2020.03.08 Il pensiero del giorno Nel maelström

di Irene Battaglini

8 marzo 2020

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…di tante fiamme tutta risplendea

l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi

tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea…

Lo maggior corno de la fiamma antica

cominciò a crollarsi mormorando

pur come quella cui vento affatica…

 

“Li miei compagni fec’io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena poscia li avrei ritenuti…”

(Inf.XXVI)

Une descente dans le Maelström

EDGAR ALLAN POE

Ho amato ciò che ha toccato il mio fondo

PASQUALE PANELLA

La psiche collettiva si trova ora totalmente catturata dalle forze più profonde che governano l’agire degli istinti ciechi, quegli stessi abissi nei quali la nostra vita ha avuto la protervia di nascere. Ci troviamo al centro di un vortice sociale ed economico che ha la forma di una V, come sostengono gli analisti finanziari, e ci stiamo avvicinando al luogo critico in cui per oltrepassare il  maelström è necessario smettere di navigare, ed occorre lasciarsi domare dalle forze solo apparentemente contrarie. Lasciarsi attraversare dal tremendum è vivere la paura di “perdere” quel che abbiamo percepito, forse incautamente, nostro. Navigare in questo punto del mare è sostanzialmente impensato, poiché è come voler aver ragione sulle leggi dell’ universo e come Odisseo finire nella bolgia dei consiglieri fraudolenti, colpevoli della loro improvvida tracotanza. Il “sentimento del sangue del mondo” perpetua la sua egemonia sulla povera Anima del Mondo.

 

2020.03.06 Il pensiero del giorno Il sangue della psiche e il rovescio della conquista

di Irene Battaglini

6 marzo 2020

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«è  il senso la vera holding, non l’oggetto»

André Green

“Agire da primitivo e prevedere da stratega”. René Char, Fogli d’Ipnos, ‪1943-44

Le cose cambiano continuamente, non ci sono epidemie, pandemie o complotti, scenari post-atomici e disegni anti-europeisti più di quanto non ci siano abitualmente da migliaia di anni, e credo che nella storia dell’uomo, non vi sia complotto più doloroso di quello che emerge dal “rovescio della conquista”[1].

Nella dinamica dell’eccidio degli Indiani d’America, non vi era alcun complotto preordinato; nel malvagio commercio degli schiavi d’America, non vi è alcun disegno preconfezionato, poiché le comunicazioni offline non avrebbero permesso una simultaneità degli eventi come oggi si configura nella nostra cultura del sincronismo di rete; nella maggior parte delle nostre relazioni quotidiane, ispirate al reciproco “usarsi” narcisistico, non è alcun mercato regolato da norme online sulla compravendita degli affetti, soprattutto quelli che si accomodano sulla reciproca acquiescienza, che sia basata sullo scambio di bisogni (biologici, sessuali, emotivi, affettivi, economici, sociali) o ammantata di una delicata veste di sublimazione: si tratta, sempre e comunque, di un arcaico sentimento del mondo. Il sentimento del sangue del mondo, che è istintivo ma non ancora pulsionale, è asservito alla forza ctonia ma non è selvaggio, è vitalistico e dunque affine alla morte, alla sopraffazione, al divorare l’altro in quanto non preda, ma risorsa necessaria alla sopravvivenza: un sentimento che uccide una parte di noi, e non (solo) l’altro, quando esperiamo un asettico sadismo, una rinuncia all’immagine del “sangue della psiche”.

Tuttavia il sadismo esprime, sebbene ad una algida temperatura, pur sempre un rapporto con l’oggetto, un qualche segno della potente imago, che sia celestiale o di tenebra, su cui si fonda la nostra personale psicologia. Nel sentimento del sangue del mondo, non vi è spazio per l’immagine della psiche.

Scrive James Hillman[2]: «Si tratta di dare valore all’anima prima che alla mente, all’immagine prima che al sentimento». «Si tratta di dare valore all’anima prima che alla mente, all’immagine prima che al sentimento». Il che, a sua volta, impone di «rinunciare ai giochi di soggetto-oggetto, destra-sinistra, interno-esterno, maschile-femminile, immanenza-trascendenza, mente-corpo», in modo che «l’emozione trattenuta da quelle sacre reliquie possa infrangere quei vasi e tornare a fluire nel mondo».

Dal 22 febbraio, un sabato tra i più duri che io ricordi nella mia storia personale, mi sento trascinata dal desiderio di lasciarmi chiudere dalla spire della non-vita: Milano, Stazione Centrale. I treni che di solito sono un affezionato sintomo del nostro caos, diventano il segno inequivocabile della “psicosi bianca”[3] generata dal non poter stare nel lutto, invischiati come siamo nel sentimento del sangue del mondo. Non è la morte, non è il virus, non è il contagio, non è la paura: che cos’è la paura, se non il segno del mio essere viva. È il catechon che dilaziona e difende, e che io sento come utile e necessario nel suo principio antidolorifico. È Saturno, nel versante che si offre allo sguardo e ne impone una perdurante salificazione. Ma so, dai sogni che mi visitano, un luogo di cui credevo aver perso il diritto di servitù – perché non sono nostri, sono il mondo in cui abbiamo il privilegio di poter essere esploratori di una notte, di un secondo – che “l’immagine del sangue psichico” non è andata perduta.

Anima è sullo sfondo, si è fatta da parte, ha dovuto. Per non essere bruciata viva, per non essere troppo ferita. Si è dovuta nascondere, piange sulla sponda di un “pensiero del cuore” in attesa di tornare ad essere vista: può essere vista solo da chi possiede la vista. È l’anima del mondo che abita il cuore e lo fa ancora sussultare, un cardiopalma d’amore ad opera del dio dell’aurora: un progetto che ci vive, un domani che ci vuole e ci chiama. Io credo sia necessario affilare le armi, individuare una strategia (che non sia resiliente: deve essere invece solo apparentemente nervosa e delusa) e combattere per questa Anima, non è giusto lasciarla da sola.

Anima nella sua meravigliosa mutevolezza, che ogni uomo o donna possiede in scintilla, e che fa del singolo un attore a volte inconsapevole della lotta tra Eros e Thanatos nelle grandi sfide cosmiche. Vi sono esplosioni che uccidono interi “sistemi” solari, vi sono vaccini che uccidono i virus letali e difendono il sistema biologico umano. Potrebbe mai il corona virus lagnarsi per essere stato un giorno debellato dalla cosiddetta scienza?, beh no, ci auguriamo di no. Un oscuro disegno si configura in questo scenario di scambio di ruolo. Il bene non vincerà. Il corpo morirà e dovrà attrezzarsi per godere della sua breve corsa il più possibile.

E allora Anima, in che cosa ci aiuti a comprendere? Quello che cambia, è il nostro modo di percepire la realtà: la nostra capacità di intercettare il reale a tutti i livelli della sua manifestazione. È la vista che si acuisce, e si acuisce attraverso i sensi. I sensi possiedono la inner vision, ma la vista è un organo di senso. Un organo, un piano di note e di tasti, di senso e di significato. Una musica che nessuno ancora conosce, che deve essere “vista” con le mani, dalle mani, da quegli augusti alfieri di impronta che sono i polpastrelli, che tornino a suonarsi tra loro, a stare nella logica dei sensi. E se un giorno troveremo gli amanti addormentati sul finire di una spiaggia, non diremo più: che incoscienti, che esibizionisti. Diremo, finalmente il mondo è vissuto, e Anima si riprende il posto che Catechon le ha conservato, fingendo di asservirsi al sentimento sanguinario che ci ha colto come indigeni, schiavi, bambini abusati, a fare da contrappunto al conquistatore incoronato.

 

 

[1] Cfr.: Miguel León-Portilla, Il rovescio della conquista. Testimonianze azteche, maya e inca. Adelphi: Milano 1974.

[2] L’anima del mondo e il pensiero del cuore. Traduzione di Adriana Bottini. Piccola Biblioteca Adelphi, 2002, 9ª edizione.

[3] Cfr.: A.Green- J.L.Donnet, La psicosi bianca. Psicoanalisi di un colloquio, Borla, Roma 1992.

2020.03.04 Il pensiero del giorno Il governo della Fortuna e la prova del Caos, la più politica delle virtutes

di Giulia Corrado

4 marzo 2020

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Se un merito si può attribuire all’epidemia di Coronavirus è quello di aver permesso a società e individui di confrontarsi di nuovo con quello che, da ben prima che esistano società e individui, esiste come Ingovernato ed è stato osservato con terrore fino a diventare oscuro tabù dei nostri sistemi: il Caos.

Non solo ha risvegliato la consapevolezza del nostro essere fragili e mortali, con il senso di essere in balia della biologia così come ogni altro essere a cui consolatoriamente pretendiamo di essere superiori; ma nel nostro essere animali sociali, e quindi in una dimensione ulteriore e politica delle nostre esistenze, ha evidenziato quanto siano fragili gli schemi e le presunte stabilità che si legano alle proprie certezze, abitudini, quotidianità, a quello che abitualmente concepiamo come implicito e acriticamente (se non per la chiacchiera da bar) chiamiamo col nome di “Sistema”, contro il quale ci scagliamo ma dal quale scopriamo poi di sentirci protetti quando minaccia di crollare.

E proprio qui riscopriamo il concetto di Politica: davanti all’effetto domino che ha portato dall’infinitesimale del virus al macroscopico del sistema. Ci si chiede dov’è la falla, cosa non ha funzionato, cosa ha permesso che la grande macchina, della quale il più delle volte siamo ignari, andasse in blocco. Interrogativi che già suppongono una premessa errata, nel momento in cui si propongono di valutare solo la funzionalità della macchina e ne ricercano il guasto, senza badare alla sua complessità di processo e di dinamiche. Un riflesso metodologico di quel positivismo che ha finito col distorcere il concetto stesso di Politico, riducendolo alla mera funzione.

Se dobbiamo individuare una falla, potrebbe essere proprio questa allora: l’incapacità di concepire la centralità del Politico come metodo e come processo. Lo stesso che, al di fuori delle fissità positiviste e delle pretese funzionaliste arenate sui modelli organizzativi, potrebbe essere realmente risolutore di un problema nel suo dinamismo.

Machiavelli scriveva, già cinquecento anni fa a proposito delle imprevedibilità delle Guerre d’Italia, della tremenda difficoltà che un approccio politico comporta: un processo reso complicato dalla fortuna e ancor più dalla sua mutevolezza. Nell’epoca più liquida di tutte, fatichiamo ancora a considerare caotica e mutevole la realtà: speravamo che il progresso, qualunque cosa questa speranza e questo concetto abbiano significato, ci avrebbe dotato anche di schemi predittivi, di argini a questo caos, liberandoci dall’incombenza di confrontarci con esso. Ma le condizioni, le situazioni, le circostanze del mondo non sono predicibili, né sono fisse: e così come per la società, lo stesso principio vale per la vita individuale.

Il buon Principe, per Machiavelli, è quello che governa la fortuna e che è pronto a mutare se stesso davanti alla mutevolezza della fortuna stessa, che al volgersi contrario delle circostanze sa come renderle un’occasione. Perché il governo, e dunque la politica, non è l’esercizio del regno sulle cose fisse, ma l’arte del condurre e dar direzione a quelle mutevoli. Per farsi portatori e attori di questa virtù, occorre però avere il coraggio di uno sguardo disincantato e consapevole davanti al Caos, onesto nel riconoscerne l’esistenza.

Se allora il Caos irrompe nel nostro quotidiano e si manifesta con un’epidemia, perché non provare ad essere più politici davanti a questo guizzo della sorte e ravvedere nel vento contrario un’occasione per provare nuove strade e concepire nuovi modi di approcciarci ai problemi? Perché non uscire dalla retorica del problem solving da santoni delle organizzazioni ed esperti del management e sperimentare con un po’ di gaia scienza anche la dimensione più creativa, poietica, politica che risiede nello sporcarsi le mani con tutto ciò che di caotico celiamo di solito al nostro sguardo?

Potremmo scoprire che il Caos, oltre a terribile e totalizzante minaccia, è un magma di possibilità che solo un’azione lucida (e coraggiosa) può plasmare in qualcosa di completamente nuovo. Forse proprio in quell’atto, politico per metodo e natura, che in momenti di stallo servirebbe per uscire dal cerchio del panico.

 

L’ellisse «vitruviana» di Leonardo Sinisgalli tra la scienza e l’arte

di Andrea Galgano

4 marzo 2020

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La pubblicazione, per Mondadori, di Tutte le poesie di Leonardo Sinisgalli (1908-1981), a cura di Franco Vitelli e con il contributo della BCC Basilicata, toglie, finalmente, la ricezione elitaria della sua poesia, poiché, come Vitelli afferma: «troppo forte è stata la capacità anticipatrice, per cui si è trovato in dissenso col suo tempo e contemporaneo della posterità, la quale ha messo in pratica le sue idee geniali quando per lui andavano prendendo un’altra piega».

Il suo incontro musaico è un segno infinitesimo di inquietudine e di spostamento che insegue l’arcaica visione di un meravigliato itinerario, di un legame scientifico e metamorfico con l’umano, in un chiasmo di orizzonti e ombre:

«Sulla collina / Io certo vidi le Muse / Appollaiate tra le foglie. / Io vidi allora le Muse / Tra le foglie larghe delle querce / Mangiare ghiande e coccole. / Vidi le Muse su una quercia / Secolare che gracchiavano. / Meravigliato il mio cuore / Chiesi al mio cuore meravigliato / Io dissi al mio cuore la meraviglia».

Il suo simulacro musivo risente di una vivace doppiezza, che se, da un lato vive dell’agone prospettico “rinascimentale”, in cui scienza (matematica, in particolar modo) e arte confluiscono in un unico proscenio di disciplina e metodo, dall’altro la vertigine poematica costruisce un’istanza di luce che riunisce grottesco e ironico, dolce furore familiare e «colore carnale».

La scena rappresenta, pertanto, uno strappo di opacità. La parola di Sinisgalli, irrorata dalla lezione di Mallarmé, Ungaretti e Valéry, distesa sulla geometria cartesiana e sull’architettura albertiana, ricerca il numinoso prodigio della «fulmineità dell’atto creativo», dove «Troppi eventi nella natura e nell’intelletto accadono in un istante: sono cariche e scariche di energia enorme, di energia animale e cosmica, che distruggono la cosa per creare l’immagine». In tale mobilità, nata dalla apicale prosa leonardesca, Sinigalli bracca l’immaginario algebrico, la geometria e la metrica dell’invisibile, unendole con le forze della inner vision poetica.

Nel suo sincretismo, che gli permetterà di progettare, dapprima, la pubblicità della Olivetti, allestendo a Milano, tra il 1936 e il 1940 una rivoluzione anticipatrice della pop art, facendo coesistere la linea della grammatica visiva di Kandinskij e il dramma plastico di Consagra con gli automi, per poi fondare e dirigere la rivista «Civiltà delle Macchine», per Finmeccanica, in cui fondere la nuda polifonia del sapere scientifico con l’osmosi letteraria, come egli stesso afferma in una intervista a Ferdinando Camon del 1965:

«L’inverno del 1953, a Roma in un ufficio di Piazza del Popolo, quando io misi a fuoco il progetto di Civiltà delle Macchine […] la cultura dell’Occidente era rimasta incredibilmente arretrata e scettica nei confronti della tecnica, dell’ingegneria. Voglio dire che erano sfuggite alla cultura le scoperte di Archimede e di Leonardo, di Cardano e di Galilei, di Newton e di Einstein. Io volevo sfondare le porte dei laboratori, delle specole, delle celle. Mi ero convinto che c’è una simbiosi tra intelletto e istinto, tra ragione e passione, tra reale e immaginario. Ch’era urgente tentare una commistione, un innesto, anche a costo di sacrificare la purezza».

Successivamente, il suo desiderio di unità sincretica tra discipline confluirà anche nella direzione di «La botte e il violino», bimestrale dell’Eni di Mattei. L’inseguimento delle Muse cerca le ombre, i compagni che gridano a perdifiato, le monete rosse, l’ultima luce chiamata nella piena dei canali e le mani affondate nel grano in una tiepida suoneria, fino al ricordo intriso d’autunno che respira il vento di Porta Nuova. La terra, l’inquieto nomadismo, il reticolo memoriale di strade, luoghi, fiumi, città confluiscono in un perfetto squilibrio di tempo. Tempo arcaico, cosmico, ciclico, percepito in tutte le gradazioni affettive, come i rosei del rosa dolce delle case, la figura paterna, il mattino fondo e roco dell’essere.

È l’energia che strepita e che segna il territorio del suo immaginario vissuto nella percezione e nell’ingresso della natura «nelle nostre capsule, nelle parole e nei simboli, nelle lettere e nelle cifre. Ci entrano anche i pensieri. Entrano le formule semplicissime che regolano il mondo. Le equazioni di Einstein sono brevi come le formule dell’acqua e del sale. Dio è laconico».

E poi ancora, nella vita di transito del poeta «entrano in giuoco delle cariche di energia incommensurabili, che vivono magari per attimi infinitesimali e si consumano in un soffio. Tuttavia non sono i fenomeni del mondo fisico che possono offrirci qualche analogia di questi transiti, ma proprio alcuni fenomeni biologici cosmici e nucleari». L’energia di Sinisgalli è sì visiva e tattile ma è fatta di aria capovolta, che fissa l’immagine in una sproporzione che diviene «coscienza dello spazio terrestre» (Giuseppe Pontiggia), come afferma Augusto Ficele: «Sinisgalli sarà perpetuamente turbato dal fissare una grammatica speciale all’interno di capsule a cui sfuggiranno quei transiti celesti, quelle piume invisibili che irrobustiscono il cielo. Mobilita tutte le sue forze cognitive, non smette mai di indagare il vuoto, di tracciare tutte le possibili spirali del sapere, e se la matematica non si stanca di fabbricare ipotesi, la poesia scopre ciò che non esiste»: «Eri dritta e felice / Sulla porta che il vento / Apriva alla campagna. / Intrisa di luce / Stavi ferma nel giorno, / Al tempo delle vespe d’oro / Quando al sambuco / Si fanno dolci le midolla. / Allora s’andava scalzi / Per i fossi, si misurava l’ardore / Del sole dalle impronte / Lasciate sui sassi».

La Lucania di Sinisgalli appartiene al tempo remoto e arcaico della primigenia. Cadenza il ritmo favoloso della realtà, avverte tutta la sovrapposizione temporale attraverso l’indizio, la prova e il presagio di una rêverie al presente, laddove la terra abita l’esistenza in tutta la sua drammatica contemplazione di scena e scoperta di ambiente, come se si volesse possedere quello strappo, quella acrobazia dolorosa del quotidiano, quella memoria vitale che raccoglie cocci ed epigrafi, racconti e fiammelle, nell’aria sfatta dell’amore che, a fatica, scioglie nodi e segni perduti nella luna di settembre, per ricordare, sentire e indovinare:

«Lo spirito del silenzio sta nei luoghi / della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto, / sofistico e d’oro, problematico e sottile, / divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio / nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce / con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati. / Il sole sbieco sui lauri, il sole buono / con le grandi corna, l’odoroso palato, / il sole avido di bambini, eccolo per le piazze! / Ha il passo pigro del bue, e sull’erba, / sulle selci lascia le grandi chiazze / zeppe di larve. / Terra di mamme grasse, di padri scuri / e lustri come scheletri, piena di galli / e di cani, boschi e di calcare, terra / magra dove il grano cresce a stento (carosella, granoturco, granofino) / e il vino non è squillante (menta / dell’Agri, basilico del Basento!) / e l’uliva ha il gusto dell’oblio, / il sapore del pianto».

In La vigna vecchia, l’orma dell’urto con le cose si fa sempre più composita. Vi è ancora una primitiva forza che appartiene a una mitologia domestica che si spoglia indecifrabile, accostando «le concrete illuminazioni», come ha avvertito Giacinto Spagnoletti, alla «pluralità irreale delle visioni» (Oreste Macrì), innervando i rimbalzi di luce alla sua continuazione: la polvere, il quartiere sotto la collina, la vigna e il fondo degli alberi, il cratere spento, il freddo di aprile, il febbraio dolce e amaro, la memoria quasi fossile. Ma se con L’età della luna, il margine della imprendibilità della realtà, come un lungo appunto di postille puntuali, che omaggiano anche il taglio inciso di Fontana, fa convergere l’esattezza del verso nella prosa poetica e dimostrando il profondo attaccamento alla poesia, distaccata da ogni meccanizzazione e quasi sorvolando l’inaridimento dei luoghi (anche mentali), con Il passero e il lebbroso (1970) l’entità della sua vocazione poetica attesta lo sgomento e lo sconforto («Le parole non vengono sulle labbra, / solo un alfabeto da carcerati / parlato con le dita. / Tu ti penti di aver perduto / la vita per dovere. / Puoi trascorrere ore e ore / a guardare le foglie nuove. / Il mondo è lontano di là»), la lotta della non-poesia, per affermare l’ultimità dell’ars poetica, l’attrito alimentativo della concisione, il battito della felicità, presa per la coda:

«Bolsi sulla ghiaietta sotto gli olmi / ammirano le foglie / ancora verdi, trasparenti / a fine ottobre. / Non c’erano venuti mai / insieme in tanti anni. / Sono qui tutte le mattine alle undici / per consiglio dei medici. / Girano a passi piccoli, / il luogo non è immenso, / lo percorrono in un’ora / sempre nello stesso senso. / Quando stanno meglio / e possono camminare spediti / fanno una visita / al Museo di Storia Naturale. / guardano i mammut, i cristalli, / gli scheletri dei pesci e degli uccelli: / teste grandi come teatri, ossa / sottili come aghi. Siedono / sulla panchina davanti al lago».

L’anima di Sinisgalli diviene un volo sospeso e rappreso che fa tinnire le boccole contro i muri, che ricerca la parola unica e assoluta, e che assomiglia alla mosca che si posa e poi si discosta. Restano così le cose più insignificanti a sopravvivere, il dialogo d’inverno e il rito dell’amore bandito, rilasciato in un’ellisse di forza:

«Restano sempre le cose più insignificanti /  a sopravvivere / fourrures, souvenirs, / l’amante che ti morde l’orecchio, / il più sciocco, il più vecchio / ti gira intorno, ti guarda morire. / L’amore arrivò davanti a me / come un dannato. / Sceglieva per i nostri riti / le ore del mattino, / voleva essere strozzato in una gelateria vuota. / Sarebbe salito su un palco / nudo, alla gogna, / colpito da pietre e flagelli / senza dolore, senza vergogna. / Ma i banditi d’amore / vivono all’inferno. / Finchè vivo, finchè affogo / non brucerò il suo ritratto. / Parlerò col fuoco, parlerò col gatto / queste sere d’inverno».

L’ellisse vitruviana di Leonardo Sinisgalli tra la scienza e l’arte – Roma Cronache Lucane, 4 marzo 2020

2020.02.26 il pensiero del giorno – Anemometro Temporale

di Gualtiero Armosino

26 febbraio 2020

leggi in pdf Gualtiero Armosino – Anemometro temporale

Non so se si possa misurare il tempo in nodi invece che in secondi, ma è così che io faccio. Mi serve per pensare che il respiro non finisca con la morte. Anche adesso lo sto facendo, nell’atrio partenze dell’aeroporto di fronte ad un poster pubblicitario che promuove il turismo nella mia città. La città in cui sono nato. Io il primo a nascere lì di una famiglia che ha cambiato nome per confondersi tra la gente del posto.

Nascere lì per mio padre, per la madre di mio padre, per il nonno di mio nonno è stato un traguardo. Io sono il traguardo.

Nella foto il cielo è azzurro e terso come in una giornata di Foehn.

Lo sguardo a volo d’uccello dello scatto di un drone in una bella giornata di pochi anni fa.

Le Alpi sullo sfondo.

Se mi giro, nonostante il vento soffi anche nel presente fuori da quella fotografia, una coltre di smog rende invisibile tutto.

Non riesco a vedere la collina che so esserci al fondo della pista di decollo e sulla quale c’è una casa in cui sono stato. Quando la ragazza che ero andato a trovare era solo una ragazza che odiava il padre e invidiava il fratello. L’erede di un nome che nessuno avrebbe mai cambiato.

Ma questo non conta più. Un vento di Tramontana ha portato via da lì quella ragazza da anni.

“Come fate a parlarvi con questo rumore continuo dei motori?” avevo chiesto io allora.

“Non ci parliamo neanche quando gli aerei non passano. Ma quando c’è tutto quel rumore assordante posso sorridere con le labbra e dire in faccia a mio padre cosa penso di lui, tanto non mi sente”.

La ventata d’aria fresca capace di pulire il cielo della mia città da tutti i fumi dell’industria sembra dirmi: “Non ce la faccio. Mi dispiace, mi sono arresa. Sorrido e apro le labbra ma faccio solo finta di soffiare come faceva finta di dire cose belle quella tua ragazza. Guarda là!”

E io guardo e vedo in mezzo alla folla agli imbarchi quattro persone con una mascherina anti-virus. Vedo tre ragazzi che escono dalla sala fumatori lasciando la sigaretta a metà appena entra un ragazzo dai tratti orientali.

Il ragazzo scuote la testa, sorride e dice: “Sono più sano e più italiano di voi, stronzi imbecilli!”. L’epidemia del Coronavirus riempie le pagine dei giornali. Ogni giorno il vento fa svolazzare una pagina in più.

La brezza mediterranea che mi aspetta a Barcellona è la stessa che ho lasciato trent’anni fa, quando ero arrivato con un treno su cui ero salito senza diritto.

Perché non avrei dovuto essere lì.

Non oltreconfine durante una licenza di cinque giorni sotto servizio militare. Era una cosa punibile con l’arresto.

Non in Spagna per la quale non provavo nessuna attrazione. Ero intimamente sprovvisto dell’estetica del sangre e arena, della passionalità del flamenco, del senso di Hemingway per l’aperitivo sulle Ramblas e il Partit d’Alliberament Catalunya mi stava già parecchio antipatico allora.

Ma era inverno e avevo già preso tanto vento freddo per i servizi di guardia, Parigi era troppo cara per una paga da sergente e volevo vedere Gaudì da tanto tempo.

Stavo cercando qualcosa di meno scontato di un venditore di fumo, di una discoteca trasgressiva e l’unico film in castigliano non doppiato in catalano era quello.

Per me il regista non era nessuno.

Antonio Banderas non era nessuno per tutti.

Ma la Ley del deseo era un titolo così suadente per uno che aveva vent’anni e cercava da tempo di capire quali fossero i suoi desideri che entrai nel cinema.

L’inizio era una provocazione senza precedenti.

La scena di sesso scorreva parallela di fronte ad una seconda telecamera in scena e riprendeva un ragazzo sexy qualunque e due attori del doppiaggio tanto bravi quanto privi di sensualità, a dimostrare che la pornografia è sempre e solo finzione.

Un transessuale interpretato da una donna come Carmen Maura e una madre interpretata da un transessuale come Bibi Andersen erano un tocco da maestro.

Il genio risaliva la china di una società manieristica da poco affrancatasi dal Franchismo. Il talento di uno che scherzava con un super-otto come se fosse stato YouTube.

L’indomani mattina venni via su un Pablo Casal diretto a Milano, carico di emergenti uomini d’affari, modelle e l’inizio di una folle economia fondata sul nulla degli anni ‘90 che ancora dovevano venire.

Ma tra il vento che avevo lasciato sulle Ramblas avevo visto una cosa che era unica.

In un posto dove non dovevo essere e che Almodovar aveva inventato.

Ed ora quella brezza è di nuovo qui.

A dispetto di bollettini medici che mi inseguono come un contagio.

Nell’ossessione fobica il mio Pablo Casal diventa il treno pieno di virus di Cassandra Crossing, diretto verso un ponte dal quale è previsto che precipiti perché nessuno ha capito che le bombole di ossigeno installate sui vagoni carrozza per isolarne i viaggiatori ammorbati hanno sconfitto il virus e tutti sono di nuovo sani.

E così Sofia Loren, Martin Sheene, Burt Lancaster, Ava Garner e O.J. Simpson sono qui con me, coinvolti in una suspense che alla fine li salverà. E il vento del destino consentirà a O.J. Simpson di ammazzare la moglie e vivere indisturbato fino a finire comunque in carcere per rapina a mano armata e sequestro di persona. Perché al vento non si sfugge.

E questo non lo dice l’anemometro in stile modernista catalano sul tetto di un palazzo su un paseo, lo dice invece il cartone animato di Gumball che mio figlio sta guardando in spagnolo nell’appartamento sopra il centro culturale LGTB che ha affittato mia moglie.

Anche il cartone parla di contagio. La delusione amorosa di un palloncino ha progressivamente tolto i colori al mondo e solo il recupero dell’amore per la vita, comprensiva delle sue incertezze, può far rinascere i colori che ritornano con un vento d’amore per le cose che possono essere indipendentemente da come sono soltanto.

Il vento dalla Germania ha portato un nuovo caso di Coronavirus a La Gomera nell’arcipelago delle Canarie che è la mia meta. C’è scritto su La Stampa di Torino di oggi che mia madre non ha ancora comprato e che a breve comprerà uscendo a prendere il pane.

Io guardo il telefono aspettando che vibri e che una voce preoccupata mi chieda con tono allarmante e allarmato di non andare alle Canarie a respirare gli Alisei.

Come se lei stessa o tutti quanti non potessimo già essere il contagio. Come se il vento si potesse fermare con un rifiuto a respirare.

Ma è vero che il vento non è per forza sempre e solo buono.

Era vento anche quello che ha portato via l’intero tetto della scuola di mio figlio cinque anni fa. È vento anche questo che ha riportato oggi il razzismo che aveva spinto secoli fa il mio trisnonno a fuggire dal Caucaso, prima che fosse troppo tardi.

Ma al vento si può sempre tendere una vela per risalirlo in bolina come un marinaio, come una donna di buona famiglia che sposa contro il volere di tutti uno zingaro che la lascia vedova in tempo di guerra, con figli che chiamano fascista il maiale nero nell’aia. Che nasconde Ebrei in soffitta con la cucina piena di nazisti in rastrellamento.

Una donna che non mi lasciato una ricetta della torta di mele della nonna ma che ha saputo rispondere ad un reduce da a un campo di concentramento, tornato a vedere se gli aveva tenuto i soldi e le cose che le aveva affidato: “Ecco è tutto qui, ed è ancora tuo. Ora puoi portare via di qui il mio figlio più giovane che ha lo stesso cuore debole di suo padre? Prima che schiatti sull’aia sotto un sacco di farina? Prima che debba coprire anche sul suo volta la smorfia contratta di un uomo che muore d’infarto? Portalo con te in città, insegnagli a riparare gli orologi. Ad avere come te in tasca una scatola d’argento per non gettare a terra i mozziconi di sigaretta. Fagli fare un lavoro sedentario che lo renda ricco per il giorno in cui dovrà pagarsi a Londra i primi by-pass riusciti”.

Il vento importante è di fronte a me da sempre anche se in questo momento si mostra sul Paseo de Gracia ad alzare le foglie secche dai marciapiedi. È sulla facciata di Casa Battlo in una coppia di verricelli montacarichi messi in vista come draghi incatenati al posto di nasconderli dietro una fioriera quando il pianoforte è già stato elevato al piano nobile.

E mentre cammino il virus ritorna sulla mascherina di una donna cinese che esce da un negozio di Louis Vuitton. Vuole evitare il rifiuto da parte del negozio. I rifiuti di ragazze che sono scese da una passerella dell’alta moda prima di compiere trent’anni e del concierge che sulla passerella dell’alta moda non c’è mai salito, perché l’alta moda maschile non esiste. Per questo che il concierge odia le commesse e le commesse odiano tutti. Ma la donna cinese non lo sa e così indossa la mascherina come un chirurgo e gli occhiali neri di Dior come Jackie Kennedy per non fare vedere il suo sguardo titubante.

Voltando in un calle che risale la collina verso il Parc Guell il Levante cessa di soffiare davanti ad un mercato coperto che non ha ancora subito la gentrificazione del Sant Antoni Market. Qui il pesce in scadenza viene venduto col prezzo ribassato e il puzzo è vero.

I tre suonatori di violino, viola e violoncello all’angolo della strada sono anziani. E anche se piacciono molto al pubblico non riesco non pensare che se io avessi suonato una partita di Bach così approssimativa la mia maestra di pianoforte alla terza battuta mi avrebbe detto: “Non ho tempo da perdere con te anche se tua madre ti vuole sul palco, il musicista vero è tuo fratello! Quello che suona qualsiasi cosa senza neanche uno spartito. Quello che disegna qualsiasi cosa veda. Quello con un disegno del quale tuo padre ha pagato mezzo trasloco. Il disegno incorniciato e appeso dietro la scrivania di un ufficio di fianco alla foto di una gru col nome di una ditta. In quel disegno c’è il vento. In tuo fratello c’è il vento. Io vorrei lui, non te. Ma a tua madre tuo fratello non piace. Se gli piacesse non lo farebbe scappare lontano al comando di un cargo che impiega quattro giorni ad essere riempito di derrate di bassa qualità e che va avanti e indietro dalla Cina. E che per questo sua moglie oggi gli ha detto che non lo voleva a casa perché poteva essere infettivo più di un monatto. Ma la verità è che lei non lo vuole da tempo. Ed è tua la colpa. Di te che suoni così male!”.

Il panorama mostra che il soffio di nessuna Galerna riuscirà mai ad abbattere le perenni impalcature della Sagrada Familìa, che vista da lì sembra indossare una mascherina anch’essa.

Sento il Terral che soffia verso il porto. Vorrei partire dalla Estació de França, perché è bella è antica e ha le vetrate delle volte centinate in curva che sembrano le ali di un uccello nel vento. Ma ho un viaggio diverso da fare. Diverso dai viaggi di un tempo. Diverso da tanto tempo.

Da ragazzo ho viaggiato un po’.

Abbastanza tutto sommato. Cercavo la libertà ma non sopportavo l’idea che uno dovesse rinchiudersi ad Amsterdam per farsi una canna, a Berlino per farsi una pera, a Mikonos per farsi qualcuno, a Ibiza per dormire ubriachi sulla spiaggia.

I posti scontati mi mettono l’ansia da sempre.

E così ha girato l’Europa passando da un ghiacciaio ad un lago, ad una foresta, ad un museo, ad un fiordo, ad una biblioteca, ad un circolo polare Artico. Sempre in mezzo al nulla o sospeso sopra a tutto come uno stilita o un pipistrello. Un pipistrello affetto da un virus.

Un virus che mi teneva là su un ramo alto di un albero, in attesa di una mongolfiera che al primo vento mi portasse di fronte alla meraviglia della pace di anelito.

Ma il mio virus è un vento che non conosce pace.

E così dopo essere stato in balia della moltitudine di persone di una metropoli di tre milioni di abitanti, sono andato a dormire sei ore prima della intera città.

Sulla città il vento non si è mai fermato.

Verso le cinque mi sono svegliato per il rumore di una musica che usciva da un’auto ferma sotto le mie finestre come mi succedeva da bambino nella periferia della mia città.

Come facevo allora mi sono alzato che il giorno era ancora notte.

Persone di tutte le età ancora passeggiavano in un quartiere senza locali o discoteche, in una piazzale un po’ panorama un po’ parcheggio del distretto di polizia.

Un ragazzo è spuntato da un vicolo inseguito da un altro.

Il primo arrabbiato, il secondo cercando una riconciliazione.

Il primo non si voleva fermare, aveva il vento in poppa.

Il secondo lo ha preso per un braccio. Il primo si è divincolato un po’ come un bambino che fa i capricci e un po’ come un uomo che ha delle sante ragioni.

L’altro ha tentato di abbracciarlo sebbene l’uno facesse resistenza. Ci è riuscito, si sono baciati sulla bocca senza essere a Mikonos, ad Amsterdam, a Berlino, a Ibiza. Tra la gente, davanti alla polizia.

Molti li hanno guardati per capire se tutto andasse bene. Nient’altro.

Poi uno dei due ha offerto la sigaretta all’altro. Hanno cominciato a parlare e a discutere.

Ad un certo punto uno ha detto una cosa. L’altro ha dato un pugno forte alla lamiera di una saracinesca. Poi un altro ed un altro ancora. Si è messo le mani sul viso e il suo corpo ha sussultato dal pianto.

Senza guardare l’altro ha mosso la mano in segno di addio e se n’è andato.

L’altro scuotendo la testa ha preso la direzione opposta. Ha detto qualcosa a due poliziotti che gli hanno sorriso ed è scomparso anche lui.

Io non so se qui il vento sia migliore, se l’aria sia più pulita. Se qui il virus non abbia peso. Non so se sono veramente pronto a scendere dall’albero.

Ma in quella scena ho visto che il vento può cambiare direzione, cambiare le cose e poi cambiarle ancora fino a ricucire il tempo.

Non so se scenderò mai dal ramo ma so che posso fare scendere mio figlio. Perché un posto nel mondo, in cui fino a ieri c’era una dittatura, è diventato un luogo in cui c’è posto anche per le storie d’amore che possono finire male in mezzo alla gente. E questo mi basta. Sia come che, sia come perché.

Anzi, il perché non mi interessa. Come non mi interessa sapere del paziente zero del contagio, di questo e di altri virus.

Non mi interessa sapere quale fosse il guasto tecnico che mi ha tenuto a terra sul mio aereo per due ore sulla pista del Areopuerto El Prat. Mi basta che l’aereo non sia decollato prima che qualche mio simile avesse risolto il guasto. Questo è il “che”. Il “che” come il vento.

Il vento che batte tutti i virus.

Il vento che non si ferma mai.

Il vento che misura il tempo.

2020.02.25 – Il pensiero del giorno

di Guido Rutili

25 febbraio 2020

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Se questo virus fosse più “nostro” di quanto pensiamo?

Nostro, umano, dimenticando l’informazione (non la formazione, mi raccomando), che lo racconta nato in seno ad un’altra specie.

Fermiamoci a riflettere, nel panico che imperversa; facciamo un profondo respiro senza considerare che potrebbe ucciderci, bensì confortandoci col fatto che tra i miliardi di respiri fatti, a partire dal primo vagito, sono più quelli che ci hanno regalato la vita.

Guardiamo lontano, con gli occhi persi in un punto all’infinito, messo lì per dare suggerimenti importanti: certo, la mucosa delle orbite è l’altra frontiera con il mondo virulento, ma non per questo togliamoci la luce.

Anche le apnee e il buio possono uccidere, mentre l’idea illuminata è sempre figlia di un arresto.

Fermiamoci, pensiamo e sentiamo, come fece Sigmund Freud quando intuì che buona parte dell’esistenza si nascondeva nell’inconscio, complemento divino della mente.

Abbiamo creato il virus per sabotare qualcosa. Se è stato un laboratorio a farlo, pensava di sabotare il mondo eppure, siccome Freud aveva ragione, sotto l’egida dell’inconscio, non ha fatto che privilegiare la vita totale, quella che ci costringe a vedere anche nell’ombra dell’iceberg sommerso.

Per questa minaccia assistiamo al crollo dei somatismi sociali, e scopriamo, nello sconforto, che elencarli tutti sarebbe troppo oneroso: il mercato forte, il benessere perpetuo, la vita garantita, il posto di lavoro fisso, la famiglia perfetta, l’auto che guida da sola, i politici capaci, il caffè al bar, la corsa di un’ora al giorno per mantenersi in forma, la dieta chetogenica, le stette lauree bimestrali (che farebbero un terzo di una vecchia laurea quinquennale), lo stage alla NASA per fotocopiare foto lunari.

Arriva una sigla, COVID-19, e torna la protagonista del disturbo somatogeno di questa società indebolita: l’angoscia. E con essa torna, ahimé, la luce su un mondo interno trascurato, negato, rimosso, evitato, rabbiosamente cancellato.

Angoscia.

Nominarla è doloroso, perché non volevamo farlo.

Ci siamo abbracciati stretti fino a ieri per non sentirne la presenza, sostenuti da valori liquidi con cui ci rassicuravamo, dimenticandoceli un attimo dopo e coniandone di nuovamente instabili; ma ora gli abbracci sono banditi.

Una bella fetta di noi potrebbe approdare alla chemioterapia psicofarmacologica o potenziare quella in essere: diciamo che può funzionare, almeno fino all’arrivo di un COVID-20, poi dovremmo tornare sulle parole precedenti.

Allora cosa ci resta?

Soli, senza saperci stare, senza poter contare su supermercati con gli scaffali ineluttabilmente straripanti, paranoici, perché chi ci faceva coraggio adesso è potenziale nemico, immaturi, perché non abbiamo mai pensato che la psiche potesse essere una risorsa nel periodo del benessere digitale, ci crediamo perduti.

Vanno riesumati psicologi e psicoterapeuti, dinosauri cultori dell’anima, che l’angoscia la conoscono bene e possono indossare la veste druidica per riorientarci ed invocare su di essa una magia.

Perché c’è una formula magica che ne parla, che se rammentata la trasforma finalmente in carrozza e che suona all’incirca così: l’angoscia è mortifera finché non le si trova un nome.

Ora che tutte quelle manifestazioni psico-socio-somatiche sono passate e che la causa scatenante è riapparsa all’orizzonte, ognuno può fermarsi, riflettere, dare un nome alla propria angoscia, contenerla senza più sintomi.

Certo che serve coraggio, ma l’alternativa, qui alla resa dei conti, è la perdizione.

Non è certo un processo indolore, gli effetti collaterali sono molti, ma impareremo a sopportarli: dal giorno dopo non saremo più manager (o lasceremo tale identificativo ad una voce sulla job description), i selfie con la famiglia non infonderanno automaticamente l’amore sempiterno tra i suoi membri, per dimagrire dovremo solo mangiare meno, sarà meglio sapere tante cose che mostrare di non saperle con sette lauree, rifiuteremo stage finalizzati alla fotocopia, sapremo che ogni cosa “fissa” è impossibile per forme di vita evolutive e transitorie e riscopriremo il piacere di andare in bicicletta, che da sola non fa le curve e neanche riesce ad avanzare: soprattutto non avremo più l’illusione dell’immunità.

Non saremo immuni, dall’angoscia, dai malanni (soprattutto quelli della psiche), dalla morte.

Come in ogni vaso di Pandora che si rispetti, tuttavia, troveremo sul fondo la più grande speranza possibile: la consapevolezza.

 

Robert Walser: la superficie innevata del mondo

di Andrea Galgano 10 febbraio 2020

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Robert Walser (1878-1956) dispone la frammentazione come spasimo di nebbia imprecisata, raccolta nella mancanza, indistinta nel gelo, vissuta nel bagliore opaco della neve e un luogo santo per poter accogliere la densità dell’istante, quasi negata ma ricercata e invocata, nonostante la luce opprimente, il taglio indocile dell’oscurità: «Il cielo, stanco della luce, / ha dato tutto alla neve».

È il fragore che compone la sua orma, la percorre e il poeta resta in ascolto di qualcosa che non ha fine: egli sente desiderio, amore, vitalità ma vi è sempre una specie di ombra sulla materia vivente, una debolezza inavvicinabile sull’anima.

Nel 1909, pubblicò a Berlino, presso l’editore Cassirer, Gedichte, dopo che già aveva dato alle stampe una serie di romanzi, accompagnato da sedici acqueforti del fratello Karl. Ci lavorò nel periodo in cui lavorava come impiegato del commercio a Zurigo tra il 1897 e il 1898 e anche se continuò a scrivere versi, resterà questa la sua unica raccolta, Poesie[1], ora pubblicata dall’editore Casagrande, con le traduzioni di Antonio Rossi.

La sua poesia, dunque, si apre nella mancanza e nella lacerazione, non nate dal vuoto bensì dalla privazione ferita, dalla penuria della pienezza e dalla destinazione dilatata e  nostalgica del cuore stanco.

In esse, allora, si sperimenta una specie di doppia solitudine, come avviene in In ufficio, dove l’impossibilità «di un rapporto plausibile all’interno della società organizzata, di cui l’ufficio e il principale sono emblema, spinge il Soggetto alla ricerca di un interlocutore esterno, rappresentato in questo caso dalla luna (immagine collocata in posizione cardine ad apertura ed in chiusura di testo, oltre che all’inizio della seconda strofa), unica entità che partecipi alla sorte del commesso[2]»: «La mancanza è la mia sorte: […] La luna è la ferita della notte, / gocce di sangue sono le stelle. / Se anche rimango lontano dalla felicità / per questo la mia indole è modesta. / La luna è la ferita della notte».

Il pianto, la stanchezza, il dolore non divengono l’esito di un lamento infinito ma di una condizione inquieta, in cui l’inafferrabilità e l’imprendibilità del reale nel rapporto con le cose («Giallonero riluce davanti a me nella neve / un sentiero e si perde fra gli alberi. / È sera e pesante è l’aria / impregnata di colori. / Gli alberi sotto cui cammino / hanno rami come mani di bambino, / implorano senza fine, se mi fermo, / con dolcezza indicibile») e

 

«il credito concesso alla vita, così rari per uno scrittore del suo tempo, rappresentano una conquista, un raggiungimento etico e spirituale, persino un atto di fede, non un punto di partenza. Le più elementari e canoniche tra le situazioni liriche – la relazione con il paesaggio, la riflessione interiore, il dialogo con sé stessi, la dichiarazione dei propri sentimenti (nostalgia, paura, quiete, colpa, amore, stanchezza, sono titoli di queste poesie) – vengono afferrate come un’ultima possibilità di vita da un uomo che ha il secolo a venire già davanti agli occhi».[3]

Persino l’anima del sole non ha durevolezza, nonostante il giorno abbia disperso le tenebre e le nebbie che avvolgevano i campi. Il sole di Walser è una meta di sogno e di oblio, lontano dal possesso del dolore e dell’oppressione (e quindi vicino all’emancipazione), come bisogno di avvenimento. Qualcosa deve accadere. Ma avviene sempre un torpore, una luce nera e affilata che conchiude, mentre il petto cerca riposo e calore.

Una relazione con la datità naturale in senso antropomorfico. Esiste, in Walser, un desiderio incompiuto, non soltanto per il respingimento del reale che crea disagio, angoscia e il perdurare di una minaccia.

Egli attraversa il mondo come mondo, le sue regioni inferiori[4] vagano come miracoli schiusi, svaniscono e si affermano come transiti di fughe, bisogno di notti chiare («Tutto è accaduto in silenzio, / senza rumore, frutto di una volontà / aliena da ogni cerimonia. / Sorridente il miracolo si schiude, / non servono per questo razzi / o micce, solo una notte chiara») e dimore irraggiungibili:

«Apro la finestra, / c’è un’opaca luce mattutina. / Ha smesso di nevicare, / una grande stella è al suo posto. / La stella, la stella è meravigliosa. / L’orizzonte è bianco di neve, / bianche di neve sono le cime. / Fresca e profonda / quiete mattutina nel mondo. / Ogni voce risuona chiara, / i tetti luccicano come tavoli per bambini. / Tutto è silenzioso e bianco: / un grande splendido deserto / il cui freddo silenzio rende vano / ogni commento. Dentro di me avvampo».

Nella sua ordinarietà grigia, nella sradicata incompiutezza, nella mancanza del sentimento del tempo, egli «sente un oscuro sì: / l’infelicità è ancora qui / e io sono ancora nella mia camera come sempre», la luna, come una grossa lacrima, pende nel giardino di nebbia, e tutto sembra dissolversi e perdersi.

Vi è sempre, in Walser, qualcosa che rimane, anche friabile e sottile, una strettezza meditabonda, una pronunciazione straziante che chiude l’ora: «Nevica, nevica, la terra è coperta / da un bianco peso così esteso, esteso. / Sfarfalla così dolente giù dal cielo / il brulichio dei fiocchi, la neve, la neve. / Ora c’è un senso di pace e di vastità, / il mondo coperto di neve mi sfianca. / Così prima piccolo, poi grande, il mio desiderio / si fa largo in lacrime dentro di me».

La sua neve conosce digiuno e rinuncia, malattia e dono che si porge come bellezza in disarmo, un grembo di terra interiore, dove tace il silenzio e le parole ormeggiano nelle sue cicatrici che tacciono. Nel suo cosmo di estesa vastità, la conoscenza primordiale si imprime come un sigillo di buio e di aria:

«Qui tutto è silenzio, qui mi sento bene, / i pascoli sono freschi e puri / e le chiazze d’ombra e di sole / vanno d’accordo come bambini giudiziosi. / Qui si libera la mia vita / fatta d’intensa nostalgia, / non so più cosa sia la nostalgia, / qui si libera il mio volere. / Una commozione silenziosa mi prende, / linee attraversano i sensi, / non so, tutto è intrico / e tutto è contraddetto. / Non odo più lamenti / e tuttavia ci sono nell’aria lamenti / lievi, candidi, come in sogno / e di nuovo non capisco più nulla. / So solo che qui tutto è silenzio, / niente più assilli e costrizioni, / qui mi sento bene e posso stare in pace / poiché nessun tempo mi misura il tempo».

Pietro Citati scrive:

«[…] Walser comprese di essere uno straniero, un escluso: Io sono ancora sempre davanti alla porta della vita, busso e busso, certo con scarsa irruenza, e tendo solo curiosamente l’orecchio per sentire se viene qualcuno che voglia aprirmi il chiavistello. Un chiavistello così è un po’pesante, e nessuno viene volentieri se ha la sensazione che quello che bussa di fuori è un mendicante. Non sono altro se non uno che ascolta e attende. Amava essere un ciottolo abbandonato sulle rive dell’ esistenza: a cui niente e nessuno apparteneva, nemmeno sé stesso. Aveva gli occhi vulnerabili, l’anima vulnerabile, il cuore vulnerabile; e persino i raggi luminosi della felicità, lo facevano soffrire, come se fossero troppo dolorosi per lui. Dove poteva abitare, se la vita lo teneva fuori dalla porta? Solo sulle strade interminabili, bagnate dalla pioggia e dalla neve, dove vagava da quando la rugiada era ancora lucida sull’erba sino alla discesa delle tenebre. Una valigia è tutta la casa che abito in questo mondo. Passeggiare era il ritmo interiore della sua mente: accresceva e placava la sua inquietudine, era la gioia, l’estasi; e solo i passi veloci potevano conoscere l’universo, che si nascondeva agli occhi troppo vulnerabili. Provava un doloroso bisogno di offrirsi, di donarsi agli altri, di appartenere a qualcuno, come un servo, o un cane, o una cosa: voleva appartenere loro anche dopo la loro scomparsa, affinché il dono potesse piangere la perdita del suo possessore. Sperava che la sua dedizione non fosse corrisposta, che il dono non venisse accolto, che il suo amore restasse infelice perché essere abbandonati non ha forse un suono morbido, carezzevole e benefico?».[5]

E ancora:

«Come osano soltanto gli stranieri e gli esclusi, esaltava l’eterna bellezza del mondo. Amava tutte le cose: il sorriso del cielo, l’estate, l’autunno, le foglie verdi e le foglie cadenti, la nebbia, i venti e il gelo dell’inverno, le città grigie, le città industriali, le città delle fabbriche e della cenere, l’innumerevole dolore del mondo, i bambini a cui la natura ha negato ogni grazia. Come Linceo, accettava l’esistenza, quale essa fosse. Non giudicava: non desiderava o inseguiva nessun principio o idea. […] Amava gli orologi, le banche, le feste domenicali, gli uffici di collocamento, l’orgoglio provinciale dei piccoli cantoni: sapeva che dietro questo mondo limpido, dove i lillà e le margherite sembravano appena usciti dalla lavanderia, si celava la vita più misteriosa».[6]

La sua lingua confusa, nella quiete dove l’anima trova la sua placata destinazione, la precisione e la potenza della parola come le stesse acqueforti del fratello, devono cercare la meraviglia. L’atteggiamento dinanzi al vivente è, per Walser, una “povera” lontananza, una dolcezza febbrile che risplende inumidita da ombre chiare e piani screziati, come una lunga canzone d’amore che si assopisce.

Alice Pisu afferma:

«La sua intera opera letteraria è permeata dall’indagine sul senso dell’esistenza dell’essere umano, e su quel mal di vivere che nelle prose è reso negli interrogativi sulla condizione del derelitto che vede distrutti i progetti, le speranze e i sogni. […] La percezione di non possedere nulla, come recita il titolo di un suo racconto, richiama non solo la relazione di Walser con l’esistenza, ma l’idea di vivere nell’attesa e nell’insignificanza non conoscendo più neanche lo struggimento, come sentirà Simon ne I fratelli Tanner, e racconta la misura del suo rapporto con la memoria, e in particolare con la sua perdita, che può assumere le sembianze della cenere».[7]

Una veglia o una vigilia segregata dove inerzia e frenesia si muovono insieme come alveo e prigione, struggimento e illuminazione. Già. Il visibile. Nel suo enigma sminuzzato, nell’erranza, nella povertà (come avviene nell’apparizione di Gesù in mezzo ai poveri, il cui passaggio segna la piena della sua indigenza, per dirla con Mario Luzi) in disparte, nel sonno del giorno soffocato, vi sono distanze che separano come grumi, una destinazione di abisso o una fuga indicibile sulla superficie innevata del mondo: «Com’è spettrale la mia vita / nell’affondare e nel risalire. / Sempre mi vedo far cenni a me stesso / e a me stesso sfuggire. / Mi scopro risata, tristezza / profonda, selvatico / intrecciatore di discorsi / e tutto ciò affonda nell’abisso. / In nessun tempo vi è stata giustizia / Sono destinato a vagare / in spazi dimenticati».

[1] Walser R., Poesie, con le illustrazioni di Karl Walser, traduzione di Antonio Rossi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2019.

[2] Rossi A., Postfazione, in Walser R., cit., p.122.

[3] Galaverni R., Il senso di Walser per la neve, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 12 gennaio 2020.

[4] Magris C., Nelle regioni inferiori: Robert Walser , in M. C., L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, Torino, Einaudi 1984, pp. 165-177.

[5] Citati P., Walser lo straniero, in “La Repubblica”, 18 settembre 1990.

[6] Id., cit.

[7] Pisu A., Contro la normalizzazione dell’insolito. Sulle orme di Robert Walser, (www.minimaetmoralia.it/wp/la-normalizzazione-dellinsolito-sulle-orme-robert-walser/), 7 marzo 2019.

Walser R., Poesie, con le illustrazioni di Karl Walser, traduzione di Antonio Rossi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2019, pp. 136, Euro 18 Chf 24.

 Walser R., Poesie, con le illustrazioni di Karl Walser, traduzione di Antonio Rossi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2019.

Citati P., Walser lo straniero, in “La Repubblica”, 18 settembre 1990.

Galaverni R., Il senso di Walser per la neve, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 12 gennaio 2020.

Magris C., Nelle regioni inferiori: Robert Walser , in M. C., L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, Torino, Einaudi 1984, pp. 165-177.

Pisu A., Contro la normalizzazione dell’insolito. Sulle orme di Robert Walser, (www.minimaetmoralia.it/wp/la-normalizzazione-dellinsolito-sulle-orme-robert-walser/), 7 marzo 2019.

Konstantinos Kavafis: l’intuizione cosciente

di Andrea Galgano 14 gennaio 2020

leggi in pdf KAVAFIS. L’INTUIZIONE COSCIENTE

La voce di Konstantinos Kavafis (1863-1933) è imprendibile. Non solo per la sua parsimoniosa porzione di sogno consegnataci, ma per l’ombra segreta  traslucida come un sussurro: l’essere ultimo dei figli di una famiglia aristocratica poi decaduta, l’impiego presso il ministero dell’Irrigazione ad Alessandria d’Egitto, l’omosessualità, il fascino per la letteratura anglofona, l’essere appartato e, infine il rinvenimento, come una sorta di emersione anonima della luce delle sue carte volanti. Come un giro di caffè o un recesso della storia, una linea sul vetro:

«Da quanto ho fatto e da quanto ho detto / non cerchino di capire chi ero. / Erano un ostacolo e modificavano / il mio modo di agire e di vivere. / Erano un ostacolo che spesso mi bloccava / quando stavo per parlare. / Dalle mie azioni meno evidenti / e dai miei scritti più segreti – / da questi soltanto riusciranno a capirmi. / Ma forse tanti sforzi e tante cure / per conoscermi non valgono la pena. / In futuro – in una società migliore – / qualcun altro fatto come me / certo ci sarà e agirà liberamente» (Segreti).

Nonostante la vasta conoscenza e la pregevole cura dei suoi testi in italiano e la lettura di poeti come Vittorio Sereni che ne rilevò la sua «religione carnale[1]» o dell’Alessandria assonnata e mai più pronta a risplendere del giovane Ungaretti che conobbe nei caffè di boulevard, anche oggi la sua poesia, grazie alla cura di Maria Paola Minucci (Tutte le poesie[2], Donzelli), è stata edita per intero, tenendo come riferimento l’edizione critica di Iorgos Savvidis,

Nell’intervento posto alla fine del volume la studiosa rileva come l’inizio della poesia di Kavafis risenta dell’influenza romantica, del simbolismo insistito, che si compone di una gestazione linguistica suturata di vernacolo e ortografia ricercata:

«Se Kavafis si muove, inizialmente almeno, in un’area simbolista e con sperimentazioni parnassiane, ben presto finirà con il superarle entrambe, personalizzando e «drammatizzando» certi loro moduli formali, scegliendo una strada inequivocabilmente sua e in molti casi precorritrice delle svolte e dei nuovi orientamenti della poesia. […] Kavafis parte da esercizi poetici vicini ai modi espressivi e alle prove romantiche della Scuola ateniese. Le liriche di questo periodo sono spesso caratterizzate dal ricorso a un insistito simbolismo che e tuttavia significativo perche mostra, soprattutto nel lessico, da dove egli muova i primi passi. L’attenzione alla forma e forse l’elemento più importante di questi testi. Ne troviamo conferma in una lettera in inglese all’amico Anastasiadis, dove pero si legge anche che la sua fiducia nella rima e in schemi metrici fissi e già accompagnata dal timore di essersi troppo assoggettato alle loro regole, con il rischio di falsare i contenuti della poesia, riducendone gli effetti «suggestivi». Risulta cioè chiaro come la sua adesione a canoni metrici parnassiani sia un’adesione critica e insieme come, nel sottolineare il valore «suggestivo» di certe sue poesie, egli si colleghi a una concezione poetica pre-simbolista e simbolista».[3]

Se di dialogo simbolista si tratta, acuito da una sorta di eccentricità ossimorica, esso si rapporta con la storia e l’antichità sepolta e segreta («Molte le poesie scritte / nel mio cuore; e quei canti sepolti sono a me molto cari»), con l’impossibilità e l’urgenza di rilettura, attraverso l’audeniano tone of voice, che come scrisse Montale «consiste nell’essersi accorto che l’Elleno di allora corrispondeva all’homo europaeus di oggi; e nell’essere riuscito ad immergersi in quel mondo come fosse il nostro[4]».

La sua peculiare voce, dunque, si smarca da ogni definibilità ma diventa paradigma sospeso tra gloria e declino («Del futuro i saggi intuiscono / ciò che si avvicina. Il loro udito, / a volte, in ore di intenso studio, / e scosso. Li raggiunge il segreto clamore / dei fatti che si avvicinano. / E lo ascoltano con devozione. Fuori, invece, per strada, il popolo non sente nulla»), primordialità e istinto empirico («Mi hanno chiuso fuori dal mondo e non me ne sono accorto»:

«che passa attraverso i tempi e le civiltà, i luoghi, le lingue, le culture, senza spostarsi di un millimetro. […] Il cuore segreto o nascosto di queste poesie è qualcosa che può essere soltanto alluso, non una verità personale volontariamente occultata. Sarà allora per una di quelle contraddizioni o di quei rovesciamenti che danno adito alla poesia, che questo poeta dalla segretezza più intima si sia votato, tanto più nella maturità, nel raccontare di epoche lontane (la classicità greca, l’ellenismo, l’età bizantina), di personaggi perduti nel tempo, di storie e miti che appaiono però denudati di qualsiasi garanzia neoclassica o umanistica. Un poeta dell’altro e degli altri, insomma, anzitutto in virtù di una formidabile capacità di immedesimazione».[5]

L’elezione camaleontica della realtà, il bruciamento dello spostamento come un rievocante richiamo di ellissi («Non troverai altri luoghi, non troverai altri mari. / La città ti seguirà. Andrai vagando per le stesse / strade. Negli stessi quartieri invecchierai, / e ti farai bianco tra queste stesse case. / Arriverai sempre a questa città. Per altri luoghi – non sperare – / non c’e nave ne strada per te. / La vita che hai sciupato / in questo buco angusto, in tutta la terra l’hai sprecata»), come incerta e dura insaziabilità, guarda all’antico e sente l’ineffabile sottrazione inchiodata:

«In preda a timori e sospetti, / con la mente turbata e la paura negli occhi, / ci agitiamo pensando a come fare / per evitare il pericolo ormai certo / che terribile incombe minaccioso. / Ma ci sbagliamo, non e questo quel che ci aspetta: / erano false le notizie  (male intese o male interpretate). / Un’altra sciagura, insospettata, / improvvisa, violenta ci cade addosso, / ci coglie impreparati – non c’e più tempo – ci travolge».

La poesia di Kavafis racchiude una stasi non inerte («A un giorno monotono segue / un altro giorno monotono, identico. / Le stesse cose accadranno ancora – / momenti uguali che vengono e vanno via. / Un mese passa e un altro arriva. / Ciò che viene e facile da immaginare / sono le stesse cose noiose di ieri. / E alla fine il domani non sembra più un domani»), sembra collocarsi sì nella solitudine insidiata ma attraversandola e porgendola, ripiegandosi in un saluto estremo, in un rito di coraggio esiliato che riporta l’anima al commiato, la Storia al fatto contenuto in un segmento di oblio: «Lo tormenta una pena indefinibile, / pena per la sua grande debolezza. / Sono vuoti i suoi strumenti, lo sente, / eppure l’anima e piena di musica. / Cerca invano di esprimere i suoi accordi / segreti, con fatica e ostinazione; / le sue armonie più perfette restano / dentro di lui, mute e soffocate. / La folla e entusiasta e ammira / quanto lui critica e disprezza». (Timòlaos di Siracusa, 1894). L’estraneità non è un rifugio è un’opzione da combattere.

In Itaca, Kavafis compie il suo itinerarium cordis all’interno della propria stanza immaginale che si porge all’esterno, afferma Paola Maria Minucci, «l’innesto del presente sul passato mitologico e evidente e chiaramente dichiarato con la scelta del titolo. Il mito di Itaca ha coinciso tradizionalmente con la nostalgia della patria, il viaggio e il viaggio di ritorno alle proprie origini, alla propria casa, ma qui l’Itaca di Kavafis e quasi il contrario, Itaca non e tanto la meta da raggiungere quanto piuttosto il viaggio in se[6]».

In Troiani, il dispiegamento dualistico trova poi assorbimento. È il minimo punto del presente si inserisce nella dimensione memoriale e questa poggia di nuovo sul punto precedente. Passato e presente divengono il capolinea di una sorte che accade, cercando di preservare la nostra dignità lucente, nonostante il passaggio gioioso e duro del tempo, la spoliazione e l’allontanamento, la ristrettezza sottile della vita e il suo evento precario e grandioso: «Ma la nostra sconfitta e certa. Lassù, / sulle mura, già è cominciato il lamento, / il compianto di affetti e memorie d’un tempo. / Priamo ed Ecuba piangono amaramente per noi».

Il fatto, l’evento, l’incontro, il magma di iscrizioni, bassorilievi, punti sperduti e ignoti rivelano fragilità sottili come polveri, il dramma singolo (Aristobulo, ad esempio, e poi Cesarione, i pensieri di Nerone dopo l’oracolo delfico, l’epitafio di Lanis, custodito nella duratura immagine domestica e l’impeto della vita di Iassìs) che accomuna una sodale angustia incerta, descrivono una possibilità di durata nella contingenza, l’epoca che si rivela perché passata e non del tutto trapassata, perché vicina, prossima al canto, alla voce, alla genesi di un rito e di un desiderio antico. Come in Oroferne, la cui chiusa assomiglia a una solenne terminazione di intenti: «La sua fine fu scritta / chissà dove e si e persa; / oppure la storia l’ha tralasciata, / e a ragione: particolare insignificante, / non degno di menzione. / Il volto che e qui sul tetradrammo / e vi lascio un segno della bella giovinezza, / una luce della sua grazia poetica, / una memoria sensuale del ragazzo di Ionia, / e il volto di Oroferne, figlio di Ariarate».

Questo orizzonte sottile non traluce soltanto perché riporta ciò che è sommerso, non splende solo per il particolare di quel giorno, non si fa solo mito di un’epoca gloriosa («sono i personaggi o minori o colti, con sofferta ironia, nel momento in cui la fortuna sembra stia ormai per abbandonarli, vittime inerti di fronte all’incertezza e alla fragilità del loro destino[7]»), ma tenta di custodire le ore meridiane di ogni metamorfosi immaginifica, dove la caduta, la morte, il frammento frangibile, la sconfitta rappresentano il margine dello splendore, il ricordo di qualcosa che è stato vissuto nella pienezza e ne rimane come un rimpianto vicino, un suono agrodolce e una felicità superstite.

Il tempo della composizione è obbedienza, descrizione esatta, condensazione di tempo e luogo, atto e metodo, per trovare una correlazione oggettiva che dia forma e riposo, respiro e trasposizione, come se l’avvenimento fosse presente, possa fremere, slacciare le nostalgie e gli stupori.

Rivisitare per capire, mentalizzare gli aspetti del reale per farsi mancanza, scontrarsi con le deturpazioni del presente e diventare il proprio occhio di genesi: « La camera era povera e volgare, / nascosta sopra l’equivoca taverna. / Dalla finestra si vedeva il vicolo, / sporco e stretto. Da sotto / arrivavano voci di operai / che giocavano a carte divertendosi. / E là su quel misero e squallido letto / ebbi il corpo d’amore, ebbi le labbra / sensuali e rosate dell’ebbrezza – / rosate di una tale ebbrezza che anche ora / mentre scrivo, dopo tanti anni! / solo, in questa casa vuota, torna a inebriarmi».

Percepire il vuoto, pur sapendo che è intessuto di presenze, angoli, scorci, vita che si redime e si porge, tocca il ricordo di labbra e pelle, lontananze di zaffiro, piaceri consunti e sommità stregate: «L’immagine del mio corpo giovane, / dalle nove, quando ho acceso la lampada,/ è tornata risvegliando la memoria / di camere chiuse e profumate / e di passati piaceri – che piaceri audaci! / E mi ha portato davanti agli occhi / strade divenute sconosciute, / locali pieni di movimento ora chiusi, / e teatri e caffè di una volta. / L’immagine del mio corpo giovane / è tornata riportando memorie di dolore: / lutti di famiglia, separazioni,/ sentimenti dei miei, sentimenti dei morti, / sentimenti tenuti in cosi poco conto».

L’immagine passata dirottata nel presente diventa scultura imperitura, come il mare al mattino che destina l’illusione e l’ombra del ricordo in un divenire senza fine:

«Eseguo con cura il mio lavoro e lo amo. / Ma oggi mi scoraggia la lentezza del comporre. / E colpa del tempo. Si fa sempre / più cupo. C’è vento e pioggia. / Desidero più vedere che parlare. / Ora guardo questo dipinto, / un bel giovane che si e disteso / accanto alla fontana, sfinito dalla corsa. / Che bel ragazzo; il meriggio divino / l’ha rapito per farlo addormentare. – / Continuo a guardarlo così, a lungo. / E di nuovo nell’arte, dalla fatica dell’arte trovo riposo».

Non è ciò che si annichilisce che gli interessa, bensì il suo lascito, l’orma tracciata che si apre all’apollinea danza della memoria e dello specchio. Non è un volto vedovo, è un volto votato alla mancanza piena, come scrive Josif Brodskij:

«Combinando sensualità e storia, o piuttosto istituendo un’equazione tra di esse, Kavafis racconta ai suoi lettori (e a se stesso) la parabola classica di Eros, signore del mondo. Sulle labbra di Kavafis il racconto suona convincente, tanto più convincente perché nelle sue poesie storiche domina assillante il declino del mondo ellenico, una situazione che lui, come individuo, rispecchia in miniatura o riflette in tanti specchi».[8]

Nella Poetica il poeta greco scrive:

«[…] lasciate che si consideri la vanità delle cose umane, che e un modo più chiaro per esprimere ciò che io ho chiamato «la mancanza di valore di qualsiasi tentativo e dell’inerente contraddizione di ogni manifestazione umana». […] La maggior parte degli uomini deve agire, e per quanto produca cose vane, l’impulso ad agire e la relativa obbedienza a esso non sono cose vane, perche questo e coerente con la natura, con la loro natura. Le loro azioni producono opere che possono essere distinte in due categorie, opere di immediata utilità e opere della bellezza. Il poeta realizza quest’ultime. Dato che la natura umana aspira al bello espresso sotto forme diverse – amore, ordine nel proprio ambiente, paesaggio – serve un suo bisogno. Un’opera fatta invano e la brevità della vita umana possono dichiarare tutto questo inutile; ma poichè non conosciamo la connessione tra la vita posteriore e la vita presente, forse anche questo può essere contestato. L’errore comunque si trova principalmente in questa individuazione. L’opera non è vana, se tralasciamo l’individuo e consideriamo l’uomo. Qui non c’è morte o almeno morte sicura: le conseguenze sono forse immense; qui non c’è brevità di vita, ma un’immensa durata. Cosi l’assoluta vanità scompare, al massimo può rimanere all’individuo solo una vanità relativa, ma quando l’individuo si separa dalla propria opera e considera soltanto il piacere o il beneficio che questa gli ha procurato per qualche anno e poi la grande importanza per secoli e secoli, anche questa vanità relativa scompare o diminuisce di gran lunga».[9]

L’Eros di Kavafis è attesa di ombre. Sembra che le richiami con la sua sottile armonia di inchiostro. L’intimità, il piacere, il silenzio pagano dei segreti, l’incontro del fulgore con la sua oscurità, il disegno dell’amato fino allo spasimo divengono un sospiro lungo quanto la durata della notte: «E con il loro suono per un attimo affiorano / suoni dalla prima poesia della vita – / come musica, lontana, che si perde, nella notte». Oppure: «Ho guardato tanto a lungo la bellezza / che la mia vista ne e piena. / Linee del corpo. Labbra rosse. Membra sensuali. / Capelli come presi da statue greche; / sempre belli, anche se spettinati, / e ricadono, un po’, sulla fronte bianca. / Volti d’amore, come li voleva / la mia poesia …. nelle notti della mia giovinezza, / incontrati, di nascosto, nelle mie notti……».

Mistica di carne e desiderio, furtivo e illecito come perdita giovane. Dettagli, sguardi, colori, vita che fugge e incide piacere infinito e inciso e poi scrivere per vivere ancora e ancora: «Il simpatico viso, un po’ pallido; / i suoi occhi castani, come cerchiati; / venticinque anni, ma ne dimostra venti; / un che di artistico nel vestire / – il colore della cravatta, la forma del colletto – / cammina senza meta nella via, / ancora stordito dall’illecito piacere, / da quel piacere illecito goduto».

In Aspettando i barbari, poi, la delocalizzazione storica incide la linfa vitale di un eterno contemporaneo che destina il sangue a una memoria intarsiata e ambigua: l’imperatore, il Senato, i consoli, i pretori in toga rossa, i barbari sono passaggi di tempo nel tempo, come corollari alternati di silenzio e parola, domande e scene, accordo-disaccordo, in una strana gettatezza umana che capitola prima che il nemico si presenti[10]:

«Il ricorso alla narrazione, storica o meno, la forma dialogica, la tendenza a scarnificare lingua e contenuto sono tutti segni di un allontanamento, di un distacco dalla sfera emotiva personale e ideale verso la realtà concreta, umana, dell’altro da se in cui ritrovarsi e conoscersi. La storia, il racconto gli permettono di interiorizzare l’emozione altrui, e insieme di esternare la propria. Il rispecchiarsi nell’altro e un passaggio obbligato per l’autoconsapevolezza, una presa di coscienza di sè attraverso l’incontro con l’altro. In senso più lato, quasi socio-politico direi, e riconducibile a uno stesso processo, Kavafis ci parla del presente, e talvolta anche del futuro, parlandoci del passato».[11]

 Quei passaggi sono vita ebbra che si richiama, si concede, guarda la densità dell’attimo sublime della Poesia, come qualcosa che passa: la città, i ragazzi, la sera. Qualcosa di restituito, custodito in uno stretto andito di sé, vissuto nel particolare per farsi maestà transitoria e memoria stordita e fantasmatica, per cercare una finestra sul mondo e dove, infine, il corpo si mostra, isolandosi, divenendo, in sostanza, un corpo-ricordo: «In queste stanze buie, dove passo / giorni cupi, vado avanti e indietro / in cerca di finestre. – Se una finestra / si apre sarà un conforto. – / Ma le finestre non si trovano, o non so / trovarle. E forse e meglio non trovarle. / Forse la luce porterà nuovi tormenti. / Chissà quali nuove cose mostrerà».

[1] Cfr. Sereni V. (a cura di), Giorgos Seferis, Kavafis e Eliot: paralleli, in Poesia, prosa, traduzioni, note e bio-bibliografia di Filippo Maria Pontani, Torino, Utet, 1971, pp. 547-584.

[2] Kavafis C., Tutte le poesie, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli, Roma 2019.

[3] Minucci P. M., I canti sepolti e le pagine bianche della storia, in Kavafis C., cit., pp. 690-691.

[4] Montale E., cit., in Montani F., Introduzione a Kavafis, Poesie, Mondadori, Milano 1961, p. 6.

 

[5] Galaverni R., Mito Kavafis la voce più nascosta, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 29  dicembre 2019.

[6] Minucci P. M., cit., p. 703.

[7] Id., cit., p.705.

[8] Cfr. Brodskij J., Il canto del pendolo, Adelphi, Milano 1987, citato in Brullo D., «Tutte le poesie» di Kavafis sono un inno all’antichità, in “Il Giornale”, 27 dicembre 2019.

[9] Kavafis C., Τα πεζά (1882;-1931) [Le prose (1882?-1931)], a cura di M. Pieris, Ikaros, Atene 2003, 2010, p. 257.

[10] Simić C., Some Sort of a Solution: Charles Simic reviews ‘The Collected Poems’ by C.P. Cavafy, translated by Evangelos Sachperoglou and ‘The Canon’ by C.P. Cavafy, translated by Stratis Haviaras, in London Review of Books, vol. 30, nº 6, 20 marzo 2008, pp. 32-34.

[11] Minucci P. M., cit., p. 697.

Kavafis C., Tutte le poesie, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli, Roma 2019, pp. 720, Euro 35.

 Kavafis C., Tutte le poesie, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli, Roma 2019.

  • Poesie, traduzione di Filippo Maria Pontani, Mondadori, Milano 1961.
  • Τα πεζά (1882;-1931) [Le prose (1882?-1931)], a cura di M. Pieris, Ikaros, Atene 2003, 2010.

Brodskij J., Il canto del pendolo, Adelphi, Milano 1987.

Brullo D., «Tutte le poesie» di Kavafis sono un inno all’antichità, in “Il Giornale”, 27 dicembre 2019.

Marcoaldi F., L’inattualità sempre attuale di Kavafis, “La Repubblica – Robinson”, 28 dicembre 2019..

Galaverni R., Mito Kavafis la voce più nascosta, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 29  dicembre 2019.

Sereni V. (a cura di), Giorgos Seferis, Kavafis e Eliot: paralleli, in Poesia, prosa, traduzioni, note e bio-bibliografia di Filippo Maria Pontani, Torino, Utet, 1971, pp. 547-584.

Simić C., Some Sort of a Solution: Charles Simic reviews ‘The Collected Poems’ by C.P. Cavafy, translated by Evangelos Sachperoglou and ‘The Canon’ by C.P. Cavafy, translated by Stratis Haviaras, in London Review of Books, vol. 30, nº 6, 20 marzo 2008, pp. 32-34.

 

Giuseppe Conte: il corpo del mare

di Andrea Galgano 8 dicembre 2019

leggi in pdf GIUSEPPE CONTE.IL CORPO DEL MARE 

In Non finirò di scrivere sul mare[1], edito da Mondadori, Giuseppe Conte (1945), pone una linea marcata e netta sulla sua appartenenza, che può essere generativa di scrittura, ma anche segnare, in modo indelebile, una incantata adesione a ciò che apre una fuga di immenso, una necessità di varco che descriva ma, allo stesso tempo, nutra l’amore, la gioia, la natura di contraddizione («Non finirò di scrivere sul mare, / Non finirò di cantare / quello che c’è in lui di estatico / quello che c’è in lui di abissale / la sua vastità disumana / senza pesantezza, senza un vero confine / la sua aridità senza sete, senza spine / le sue forme in perenne mutamento / sottomesse alle nuvole, al vento / e al cammino in cielo della luna») e, come afferma Roberto Galaverni, «più di tutto, l’inarrivabile libertà» che «rappresentano i punti cardinali della sua rosa dei venti. E se la poesia è stata il mezzo di questo viaggio (scoprendo forse di esserne a sua volta il fine), il mare ne è stato l’immagine prima e ultima. Perché è originaria, e perché comprende tutto, proprio come la vita[2]».

Nel 1924, lo psicoanalista ungherese Sándor Ferenczi scrive:

«Alcuni aspetti del simbolismo dei sogni e delle nevrosi suggeriscono l’esistenza di una profonda analogia simbolica tra il corpo materno e l’oceano da una parte, la terra-madre “nutrice” dall’altra. È possibile che questo simbolismo esprima innanzitutto il fatto che l’uomo, in quanto individuo, prima della nascita risulta essere un endoparassita acquatico e, dopo la nascita, per un certo periodo, un ectoparassita aereo della madre, ma anche che, nell’evoluzione della specie, la terra e l’oceano avevano in realtà il ruolo di precursori della maternità e costituivano essi stessi un’organizzazione protettrice, avvolgendo e nutrendo i nostri antenati animali. In questo senso, il simbolismo marino della madre ha un carattere più arcaico, primitivo, mentre il simbolismo della terra risale a un periodo più tardo, nel quale il pesce, gettato sulla terraferma dal prosciugamento degli oceani, doveva accontentarsi dell’acqua che filtrava dalle profondità della terra (e che costituiva nello stesso tempo la base del suo nutrimento); in queste condizioni ambientali favorevoli il pesce ha potuto sopravvivere, per così dire da parassita, per tutto il tempo necessario a realizzare la propria metamorfosi in animale anfibio».[3]

L’iniziazione, la vocazione, la gemmazione del mare, come se fosse un lungo tratto di bellezza e di nascita, di finitudine aperta al cielo e all’infinito, come se delimitasse, in ossimori, la terra, rappresenta il vertice puro di questa voce che è tesa e netta, che guarda al Tu del mare come presenza, storia, universo cosmo, persino vicino alla lacerazione franta:

«Perché il mare è le balene, i cui corpi / vasti e grondanti, innocenti, / scaldano i desideri più smisurati / e danzano nel più lento / arduo accoppiamento / che si conosca sul pianeta. / Perché le onde, istantanee e frananti / che scalpitano e scavano dall’orizzonte / sino alla riva è la spuma che riga / l’aria di salino / è sentirsi vicino / all’inizio di ogni lacerazione / al primo scoccare del tempo / alla prima decisione di una cellula, / – o sogno che sia stato, dirompente e fatale – di diventare mortale».

Tutti inscritti in questa fedeltà d’amore e di sogno, di navigazione ed energia psichica. La poesia di Conte ricorre al mito come forza e abbandono, in cui la scena nuda delle acque diventa materia musaica vivente e relitta, richiamando la nascosta permanenza del divino, la sacrale potenza del limite che è il ritmo per abbracciare l’infinito, che si trasmette nel tempo, che diventa Tempo e che, infine, diviene chiarore naufrago, ultimità, salvezza fuggiasca e ascolto oscuro di sirene.

Perfino il ricordo è mare: «scriverò ancora su di una mattina / come quella che sul parabrezza / della mia auto, fuori da un parcheggio / dell’aeroporto di Nizza, / mi sei venuto immenso in corsa incontro / solcato da soffi di vento / simile a un mantello della Vergine / dipinto da Beato Angelico e gettato / su rami di meli e ciliegi fioriti». O ancora, in altre inattese disposizioni memoriali nascenti. Il mare di Conte è redenzione d’amore, rinascita e nuova resurrezione:

«E scriverò di quella notte / quando tu, oleoso e nero, traccheggiante / tra gru e silos, pontoni e rimorchiatori/ tu mare del porto, dei lavoratori / chiuso tra muraglie di container / sezionato dai moli / hai intonato da non so che punto / di te / una musica del tutto inattesa / che evoca rovine, ranuncoli e voli / crolli immani e sciami di api / rugiada ritrovata in fondo al baratro / del nulla / quella notte sul Golfo della Spezia».

Questa scrittura raggiunge gli innumerevoli dettagli su cui si posa, ogni profanazione o schiavitù ad esso perpetrata, ogni sperdimento crudo e bellissimo che pone, ogni verità che, splendidamente, diventa genia spalancata di abissi, da cui non si fugge, da cui ogni viaggio reca fedeltà e infedeltà, genera lontananze astrali e fame di infinito («Mare la tua misura è l’infinito / e l’abisso, l’alto e il basso / l’irrompere e il ritrarsi / il passare dalla bonaccia ai cavalloni / l’essere silenzioso come un esercito / di lucertole, rimbombante / come migliaia di tuoni»):

«Non ci si può mai troppo allontanare / da te, padre, madre, mare. / Possiamo credere di farlo, noi umani sventati, / possiamo dimenticarti / forse provare / rancore verso di te e per un momento / desiderio di ucciderti, / di spegnere il tuo movimento, / i tuoi gorghi aridi, salati. / Ma pianure e colline dai declivi alberati, / steppe desolate, vette di montagne / altissime non ti possono negare / e nascondere. / Arrivano dovunque le tue onde».

Poi diventa ritorno, attesa, «aria simile a un sibilo» che «spezza la terrena staticità delle cose»: i pioppi tremuli del vento sciamano, il deserto, la tempesta di neve come un’orda di cigni che giunge e protegge, il furore della guerra e l’anarchia delle rive.

Essere grembo e poi vita che si annuncia, si dà, si porge, e poi spazio siderale, nascita prima della nascita, desiderata prima di essere partorita e ricerca, come sul golfo del Bengala.

La confusione e la perdita, la spiaggia e lo scoglio, ciò che dà e toglie, pone limite ma pur essendo limite si fa infinito, come le maree, il dolore, le conchiglie di musica insaziata e feroce. E poi Dio, come e dove toccarlo, rintracciarlo, sentirlo incarnato e vicino. Perché c’era la sera o il cielo?, le luci alle finestre:

«Sono stato per troppo tempo figlio / di una gioia senza nome / fatta sempre di meraviglia e amore / di alberi azzurri e di aurore. / E ho sofferto tanto per l’incolore / ansia che strangola e non sai perché / per i vortici di stravolte domande / su Dio, come posso toccarlo, dov’è? / Ero un bambino voluto, curato, amato / nella casa di via Carducci 3 / quando avevo paura di te, mare / e vedevo la sera che veniva / mentre tornavo dal campo di gioco / e si accendevano le luci alle finestre / e le stelle sui tetti a poco a poco: / perché c’era la sera? c’era il cielo? / E tutto si nascondeva dentro il velo / di un senso che non capivo. / Per questo ancora adesso sono qui e scrivo. / Ma ora, mare, io mi fido / di te. Sono solo di fronte a te».

Il sogno di una trama vivente che ha spirito nel tempo. Anche il verso si muove nudo, rendendo spiragli di invisibile, purezza e spasimo di antico, amico immenso di luna che è specchio, meta, mattina amica e sacra eudaimonia di un colore verde o porpora che risorge, come dice il vento o che salva una medusa prima che si corrompa o si disfi in un grumo.

La poesia di Conte è amare, chiedere risposta all’amore inviolabile, «di amare senza sapere / perché né chi, ma sempre / amare, anche adesso».

Ma il mare è anche madre. Il mare-madre che nutre, dove ha imparato a nuotare e crescere, a cui chiedere di non andare, in cui riportare quella gioia primitiva, archetipica, ancestrale di essere figlio, nonostante il fulgore lontano, gli inferi delle perdite, il prezzo alto delle scelte.

E poi l’autunno che sembra decadere ma è solo una seconda fioritura in una nicchia felice, la crosta del mare della Liguria, i bar come sponde in attesa: la discesa come offerta, «perché è tuo, è l’abito / da cerimonia per le tue nozze col cielo, / eterne, senza stagioni. / Decolorato, freddo, inospitale / sotto il vento che incespica e che ruota».

È l’inizio di una preghiera perenne, come un risveglio di ciò che sorge, abbraccia l’adito dimentico da rimembrare, le radici buie, e poi gli annegati senza nome, i rifiutati, gli esiliati, le comete, il soffio di un respiro in nome del mare, della luce e del vento e così sia.

 

[1] Conte G., Non finirò di scrivere sul mare, Mondadori, Milano 2019.

[2] Galaverni R., Monologo a due tra il poeta e il mare, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 3 novembre 2019.

[3] Ferenczi S., Thalassa. Saggio sulla teoria della genitalità, in  Opere. Volume Terzo 1919-2016, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 266.

Conte G., Non finirò di scrivere sul mare, Mondadori, Milano 2019, pp. 152, Euro 18.

 

Conte G., Non finirò di scrivere sul mare, Mondadori, Milano 2019.

Ferenczi S., Opere. Volume Terzo 1919-2016, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009.

Galaverni R., Monologo a due tra il poeta e il mare, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 3 novembre 2019.

Giuseppe Conte. Il corpo del mare che genera onde di raffinati versi, Cronache Lucane, 21 dicembre 2019

La ruvida fiamma di Leonard Cohen

di Andrea Galgano 22 novembre 2019

leggi in pdf LA RUVIDA FIAMMA DI LEONARD COHEN

«L’ultima prova di mio padre come poeta. Vorrei che l’avesse visto una volta finito: non perché nelle sue mani sarebbe stato un libro migliore, più compiuto, più generoso e definito, o perché avrebbe rispecchiato più da vicino lui e la forma che aveva in mente di donare ai suoi lettori, ma perché viveva per questo, era la sua unica ragione di vita degli ultimi tempi[1]».

Leggere gli ultimi scritti di Leonard Cohen, La fiamma. Poesie e pagine scelte dai quaderni[2], edito da Bompiani, a cura di Robert Faggen e Alexandra Pleshoyano e la  traduzione di Luca Manini, consente di lambire un tempo-emblema, racchiuso nella meditazione e nella concentrazione, oltre il dolore, la frattura fisica, l’essere poeta.

Essere poeta è vivificare la fiamma del mondo, una vocazione e una missione che, attraverso l’inchiostro, propongono il destino come ultima dedizione, la bellezza come nota di una caccia da inseguitore, persino nella sottile scintilla di grafia e lamina che, dolcemente e acutamente, braccano la propria nudità dinnanzi al mondo.

Scrivere è essere, è fuoco avvinghiato alla materia vivente, anche nel buio che pur lottando per spezzare la finitudine, lascia un’orma non estinta.

Il cuore è la nuda terra dove accade ogni tensione e ogni scheggia di cicatrice, l’arte di amare anche la scintilla morente, ciò che accade e ciò che deve venire: «Ho studiato con questo mendicante / Era lercio aveva cicatrici / Fatte dagli artigli di molte donne / Che non era riuscito a ignorare / Nessuna favola qui nessuna morale / Nessuna allodola che canta / Solo un lercio mendicante che benedice / Ciò accade al cuore».

In Cohen, esiste un dettaglio sporco e benedetto che dischiude la luce, si trova nel minuto dell’istante dove avviene il miracolo, l’attesa, l’amore e il disamore. E poi la quotidianità che diventa universo tremulo, solitudine rivelata, contatto con la materia che vive e sente il suo abito:

«E se intendevo toccare / La tua bellezza con la mano / Ecco venire foruncoli e sangue / Il che io capirei / Hai fatto a pezzi le tue ginocchia / La solitudine rivelata / Ciò trasse questo cuore non nato/ Da catene che non volevano cedere / Ma indebolita dalla ginnastica / Tu mi cadesti contro l’anima / L’anima colpita chela mente nega / Sinchè non la ripari».

Dove tutto avviene, egli lascia biglietti che danzano, spostamenti di realtà, brindisi di penombre, donne amate che diventano danze eterne e immortali. Ecco la sua fiamma. Ciò che non è misurabile, ciò che pur con tutte le spezzate e velenose carature vitali o i ritardi, non si ferma.

È la sua marea mendicante, il freddo dell’anima stretto in un bacio: «Salpai una notte / Alla bassa marea / C’erano segni nel cielo / Ma io non sapevo / che sarei stato afferrato dalla stretta / della risacca / E sbattuto su una spiaggia / Dove il mare odia andare / Con un bambino in braccio / E freddo nell’anima / E col cuore a forma / della tazza di un mendicante».

La rara occasione di un evento impersonale, i finestrini schermati, la stellata oscurità, il profumo del fieno recano un fiore di presenza e di viaggio che entra nel vivente, appartiene alla gloria luminosa che fronteggia le ultime spiagge, il letto da rifare, la chiamata del buio alle spalle dell’angelo.

È il suo patto ultimo, la sua bandiera con la quale ricominciare, la scala segreta che porta salvezza, il segnale luminoso del cielo e «dalla parete un vento che ci sfiora / leggero e sereno / Mi ferisce mentre divido le Sue labbra / e intanto Ci ferisce».

Non resta che rimanere legati, arresi all’Amore, «Noi ci apriamo affoghiamo come fanno i gigli… in eterno, in eterno»: «Anche se l’abbiamo dichiarato fino / E non è rimasto nulla / Ancora non sento le mie labbra / Fare queste promesse / Sebbene abbiamo sperperato la verità / E ne sia rimasta ben poca / Possiamo ancora spazzare la stanza / Possiamo ancora rifare il letto / Quando falso è il mondo / Non sarò io a dire che è vero / Quando il buio chiama / Io verrò con te».

«Il luogo segreto che Amore ha lasciato / prima che nascesse il mondo» è la destinazione di quella fiamma inesauribile insondabile, della sua cromatura che guarda gli oggetti, che chiede a D-o (con il trattino di rispetto per la divinità e la riluttanza ebraica a nominarne il nome) il nome del suo nome, e dove al Sicily Cafè, il 15 gennaio 2007, sente l’abbraccio più grande e forte dinanzi allo smarrimento:

«E adesso che m’inginocchio / sull’orlo dei miei anni / Lascia che io cada attraverso lo specchio dell’amore / E  cose che so / Lascia che si spostino come la neve / Lascia ch’io dimori nella luce che è nell’alto / Nella luce radiosa / Dove è giorno e dove è notte / E la verità è l’abbraccio più ampio / Che racchiude ciò ch’è smarrito / Racchiude ciò ch’è trovato / Ciò che scrivi e ciò che cancelli / E quando si spalancherà il mio cuore / Quando nascerà il mio amore / Nello schema dell’indicibile sofferenza / Dove persino il progetto è strappato».

I taccuini di Cohen sono confini labili, incanti di scrittura sbavata, parola dopo parola, un fruscío di saluto nell’aria, qualcosa che voli per sporgere il cuore come frantumo increspato, fermarsi al traffico dello sguardo e farsi solenne promessa: «Poi mi ricordo / delle dimensioni in attraversabili dell’amore / e mi preparo / alle conseguenze del ricordo / e del desiderio / ma il ricordo con la lista degli anni / si volge con grazia di lato / e il desiderio s’inginocchia / come un vitello / nella paglia dello stupore».

Anche la morte, in Cohen acquista un introvabile sponda di grido, come fuggita voce dal fango della speranza. Il linguaggio del Regno di Morente non è la fine o il fine, sembra un battito ballerino, è il luogo del respiro lontano, l’aria non nata ancora, una parete spoglia che si stende come memoria ebbra di carta bianca e perdono di bellezza. Come avviene nell’Omaggio a Rosengarten, che lucida gli anni di sonori crepuscoli.

Sono sconfinamenti oltre la vita stordita e naufragata, la melodia che ferma i punti della vita, il ritrovo materno di acque violate e riprende la vita, la Grazia che arriva, come una pienezza sottile, una quotidianità che si compie, un chiarore di inizio, la soglia irrilevante di un bisogno che diventa sponda e poi ancora silenzio, desiderio libero di una relazione infinita e osmotica, fratturata e mescolata, con l’Amore.

L’amore diluito in una oggettualità vocazionale nel luogo in cui comincia, ascolta, soffre e patisce il suo dono commosso. Per Cohen, i particolari della realtà sono costellazioni di salvezza e lievi brividi nell’aria:

«L’enorme jacaranda malva / in fondo alla strada a South Tremaine / in piena fioritura / alto due piani / Mi ha reso così felice / E poi / le prime ciliegie della stagione / al mercato di frutta di Palisades / domenica mattina / “Che dono del cielo!” / esclamai rivolto ad Anjani. / E poi i campioni in carta cerata / della torta di panna e banane / e della torta di panna e di cocco […] / Un lieve brivido nell’aria / sembrava lucidare la luce del sole / e conferire lo status di bellezza / a ogni cosa che guardavo / Volti petti frutti sottaceti uova verdi / neonati / in costose e agili imbracature / Sono così grato / al nuovo antidepressivo».

E dopo, gli autoritratti, i disegni come ascolti di tempo al margine che costellano e domandano identità, fino alla fine, come il colibrì, gli specchi dell’ascensore, la colpa di un desiderio di appagamento, il ballo infinito di un accordo di strada e coraggio.

È una bellezza inestinta che rimane anche dopo gli straccali del dolore e della morte, delle finestre chiuse di case cieche e del grido delle illusioni inevitabili. Resta la chitarra lacerata che respira, quasi alzandosi in piedi, diventando lingua, occhio, cammino, fuga da cancelli segreti e solitudine attraversata: «Travestito da qualcuno che visse in pace / Ho raggiunto il confine / sebbene ogni atomo del mio cuore / Ardesse di desiderio».

Oppure: «sonno che non dona riposo / carezza che non dà pace / eccitazione senza sfondo / risalita da nessuna profondità / le secche dell’eccitazione perché non eri te / e una mano sulla bocca / per farmi tacere / un’abile fatica / per abbattermi / un nodo in gola / un colpo al cervello / una dolce distrazione / per placare l’appetito / un bel po’ di zucchero / per placare l’appetito / E poi dimenticandoti / per 40 anni / costruendo case / per donne / che tu mandavi / per farmi ricordare».

I testi della seconda parte si aprono con Allarme blu (Blue Alert, titolo di un elegante album di Anjani): profumo che brucia nell’aria e frammenti di bellezza. Come un lungo reliquiario aggrovigliato alla nudità del blu, un nodo al cuore di schegge in volo.

La porta più interna è un addio che si chiama ricordo e si avvicina all’inizio di una casa. E poi le nebbie di San Francisco come un oblio di lettere e note gravi e solitarie che lasciano l’impeto di una gloria in arrivo, in una metà del mondo perfetto, intricato nella trasparenza, l’usignolo che non spegne il canto nella foresta che si chiude.

Come se quando si amasse ci fosse sempre una nuova sproporzione di occhi, nulla prima, nulla dopo, nessun passaggio a vuoto, oppure follia come una camicia in disordine e uno specchio di una dolce fatica:

«Ci sdraiavamo per dare e ricevere / Sotto la bianca zanzariera / E siccome non tenevamo il conto / Vivemmo mille anni in uno / Le candele bruciavano / La luna tramontò / La collina levigata / La città lattiginosa / Trasparente, senza peso, lucente / Scopriva noi due / Su quel terreno basilare / Dove l’amore è involontario, scatenato / Liberato / E dove si trova metà del mondo perfetto».

Poi «Never Got To Love You» scrive Cohen , come lasciando cicatrici e mancati arrivi. È l’ora di chiusura e i ricordi ritornano vuoti. È buio, buio a St.Jovite, lungo tutta la linea, oppure si spalanca alla foschia che scontorna i colori, alle lontananze e agli squarci.

Il sussurro del nome freme di fumo e desiderio, come un controcanto in cui si respira la finitezza minima di un sipario e di un inno di perdono («Amo parlare con Leonard / È uno sportivo e un pastore / È un pigro bastardo / Che vive indossando un completo»), un grido al di sopra della sofferenza, un sacrificio, prima di ogni completezza.

È la lucentezza rauca che desidera placare la sete, come un amen o un riscatto di polvere, una particella o un’onda: «Mostrami il luogo / dove vuoi che vada il tuo schiavo […] Mostrami il luogo / Aiutami a rotolare via la pietra / Mostrami il luogo / Da solo non riesco a spostare questa cosa / Mostrami il luogo / Dove il Verbo si fece uomo / Mostrami il luogo dove si principiò il dolore».

L’arrivo dell’oscurità principia tutte le notti, la nudità onirica, la domanda di guarigione come profumo di promesse e porte di misericordia, oltre la luce lacerata: «Oh vedi come recede l’oscurità / che prima la luce lacerò / Vieni guarigione della ragione / Vieni guarigione del cuore».

Il suo blues è l’allusione alla lentezza è un battito di fiamma («Non è perché sia vecchio / Non è perché la morte s’avvicina / Mi è sempre piaciuta la lentezza / La lentezza è nel mio sangue»), un’apocalisse di morbidezza e torbida litania nella stanza sofferta della parola che cuce, rifugia, attende salvezza, redenzione.

Le ferite non sono rimarginate, l’Antichità lontana, i suoi inni sono dolenti (come accade nell’immagine colpita dell’uragano Katrina: «C’è una donna alla finestra / E un letto a Tinsel Town / Ti scriverò quando tutto sarà finito / Lascia che abbatta questo tempio»), in un angolo che un tempo era una strada.

Ma torneranno il vino e le rose, nonostante appassiscano limoni e mandorli e l’amore possa finire o possa essere una mano stretta in uno sguardo, in un tempo di stazione, due giochi di fortuna, una legge di pace. Non importa. Ci si sposa con il mistero. Delle labbra, del buio. Non si uccide la fiamma, il tempio di ciò che è, gli angeli e le stelle perse.

È la sua luce in viaggio che inizia dall’inizio, che apre la via, fino alla fine dell’amore, come nutrimento, come consonanza inquieta di ombre e cedri che si innamorano. Nessun confine per la pelle e per il cuore. Ci sarà l’oceano che porterà altre canzoni su altre spiagge, ci saranno teatri che crolleranno, polvere dovunque e burrasche e pensieri stonati come lunghi frattali tesi all’Assoluto.

[1] Cohen A., Prefazione, a Cohen L., La fiamma. Poesie e pagine scelte dai quaderni, a cura di Robert Faggen e Alexandra Pleshoyano, traduzione di Luca Manini, Bompiani, Milano 2019.

[2] Cohen L., La fiamma. Poesie e pagine scelte dai quaderni, a cura di Robert Faggen e Alexandra Pleshoyano, traduzione di Luca Manini, Bompiani, Milano 2019.

Cohen L., La fiamma. Poesie e pagine scelte dai quaderni, a cura di Robert Faggen e Alexandra Pleshoyano, traduzione di Luca Manini, Bompiani, Milano 2019, pp. 304, Euro 24.

 Cohen L., La fiamma. Poesie e pagine scelte dai quaderni, a cura di Robert Faggen e Alexandra Pleshoyano, traduzione di Luca Manini, Bompiani, Milano 2019.

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini