dopo quello a cui Dio la vita toglie: / visto che vivo, il mio cuore non mostra / quanto la morte la sua estrema doglia. / Di amore al bene o al male sono pronto, / M ala Fortuna non me ne dà il caso; / ben sveglio, senza spranga alla porta / mi troverà con un’umile risposta».

È un male strano, una pena strana che sconvolge ed atterra: carne, emozioni, desiderio che travolge, amare ed essere amato. Una forza che irrompe fino alla paralisi, al conflitto e al funestato prisma interno: «A strano male va una pena strana / e il rimedio dovrà essere strano, / e chi muore di freddo, entrando in acqua / sentirà caldo, se acqua fredda lo bagna; / e se l’inizio comincia dal mezzo, non può seguire il mezzo e la fine l’inizio. / Con forze tali, amando, Amor mi vince / che pianamente il dire mi è impossibile».

[1] Ausiàs March, Un male strano. Poesie d’amore, a cura di Piero Cataldi e Cèlia Nadal Pasqual, Einaudi, Torino 2020.

[2] Cataldi P. e Nadal Pasqual C., Introduzione in Ausiàs March, Un male strano. Poesie d’amore, cit., p.vi.

[3] Galaverni R., Non proprio pazzo ma illogico per amore sì, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 22 marzo 2020.

[4] Gardini N., Lo strano male detto amore, in “Il Sole24ore”, 19 marzo 2020.

Ausiàs March, Un male strano. Poesie d’amore, a cura di Piero Cataldi e Cèlia Nadal Pasqual, Einaudi, Torino 2020, pp. 232, Euro 22.

 

Ausiàs March, Un male strano. Poesie d’amore, a cura di Piero Cataldi e Cèlia Nadal Pasqual, Einaudi, Torino 2020.

Galaverni R., Non proprio pazzo ma illogico per amore sì, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 22 marzo 2020.

Gardini N., Lo strano male detto amore, in “Il Sole24ore”, 19 marzo 2020.

2120: Uno sguardo disincantato, di Federico De Caroli

di Federico De Caroli

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Racconto scritto nel 1994 pensando a come sarà la nostra vita tra un centinaio d’anni. Visioni e riflessioni nella vita quotidiana di uno tra i tanti, all’inizio del XXII secolo.

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Oltre i ponti della ferrovia idraulica, vicino al deposito dell’ammoniaca, sostava sempre un veicolo grigio con le doppie lame di contatto. Lo avevo notato il giorno in cui era scoppiato l’incendio della prima linea, perché nessuno si era preoccupato di farlo spostare, né il suo proprietario si era premurato di allontanarlo dal pericolo.

Ero sicuro che il veicolo non fosse abbandonato, in quanto ogni mattina, dalla mia capsula, potevo capire da alcuni particolari che era stato mosso. Non sapevo né come né quando, visto che per la maggior parte della giornata io bazzicavo nei dintorni e, se avesse circolato, me ne sarei accorto.

La mia fidanzata, una colloide del tipo AS83, un tipo piuttosto rigido nei ragionamenti, diceva che il movimento non necessariamente doveva essere provocato da spostamento. Se il veicolo aveva filtri attivi per i campi magnetici, compiva piccoli balzi d’assetto direttamente sul posto. Tuttavia sembrava strano anche a lei che fosse stato lasciato là incustodito. Anche perché si trattava di una macchina costosa e, comunque, non più vecchia di una decina d’anni.

Col passare dei giorni, il veicolo divenne un’abitudinaria ossessione del primo mattino. Dopo aver ricaricato il mio circuito di respirazione passivo, sostavo qualche minuto all’oblò per osservarlo, sperando che qualcosa di nuovo ed imprevedibile accadesse. Immaginavo di veder comparire finalmente il proprietario… una donna umana con le ossa del bacino ergonomiche… un investigatore del Nucleo Delitti Cibernetici… una rockstar drogata della Zona del Disastro…

Invece, nulla. Mi perdevo con lo sguardo oltre la strada, oltre le recinzioni della ferrovia, oltre i muri scrostati del deposito. E lo sguardo, dalla paranoia artificiosa di un interrogativo futile e senza risposta, finiva per agganciarsi al pensiero di altri mondi, di emozioni sconosciute, di una società perfetta e priva di individui ricostruiti, vecchi di quattrocento anni.

Gockah, la mia fidanzata, mi lasciava stare e mi avvertiva soltanto quando stava per uscire. Lei doveva raggiungere i livelli sotterranei ogni giorno, per dedicarsi alla sua attività di ricercatrice scientifica; non aveva certo tempo di contemplare quella piccola porzione di mondo esterno e intrigarsi di una macchina parcheggiata. Lei si faceva trenta chilometri nella pneumatica e stava sei ore con le innervature bioelettriche delle mani innestate su un calcolatore della Federazione.

Io ero, tra i due, quello che poteva permettersi di sognare ogni tanto. Passavo le giornate chiuso nel mio alloggio, alternando bei momenti di lucidità a ciucche magistrali. E mi bastava il più piccolo particolare per creare una giustificazione alle mie indagini mentali. Due anni prima avevo trascorso un lungo periodo ad osservare uno strato di nuvole arancioni (probabilmente ceneri di cadaveri cremati) che si riformava ogni cinque ore sempre nello stesso punto e sempre con la stessa sagoma. Senza venire a capo di quello strano fenomeno, mi ero consumato gli occhi a guardare e automaticamente le meningi a pensare: partivo dalla nuvola per arrivare sempre più lontano… fare una passeggiata tra gli alberi… uscire a cena con qualcuno… cibi idroponici… sistemi respiratori naturali… i bordelli della Sesta Metropoli…

Poi, il mio sguardo tornava disincantato sui muri del deposito e mi concedevo una pausa nella vita. Lavoricchiavo, mi ubriacavo, cercavo di tirare avanti in quella città di merda senza illudermi di credere davvero che un tempo gli uomini infilavano il pene in una vagina per procreare.

Federico De Caroli – Savona, 1994

 

2020.03.11 Il pensiero del giorno

di Guido Rutili

11 marzo 2020

leggi in pdf 2020.03.11 MOPP

Il mondo infetto (non infettato, badate bene) ci guarda di sbieco, pronto a colpirci.
Noi umani adulti, per la gran parte involuti, porgiamo la difesa estrema di cui siamo capaci:
torniamo bambini.

Tutti regrediti, ci scansiamo coi lucciconi, ci rivolgiamo al babbo clemente, che sia il capo o il direttore, il professore o il proprietario, ci atteniamo, ci attendiamo, timidi e rossi, indifesi, tremanti.
La fila davanti alla farmacia, le mani spellate dal disinfettante; la mascherina? Forse no, non lo sappiamo.

Quando eravamo in mania, presi dal fremito del carrierismo, finalizzato alla spesa senza filtri della domenica commerciale, serviva realizzare la prospettiva hollywoodiana della pandemia
zombificante, per compiere, da manuale, l’atto masochistico sintomatico.
Dall’inconscio collettivo giungeva un messaggio chiaro: “tornate a credere in me, invece di reificarvi in bozzoli illusori” ma non lo ascoltavamo difendendoci, razionalizzando e nascondendo,
rimuovendo e negando: “la psiche è una sciocca trovata novecentesca, facciamo finta che sia l’antagonista del pensiero scientifico e lasciamo alla pellicola la traccia intuìta!”

Però, qui ed ora, se torniamo tutti piccoli, disconfermare Freud diventa fastidiosamente difficile.
Dire che Jung o Toni Wolff, che parlavano di scienza collocandola su un punto qualsiasi dell’asse natura-cultura, erano sciocchi visionari, sembra eretico.

La psiche, cioè pensiero e non-pensiero (chiamarli conscio e inconscio mi pare ancora potenzialmente traumatico), torna alla ribalta e ci dice che la carne è una parte, ma solo una.

Presi dalla regalità del nuovo, nessuno ha dato nome al vecchio morbo appena descritto, perché al microscopio non si vede; voglio darglielo adesso io, “Mania Ossessivo-Paranoidea dell’atto Pratico”, MOPP.

Non mi interessa indugiare sul fatto che il MOPP abbia trovato terreno fertile in categorie di individui specifiche, con netta prevalenza nella fascia d’età che va dai 14 ai 60 anni circa; magari su
questo potremmo discutere in separata sede.

Vorrei invece focalizzare sulle categorie immuni da MOPP, scremando i bambini e i ragazzi, che pur non presentando sintomi, sono divenuti portatori sani.

Rimane una sola opzione.

Riflettiamo su una cosa: dell’umanità, ora confusa e manipolata da sé stessa, fa parte (e rimane in disparte) una categoria illustre, insignita e meritoria del più alto grado possibile: gli anziani.

Eroi, nemici della superficialità, pochi detentori dei valori non ancora liquefatti, lenti, sapienti, ricolmi di vita, ricchi, preziosi, scuotitori compulsivi di testa nel guardare l’operato dei nuovi arrivati.

Anziani.

Gli artefici più inoperanti.

L’immagine presente del futuro auspicabile.

Nelle culture ancestrali una barba bianca ha sempre destato rispetto ed è sempre stata capace di indurre la calma-consapevolezza, qualità ben nota ai seguaci taoisti. Il grembo della grande
vecchia è sempre stata la sede per la più grande elaborazione, figlia dell’abbandono conferito e necessario: non possiamo aver perso del tutto il significato più intimo di “rispetto”.

Il MOPP, all’acme della sua corsa, pochi mesi fa ha eseguito ciò che l’assioma di natura gli imponeva, cioè ha mutato per adattarsi: se qualcosa lo separava dal dominio totale, ha pensato di eliminarlo.

Rieccoci al Covid, al suo tocco mortifero sugli over 60, alla possibilità d’intervento che ci è data.

Sono forti, i grandi vecchi, hanno dalla loro la pratica della non-azione, ma non sono indistruttibili: se ci risvegliamo presto, possiamo aiutarli e subito dopo ritrovarli nella loro splendente totalità.

Non è solo per loro che va fatto, ma per ciò che rappresentano: la chiave!

Dato che la svista del MOPP, non contemplata dalla sua mutazione, è l’induzione nella regressione allo stato infantile, sfruttiamo questo mezzo e rivolgiamoci ai nostri nonni (non fisicamente, per
l’amor di Dio: che gli abbracci vengano tenuti per il futuro!).

Tra le altre cose, loro l’inconscio non l’hanno mai perduto: l’hanno conservato per noi nelle soffitte che ci meravigliano, piene di magnifiche cianfrusaglie ed oggetti sublimi, nell’attesa che
avessimo l’età per prendere la scala e raggiungerle. Non tentennano se chiamati all’atto d’amore, poiché ne comprendono l’abissale essenza.

La vita apocalittica di questi giorni, per chi alla carne bada decisamente poco (poiché ne percepirebbe meglio gli acciacchi) vede questi illustri esseri umani come presenze fantasmatiche: i
più, come ogni maestro di vita, si sentono in colpa per inadempienza. Niente nipoti, niente fatiche per i figli, niente possibilità di elargire borse traboccanti di cibo e di beni necessari a inverni che
per quanto infiniti verrebbero sconfitti.

Che un elogio dell’anzianità, capace di diventare auspicio di ritrovata profondità psicologica per ognuno di noi, ci pervada come un fluido e ci renda capaci di prendere, a questo bivio, la strada giusta

2020.03.08 Il pensiero del giorno Nel maelström

di Irene Battaglini

8 marzo 2020

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…di tante fiamme tutta risplendea

l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi

tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea…

Lo maggior corno de la fiamma antica

cominciò a crollarsi mormorando

pur come quella cui vento affatica…

 

“Li miei compagni fec’io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena poscia li avrei ritenuti…”

(Inf.XXVI)

Une descente dans le Maelström

EDGAR ALLAN POE

Ho amato ciò che ha toccato il mio fondo

PASQUALE PANELLA

La psiche collettiva si trova ora totalmente catturata dalle forze più profonde che governano l’agire degli istinti ciechi, quegli stessi abissi nei quali la nostra vita ha avuto la protervia di nascere. Ci troviamo al centro di un vortice sociale ed economico che ha la forma di una V, come sostengono gli analisti finanziari, e ci stiamo avvicinando al luogo critico in cui per oltrepassare il  maelström è necessario smettere di navigare, ed occorre lasciarsi domare dalle forze solo apparentemente contrarie. Lasciarsi attraversare dal tremendum è vivere la paura di “perdere” quel che abbiamo percepito, forse incautamente, nostro. Navigare in questo punto del mare è sostanzialmente impensato, poiché è come voler aver ragione sulle leggi dell’ universo e come Odisseo finire nella bolgia dei consiglieri fraudolenti, colpevoli della loro improvvida tracotanza. Il “sentimento del sangue del mondo” perpetua la sua egemonia sulla povera Anima del Mondo.

 

2020.03.06 Il pensiero del giorno Il sangue della psiche e il rovescio della conquista

di Irene Battaglini

6 marzo 2020

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«è  il senso la vera holding, non l’oggetto»

André Green

“Agire da primitivo e prevedere da stratega”. René Char, Fogli d’Ipnos, ‪1943-44

Le cose cambiano continuamente, non ci sono epidemie, pandemie o complotti, scenari post-atomici e disegni anti-europeisti più di quanto non ci siano abitualmente da migliaia di anni, e credo che nella storia dell’uomo, non vi sia complotto più doloroso di quello che emerge dal “rovescio della conquista”[1].

Nella dinamica dell’eccidio degli Indiani d’America, non vi era alcun complotto preordinato; nel malvagio commercio degli schiavi d’America, non vi è alcun disegno preconfezionato, poiché le comunicazioni offline non avrebbero permesso una simultaneità degli eventi come oggi si configura nella nostra cultura del sincronismo di rete; nella maggior parte delle nostre relazioni quotidiane, ispirate al reciproco “usarsi” narcisistico, non è alcun mercato regolato da norme online sulla compravendita degli affetti, soprattutto quelli che si accomodano sulla reciproca acquiescienza, che sia basata sullo scambio di bisogni (biologici, sessuali, emotivi, affettivi, economici, sociali) o ammantata di una delicata veste di sublimazione: si tratta, sempre e comunque, di un arcaico sentimento del mondo. Il sentimento del sangue del mondo, che è istintivo ma non ancora pulsionale, è asservito alla forza ctonia ma non è selvaggio, è vitalistico e dunque affine alla morte, alla sopraffazione, al divorare l’altro in quanto non preda, ma risorsa necessaria alla sopravvivenza: un sentimento che uccide una parte di noi, e non (solo) l’altro, quando esperiamo un asettico sadismo, una rinuncia all’immagine del “sangue della psiche”.

Tuttavia il sadismo esprime, sebbene ad una algida temperatura, pur sempre un rapporto con l’oggetto, un qualche segno della potente imago, che sia celestiale o di tenebra, su cui si fonda la nostra personale psicologia. Nel sentimento del sangue del mondo, non vi è spazio per l’immagine della psiche.

Scrive James Hillman[2]: «Si tratta di dare valore all’anima prima che alla mente, all’immagine prima che al sentimento». «Si tratta di dare valore all’anima prima che alla mente, all’immagine prima che al sentimento». Il che, a sua volta, impone di «rinunciare ai giochi di soggetto-oggetto, destra-sinistra, interno-esterno, maschile-femminile, immanenza-trascendenza, mente-corpo», in modo che «l’emozione trattenuta da quelle sacre reliquie possa infrangere quei vasi e tornare a fluire nel mondo».

Dal 22 febbraio, un sabato tra i più duri che io ricordi nella mia storia personale, mi sento trascinata dal desiderio di lasciarmi chiudere dalla spire della non-vita: Milano, Stazione Centrale. I treni che di solito sono un affezionato sintomo del nostro caos, diventano il segno inequivocabile della “psicosi bianca”[3] generata dal non poter stare nel lutto, invischiati come siamo nel sentimento del sangue del mondo. Non è la morte, non è il virus, non è il contagio, non è la paura: che cos’è la paura, se non il segno del mio essere viva. È il catechon che dilaziona e difende, e che io sento come utile e necessario nel suo principio antidolorifico. È Saturno, nel versante che si offre allo sguardo e ne impone una perdurante salificazione. Ma so, dai sogni che mi visitano, un luogo di cui credevo aver perso il diritto di servitù – perché non sono nostri, sono il mondo in cui abbiamo il privilegio di poter essere esploratori di una notte, di un secondo – che “l’immagine del sangue psichico” non è andata perduta.

Anima è sullo sfondo, si è fatta da parte, ha dovuto. Per non essere bruciata viva, per non essere troppo ferita. Si è dovuta nascondere, piange sulla sponda di un “pensiero del cuore” in attesa di tornare ad essere vista: può essere vista solo da chi possiede la vista. È l’anima del mondo che abita il cuore e lo fa ancora sussultare, un cardiopalma d’amore ad opera del dio dell’aurora: un progetto che ci vive, un domani che ci vuole e ci chiama. Io credo sia necessario affilare le armi, individuare una strategia (che non sia resiliente: deve essere invece solo apparentemente nervosa e delusa) e combattere per questa Anima, non è giusto lasciarla da sola.

Anima nella sua meravigliosa mutevolezza, che ogni uomo o donna possiede in scintilla, e che fa del singolo un attore a volte inconsapevole della lotta tra Eros e Thanatos nelle grandi sfide cosmiche. Vi sono esplosioni che uccidono interi “sistemi” solari, vi sono vaccini che uccidono i virus letali e difendono il sistema biologico umano. Potrebbe mai il corona virus lagnarsi per essere stato un giorno debellato dalla cosiddetta scienza?, beh no, ci auguriamo di no. Un oscuro disegno si configura in questo scenario di scambio di ruolo. Il bene non vincerà. Il corpo morirà e dovrà attrezzarsi per godere della sua breve corsa il più possibile.

E allora Anima, in che cosa ci aiuti a comprendere? Quello che cambia, è il nostro modo di percepire la realtà: la nostra capacità di intercettare il reale a tutti i livelli della sua manifestazione. È la vista che si acuisce, e si acuisce attraverso i sensi. I sensi possiedono la inner vision, ma la vista è un organo di senso. Un organo, un piano di note e di tasti, di senso e di significato. Una musica che nessuno ancora conosce, che deve essere “vista” con le mani, dalle mani, da quegli augusti alfieri di impronta che sono i polpastrelli, che tornino a suonarsi tra loro, a stare nella logica dei sensi. E se un giorno troveremo gli amanti addormentati sul finire di una spiaggia, non diremo più: che incoscienti, che esibizionisti. Diremo, finalmente il mondo è vissuto, e Anima si riprende il posto che Catechon le ha conservato, fingendo di asservirsi al sentimento sanguinario che ci ha colto come indigeni, schiavi, bambini abusati, a fare da contrappunto al conquistatore incoronato.

 

 

[1] Cfr.: Miguel León-Portilla, Il rovescio della conquista. Testimonianze azteche, maya e inca. Adelphi: Milano 1974.

[2] L’anima del mondo e il pensiero del cuore. Traduzione di Adriana Bottini. Piccola Biblioteca Adelphi, 2002, 9ª edizione.

[3] Cfr.: A.Green- J.L.Donnet, La psicosi bianca. Psicoanalisi di un colloquio, Borla, Roma 1992.

2020.03.04 Il pensiero del giorno Il governo della Fortuna e la prova del Caos, la più politica delle virtutes

di Giulia Corrado

4 marzo 2020

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Se un merito si può attribuire all’epidemia di Coronavirus è quello di aver permesso a società e individui di confrontarsi di nuovo con quello che, da ben prima che esistano società e individui, esiste come Ingovernato ed è stato osservato con terrore fino a diventare oscuro tabù dei nostri sistemi: il Caos.

Non solo ha risvegliato la consapevolezza del nostro essere fragili e mortali, con il senso di essere in balia della biologia così come ogni altro essere a cui consolatoriamente pretendiamo di essere superiori; ma nel nostro essere animali sociali, e quindi in una dimensione ulteriore e politica delle nostre esistenze, ha evidenziato quanto siano fragili gli schemi e le presunte stabilità che si legano alle proprie certezze, abitudini, quotidianità, a quello che abitualmente concepiamo come implicito e acriticamente (se non per la chiacchiera da bar) chiamiamo col nome di “Sistema”, contro il quale ci scagliamo ma dal quale scopriamo poi di sentirci protetti quando minaccia di crollare.

E proprio qui riscopriamo il concetto di Politica: davanti all’effetto domino che ha portato dall’infinitesimale del virus al macroscopico del sistema. Ci si chiede dov’è la falla, cosa non ha funzionato, cosa ha permesso che la grande macchina, della quale il più delle volte siamo ignari, andasse in blocco. Interrogativi che già suppongono una premessa errata, nel momento in cui si propongono di valutare solo la funzionalità della macchina e ne ricercano il guasto, senza badare alla sua complessità di processo e di dinamiche. Un riflesso metodologico di quel positivismo che ha finito col distorcere il concetto stesso di Politico, riducendolo alla mera funzione.

Se dobbiamo individuare una falla, potrebbe essere proprio questa allora: l’incapacità di concepire la centralità del Politico come metodo e come processo. Lo stesso che, al di fuori delle fissità positiviste e delle pretese funzionaliste arenate sui modelli organizzativi, potrebbe essere realmente risolutore di un problema nel suo dinamismo.

Machiavelli scriveva, già cinquecento anni fa a proposito delle imprevedibilità delle Guerre d’Italia, della tremenda difficoltà che un approccio politico comporta: un processo reso complicato dalla fortuna e ancor più dalla sua mutevolezza. Nell’epoca più liquida di tutte, fatichiamo ancora a considerare caotica e mutevole la realtà: speravamo che il progresso, qualunque cosa questa speranza e questo concetto abbiano significato, ci avrebbe dotato anche di schemi predittivi, di argini a questo caos, liberandoci dall’incombenza di confrontarci con esso. Ma le condizioni, le situazioni, le circostanze del mondo non sono predicibili, né sono fisse: e così come per la società, lo stesso principio vale per la vita individuale.

Il buon Principe, per Machiavelli, è quello che governa la fortuna e che è pronto a mutare se stesso davanti alla mutevolezza della fortuna stessa, che al volgersi contrario delle circostanze sa come renderle un’occasione. Perché il governo, e dunque la politica, non è l’esercizio del regno sulle cose fisse, ma l’arte del condurre e dar direzione a quelle mutevoli. Per farsi portatori e attori di questa virtù, occorre però avere il coraggio di uno sguardo disincantato e consapevole davanti al Caos, onesto nel riconoscerne l’esistenza.

Se allora il Caos irrompe nel nostro quotidiano e si manifesta con un’epidemia, perché non provare ad essere più politici davanti a questo guizzo della sorte e ravvedere nel vento contrario un’occasione per provare nuove strade e concepire nuovi modi di approcciarci ai problemi? Perché non uscire dalla retorica del problem solving da santoni delle organizzazioni ed esperti del management e sperimentare con un po’ di gaia scienza anche la dimensione più creativa, poietica, politica che risiede nello sporcarsi le mani con tutto ciò che di caotico celiamo di solito al nostro sguardo?

Potremmo scoprire che il Caos, oltre a terribile e totalizzante minaccia, è un magma di possibilità che solo un’azione lucida (e coraggiosa) può plasmare in qualcosa di completamente nuovo. Forse proprio in quell’atto, politico per metodo e natura, che in momenti di stallo servirebbe per uscire dal cerchio del panico.

 

L’ellisse «vitruviana» di Leonardo Sinisgalli tra la scienza e l’arte

di Andrea Galgano

4 marzo 2020

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La pubblicazione, per Mondadori, di Tutte le poesie di Leonardo Sinisgalli (1908-1981), a cura di Franco Vitelli e con il contributo della BCC Basilicata, toglie, finalmente, la ricezione elitaria della sua poesia, poiché, come Vitelli afferma: «troppo forte è stata la capacità anticipatrice, per cui si è trovato in dissenso col suo tempo e contemporaneo della posterità, la quale ha messo in pratica le sue idee geniali quando per lui andavano prendendo un’altra piega».

Il suo incontro musaico è un segno infinitesimo di inquietudine e di spostamento che insegue l’arcaica visione di un meravigliato itinerario, di un legame scientifico e metamorfico con l’umano, in un chiasmo di orizzonti e ombre:

«Sulla collina / Io certo vidi le Muse / Appollaiate tra le foglie. / Io vidi allora le Muse / Tra le foglie larghe delle querce / Mangiare ghiande e coccole. / Vidi le Muse su una quercia / Secolare che gracchiavano. / Meravigliato il mio cuore / Chiesi al mio cuore meravigliato / Io dissi al mio cuore la meraviglia».

Il suo simulacro musivo risente di una vivace doppiezza, che se, da un lato vive dell’agone prospettico “rinascimentale”, in cui scienza (matematica, in particolar modo) e arte confluiscono in un unico proscenio di disciplina e metodo, dall’altro la vertigine poematica costruisce un’istanza di luce che riunisce grottesco e ironico, dolce furore familiare e «colore carnale».

La scena rappresenta, pertanto, uno strappo di opacità. La parola di Sinisgalli, irrorata dalla lezione di Mallarmé, Ungaretti e Valéry, distesa sulla geometria cartesiana e sull’architettura albertiana, ricerca il numinoso prodigio della «fulmineità dell’atto creativo», dove «Troppi eventi nella natura e nell’intelletto accadono in un istante: sono cariche e scariche di energia enorme, di energia animale e cosmica, che distruggono la cosa per creare l’immagine». In tale mobilità, nata dalla apicale prosa leonardesca, Sinigalli bracca l’immaginario algebrico, la geometria e la metrica dell’invisibile, unendole con le forze della inner vision poetica.

Nel suo sincretismo, che gli permetterà di progettare, dapprima, la pubblicità della Olivetti, allestendo a Milano, tra il 1936 e il 1940 una rivoluzione anticipatrice della pop art, facendo coesistere la linea della grammatica visiva di Kandinskij e il dramma plastico di Consagra con gli automi, per poi fondare e dirigere la rivista «Civiltà delle Macchine», per Finmeccanica, in cui fondere la nuda polifonia del sapere scientifico con l’osmosi letteraria, come egli stesso afferma in una intervista a Ferdinando Camon del 1965:

«L’inverno del 1953, a Roma in un ufficio di Piazza del Popolo, quando io misi a fuoco il progetto di Civiltà delle Macchine […] la cultura dell’Occidente era rimasta incredibilmente arretrata e scettica nei confronti della tecnica, dell’ingegneria. Voglio dire che erano sfuggite alla cultura le scoperte di Archimede e di Leonardo, di Cardano e di Galilei, di Newton e di Einstein. Io volevo sfondare le porte dei laboratori, delle specole, delle celle. Mi ero convinto che c’è una simbiosi tra intelletto e istinto, tra ragione e passione, tra reale e immaginario. Ch’era urgente tentare una commistione, un innesto, anche a costo di sacrificare la purezza».

Successivamente, il suo desiderio di unità sincretica tra discipline confluirà anche nella direzione di «La botte e il violino», bimestrale dell’Eni di Mattei. L’inseguimento delle Muse cerca le ombre, i compagni che gridano a perdifiato, le monete rosse, l’ultima luce chiamata nella piena dei canali e le mani affondate nel grano in una tiepida suoneria, fino al ricordo intriso d’autunno che respira il vento di Porta Nuova. La terra, l’inquieto nomadismo, il reticolo memoriale di strade, luoghi, fiumi, città confluiscono in un perfetto squilibrio di tempo. Tempo arcaico, cosmico, ciclico, percepito in tutte le gradazioni affettive, come i rosei del rosa dolce delle case, la figura paterna, il mattino fondo e roco dell’essere.

È l’energia che strepita e che segna il territorio del suo immaginario vissuto nella percezione e nell’ingresso della natura «nelle nostre capsule, nelle parole e nei simboli, nelle lettere e nelle cifre. Ci entrano anche i pensieri. Entrano le formule semplicissime che regolano il mondo. Le equazioni di Einstein sono brevi come le formule dell’acqua e del sale. Dio è laconico».

E poi ancora, nella vita di transito del poeta «entrano in giuoco delle cariche di energia incommensurabili, che vivono magari per attimi infinitesimali e si consumano in un soffio. Tuttavia non sono i fenomeni del mondo fisico che possono offrirci qualche analogia di questi transiti, ma proprio alcuni fenomeni biologici cosmici e nucleari». L’energia di Sinisgalli è sì visiva e tattile ma è fatta di aria capovolta, che fissa l’immagine in una sproporzione che diviene «coscienza dello spazio terrestre» (Giuseppe Pontiggia), come afferma Augusto Ficele: «Sinisgalli sarà perpetuamente turbato dal fissare una grammatica speciale all’interno di capsule a cui sfuggiranno quei transiti celesti, quelle piume invisibili che irrobustiscono il cielo. Mobilita tutte le sue forze cognitive, non smette mai di indagare il vuoto, di tracciare tutte le possibili spirali del sapere, e se la matematica non si stanca di fabbricare ipotesi, la poesia scopre ciò che non esiste»: «Eri dritta e felice / Sulla porta che il vento / Apriva alla campagna. / Intrisa di luce / Stavi ferma nel giorno, / Al tempo delle vespe d’oro / Quando al sambuco / Si fanno dolci le midolla. / Allora s’andava scalzi / Per i fossi, si misurava l’ardore / Del sole dalle impronte / Lasciate sui sassi».

La Lucania di Sinisgalli appartiene al tempo remoto e arcaico della primigenia. Cadenza il ritmo favoloso della realtà, avverte tutta la sovrapposizione temporale attraverso l’indizio, la prova e il presagio di una rêverie al presente, laddove la terra abita l’esistenza in tutta la sua drammatica contemplazione di scena e scoperta di ambiente, come se si volesse possedere quello strappo, quella acrobazia dolorosa del quotidiano, quella memoria vitale che raccoglie cocci ed epigrafi, racconti e fiammelle, nell’aria sfatta dell’amore che, a fatica, scioglie nodi e segni perduti nella luna di settembre, per ricordare, sentire e indovinare:

«Lo spirito del silenzio sta nei luoghi / della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto, / sofistico e d’oro, problematico e sottile, / divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio / nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce / con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati. / Il sole sbieco sui lauri, il sole buono / con le grandi corna, l’odoroso palato, / il sole avido di bambini, eccolo per le piazze! / Ha il passo pigro del bue, e sull’erba, / sulle selci lascia le grandi chiazze / zeppe di larve. / Terra di mamme grasse, di padri scuri / e lustri come scheletri, piena di galli / e di cani, boschi e di calcare, terra / magra dove il grano cresce a stento (carosella, granoturco, granofino) / e il vino non è squillante (menta / dell’Agri, basilico del Basento!) / e l’uliva ha il gusto dell’oblio, / il sapore del pianto».

In La vigna vecchia, l’orma dell’urto con le cose si fa sempre più composita. Vi è ancora una primitiva forza che appartiene a una mitologia domestica che si spoglia indecifrabile, accostando «le concrete illuminazioni», come ha avvertito Giacinto Spagnoletti, alla «pluralità irreale delle visioni» (Oreste Macrì), innervando i rimbalzi di luce alla sua continuazione: la polvere, il quartiere sotto la collina, la vigna e il fondo degli alberi, il cratere spento, il freddo di aprile, il febbraio dolce e amaro, la memoria quasi fossile. Ma se con L’età della luna, il margine della imprendibilità della realtà, come un lungo appunto di postille puntuali, che omaggiano anche il taglio inciso di Fontana, fa convergere l’esattezza del verso nella prosa poetica e dimostrando il profondo attaccamento alla poesia, distaccata da ogni meccanizzazione e quasi sorvolando l’inaridimento dei luoghi (anche mentali), con Il passero e il lebbroso (1970) l’entità della sua vocazione poetica attesta lo sgomento e lo sconforto («Le parole non vengono sulle labbra, / solo un alfabeto da carcerati / parlato con le dita. / Tu ti penti di aver perduto / la vita per dovere. / Puoi trascorrere ore e ore / a guardare le foglie nuove. / Il mondo è lontano di là»), la lotta della non-poesia, per affermare l’ultimità dell’ars poetica, l’attrito alimentativo della concisione, il battito della felicità, presa per la coda:

«Bolsi sulla ghiaietta sotto gli olmi / ammirano le foglie / ancora verdi, trasparenti / a fine ottobre. / Non c’erano venuti mai / insieme in tanti anni. / Sono qui tutte le mattine alle undici / per consiglio dei medici. / Girano a passi piccoli, / il luogo non è immenso, / lo percorrono in un’ora / sempre nello stesso senso. / Quando stanno meglio / e possono camminare spediti / fanno una visita / al Museo di Storia Naturale. / guardano i mammut, i cristalli, / gli scheletri dei pesci e degli uccelli: / teste grandi come teatri, ossa / sottili come aghi. Siedono / sulla panchina davanti al lago».

L’anima di Sinisgalli diviene un volo sospeso e rappreso che fa tinnire le boccole contro i muri, che ricerca la parola unica e assoluta, e che assomiglia alla mosca che si posa e poi si discosta. Restano così le cose più insignificanti a sopravvivere, il dialogo d’inverno e il rito dell’amore bandito, rilasciato in un’ellisse di forza:

«Restano sempre le cose più insignificanti /  a sopravvivere / fourrures, souvenirs, / l’amante che ti morde l’orecchio, / il più sciocco, il più vecchio / ti gira intorno, ti guarda morire. / L’amore arrivò davanti a me / come un dannato. / Sceglieva per i nostri riti / le ore del mattino, / voleva essere strozzato in una gelateria vuota. / Sarebbe salito su un palco / nudo, alla gogna, / colpito da pietre e flagelli / senza dolore, senza vergogna. / Ma i banditi d’amore / vivono all’inferno. / Finchè vivo, finchè affogo / non brucerò il suo ritratto. / Parlerò col fuoco, parlerò col gatto / queste sere d’inverno».

L’ellisse vitruviana di Leonardo Sinisgalli tra la scienza e l’arte – Roma Cronache Lucane, 4 marzo 2020

2020.02.26 il pensiero del giorno – Anemometro Temporale

di Gualtiero Armosino

26 febbraio 2020

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Non so se si possa misurare il tempo in nodi invece che in secondi, ma è così che io faccio. Mi serve per pensare che il respiro non finisca con la morte. Anche adesso lo sto facendo, nell’atrio partenze dell’aeroporto di fronte ad un poster pubblicitario che promuove il turismo nella mia città. La città in cui sono nato. Io il primo a nascere lì di una famiglia che ha cambiato nome per confondersi tra la gente del posto.

Nascere lì per mio padre, per la madre di mio padre, per il nonno di mio nonno è stato un traguardo. Io sono il traguardo.

Nella foto il cielo è azzurro e terso come in una giornata di Foehn.

Lo sguardo a volo d’uccello dello scatto di un drone in una bella giornata di pochi anni fa.

Le Alpi sullo sfondo.

Se mi giro, nonostante il vento soffi anche nel presente fuori da quella fotografia, una coltre di smog rende invisibile tutto.

Non riesco a vedere la collina che so esserci al fondo della pista di decollo e sulla quale c’è una casa in cui sono stato. Quando la ragazza che ero andato a trovare era solo una ragazza che odiava il padre e invidiava il fratello. L’erede di un nome che nessuno avrebbe mai cambiato.

Ma questo non conta più. Un vento di Tramontana ha portato via da lì quella ragazza da anni.

“Come fate a parlarvi con questo rumore continuo dei motori?” avevo chiesto io allora.

“Non ci parliamo neanche quando gli aerei non passano. Ma quando c’è tutto quel rumore assordante posso sorridere con le labbra e dire in faccia a mio padre cosa penso di lui, tanto non mi sente”.

La ventata d’aria fresca capace di pulire il cielo della mia città da tutti i fumi dell’industria sembra dirmi: “Non ce la faccio. Mi dispiace, mi sono arresa. Sorrido e apro le labbra ma faccio solo finta di soffiare come faceva finta di dire cose belle quella tua ragazza. Guarda là!”

E io guardo e vedo in mezzo alla folla agli imbarchi quattro persone con una mascherina anti-virus. Vedo tre ragazzi che escono dalla sala fumatori lasciando la sigaretta a metà appena entra un ragazzo dai tratti orientali.

Il ragazzo scuote la testa, sorride e dice: “Sono più sano e più italiano di voi, stronzi imbecilli!”. L’epidemia del Coronavirus riempie le pagine dei giornali. Ogni giorno il vento fa svolazzare una pagina in più.

La brezza mediterranea che mi aspetta a Barcellona è la stessa che ho lasciato trent’anni fa, quando ero arrivato con un treno su cui ero salito senza diritto.

Perché non avrei dovuto essere lì.

Non oltreconfine durante una licenza di cinque giorni sotto servizio militare. Era una cosa punibile con l’arresto.

Non in Spagna per la quale non provavo nessuna attrazione. Ero intimamente sprovvisto dell’estetica del sangre e arena, della passionalità del flamenco, del senso di Hemingway per l’aperitivo sulle Ramblas e il Partit d’Alliberament Catalunya mi stava già parecchio antipatico allora.

Ma era inverno e avevo già preso tanto vento freddo per i servizi di guardia, Parigi era troppo cara per una paga da sergente e volevo vedere Gaudì da tanto tempo.

Stavo cercando qualcosa di meno scontato di un venditore di fumo, di una discoteca trasgressiva e l’unico film in castigliano non doppiato in catalano era quello.

Per me il regista non era nessuno.

Antonio Banderas non era nessuno per tutti.

Ma la Ley del deseo era un titolo così suadente per uno che aveva vent’anni e cercava da tempo di capire quali fossero i suoi desideri che entrai nel cinema.

L’inizio era una provocazione senza precedenti.

La scena di sesso scorreva parallela di fronte ad una seconda telecamera in scena e riprendeva un ragazzo sexy qualunque e due attori del doppiaggio tanto bravi quanto privi di sensualità, a dimostrare che la pornografia è sempre e solo finzione.

Un transessuale interpretato da una donna come Carmen Maura e una madre interpretata da un transessuale come Bibi Andersen erano un tocco da maestro.

Il genio risaliva la china di una società manieristica da poco affrancatasi dal Franchismo. Il talento di uno che scherzava con un super-otto come se fosse stato YouTube.

L’indomani mattina venni via su un Pablo Casal diretto a Milano, carico di emergenti uomini d’affari, modelle e l’inizio di una folle economia fondata sul nulla degli anni ‘90 che ancora dovevano venire.

Ma tra il vento che avevo lasciato sulle Ramblas avevo visto una cosa che era unica.

In un posto dove non dovevo essere e che Almodovar aveva inventato.

Ed ora quella brezza è di nuovo qui.

A dispetto di bollettini medici che mi inseguono come un contagio.

Nell’ossessione fobica il mio Pablo Casal diventa il treno pieno di virus di Cassandra Crossing, diretto verso un ponte dal quale è previsto che precipiti perché nessuno ha capito che le bombole di ossigeno installate sui vagoni carrozza per isolarne i viaggiatori ammorbati hanno sconfitto il virus e tutti sono di nuovo sani.

E così Sofia Loren, Martin Sheene, Burt Lancaster, Ava Garner e O.J. Simpson sono qui con me, coinvolti in una suspense che alla fine li salverà. E il vento del destino consentirà a O.J. Simpson di ammazzare la moglie e vivere indisturbato fino a finire comunque in carcere per rapina a mano armata e sequestro di persona. Perché al vento non si sfugge.

E questo non lo dice l’anemometro in stile modernista catalano sul tetto di un palazzo su un paseo, lo dice invece il cartone animato di Gumball che mio figlio sta guardando in spagnolo nell’appartamento sopra il centro culturale LGTB che ha affittato mia moglie.

Anche il cartone parla di contagio. La delusione amorosa di un palloncino ha progressivamente tolto i colori al mondo e solo il recupero dell’amore per la vita, comprensiva delle sue incertezze, può far rinascere i colori che ritornano con un vento d’amore per le cose che possono essere indipendentemente da come sono soltanto.

Il vento dalla Germania ha portato un nuovo caso di Coronavirus a La Gomera nell’arcipelago delle Canarie che è la mia meta. C’è scritto su La Stampa di Torino di oggi che mia madre non ha ancora comprato e che a breve comprerà uscendo a prendere il pane.

Io guardo il telefono aspettando che vibri e che una voce preoccupata mi chieda con tono allarmante e allarmato di non andare alle Canarie a respirare gli Alisei.

Come se lei stessa o tutti quanti non potessimo già essere il contagio. Come se il vento si potesse fermare con un rifiuto a respirare.

Ma è vero che il vento non è per forza sempre e solo buono.

Era vento anche quello che ha portato via l’intero tetto della scuola di mio figlio cinque anni fa. È vento anche questo che ha riportato oggi il razzismo che aveva spinto secoli fa il mio trisnonno a fuggire dal Caucaso, prima che fosse troppo tardi.

Ma al vento si può sempre tendere una vela per risalirlo in bolina come un marinaio, come una donna di buona famiglia che sposa contro il volere di tutti uno zingaro che la lascia vedova in tempo di guerra, con figli che chiamano fascista il maiale nero nell’aia. Che nasconde Ebrei in soffitta con la cucina piena di nazisti in rastrellamento.

Una donna che non mi lasciato una ricetta della torta di mele della nonna ma che ha saputo rispondere ad un reduce da a un campo di concentramento, tornato a vedere se gli aveva tenuto i soldi e le cose che le aveva affidato: “Ecco è tutto qui, ed è ancora tuo. Ora puoi portare via di qui il mio figlio più giovane che ha lo stesso cuore debole di suo padre? Prima che schiatti sull’aia sotto un sacco di farina? Prima che debba coprire anche sul suo volta la smorfia contratta di un uomo che muore d’infarto? Portalo con te in città, insegnagli a riparare gli orologi. Ad avere come te in tasca una scatola d’argento per non gettare a terra i mozziconi di sigaretta. Fagli fare un lavoro sedentario che lo renda ricco per il giorno in cui dovrà pagarsi a Londra i primi by-pass riusciti”.

Il vento importante è di fronte a me da sempre anche se in questo momento si mostra sul Paseo de Gracia ad alzare le foglie secche dai marciapiedi. È sulla facciata di Casa Battlo in una coppia di verricelli montacarichi messi in vista come draghi incatenati al posto di nasconderli dietro una fioriera quando il pianoforte è già stato elevato al piano nobile.

E mentre cammino il virus ritorna sulla mascherina di una donna cinese che esce da un negozio di Louis Vuitton. Vuole evitare il rifiuto da parte del negozio. I rifiuti di ragazze che sono scese da una passerella dell’alta moda prima di compiere trent’anni e del concierge che sulla passerella dell’alta moda non c’è mai salito, perché l’alta moda maschile non esiste. Per questo che il concierge odia le commesse e le commesse odiano tutti. Ma la donna cinese non lo sa e così indossa la mascherina come un chirurgo e gli occhiali neri di Dior come Jackie Kennedy per non fare vedere il suo sguardo titubante.

Voltando in un calle che risale la collina verso il Parc Guell il Levante cessa di soffiare davanti ad un mercato coperto che non ha ancora subito la gentrificazione del Sant Antoni Market. Qui il pesce in scadenza viene venduto col prezzo ribassato e il puzzo è vero.

I tre suonatori di violino, viola e violoncello all’angolo della strada sono anziani. E anche se piacciono molto al pubblico non riesco non pensare che se io avessi suonato una partita di Bach così approssimativa la mia maestra di pianoforte alla terza battuta mi avrebbe detto: “Non ho tempo da perdere con te anche se tua madre ti vuole sul palco, il musicista vero è tuo fratello! Quello che suona qualsiasi cosa senza neanche uno spartito. Quello che disegna qualsiasi cosa veda. Quello con un disegno del quale tuo padre ha pagato mezzo trasloco. Il disegno incorniciato e appeso dietro la scrivania di un ufficio di fianco alla foto di una gru col nome di una ditta. In quel disegno c’è il vento. In tuo fratello c’è il vento. Io vorrei lui, non te. Ma a tua madre tuo fratello non piace. Se gli piacesse non lo farebbe scappare lontano al comando di un cargo che impiega quattro giorni ad essere riempito di derrate di bassa qualità e che va avanti e indietro dalla Cina. E che per questo sua moglie oggi gli ha detto che non lo voleva a casa perché poteva essere infettivo più di un monatto. Ma la verità è che lei non lo vuole da tempo. Ed è tua la colpa. Di te che suoni così male!”.

Il panorama mostra che il soffio di nessuna Galerna riuscirà mai ad abbattere le perenni impalcature della Sagrada Familìa, che vista da lì sembra indossare una mascherina anch’essa.

Sento il Terral che soffia verso il porto. Vorrei partire dalla Estació de França, perché è bella è antica e ha le vetrate delle volte centinate in curva che sembrano le ali di un uccello nel vento. Ma ho un viaggio diverso da fare. Diverso dai viaggi di un tempo. Diverso da tanto tempo.

Da ragazzo ho viaggiato un po’.

Abbastanza tutto sommato. Cercavo la libertà ma non sopportavo l’idea che uno dovesse rinchiudersi ad Amsterdam per farsi una canna, a Berlino per farsi una pera, a Mikonos per farsi qualcuno, a Ibiza per dormire ubriachi sulla spiaggia.

I posti scontati mi mettono l’ansia da sempre.

E così ha girato l’Europa passando da un ghiacciaio ad un lago, ad una foresta, ad un museo, ad un fiordo, ad una biblioteca, ad un circolo polare Artico. Sempre in mezzo al nulla o sospeso sopra a tutto come uno stilita o un pipistrello. Un pipistrello affetto da un virus.

Un virus che mi teneva là su un ramo alto di un albero, in attesa di una mongolfiera che al primo vento mi portasse di fronte alla meraviglia della pace di anelito.

Ma il mio virus è un vento che non conosce pace.

E così dopo essere stato in balia della moltitudine di persone di una metropoli di tre milioni di abitanti, sono andato a dormire sei ore prima della intera città.

Sulla città il vento non si è mai fermato.

Verso le cinque mi sono svegliato per il rumore di una musica che usciva da un’auto ferma sotto le mie finestre come mi succedeva da bambino nella periferia della mia città.

Come facevo allora mi sono alzato che il giorno era ancora notte.

Persone di tutte le età ancora passeggiavano in un quartiere senza locali o discoteche, in una piazzale un po’ panorama un po’ parcheggio del distretto di polizia.

Un ragazzo è spuntato da un vicolo inseguito da un altro.

Il primo arrabbiato, il secondo cercando una riconciliazione.

Il primo non si voleva fermare, aveva il vento in poppa.

Il secondo lo ha preso per un braccio. Il primo si è divincolato un po’ come un bambino che fa i capricci e un po’ come un uomo che ha delle sante ragioni.

L’altro ha tentato di abbracciarlo sebbene l’uno facesse resistenza. Ci è riuscito, si sono baciati sulla bocca senza essere a Mikonos, ad Amsterdam, a Berlino, a Ibiza. Tra la gente, davanti alla polizia.

Molti li hanno guardati per capire se tutto andasse bene. Nient’altro.

Poi uno dei due ha offerto la sigaretta all’altro. Hanno cominciato a parlare e a discutere.

Ad un certo punto uno ha detto una cosa. L’altro ha dato un pugno forte alla lamiera di una saracinesca. Poi un altro ed un altro ancora. Si è messo le mani sul viso e il suo corpo ha sussultato dal pianto.

Senza guardare l’altro ha mosso la mano in segno di addio e se n’è andato.

L’altro scuotendo la testa ha preso la direzione opposta. Ha detto qualcosa a due poliziotti che gli hanno sorriso ed è scomparso anche lui.

Io non so se qui il vento sia migliore, se l’aria sia più pulita. Se qui il virus non abbia peso. Non so se sono veramente pronto a scendere dall’albero.

Ma in quella scena ho visto che il vento può cambiare direzione, cambiare le cose e poi cambiarle ancora fino a ricucire il tempo.

Non so se scenderò mai dal ramo ma so che posso fare scendere mio figlio. Perché un posto nel mondo, in cui fino a ieri c’era una dittatura, è diventato un luogo in cui c’è posto anche per le storie d’amore che possono finire male in mezzo alla gente. E questo mi basta. Sia come che, sia come perché.

Anzi, il perché non mi interessa. Come non mi interessa sapere del paziente zero del contagio, di questo e di altri virus.

Non mi interessa sapere quale fosse il guasto tecnico che mi ha tenuto a terra sul mio aereo per due ore sulla pista del Areopuerto El Prat. Mi basta che l’aereo non sia decollato prima che qualche mio simile avesse risolto il guasto. Questo è il “che”. Il “che” come il vento.

Il vento che batte tutti i virus.

Il vento che non si ferma mai.

Il vento che misura il tempo.

2020.02.25 – Il pensiero del giorno

di Guido Rutili

25 febbraio 2020

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Se questo virus fosse più “nostro” di quanto pensiamo?

Nostro, umano, dimenticando l’informazione (non la formazione, mi raccomando), che lo racconta nato in seno ad un’altra specie.

Fermiamoci a riflettere, nel panico che imperversa; facciamo un profondo respiro senza considerare che potrebbe ucciderci, bensì confortandoci col fatto che tra i miliardi di respiri fatti, a partire dal primo vagito, sono più quelli che ci hanno regalato la vita.

Guardiamo lontano, con gli occhi persi in un punto all’infinito, messo lì per dare suggerimenti importanti: certo, la mucosa delle orbite è l’altra frontiera con il mondo virulento, ma non per questo togliamoci la luce.

Anche le apnee e il buio possono uccidere, mentre l’idea illuminata è sempre figlia di un arresto.

Fermiamoci, pensiamo e sentiamo, come fece Sigmund Freud quando intuì che buona parte dell’esistenza si nascondeva nell’inconscio, complemento divino della mente.

Abbiamo creato il virus per sabotare qualcosa. Se è stato un laboratorio a farlo, pensava di sabotare il mondo eppure, siccome Freud aveva ragione, sotto l’egida dell’inconscio, non ha fatto che privilegiare la vita totale, quella che ci costringe a vedere anche nell’ombra dell’iceberg sommerso.

Per questa minaccia assistiamo al crollo dei somatismi sociali, e scopriamo, nello sconforto, che elencarli tutti sarebbe troppo oneroso: il mercato forte, il benessere perpetuo, la vita garantita, il posto di lavoro fisso, la famiglia perfetta, l’auto che guida da sola, i politici capaci, il caffè al bar, la corsa di un’ora al giorno per mantenersi in forma, la dieta chetogenica, le stette lauree bimestrali (che farebbero un terzo di una vecchia laurea quinquennale), lo stage alla NASA per fotocopiare foto lunari.

Arriva una sigla, COVID-19, e torna la protagonista del disturbo somatogeno di questa società indebolita: l’angoscia. E con essa torna, ahimé, la luce su un mondo interno trascurato, negato, rimosso, evitato, rabbiosamente cancellato.

Angoscia.

Nominarla è doloroso, perché non volevamo farlo.

Ci siamo abbracciati stretti fino a ieri per non sentirne la presenza, sostenuti da valori liquidi con cui ci rassicuravamo, dimenticandoceli un attimo dopo e coniandone di nuovamente instabili; ma ora gli abbracci sono banditi.

Una bella fetta di noi potrebbe approdare alla chemioterapia psicofarmacologica o potenziare quella in essere: diciamo che può funzionare, almeno fino all’arrivo di un COVID-20, poi dovremmo tornare sulle parole precedenti.

Allora cosa ci resta?

Soli, senza saperci stare, senza poter contare su supermercati con gli scaffali ineluttabilmente straripanti, paranoici, perché chi ci faceva coraggio adesso è potenziale nemico, immaturi, perché non abbiamo mai pensato che la psiche potesse essere una risorsa nel periodo del benessere digitale, ci crediamo perduti.

Vanno riesumati psicologi e psicoterapeuti, dinosauri cultori dell’anima, che l’angoscia la conoscono bene e possono indossare la veste druidica per riorientarci ed invocare su di essa una magia.

Perché c’è una formula magica che ne parla, che se rammentata la trasforma finalmente in carrozza e che suona all’incirca così: l’angoscia è mortifera finché non le si trova un nome.

Ora che tutte quelle manifestazioni psico-socio-somatiche sono passate e che la causa scatenante è riapparsa all’orizzonte, ognuno può fermarsi, riflettere, dare un nome alla propria angoscia, contenerla senza più sintomi.

Certo che serve coraggio, ma l’alternativa, qui alla resa dei conti, è la perdizione.

Non è certo un processo indolore, gli effetti collaterali sono molti, ma impareremo a sopportarli: dal giorno dopo non saremo più manager (o lasceremo tale identificativo ad una voce sulla job description), i selfie con la famiglia non infonderanno automaticamente l’amore sempiterno tra i suoi membri, per dimagrire dovremo solo mangiare meno, sarà meglio sapere tante cose che mostrare di non saperle con sette lauree, rifiuteremo stage finalizzati alla fotocopia, sapremo che ogni cosa “fissa” è impossibile per forme di vita evolutive e transitorie e riscopriremo il piacere di andare in bicicletta, che da sola non fa le curve e neanche riesce ad avanzare: soprattutto non avremo più l’illusione dell’immunità.

Non saremo immuni, dall’angoscia, dai malanni (soprattutto quelli della psiche), dalla morte.

Come in ogni vaso di Pandora che si rispetti, tuttavia, troveremo sul fondo la più grande speranza possibile: la consapevolezza.

 

Robert Walser: la superficie innevata del mondo

di Andrea Galgano 10 febbraio 2020

leggi in pdf ROBERT WALSER: LA SUPERFICIE INNEVATA DEL MONDO

Robert Walser (1878-1956) dispone la frammentazione come spasimo di nebbia imprecisata, raccolta nella mancanza, indistinta nel gelo, vissuta nel bagliore opaco della neve e un luogo santo per poter accogliere la densità dell’istante, quasi negata ma ricercata e invocata, nonostante la luce opprimente, il taglio indocile dell’oscurità: «Il cielo, stanco della luce, / ha dato tutto alla neve».

È il fragore che compone la sua orma, la percorre e il poeta resta in ascolto di qualcosa che non ha fine: egli sente desiderio, amore, vitalità ma vi è sempre una specie di ombra sulla materia vivente, una debolezza inavvicinabile sull’anima.

Nel 1909, pubblicò a Berlino, presso l’editore Cassirer, Gedichte, dopo che già aveva dato alle stampe una serie di romanzi, accompagnato da sedici acqueforti del fratello Karl. Ci lavorò nel periodo in cui lavorava come impiegato del commercio a Zurigo tra il 1897 e il 1898 e anche se continuò a scrivere versi, resterà questa la sua unica raccolta, Poesie[1], ora pubblicata dall’editore Casagrande, con le traduzioni di Antonio Rossi.

La sua poesia, dunque, si apre nella mancanza e nella lacerazione, non nate dal vuoto bensì dalla privazione ferita, dalla penuria della pienezza e dalla destinazione dilatata e  nostalgica del cuore stanco.

In esse, allora, si sperimenta una specie di doppia solitudine, come avviene in In ufficio, dove l’impossibilità «di un rapporto plausibile all’interno della società organizzata, di cui l’ufficio e il principale sono emblema, spinge il Soggetto alla ricerca di un interlocutore esterno, rappresentato in questo caso dalla luna (immagine collocata in posizione cardine ad apertura ed in chiusura di testo, oltre che all’inizio della seconda strofa), unica entità che partecipi alla sorte del commesso[2]»: «La mancanza è la mia sorte: […] La luna è la ferita della notte, / gocce di sangue sono le stelle. / Se anche rimango lontano dalla felicità / per questo la mia indole è modesta. / La luna è la ferita della notte».

Il pianto, la stanchezza, il dolore non divengono l’esito di un lamento infinito ma di una condizione inquieta, in cui l’inafferrabilità e l’imprendibilità del reale nel rapporto con le cose («Giallonero riluce davanti a me nella neve / un sentiero e si perde fra gli alberi. / È sera e pesante è l’aria / impregnata di colori. / Gli alberi sotto cui cammino / hanno rami come mani di bambino, / implorano senza fine, se mi fermo, / con dolcezza indicibile») e

 

«il credito concesso alla vita, così rari per uno scrittore del suo tempo, rappresentano una conquista, un raggiungimento etico e spirituale, persino un atto di fede, non un punto di partenza. Le più elementari e canoniche tra le situazioni liriche – la relazione con il paesaggio, la riflessione interiore, il dialogo con sé stessi, la dichiarazione dei propri sentimenti (nostalgia, paura, quiete, colpa, amore, stanchezza, sono titoli di queste poesie) – vengono afferrate come un’ultima possibilità di vita da un uomo che ha il secolo a venire già davanti agli occhi».[3]

Persino l’anima del sole non ha durevolezza, nonostante il giorno abbia disperso le tenebre e le nebbie che avvolgevano i campi. Il sole di Walser è una meta di sogno e di oblio, lontano dal possesso del dolore e dell’oppressione (e quindi vicino all’emancipazione), come bisogno di avvenimento. Qualcosa deve accadere. Ma avviene sempre un torpore, una luce nera e affilata che conchiude, mentre il petto cerca riposo e calore.

Una relazione con la datità naturale in senso antropomorfico. Esiste, in Walser, un desiderio incompiuto, non soltanto per il respingimento del reale che crea disagio, angoscia e il perdurare di una minaccia.

Egli attraversa il mondo come mondo, le sue regioni inferiori[4] vagano come miracoli schiusi, svaniscono e si affermano come transiti di fughe, bisogno di notti chiare («Tutto è accaduto in silenzio, / senza rumore, frutto di una volontà / aliena da ogni cerimonia. / Sorridente il miracolo si schiude, / non servono per questo razzi / o micce, solo una notte chiara») e dimore irraggiungibili:

«Apro la finestra, / c’è un’opaca luce mattutina. / Ha smesso di nevicare, / una grande stella è al suo posto. / La stella, la stella è meravigliosa. / L’orizzonte è bianco di neve, / bianche di neve sono le cime. / Fresca e profonda / quiete mattutina nel mondo. / Ogni voce risuona chiara, / i tetti luccicano come tavoli per bambini. / Tutto è silenzioso e bianco: / un grande splendido deserto / il cui freddo silenzio rende vano / ogni commento. Dentro di me avvampo».

Nella sua ordinarietà grigia, nella sradicata incompiutezza, nella mancanza del sentimento del tempo, egli «sente un oscuro sì: / l’infelicità è ancora qui / e io sono ancora nella mia camera come sempre», la luna, come una grossa lacrima, pende nel giardino di nebbia, e tutto sembra dissolversi e perdersi.

Vi è sempre, in Walser, qualcosa che rimane, anche friabile e sottile, una strettezza meditabonda, una pronunciazione straziante che chiude l’ora: «Nevica, nevica, la terra è coperta / da un bianco peso così esteso, esteso. / Sfarfalla così dolente giù dal cielo / il brulichio dei fiocchi, la neve, la neve. / Ora c’è un senso di pace e di vastità, / il mondo coperto di neve mi sfianca. / Così prima piccolo, poi grande, il mio desiderio / si fa largo in lacrime dentro di me».

La sua neve conosce digiuno e rinuncia, malattia e dono che si porge come bellezza in disarmo, un grembo di terra interiore, dove tace il silenzio e le parole ormeggiano nelle sue cicatrici che tacciono. Nel suo cosmo di estesa vastità, la conoscenza primordiale si imprime come un sigillo di buio e di aria:

«Qui tutto è silenzio, qui mi sento bene, / i pascoli sono freschi e puri / e le chiazze d’ombra e di sole / vanno d’accordo come bambini giudiziosi. / Qui si libera la mia vita / fatta d’intensa nostalgia, / non so più cosa sia la nostalgia, / qui si libera il mio volere. / Una commozione silenziosa mi prende, / linee attraversano i sensi, / non so, tutto è intrico / e tutto è contraddetto. / Non odo più lamenti / e tuttavia ci sono nell’aria lamenti / lievi, candidi, come in sogno / e di nuovo non capisco più nulla. / So solo che qui tutto è silenzio, / niente più assilli e costrizioni, / qui mi sento bene e posso stare in pace / poiché nessun tempo mi misura il tempo».

Pietro Citati scrive:

«[…] Walser comprese di essere uno straniero, un escluso: Io sono ancora sempre davanti alla porta della vita, busso e busso, certo con scarsa irruenza, e tendo solo curiosamente l’orecchio per sentire se viene qualcuno che voglia aprirmi il chiavistello. Un chiavistello così è un po’pesante, e nessuno viene volentieri se ha la sensazione che quello che bussa di fuori è un mendicante. Non sono altro se non uno che ascolta e attende. Amava essere un ciottolo abbandonato sulle rive dell’ esistenza: a cui niente e nessuno apparteneva, nemmeno sé stesso. Aveva gli occhi vulnerabili, l’anima vulnerabile, il cuore vulnerabile; e persino i raggi luminosi della felicità, lo facevano soffrire, come se fossero troppo dolorosi per lui. Dove poteva abitare, se la vita lo teneva fuori dalla porta? Solo sulle strade interminabili, bagnate dalla pioggia e dalla neve, dove vagava da quando la rugiada era ancora lucida sull’erba sino alla discesa delle tenebre. Una valigia è tutta la casa che abito in questo mondo. Passeggiare era il ritmo interiore della sua mente: accresceva e placava la sua inquietudine, era la gioia, l’estasi; e solo i passi veloci potevano conoscere l’universo, che si nascondeva agli occhi troppo vulnerabili. Provava un doloroso bisogno di offrirsi, di donarsi agli altri, di appartenere a qualcuno, come un servo, o un cane, o una cosa: voleva appartenere loro anche dopo la loro scomparsa, affinché il dono potesse piangere la perdita del suo possessore. Sperava che la sua dedizione non fosse corrisposta, che il dono non venisse accolto, che il suo amore restasse infelice perché essere abbandonati non ha forse un suono morbido, carezzevole e benefico?».[5]

E ancora:

«Come osano soltanto gli stranieri e gli esclusi, esaltava l’eterna bellezza del mondo. Amava tutte le cose: il sorriso del cielo, l’estate, l’autunno, le foglie verdi e le foglie cadenti, la nebbia, i venti e il gelo dell’inverno, le città grigie, le città industriali, le città delle fabbriche e della cenere, l’innumerevole dolore del mondo, i bambini a cui la natura ha negato ogni grazia. Come Linceo, accettava l’esistenza, quale essa fosse. Non giudicava: non desiderava o inseguiva nessun principio o idea. […] Amava gli orologi, le banche, le feste domenicali, gli uffici di collocamento, l’orgoglio provinciale dei piccoli cantoni: sapeva che dietro questo mondo limpido, dove i lillà e le margherite sembravano appena usciti dalla lavanderia, si celava la vita più misteriosa».[6]

La sua lingua confusa, nella quiete dove l’anima trova la sua placata destinazione, la precisione e la potenza della parola come le stesse acqueforti del fratello, devono cercare la meraviglia. L’atteggiamento dinanzi al vivente è, per Walser, una “povera” lontananza, una dolcezza febbrile che risplende inumidita da ombre chiare e piani screziati, come una lunga canzone d’amore che si assopisce.

Alice Pisu afferma:

«La sua intera opera letteraria è permeata dall’indagine sul senso dell’esistenza dell’essere umano, e su quel mal di vivere che nelle prose è reso negli interrogativi sulla condizione del derelitto che vede distrutti i progetti, le speranze e i sogni. […] La percezione di non possedere nulla, come recita il titolo di un suo racconto, richiama non solo la relazione di Walser con l’esistenza, ma l’idea di vivere nell’attesa e nell’insignificanza non conoscendo più neanche lo struggimento, come sentirà Simon ne I fratelli Tanner, e racconta la misura del suo rapporto con la memoria, e in particolare con la sua perdita, che può assumere le sembianze della cenere».[7]

Una veglia o una vigilia segregata dove inerzia e frenesia si muovono insieme come alveo e prigione, struggimento e illuminazione. Già. Il visibile. Nel suo enigma sminuzzato, nell’erranza, nella povertà (come avviene nell’apparizione di Gesù in mezzo ai poveri, il cui passaggio segna la piena della sua indigenza, per dirla con Mario Luzi) in disparte, nel sonno del giorno soffocato, vi sono distanze che separano come grumi, una destinazione di abisso o una fuga indicibile sulla superficie innevata del mondo: «Com’è spettrale la mia vita / nell’affondare e nel risalire. / Sempre mi vedo far cenni a me stesso / e a me stesso sfuggire. / Mi scopro risata, tristezza / profonda, selvatico / intrecciatore di discorsi / e tutto ciò affonda nell’abisso. / In nessun tempo vi è stata giustizia / Sono destinato a vagare / in spazi dimenticati».

[1] Walser R., Poesie, con le illustrazioni di Karl Walser, traduzione di Antonio Rossi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2019.

[2] Rossi A., Postfazione, in Walser R., cit., p.122.

[3] Galaverni R., Il senso di Walser per la neve, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 12 gennaio 2020.

[4] Magris C., Nelle regioni inferiori: Robert Walser , in M. C., L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, Torino, Einaudi 1984, pp. 165-177.

[5] Citati P., Walser lo straniero, in “La Repubblica”, 18 settembre 1990.

[6] Id., cit.

[7] Pisu A., Contro la normalizzazione dell’insolito. Sulle orme di Robert Walser, (www.minimaetmoralia.it/wp/la-normalizzazione-dellinsolito-sulle-orme-robert-walser/), 7 marzo 2019.

Walser R., Poesie, con le illustrazioni di Karl Walser, traduzione di Antonio Rossi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2019, pp. 136, Euro 18 Chf 24.

 Walser R., Poesie, con le illustrazioni di Karl Walser, traduzione di Antonio Rossi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2019.

Citati P., Walser lo straniero, in “La Repubblica”, 18 settembre 1990.

Galaverni R., Il senso di Walser per la neve, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 12 gennaio 2020.

Magris C., Nelle regioni inferiori: Robert Walser , in M. C., L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, Torino, Einaudi 1984, pp. 165-177.

Pisu A., Contro la normalizzazione dell’insolito. Sulle orme di Robert Walser, (www.minimaetmoralia.it/wp/la-normalizzazione-dellinsolito-sulle-orme-robert-walser/), 7 marzo 2019.

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini