Ljubomir Levčev: la furiosa precisione

di Andrea Galgano  14 maggio 2021

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La poesia di Ljubomir Levčev (1935-2019), uno dei più grandi poeti bulgari, è tempio di precisione furiosa. Poesia che affastella contraddizione e ironia, si ammanta di una temperie di assurdo e cromature vitali, che insegue la nostalgia dell’infinito, e guarda con attenzione e fedeltà, come scrive Roberto Galaverni, «la vita, il mondo, gli altri, sé stesso, proprio come ci si aspetta da un poeta. E lo fa spesso e volentieri per mettere in luce il rovescio, la trama nascosta, la verità e dunque la morale inattesa delle cose. Ma e qui sta il punto, l’intelligenza e l’arguzia delle sue osservazioni non risultano affatto intrise, come quasi sempre accade, di sarcasmo, risentimento o disamore vero l’esistenza».[1]

Con la pubblicazione di I passi dell’ombra[2], edito da Bompiani, a cura di Giuseppe Dell’Agata e introduzione di Vladimir Levcev, la sua poesia esprime, pienamente, una ricchezza di immagini ed è

«adorna di numerose metafore. È musicale, ha i ritmi sincopati della poesia moderna, ma la sua essenza si fonda sulle immagini e sul paragone. Le sue metafore sono spesso strane, moderniste, ma nascono sempre da una realtà concreta (Quando all’improvviso salta la corrente). Il mondo emotivo della sua poesia reca l’alito, l’aroma, il colore del suo tempo, ne utilizza i ritmi e la lingua. Nei versi migliori non c’e niente di artificioso, falso, combinato. Perfino nei cosiddetti Capricci. Perfino le metafore più eccentriche e assurde vengono percepite come una marcata realtà fisica. La sua poesia costituisce una testimonianza di alto significato riguardo al trascorrere del tempo».[3] (p.8).

 Le esclamazioni e le interrogazioni metafisiche, la nudità del cielo notturno che contrasta il limine luminoso del giorno («Amo il cielo di notte, / perche lui solo e nudo. / E questa luce del giorno mi impedisce / di guardare la nudità dell’Universo»), la particolarità delle immagini che raggiungono linee surreali e il fondo dell’assurdo, come i parafulmini, in uno strappo di sipari.

E poi la fraternità, le illusioni di cristallo (le vie scoscese di Tărnovo, invocate come affermazione imperitura) compongono il suo scenario che insegue la bellezza nelle solitarie realtà concrete, nella posizione partecipata e distaccata, insieme.

Andrej Voznesenskij, infatti, afferma:

«Fissare l’attimo e il tratto stilistico di Levčev: negli autentici artisti e in generale nei creatori e presente una forza interiore tesa a superare lo spazio e le strette cornici di ciò che e limitato. Ciò che più gli interessa, come ha scritto in una delle sue poesie, e di essere il più sincero, il più originale, il più se stesso possibile. Il suo verso e intellettuale, ma il suo intellettualismo non e schematico, bensì carnale, virile, colorito». (p.10).

La sua immagine è in movimento, ricorda volti cari (la madre in paradiso) e solitudini accorate, racchiude inserti minimi (come i movimenti della donnola in cantina o i segreti strappati della luna di giorno), il rumore dell’anima e la sensualità dell’amore sospeso («Aprii, / tremante come una fiammella, / e ti vidi, / bellezza – / piena di desiderio, / coi capelli scompigliati dalla luna / e illuminata dal vento della notte, / e con un sussurro di una foglia di giaggiolo:“Eccomi – / Come mi hai immaginato!”/ Chiamami Carmen! / E sappi che ti amo!”»), e soprattutto, la sua luce invisibile è una ricca confidenza indicibile che si interroga e si espone («Come un grillo di città / la mia voce interiore / si interroga»): «Così che, in realtà, / quando salta la corrente, / io vedo / infinite cose, invisibili alla luce. / Per esempio: / all’improvviso capisco / che in città è raccolta / una quantità pericolosa di persone / per ogni metro quadro illuminato. / E non ha più nessun significato, / se sei stato Anteo, / perché / hai molti piani sotto di te / ed essi sono la tua terra».

La sua ironia è una filigrana che serve per mettere a fuoco il problema della realtà, per interrogare il tempo, i sogni e la memoria, e la posa dell’arte, richiamare gli amici scomparsi e guardare alle inserzioni di eterno:

 «E durante questo tempo infinito / guarderò fuori dalla finestra / come cadono le foglie / o rinverdiscono, / come la lontana cupola della chiesa assomiglia / a una tazzina di caffè rivoltata per trarne gli auspici, / come le ragazze si specchiano nelle porte di vetro / e come voi pensate che io non ci sia più per sempre».

I quadri di Levčev incrinano ogni sicurezza, sembrano giocare con le cose, fino al dramma, si spingono al dialogo per celebrare l’immaginazione vissuta e, infine, conteggiare l’ombra, la visione, la ferita, gli scherzi d’amore e le ragazze del mattino, il raggiungimento della storia (come i dialoghi con Colombo e la gloria di grandi pittori come Cézanne o Monet), la dolcezza luminosa della magnolia e le soglie profonde.

In questa trasparenza oscura, nell’arco degli abissi, nello sperdimento ribelle dei fiumi della Bulgaria e nei tamburi squarciati della notte, egli tocca le trame più interiori. E lo fa maneggiando le soluzioni eversive e minime del vero, lanciato come un traboccante sospiro: «Allora sbalordito vidi che ero sulla riva, / che tu sei il mare del mattino / e i tuoi abissi mi chiamano. / Da te sorge il sole. / Tu mi tocchi / e in me spunta l’alba».

Le sue tensioni assomigliano a sillabe di lettera, a un limpido guado d’amore («Amore come un silenzio – / questo è il mio amore. / E tu lo conosci»), all’attesa e ai semi semantici del sussurro dell’anima:

«Se ne va la luce rossa. / L’ultima lince selvatica scruta / cose per noi invisibili. / Se ne va la neve dalle cime dei monti. / Le cabine della funivia immobili / viaggiano verso l’oblio, / viaggiano. / Come un miraggio scacciato. / Come una speranza disperata. / Se ne va questa epoca. / Se ne va l’estasi… / E solo io rimango. / Non so se potrò scriverti ancora. / Non so se potrò vederti. / Ma so che non c’e modo che io ti dimentichi / fino alla fine, / e forse anche dopo. / Dimenticherò le chiavi sulla porta del non essere. / Dimenticherò gli occhiali e diventerò cieco. / Con dita insanguinate ti cercherò, / ma tutto quello che toccherò, / diventerà polvere».

[1] Galaverni R., Parafulmini e donnole. La via bulgara all’ironia, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 9 maggio 2021.

[2] Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021.

[3] Levcev V., Introduzione in Levcev L., cit., p.8.

Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021, pp.350, Euro 20.

Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021.

Galaverni R., Parafulmini e donnole. La via bulgara all’ironia, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 9 maggio 2021.

Hagard: braccando la soglia della surmodernità

di Irene Battaglini 29 aprile 2021

leggi in pdf HAGARD, LO SGUARDO DEL FALCO

titolo   Hagard

autore  Lukas Bärfuss

collana Kreuzville

editore L’orma

pagine 120

pubblicazione  03/2021

ISBN   9788831312592

Don Juan affermò che per vedere si deve prima fermare il mondo. Insomma, fermare il mondo era un’interpretazione corretta di alcuni stati di consapevolezza nei quali la realtà della vita quotidiana è alterata perché il flusso dell’interpretazione, che in genere scorre ininterrotto, è stato arrestato da un insieme di circostanze estranee a quel flusso. Nel mio caso, l’insieme di queste circostanze era la descrizione magica del mondo”. Così scrive Castaneda in Viaggio a Ixtlan[1]. Quello di Philip è una discesa agli inferi, guidato dal “demone” Hagard, nei sottofondi degradati di umanità e di cemento di una città il cui nome è una coordinata fantasmatica, e che in questo mirabile romanzo diventa lo scenario – a tratti magico, a tratti patetico – da cui si dipana la “via di conoscenza” di un uomo di carattere, codificato da una nevrotica contemporaneità, il cui flusso di coscienza, tenuto insieme senza alcuna presenza di sé, è interrotto da una chiamata inattesa all’individuazione.

Dire della trama, non servirebbe: si tratta di una rete a maglie larghe, di una vera e propria ragnatela, parafrasando Mario Lavagetto, di piccoli indizi, dai quali emerge la vertigine della libertà di Philip, il cui destino si compie sgretolandosi, e che attraverso una sarabanda di ricordi frammentari, ammonimenti superegoici e salti temporali, stabilisce di intraprendere un gioco di scacchi con la vita. Tuttavia la questione del destino di Philip potrebbe essere il canovaccio narratologico intessuto da Lukas Bärfuss per arrivare al cuore del problema: la vita di un uomo, indipendentemente da come possa essere vissuta, per chiarire la sua domanda di senso deve essere raccontata da chi ne sa seguire lo sguardo. Ha bisogno di un narratore al corrente degli antecedenti, delle variazioni di accordi, delle conseguenze delle scelte: lo stile di uno scrittore è, anche, il suo punto di vista. Non dico le sue opinioni, o il suo sistema di valori, e nemmeno la maestria: dico il vertice – in questo caso una mappa di vertici mobili che danzano forsennatamente – dal quale osserva. Quale piano, da quale orbita decide di salpare, da quale porta ci fa entrare, per seguire la “caccia” di Philip alla donna dalle ballerine color prugna, con le gambe di gazzella, il volto d’oro e invisibile, e il corpo flessuoso di passi che “sentono” il mondo?

“Hagard” indica quel falco che, nonostante sia tratto in cattività, non si lascia addomesticare completamente: è dunque un falco la cui natura selvaggia è solo parzialmente mitigata e maldisposta alla sudditanza.

Lo sguardo di Lukas Bärfuss è di falco libratore. I falchi «libratori» catturano la preda a terra, dopo aver perlustrato il territorio librandosi immobili nell’aria, oppure calandosi in picchiata da un “punto di vedetta”: un punto di vista, alto, molto più in alto di quello della maggior parte di coloro che si avvicendano nelle infinite traiettorie del mondo. Scrisse il drammaturgo svedese August Strindberg: “Lo sa lei come si vede il mondo dal basso? No, lei non lo sa. Agli sparvieri, ai falchi di rado gli si vede il dorso: volano troppo alti” [2], e ancora: “Abituati a osservare il mondo a volo d’uccello, e vedrai allora che tutto ti sembrerà piccolo e insignificante”[3].

Il lettore di Hagard – il romanzo laureato nel 2019 dal prestigioso premio Georg Büchner dell’Accademia Tedesca per la Lingua e la Letteratura (premio istituito nel 1951 e già assegnato a scrittori, tra gli altri, del calibro di Ingeborg Bachmann e Christa Wolf, Celan, Dürrenmatt, Thomas Bernhard, Elias Canetti, Günter Grass) si farà certamente catturare dall’occhio – che riscrive un mondo – di Lukas Bärfuss: un romanziere dal calibro introverso e disilluso alla Joseph Conrad, dal cuore emorragico di Jean-Claude Izzo, e dalla irredenta solitudine contemporanea di John Cheever.

Il respiro di Philip è affannato come di un lupo della steppa, è attento e circospetto, è solitario e affilato: la paura delle avversità (numerose, in cui si imbatte per non perdere di vista la bellissima creatura, “la dea” dalle ballerine color prugna) è una emozione primitiva che determina il rango del rapace, non la debolezza del suo cuore di fiera: si tratta di gestire eventi in rapida successione, come se il nastro della corsa si svolgesse dai fotogrammi opachi dei finestrini di un treno affannato, semivuoto, attanagliato ai binari eppure in una sequenza decisiva degna di un thriller psicologico, intriso di odori e da un immaginario tracciato erotico, con cui l’autore ammanta la mappa spietata delle molteplici realtà in cui si imbatte: si tratta di stati dell’essere che Philip, il protagonista, sperimenta per la prima volta grazie all’incontro con la donna-Anima, della quale non “vede”, suo malgrado, la natura selvaggia di Hagard, il falco non addomesticabile. Il suo sguardo, lo stile narrativo che sorvola e si libra, che si eleva e si staglia, che stana e che sovrasta e poi si avvicina come in una presa diretta, che memorizza volti e dettagli, che registra minacce, pericoli, è come di un falco su un territorio di caccia metropolitano, tuttavia all’acume della sua pupilla sfugge proprio la natura di ciò che rincorre: la creatura leggiadra è un’Anima della selva, che scompare tra gli alberi – come tra i vetri di un edificio -, si nasconde al tramonto in lividi appartamenti, paludi dell’essere entro cui sconfinano binari e fiumiciattoli sotto basse nuvolaglie che ricordano la Fiandra investigativa, pressante e annoiata, di Georges Simenon.

Philip è costretto, suo malgrado, a conoscere lo spirito putrescente dei “non-luoghi”, quegli spazi non identitari della sur-modernità, che nel suo volo incalzante verso l’infinito, braccando un’Anima indomita infilata in “soffici calze”, diventano, in una magica metonimia retrograda, i non-luoghi della sua psicologia individuale in eclissi, rappresentativi di un Sé acerbo, emotivo, sanguigno, che si sveglia al mondo: cespugli e reti, marciapiedi senza strade, opachi ristoranti, grigi scannatoi di provincia, scale mobili sospinte da gelidi nastri, caffè consumati freneticamente in maleodoranti sottopassi, metropolitane glaciali popolate da figure retoriche – ossimori indossati da uomini senza qualità come controllori e bigliettai o manager azzimati -, corridoi di anonimi condomini, self-service per la colazione popolati da uomini e donne che assomigliano ad allevamenti di pesci insipienti. Troviamo in “Hagard”, ad esempio, quadri che sono insieme sia di ridondanza analitica sia di estrema sintesi:[4]

“Quella razza Philip la conosce bene. Piccoli boia, scorticatori incaricati di tormentare il prossimo con strumenti quali i titoli di credito, le fatture scadute, l’ufficio fallimenti, la bancarotta; e ovviamente con la voce gracchiante, le vocali aguzze, le lunghe sibilanti. […] Dunque nell’edificio non ha sede un’unica azienda. È un immobile con molte utenze e molti affittuari. Studi di ingegneria, spedizionieri, contabili, call-center, forse persino ditte di import-export. Nella corte sembra esserci una tipografia. La ragazza potrebbe passare la giornata nei modi più disparati. Ma nessuno pare appropriato. È uno stabile privo di qualunque classe. La dea esige un tempio. Un intero piano come regno. La regina ha bisogno di ampi spazi. Ha la sua propria andatura e la deve tenere in esercizio, lui ne è testimone. Gli è impossibile immaginarsela tutto il giorno china su una scrivania. Forse lavora camminando, sfila da un tavolo da disegno all’altro con la matita tra le labbra. O altrimenti? Accoglie i clienti? Ripone negli armadi le pratiche lasciate in giro dai colleghi? Prepara la sala riunioni? Sistema la frutta? Cambia l’acqua ai fiori? Oppure il sorriso e il portamento sono le sue sole mansioni? È del tutto indifferente. A Philip basta poterla vedere. Ed è proprio quello che non sta facendo”.

Nonostante il velo manifesto sia sfrangiato e ripido, è proprio il grado simbolico di questa realtà finalmente fruibile che Philip apprezza: ora il suo passo veloce e il suo pensiero torrido possono appoggiarsi su una nuova rappresentazione del mondo grazie all’incontro con la provvisorietà. O meglio, grazie alla provvisorietà dell’incontro con una donna che nessun luogo abita: una donna i cui tacchi sono magici piedistalli dalle sette leghe, implacabile e vorace di tempo, una donna che sa il mondo, e che decide di non abitarlo mai abbastanza a lungo da poter restare impigliata in una trappola: è lei il vero cacciatore vigile, colei che, come direbbe Don Juan, assomiglia a quei “vecchi stregoni che avevano una fluidità favolosa. Bastava solo il più lieve spostamento del loro punto di unione, il minimo accenno percettivo ispirato dal Sognare, perché fossero subito in grado di tendere un agguato alla percezione, risistemare la loro coesione in modo da adattarla al nuovo stato di consapevolezza, ed essere un animale, un’altra persona, un volatile, o qualsiasi cosa”. [5]

È lei, la Dea dalle Ballerine Color Prugna, un Orfeo che non si volta, che non tentenna, non dubita, non cede il passo ai quesiti inattendibili: ed è per questo che è lei a salvare Philip da un destino che, altrimenti, sarebbe stato di eterna nostalgia per una vita altrimenti mai vissuta.

[1] Carlos Castaneda,Viaggio a Ixtlan (Journey to Ixtlan, 1972)

[2] August Strindberg, La signorina Julie, 1888

[3] August Strindberg, La stanza rossa, 1879

[4] Lukas Barfuss, Hagard, 2019, p. 104-105

[5] Carlos Castaneda, L’arte di sognare (The art of dreaming, 1993)

Michael Longley: la sottile maestà

 

di Andrea Galgano  15 aprile 2021

leggi in pdf MICHAEL LONGLEY

Michael Longley, classe 1939, di Belfast, allievo del grande grecista W.B.Stanford, fa parte assieme al grande Seamus Heaney, assiepa la bellezza del mistero dalla precisione della lingua, attraverso la riscrittura di Omero, e, come afferma Piero Boitani:

«il paesaggio meraviglioso dell’Ovest irlandese; e l’amore per i particolari più minuti del mondo naturale (inaugurato con forza e delicatezza proprio qui in Angel Hill). Omero non è un semplice oggetto di imitazione, è al centro di una vera e propria ri-scrittura che colloca l’Iliade e l’Odissea, i poemi più antichi della nostra tradizione, al centro del presente: dove regna il conflitto, come nell’Iliade; dove domina la ricerca, come nell’Odissea. Febbraro ha dunque perfetta ragione nel sostenere che in Longley l’originalià è sostituita dalla originarietà. Il poeta procede isolando un grumo narrativo omerico, lo medita a lungo, lo svolge, lo traduce in un istante lirico: in Angel Hill, è “La spilla”, il fermaglio che tiene uniti i due lembi del mantello di Ulisse, ma altrove è l’incontro all’Ade con Anticlea, la madre morta di nostalgia per il figlio che non tornava mai: un solo periodo di diciotto versi e di enorme potenza».[1]

La lampante meraviglia del suo dettato appare evidente in Angel Hill[2] (a cura di Paolo Febbraro, edito da Elliott e vincitore in patria del PEN Pinter Prize), attraverso il doppio movimento della visitazione e della rivisitazione del tempo, attraverso l’orizzonte dell’attrito memoriale, dei luoghi sgranati, dell’incrocio dei depositi temporali (si pensi al ricordo dei campi di battaglia e dei cimiteri della Grande Guerra, in Francia, che egli visitò con la moglie nel 1997 e dove il padre aveva combattuto, tornando segnato), dell’epica ancestrale ed archetipica che risolleva ombre e concede vitalità, come afferma Paolo Febbraro:

«Il poeta torna al passato perché sa che il presente ne è un’articolazione, e quest’articolazione va illimpidita e preservata con un lavoro “onnipresente”, che sembri compiuto appena ieri per freschezza, nitore e assenza di ogni macchia stilistica. Il padre, vecchio soldato ucciso dalla guerra a decenni di distanza, e gli eterni ragazzi sopravvissuti solo nei veri e nei taccuini compongono un quadro vivente che detta al poeta la castità e la fratellanza dello guardo, ma anche la responsabilità di una purezza che è Storia».[3]

Lo svanimento, la perdita, l’immersione, lo stupore toccano il cimitero di Angel Hill, dove riposano i caduti della Prima Guerra Mondiale e diventano il fulcro non solo di un paesaggio dell’anima[4] ma, in particolare, di un tempo del pensiero, di una soglia che ricopre la bellezza dell’avamposto dell’io, come la lente d’ingrandimento di Fleur Adcock («Cara Fleur, per anni ci siamo congedati / ornitologicamente: i pettirossi di East Finchley / e scriccioli e cinciarelle come fatti importanti, / il mio censimento di cigni e trampolieri / dal tempaccio di Carrigskeewaun. / Abbiamo passato la vita nei campi, china / la testa, cercando sul terreno nidi di allodole») o la piccola baia, in omaggio a Kathleen Jamie: «Ho visto il tuo volto / frammezzo ai ciottoli / d’uno stagno delle Highlands. / Spandendosi nell’erba / la marea equinoziale / vi lascia alghe medicinali. / Avrai notato un orbitante / frutto di rosa canina / appeso al cielo, / una passerella scivolosa / far da ponte fra la baia / e gli estremi del mare, / il guscio di un mitilo / colmarsi di pioggia / quando giungi allo stagno».

La vulnerabilità friabile di Carrigskeewaun o la punteggiatura di Belfast sono un orologio di territorio, come il filo ventoso dell’Atlantico che lega precarietà e bellezza, solchi, luce schiacciata e smottamenti, sfumatura dell’anima e conteggio della realtà, attraverso la precisione, l’osservazione minuta ed essenziale, il fascino umbratile delle cose, cui aggiungere la cromatura primaria dell’essere che aggiunge, contorna, offre un insieme di incanto e bellezza alla veglia e all’attesa:

«Hai passeggiato con me un milione di volte / sul sentiero roccioso per Carrigskeewaun / fermandoti nell’insidia dei cerchi delle fate / a cogliere funghi per merende e poesia. / Hai indicato, per un guscio di lumaca / o la piuma di un chiurlo o il fodero vuoto / di un uovo di squalo la parola esatta, sillabe  / e silenzi udibili sul filo ventoso dell’acqua. / Abbiamo seguito le orme della lontra verso Allaran / e atteso per ore sul nostro trono gelato, / per cinquant’anni, marito e moglie, contando / a voce bassa le beccacce e i piovanelli».

A tal proposito, Paolo Febbraro scrive ancora:

«Nei versi del passato, e forse ancor più frequentemente in quelli di questo Angel Hill, il poeta, la sua amata, i suoi amici affiancati nel passo o raggiunti per lettera contano cigni, lontre, oche faccabianca, focene… Il poeta vuole tesaurizzare ciò che vede, controllare maternamente l’entità minacciata della propria prole, preoccuparsi per morti o dispersioni, chiamare a raccolta, inorgoglirsi della propria abilità sensoriale come un cacciatore inoffensivo, e infine battere il tempo dell’esperienza come facendo versi».[5]

Nella nominazione precisa, nello sconfinato amore per la pittura irlandese (Paul Henry e Gerard Dillon), per i naturalisti e i geografi, e per la brevità incolume, nei solstizi di erba delle sabbie, di chiurli e scogliere, Longley decifra l’anima indenne, dove si riunisce corporeità terrena e temperie metafisica, lotta al silenzio e alla dispersione, avvicinamento e sparizione di isole insonni e  l’asprezza rada del Connemara.

La sua sottile maestà, che attinge al vibrante serbatoio latino e greco, incrocia la fenomenologia naturale e la densità dell’istante. Scoperta e ritrovamento, linea concava e simbolizzazione, e poi, infinità naturale indicibilità di ciò che appare consentono alla poesia di Longley, di distendersi in un panorama di amore e bellezza, lasciano orme intatte e illuminando il palcoscenico del mondo.

Il suo repertorio, dunque, trapassa la cortina ombrosa della realtà. È poesia di ritrovamento ed esplorazione, epitalamio di memoria tra cardi, tempeste, storni, voli uditi: «Qualcuno dev’esserci a vegliare sulle lapidi. / Potresti essere tu con pennelli e cavalletto / e i tuoi grandi fogli e il carboncino per ritrarre / strato-cumoli di bucaneve e calligrafia di lichene. / Qualcuno dev’esserci a vegliare sulle ringhiere / e chiuderle il cancello arrugginito alle spalle».

O ancora: «Considera l’uovo del lucherino, / finemente screziato – macchie / e trattini – lilla, pallida ruggine / rossiccia, spruzzi di sangue / traverso un bianco verdastro – / tramonto a finis terrae – insomma / considera l’uovo del lucherino».

Fino al poeta soldato che si salva perché tiene con sé i sonetti di Shakespeare nel taschino e il libro, così, blocca il proiettile, sorvegliando il cuore:

«Il poeta soldato mise nello zaino sapone, / tutore per la schiena, calze, pennello per la barba / (anche se non era tipo da radersi ogni giorno) / borraccia, medicazioni d’urgenza, maschera antigas, / una lattina di sigarette (dono della principessa Mary, / a Buckingam Palace la ragazza della porta accanto), / astuccio da cucito, lacci di scarpe, scovolino, libro paga / e i sonetti di William Shakespeare. / Si grattò via di dosso il fango a Passchendaele e, / prima di spiccare l’assalto, ripose nel taschino / della giacca il libro rilegato in pelle / che bloccò un proiettile a poco dal cuore / e stracciò le poesie salvavita. Poi aspirò / una delle Woodbine della Principessa Mary».

Il toponimo Angel Hill, dunque, diventa il luogo in cui catturare le intimità e le specificità dell’esistenza[6], in cui il luogo selvaggio e melodioso celebra il territorio, per dirlo con un verso del poeta romantico John Clare, dove i poeti amano la natura, e amore sono, «decifratori d’ali in falene e farfalle», per dispiegare lo sperdimento di una foschia marina:

«I poeti amano la natura, e amore sono. / Immagina un cottage fuori mano / presso le dune, l’erba delle sabbie a sussurrare / su lumache in technicolor e uova di sterna, / il gracchio ben desto sul tetto dell’alba, / al crepuscolo i chiurli a zufolare nel comignolo, / e dalla finestra della cucina la scogliera / che ha visto per cinquant’anni i nidi del corvo. / Decifratori d’ali in falene e farfalle, / annoverando pony e cigni del Connemara, / lungo i coltivi abbandonati in riva al lago / si materializzano dalla foschia marina e / nella nebbia di soffioni svaniscono. / Uno ha scritto una bella poesia sul merlo».

 

[1] Boitani P., Longley, l’Omero irlandese, in “Il Sole 24ore”, 4 aprile 2021.

[2] Longley M., Angel Hill, a cura di Paolo Febbraro, Elliott, Roma 2019.

[3] Febbraro P., Introduzione, in Longley M., cit, p.9.

[4] Michelucci R., Longley, la mia poesia al servizio della pace, in “Avvenire”, 8 settembre 2019.

[5] Febbraro P., Introduzione, in Longley M., cit, pp. 10-11.

[6] Brearton F., Angel Hill by Michael Longley Review -, elegies on conflict, grief and Nature, on “The Guardian”, 17 Jun 2017.

Longley M., Angel Hill, a cura di Paolo Febbraro, Elliott, Roma 2019, pp. 179, Euro 19,50.

Longley M., Angel Hill, a cura di Paolo Febbraro, Elliott, Roma 2019.

Boitani P., Longley, l’Omero irlandese, in “Il Sole 24ore”, 4 aprile 2021.

Brearton F., Angel Hill by Michael Longley Review -, elegies on conflict, grief and Nature, on “The Guardian”, 17 Jun 2017.

Michelucci R., Longley, la mia poesia al servizio della pace, in “Avvenire”, 8 settembre 2019.

 

Charles Simic e l’indizio d’amore

di Andrea Galgano  1 marzo 2021

leggi in pdf Charles Simic e l’indizio d’amore 

Avvicinati e ascolta (Come Closer and Listen)[1] di Charles Simic, appena pubblicato da TLON e con la traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, coniuga, in modo brillante, la visione attuale del tempo, con tutti gli scavi rastremati, l’innovativo minimalismo, la domanda di significante e significato, il genius loci delle particelle quotidiane di Strafford nel New Hampshire,

«personifica le dicotomie della capacità negativa, distillandone un gradevole liquore agrodolce. […] Ci accompagna (come è proprio dell’epoca trumpiana in cui questi testi componimenti sono stati scritti) sull’orlo del baratro della disperazione, e poi ci riaccompagna a casa con una mesta risata sommessa e con il desiderio di continuare a tirare avanti, a dispetto di quanto il mondo sembri e sia sottosopra e di quanto siano disonesti e incompetenti quelli che dovrebbero governarlo».[2]

E nei suoi testi, dunque, possiamo

«salutare i vicini che vanno «a messa la domenica» mentre il poeta, diversamente da Cartesio e dal suo poltrire «a letto fin dopo mezzogiorno», parte «per la discarica»; intravediamo i quartieri, le avenue, le chiese in cui egli si aggira trasognato e sardonico; osserviamo gli strambissimi personaggi che rinascono nella mente come riverberi angoscianti (la Morte, la Giustizia), ma davvero si può dire che dietro all’io lirico campeggi senza soluzione di continuità l’io empirico, ossia proprio lui, Charles Simic? Nel frattempo il nostro messaggio di posta elettronica «cammina nel cielo» e atterra fra le case alberate del profondo nord: pizzica lo smartphone, turbando il quieto mestiere letterario di Simic (ispirato da irresistibili salsicce alla brace) e il laborioso andirivieni di sua moglie Hélen».[3]

Il tempo oscuro, trascritto nell’epigrafe emersoniana («Come se servissero gli occhi per vedere») e nel suono metafisico degli uccelli, la divisa sproporzione interiore, il caleidoscopio insonne e opaco («Il buio arriva presto / a questo punto dell’anno / e rende difficile / riconoscere le facce familiari / tra quelle degli sconosciuti»), il territorio fantastico della cosalità, la personificazione degli oggetti rilasciano, nella cecità omerica che dirige lo spettacolo, un invito e un indizio di avvicinamento e di ascolto, letterali: «e mi hanno passato in lacrime / a uno morto da parecchi anni, in una nazione / che non è più sulle carte geografiche, / dove come una foglia su un albero, / la bella stagione finita, / ho vorticato cadendo a terra / quasi senza fare rumore / perché il vento mi portasse lontano».

In questi testi permane una sorta di agone orfano, un sipario silenzioso e ironico, una dimensione oscura su cui trasvolare, come soglia, sulla sorte, per camminare nel cielo, nella caduta, nella compiuta e ampia descrizione dell’umano, ritmato negli schizzi di inchiostro, rilasciato come un detrito di memoria.

Vi è il senso di straniamento, di incomunicabilità e irrealtà di aiuto («L’irrealtà del nostro chiedere aiuto / un ulteriore dilemma su cui meditare / mentre ci mettiamo in fila a capo chino / quando viene offerto il caffè coi biscotti»), di pazzia lucida, di solitudine franta e bruciata: «Hanno buttato giù tutto l’isolato fatiscente / di piccole botteghe mal illuminate / con le vetrine polverose / di braccialettini, anelli per il naso, / tarocchi e bastoncelli di incenso, / dove una volta ho visto un giovanotto / con la camicia bianca coperta di sangue / che soffiava bolle di sapone nell’aria, / la faccia imperturbabile e bella, / tranne quando gonfiava le guance».

O di finitudine notturna, «La risata silenziosa / delle stelle / nel cielo di notte / ci dice tutto / ciò che ci serve sapere», che mormora nella personificazione delle foglie mute che rivelano paure malefiche pronte all’agguato, aspettando qualcosa che si manifesti. E noi rimaniamo in riflessione e in rispetto silenzioso:

«Ci dicono le foglie stasera. / Sentile andare nel panico e poi ammutolire. / E anche se tendiamo l’orecchio non sentiamo niente — / ancora più terrificante che sentire qualcosa. / Pare passino minuti o vite intere, / mentre aspettiamo si manifesti / proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo? / E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere / ai loro rami che bussano sulla casa / perché li si faccia entrare, ma poi esitano. / Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono / come desiderassero non esasperare le nostre paure, / con qualcosa di malefico in agguato là fuori / che ci si avvicina, si avvicina sempre più. / La casa buia e silenziosa come un topo / se si avesse il fegato di restarci».

L’incubo ovidiano e attuale, la cupola di tenebra, il terrore dello sguardo, la galleria della visione (gli incendi e i bombardamenti, i sogni dell’antichità greca, l’insonnia inossidabile, il ricordo assieme a Charles Wright alle Giubbe Rosse, Adam Zagajewski), la visitazione dei pensieri nella mente («[O immenso cielo stellato] In cui vagano i nostri pensieri / come venditori ambulanti di Bibbie / solo per trovarsi con le porte / sbattute in faccia»), la lotta di Giacobbe con l’Angelo, nel trapelato Quiz a notte fonda, contro la Morte e il Niente, raffigurata in una maestra elementare: «Sarà sul niente. / Non sull’amore né su Dio, / ma sul niente. / Sarai come un bimbo nuovo a scuola / che ha paura di guardare la Maestra / mentre si sforza di capire / cosa stanno dicendo / di tutto questo niente».

La verbalità minima, l’immagine che si staglia, come sfera improvvisa, nella dolcezza della veglia, nel paradiso della musica a letto, ritrovano anche la mimesi petrarchesca e fenomenologica di Laura, del sogno americano, delle rovine, ma appare la luminosa (e rapinosa), quasi tellurica, della visuale umana dei giorni, intessuta d’amore e di bellezza, dove anche le navi fantasma del passato spalancano lo stordimento e lo sgomento dell’ultimo picnic:

«Prima che arrivino le piogge autunnali / facciamo un altro picnic, / ora che le foglie cambiano colore / e l’erba è ancora verde in certi posti. / Pane e formaggio e un po’ di uva nera / dovrebbero bastare, / e una bottiglia di vino per brindare ai corvi / sconcertati dal trovarci lì seduti. / Se verrà il freddo – come è certo – ti stringerò a me. / La notte scenderà presto. / Scruteremo il cielo sperando che la luna piena / ci illumini il cammino. / E se non ci sarà, porremo tutta la nostra fiducia / nella tua bustina di minerva / e nel mio senso dell’orientamento / mentre vaghiamo cercando casa».

[1] Simic C., Avvicinati e ascolta, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, introduzione di Moira Egan, TLON, Milano 2021.

[2] Egan M., Introduzione. Orientarsi al buio, in Simic C., cit., pp.10-11.

[3] Fraccacreta A., Dimentico Petrarca ma trovo Laura, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2021.

Simic C., Avvicinati e ascolta, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, introduzione di Moira Egan, TLON, Milano 2021, p.364, Euro 16.

Simic C., Avvicinati e ascolta, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, introduzione di Moira Egan, TLON, Milano 2021.

  • La poesia supera le calamità, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2021.

Fraccacreta A., Dimentico Petrarca ma trovo Laura, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2021.

 

La scena di Pedro Calderón de la Barca

di Andrea Galgano  13 febbraio 2021

leggi in pdf  La scena di Pedro Calderón de la Barca

Il saggio di Fausta Antonucci, docente di Letteratura Spagnola all’Università Roma Tre, Calderón de la Barca, edito da Salerno Editrice, offre la possibilità di approfondire l’opera dell’autore spagnolo in tutta la sua interezza, come portatore di una scena che raccoglie gli splendori del siglo de oro, fino all’intimità del raccoglimento, allo spazio del tempo in cui l’io si svolge senza residui e all’infinito universo della sua scrittura, che crea un mondo osmotico di registri e cromature linguistiche, per restituire la potenza umana del suo teatro, ancora troppo sconosciuto in Italia:

«Le ragioni sono da rintracciare nel tenace pregiudizio ideologico che vede nella sua drammaturgia l’espressione di una visione del mondo che poco può dire alla nostra modernità; o nel pregiudizio critico altrettanto tenace nei confronti della grande poesia barocca; infine, non da ultimo, nella scarsità di traduzioni moderne, perché mentre il testo originale rimane vivo come tutti i classici, le traduzioni – abbondanti ancora nell’Ottocento – invecchiano irrimediabilmente in fretta». (p.7)

La mescolanza di comico e tragico, che si innerva nella costituzione del teatro spagnolo, compone le trame del teatro di Calderón, specie nelle prime prove, dall’assedio, colmo di equivoci, di Juda Macabeo, all’equilibrio storico, relazionale e sospeso di La gran Cenobia, al rapporto tra vittime e carnefici di La cisma de Ingalaterra e al rapporto tragico de El príncipe constante, fino alle passioni violente di La devoción de la cruz e sostanzia

«un paradigma composto da una serie di elementi caratterizzanti, sostanzialmente dei marcatori generici, ciascuno dei quali attiva nel destinatario il riconoscimento del modello di riferimento, e dunque un orizzonte di attesa, tanto più sicuro quanti più elementi del paradigma il testo subisce. Su questi elementi (protagonisti di altissimo rango; repentini mutamenti di fortuna; sogni, presagi nefasti, apparizioni; scene di violenza; pianti e dolore esibiti in scena; materia epica e storica; stile elevato; finale infelice […]» (pp. 50-51).

Tra fiaba, simbolo e polimorfismo di esiti, il suo teatro assimila appieno la tradizione gesuitica, seppure attraverso mediazioni, affermando un punto focale nell’uomo e nelle sue possibilità, nella ragione e nella bontà, nel turbamento dell’equilibrio instaurato da Dio, in una prospettiva fratturata e sghemba di salvezza.

Quando Don Chisciotte si trova nella caverna, dopo essersi legato con una corda e scomparso tra i rovi, i suoi amici lo trovano tramortito. Destatosi, afferma che nella caverna «todos los contentos desta vida pasan como sombra y sueño». La vera vita è un’altra, è altrove e il presente ha la consistenza di un sogno

Con la commedia La vita è un sogno, Calderón ci mette davanti agli occhi un interrogativo estremo e ultimo sulla stoffa del nostro essere e sulla sua intima e peculiare natura. Un immaginario re di Polonia, Basilio, esperto e studioso di astrologia, alla nascita di suo figlio Sigismondo, ha previsto che questi sarebbe stato un ribelle, un uomo prepotente e sanguinario, e che avrebbe obbligato lui, suo padre e suo re, a prostrarsi ai suoi piedi e cedergli il trono.

Per evitare che ciò accada lo fa rinchiudere in una torre sperduta, «un rustico palazzo, così poco elevato che non riesce a mostrarsi al sole», dove un «fioco lume, quella tremula fiamma, quella pallida stella che con incerti bagliori, palpitando di luce timorosa, rende ancor più tenebrosa la stanza buia con insicura luminosità».

Egli cresce, incosciente, sotto la custodia di Clotaldo, gentiluomo di corte, che lo istruisce alla religione cristiana e alle scienze naturali. Incatenato e vestito di pelli, si interroga sulla sua condizione:

«Ah sventurato me! Oh me infelice! O cieli, poiché mi trattate così, pretendo sapere che delitto ho commesso contro di voi con la mia nascita; quantunque capisca che col nascere ho già commesso un delitto; e la vostra condanna, il vostro rigore hanno avuto un motivo sufficiente, perché il maggior delitto dell’uomo è quello d’essere nato. Vorrei solamente sapere, per spiegarmi le mie pene (lasciando da parte il delitto di nascere), in che modo ho potuto più degli altri offendervi perché debba essere castigato più degli altri. Non nacquero gli altri?».

Rosaura, all’inizio figlia non riconosciuta dello stesso Clotaldo, travestita da uomo, a dorso di un ippogrifo («Ippogrifo violento, che corresti a gara col vento, dove, fulmine senza fiamme, uccello senza penne colorate, pesce senza squame e bruto senza istinto naturale, nel confuso labirinto di queste nude rupi ti sfreni, ti avventi, ti precipiti?») raggiunge la torre, trovandosi poco dopo sbalzata tra le rocce.

Lì scopre la prigione di tenebra del figlio del re, finendo per ascoltare i suoi disperati lamenti. All’inizio egli la minaccia e la scaccia, poi quando lei gli dice che è lì per volere del Cielo, la sua supplica e la sua grazia e la sua bellezza lo trattengono. Subito dopo, però, le guardie la trascinano via, Sigismondo invece, è ricondotto in prigione. Basilio, intanto, agitato e dubbioso sulla sua scelta, fa addormentare suo figlio e lo fa portare a corte, al risveglio il regno sarà suo. Risvegliatosi, diviene davvero, suo malgrado (inducendo Basilio ad aver ragione sugli astri), tirannico e quel potere lo induce a dominare anche se stesso.

Rimane solo un attimo di estasi, dinanzi alla soavità maestosa di Rosaura, uno scorcio di veduta platonica del reale che risveglia le idee. Dopo aver fatto riaddormentare Sigismondo, Basilio lo fa riportare nel carcere dove è cresciuto. Destatosi, racconta il suo sogno: «Sono dunque tanto simili ai sogni le glorie, che quelle reali sembrano false, e quelle simulate vere? Così poca differenza c’è tra le une e le altre, che si deve discutere per sapere se ciò che si vede e si gode è verità o menzogna?».

Quando Basilio annuncia di aver designato al trono i nipoti Astolfo ed Estrella, il popolo insorge in favore di Sigismondo, lo libera e lo proclama re di Polonia: «Che mai succede, mio Dio? Tu vuoi che un’altra volta io sogni grandezze che poi il tempo distrugge? Un’altra volta tu vuoi che fra ombre e immagini io veda la maestà e la pompa che il vento disperde?».

Ma il confine labile e sottile tra il sogno e la realtà si offre al richiamo di giustizia e di bontà: «O fortuna, andiamo dunque a regnare. Non destarmi se io dormo; e se è realtà quel che mi accade, fa’che io non mi addormenti. Ma realtà o sogno, quel che importa è di operare bene; se è realtà, perché è realtà; se no, per acquistare amici per quando ci sveglieremo». (atto iii, sc. IV)

La vita è un sogno è il sintagma di un dramma di esperienza e rinuncia, un’insegna ampia che si sgancia dalla ferinità, dalle inclinazioni astrali e dalla fantasmagoria, per raggiungere l’apertura all’Assoluto e ai valori morali, in una prospettiva tomistica, come scrive Mario Casella:

«Considerato nella sua individualità materiale, l’uomo, come tale, non è, per quanto distinto, che un semplice frammento dell’universo, in balia della fortuna e del caso, della sorte e del destino. È, cioè, un punto di intersezione delle molteplici influenze fisiche e cosmiche, animali e vegetative, etniche e ereditarie, di cui subisce necessariamente le leggi, ma come persona morale, egli è perfettamente libero, cioè capace di determinarsi ai mezzi e di introdurre nell’universo, con la sua libertà, una serie di avvenimenti nuovi di carattere duraturo».

Le figure sulla scena sono in bilico tra movimenti opposti: fato, disegno divino, libero arbitrio, conoscenza platonica, come testimonia l’acuto studio di Federico Sciacca. Fausta Antonucci afferma: «“Sogno è, come vogliono fargli credere Clotaldo e il re, l’esperienza fatta da Segismundo a palazzo; solo il risveglio (la prigione) è la “realtà”. Il principe però non crede mai davvero a questa versione dei fatti, perché il ricordo di Rosaura e il sentimento che prova per lei attraversano intatti la presunta frontiera fra sogno e realtà […]» (p.84).

La conversione di Sigismondo, scrive Ferdinando Castelli, «avviene per via di ragionamento, non di pura volontà». Tutto sembra svanire, ma qualcosa si impone e resta, «Tutto è finito, ma quell’immagine della bellezza non è finita», come la prima apparizione di Rosaura che risveglia in lui una dimensione sperduta di confessione e incompletezza, che gli fa riscoprire l’incanto e la bellezza di qualcosa di buono, vero e giusto per cui vivere: «Ogni volta che ti guardo, tu susciti in me nuova meraviglia, e quanto più ti guardo, tanto più desidero guardarti».

La bellezza avviene, come la ferita vicina di qualcosa di lontano a cui si appartiene, come annota Sciacca: «[…] Le cose non valgono per quel che si manifestano, ma per quel che nascondono. Farsi prendere dalle parvenze è renderle insignificanti, è restare carcerati nell’angustia del corporeo e nella caducità del tempo. Il punto di vista da assumere, affinché il sensibile acquisti significato e il tempo di un valore, è l’eterno, di cui tutto è immagine».

La libertà evidenziata nel dramma, è un crinale di scelte e di cultura, (come si rinviene in Basilio con l’astrologia), ma permane nel suo cammino di conquista, nel passaggio da individuo a persona, e come capacità di compiersi e di raggiungere il proprio destino, con la vittoria finale dell’umiltà e della giustizia.

L’esplorazione avvinta dell’onore coniugale minacciato dal corteggiamento di un innamorato, che aveva avviluppato il cuore della protagonista, segna i drammi maturi di Calderón, attraverso, da un lato, la frattura di passato e presente, dall’altro il rapporto tra onore e intervento a sua difesa.

L’amore coniugale, la violenza, gli intrecci, la giustizia, la salvezza della paternità (El alcalde de Zalamea (Il giudice di Zalamea)) o la sua ribellione, il conflitto interreligioso, l’indeterminatezza del dramatis personae, la gelosia, l’ambizione e il fatalismo destinano l’eternare dei contrasti tra i personaggi, nelle trame del destino eveniente e nei suoi ingranaggi, nel loro stoicismo controllato, e, infine, nel dramma catastrofico della caduta.

Anche nelle opere a carattere storico e celebrativo, quali  Darlo todo y no dar nada, o En la vida todo es verdad y todo mentira, in cui la mescolanza di dati e suggestioni fantastiche si intrecciano in un connubio di identità e riacquisto di sé, come afferma la studiosa,«l’orizzonte generico della tragedia è consapevolmente eluso. Si tratta piuttosto di drammi, nel senso che dà a questo termine Joan Oleza quando studia la proposta teatrale del giovane Lope de Vega […]: opere teatrali dal progetto abbastanza complesso, dagli intenti ideologici più marcati rispetto alla commedia, dal tono serio, ma che eludono le emozioni tragiche e tendono a una conclusione conciliatrice» (p.173).

I drammi religiosi legano la vita e la morte della figura dei santi (e lo scontro con le autorità pagane) a una sorta di pathos ultimo, di apoteosi finale, che rappresentano la loro forza vitale fino all’ultimità del loro sacrificio, alla loro accettazione della morte e all’epica critica. La domanda elementare dell’uomo, in Calderón, è una storia che tocca il sublime fino al mito, all’inserzione della Natura.

Qui il mito è un’abbondante scenografia di fondi e sfondi che appaiono sulla scena come meraviglia del mondo rappresentato e rottura dell’illusione teatrale, costruzione e distruzione affettiva, seguono strade diverse: «dall’espansione della comicità, all’introduzione di un lieto fine estraneo alla tradizione mitica classica, all’importanza preponderante di un intreccio amoroso condotto secondo i modi della commedia più che della tragedia» (p.209).

L’auto sacramentalIl gran teatro del mondo, dato alle stampe nel 1655, pone un modulo disseminativo–ricapitolativo ampio e suggestivo. Meta–teatro, dove l’Autore, Dio, convoca a sé, in una festa il Mondo, il Re, il Ricco e il Povero, il Bambino («Tu morrai senza nascere)», e distribuisce loro le parti, imponendo di rappresentare, nell’immensa pagina dell’universo, la commedia dell’umanità: «Cenerà con me accanto: chi, senza alcun errore, / avrà eseguita la parte assegnatagli. / Ivi tutti e due (il re e il povero) eguaglierò nel premio».

L’Autrice scrive:

«La finezza e la capacità inventiva di Calderón consistono nel creare allegorie “continuate”, che funzionano lungo tutto l’arco dell’intreccio da lui ideato mettendo in relazione gli elementi drammatici con altrettanti concetti teologici, senza che per questo il gusto dello spettacolo diminuisca e il peso didascalico sia eccessivo. Come dice lo stesso drammaturgo, prendendo in prestito una metafora della pittura, arte che gli fu specialmente cara: «L’allegoria non è altro che uno specchio, che trasforma / la fantasia [l’intreccio inventato] in verità [la verità teologica]; / ed è tanto più elegante / se la copia sulla tavola / riesce così somigliante / che al vederne una si pensi / di starle vedendo entrambe»» (pp.309-310).

La salvezza non è disgiunta dalle opere e perché l’uomo possa compierle, Dio li ha dotati di libertà. La volontà di Dio è assoluta e per salvarsi occorre ritornare al suo bene e svolgere la parte assegnata: si salva la discrezione, il Povero, e dopo purificazione, il contadino, il Re e la Bellezza. Tutti hanno implorato pietà e chiesto perdono e accolti nella mensa celeste.

Hans Urs von Balthasar sostiene che: «In questa mensa celeste non c’è assorbimento del mondo in Dio, bensì risonanza cristologica nel banchetto messianico–eucaristico: in tal modo l’attore centrale e invisibile dell’opera, l’Uomo Dio, diviene indirettamente tematico, allo stesso modo che fin da principio […] era stato il nascosto presupposto dell’opera».

Il conferimento e la vastità teologica di Calderón impone alla scena la sostanza della natura umana, nella sua debolezza, nell’inquietudine, nella fragile inclinazione e nel peccato, come commenta Ferdinando Castelli:

«Ecco l’elemento che illumina il teatro di Calderón: il peccato originale che si riflette nei peccati personali. Il drammaturgo non si dispera. Ritrae la condizione umana, e la ritrae con eccelsa arte drammatica, per far risaltare la salvezza operata da Cristo. Nello stesso tempo vuole esortare l’uomo a non compiacersi nel peccato, che è morte, ma a vincerlo ricorrendo alla Grazia».

Antonucci F., Calderón de la Barca, Salerno Editrice, Roma 2020, p.364, Euro 25.

Downtown di Andrea Galgano – nota di Yvette Marie Marchand

di Yvette Marie Marchand*

17 gennaio 2021

leggi in pdf Downtown di Andrea Galgano – recensione di Yvette Marie Marchand

Leggere le poesie dell’antologia “Downtown” di Andrea Galgano significa partecipare al mondo emozionale di questo giovane poeta e scrittore. Mi arriva a fior di pelle tutto il suo entusiasmo per il conoscere, per l’analizzare e per l’entrare nel tessuto dei luoghi del Nord America e nelle menti dei suoi abitanti, per sondare i loro abissi e salire sulle loro alture. In quanto, come newyorkese, questa terra appartiene anche a me, sono stata toccata fino alle emozioni più remote, più inespresse, più preziose nel leggere queste intriganti poesie: intriganti in quanto la materia dei componimenti, le immagini e le riflessioni, restituiscono un quadro allo stesso tempo curiosamente veritiero e riconoscibile dei luoghi “esaminati” e, allo stesso momento, inaspettatamente  “scheggiato”, immagini distorte come se fossero viste attraverso un prisma, immagini che fuoriescono da una consapevolezza razionale, squarci di paesaggio e di vita volutamente alterate, più per svelare la sua anima che per nasconderla.

L’America e i suoi “splendori”, ecco quello che ha voluto condividere Andrea Galgano con i suoi lettori: ha voluto farli partecipare al suo “rapimento” materiale e intellettuale e alla sua passione da “viaggiatore al contrario”, proveniente, cioè, dal mondo del Gran Tour, un mondo colto e “competente”: un escursionista un po’ girovago, un po’ vagabondo che parte da un’Italia che contiene l’85% delle bellezze culturali e dei monumenti del mondo e si dirige verso la giovane e, delle volte, rude America, l’America delle insegne al neon, l’America dei:

“[…] principi mendicanti, … nomadi dell’azzardo / … saccheggiatori di racket / […] / l’uomo coi pantaloni buffi, la ragazza cittadina / […] / … piccoli eroi che attraversano il denaro facile […]” (“Atlantic City Fuggiasca”),

… ma anche verso l’America delle bellezze naturali, come quelle che si intravedono in “La luce bandita (Los Angeles)” in cui possiamo ammirare l’oceano e le spiagge di Venice Beach:

“… dove le piste svernano sulle maree / e le palafitte sono sillabe trasparenti / dell’arte innominabile / e le stelle assomigliano a labbra cardinali …”,

… e poi verso l’America della natura imponente, come quei fenomeni naturali che incontriamo in “South Dakota”:

“Le terre dell’inferno spento / sono crateri che colano sulle soglie / dei fagiani dalle zampe delicate / e dai fasti piumaggi / Badlands, bende avvelenate / sulle strisce delle frontiere nere / come lune alla fine delle carezze / sono danza di spettri / colline basse e ghiaccio di laghi / scoperchiati dalle pianure / dissetate / le anime delle Grandi Pianure / dipingono la preistoria dell’arcobaleno / con il buio delle mire / la roccia scolpisce grandi volti / sul monte Rushmore …”,

e, infine, verso quella natura (anche umana), stravagante, affascinante e anche delle volte brutale, che incrociamo in “La Terra delle querce (Oakland)”:

“Il giorno sul lago Merritt / fu arrischiato di sentinelle ignare /  […] / Fu odore di querce prima del chiaro / rubarono i soli alle colline / e la fedeltà cerea al cielo, / come mano remota sul panno / di argenti saturi e felici.”

Sono numerosissime le poesie raccolte in questa antologia. Raccontano le sensazioni che ha provato il poeta di fronte a praticamente tutti e 50 gli Stati e molte città degli Stati Uniti e a cospetto di molte Regioni del Canada: uno sforzo creativo rilevante da parte del poeta, che ha voluto porgere un autentico tributo a queste due nazioni e ai grandissimi spazi dei loro territori e alle corrispondenti complessità delle loro società, paesi relativamente giovani, ma che, come si evince da tanti “schizzi” poetici di Galgano, conservano echi e rimandi alla vecchia Europa a cui queste nazioni sono ancora fortemente legate.

Ci sarebbe molto da commentare su tutte le poesie di questa collezione, ma ho scelto di concentrarmi sulle poesie che cantano la mia New York City, le immagini di cui il prisma di Andrea Galgano mi ha restituito delle impressioni convincenti e riconoscibili.

Iniziamo con la Brooklyn delle mie nascite e infanzia che si è espanso da un iniziale quartiere densamente popolato e molto simile, direi forgiata nell’immagine delle grandi città di tutta l’Europa di fine ‘800 e inizio ‘900, che è venuto a trovarsi, negli anni ’50 dell’ultimo secolo e a quelli a venire, in gran parte “modernizzato” e collegato lungo la sua grande distesa di territorio al resto della città attraverso ponti e superstrade ad alta velocità come, ad esempio, la Brooklyn Queens Expressway della mia fanciullezza, eccitante per i ragazzi di allora per i suoi giganteschi pilastri di supporto e dirompente per il chiasso che produceva, che Galgano mi ha fatto ricordare, con un po’ di nostalgia, nella poesia, “Brooklyn Bridge”:

“… sono venti scoperchiati / e benzina del traffico sui sottopassi, / sole estremo sul ghiaccio relitto / e andatura di ponti che si incrociano / … / Si infiltra la intatta bellezza degli archi, / intaglia il moto delle rade dell’East River / come scroscio di candore curvato …”

nei cui versi si riesce persino a sentire il boato del traffico e respirare l’olezzo delle sue emissioni. Le immagini sono frastagliate, i suoni distorti e gli odori pungenti, come se fossero riflessi su un prisma iridescente. Anche le immagini delle persone sembrano arrivarci in alta velocità come se fossimo dentro uno di quei treni della metropolitana elevata sui binari sospesi a sbirciare dai finestrini dentro alle finestre davanti alle quali passiamo:

“… l’estremo frammento del padre / che dà da mangiare alla sua bambina / la donna che non paga e si alza sul tavolo impervio …” (“Brooklyn Heights-Prospect Park)

 Andrea Galgano onora anche il quartiere di Brooklyn in cui io sono cresciuta fino a tutti gli anni del Liceo, prima di iniziare l’Università a Manhattan. Il mio Williamsburg, allora quieto luogo preminentemente residenziale abitato soprattutto da famiglie middle class di origini italiane come la mia e da ebrei, molti di questi fuggiti dalle persecuzioni in varie parte del Nord Europa e, per la maggior parte, ortodossi, gli uomini con i riccioli alle tempie e le donne con le maniche lunghe, anche d’estate e le parrucche brutte in testa per coprire la loro bellezza dagli occhi di altri uomini. Essendo distante una sola fermata di metropolitana da Manhattan, questo quartiere è ora, con musei e teatri recuperati dai grandi palazzi e dalle vecchie fabbriche, diventato proprio il centro culturale della città stessa di New York e, con i ristoranti etnici e non, ricavati dai deliziosi piccoli negozi,  l’hub della vita notturna della Grande Mela:

 “… o nel guado audace di Williamsburg / dove iniziano le piccole luci dei vicoli, / gli antichi negozi striati, gli oggetti raccolti / e il narciso dei murales sparpagliato ad arco / sul ponte che si collega nel suo ferro algido …” (“Northeastern and Central Brooklyn – […] Williamsburg”). 

Non vengono neglette nemmeno le attrattive delle grandi e popolatissime spiagge della città di New York con “… il sudore / che increspa gli aliti caldi del vento / impigliato nelle salse di Nathan’s / e nei ghiacciati bagni …”: (Coney Island, Brighton Beach, Manhattan Beach)

… luoghi da sempre e ancora frequentatissimi dai newyorchesi, non solo d’estate e dove il famoso Nathan’s hot dog di Coney Island ancora va a ruba in tutte le stagioni.

Andrea poi ripercorre il Bronx, dove ho vissuto per una decina di anni, quelli dell’Università e dei miei primi posti di lavoro come insegnante: la zona di Fordham-Belmont, quella “dai notturni italiani / e la clessidra di Arthur Avenue / schivata nel cielo viola ruggine”, e poi il bellissimo Riverdale con le sue “garitte inafferrabili” e Pelham Parkway, dove, trasferitici da Brooklyn, vivevamo ancora, giovanastri, con i nostri genitori e dove:

“L’orlo del sole è materia disadorna, / non ho saputo capire / se i mori incroci dei laterizi / hanno ciglia e sigilli di sguardi / come scavati sillabari / nella nota dileguata prima dell’inverno / questi vicoli che obbediscono / all’appello di un ordine scuro / squilibrano gli autunni-crepuscoli / come navate in ritardo / nella notte dei numeri.”

In quel Bronx, così famigerato e biasimato in quel famoso film di Paul Newman, ma, come si evince da questi bellissimi versi, nella sua enormità di territorio, per la maggior parte molto bello, avevamo persino il mare con la sua spiaggia spartana e quasi intonsa, Orchard Beach, che (“[salì] il suo lume / tra gli occhi delle baie / senza ora di stagione / come principio di alchimia”) e con la sua bellissima isola dei pescatori, City Island, che “…si dimentica il suo segreto / nascosta nelle geometrie delle vampe / e delle ostriche …”, un posto di uno charme straordinario, pieno come si riesce ad evincere, di ristoranti di pesce e passeggiate meravigliose. Anche questo è il Bronx! (… e ringrazio Andrea per avermi dato l’occasione di mostrare i suoi lati bellissimi.)

Vorrei concludere questo piccolo scritto e anche il ringraziamento ad Andrea per avermi restituita una New York City frastagliata e, a volte, anche abbellita dai suoi versi, parlando, se posso, degli altri posti più conosciuti a me e di cui sono più “abilitata” a parlare, come  Morningside Heights, dove lasciavo la metropolitana per recarmi alla mia City College e City University of New York che, insieme alla Columbia University, è sempre raggiungibile da quella fermata, un posto incantevole e incantato per una studentella come ero allora, molto giovane e inesperta, alle prime armi nei giri del mondo che avrebbe continuato a compiere fino al presente.

“… poi Morningside e le colonne della Columbia / che espone l’inclinata salvezza delle costruzioni / la chiesa di Riverside /tra le pezze sospese dell’Hudson / senza deriva di fiele

distratti dal fondale studente e dai bicchieri / i tavoli che specchiano la luce delle facciate / e il ragazzo che porta il violino, la coppia / che versa l’alba strinta del cuore / sui primi acquazzoni dell’autunno sfumato / nei lunghi sogni delle ore di chiusura / all’uscita della metropolitana …”.

Un’incontro con un “mondo nuovo” , quello dell’Università fatta a New York, che è simile, molto simile all’incontro del giovane poeta con questo “nuovo mondo” nel suo complesso.

Nessuna parte della City è trascurato da Andrea Galgano, dall’Uptown, dove, nella elegante Yorkside ho vissuto come giovanissima single con i suoi “… pianeti appena aperti …” al Downtown ricordato nel  titolo, dal Village (East e West) al Lower East Side, da Chinatown a Little Italy, tutti minuziosamente fotografati e fatti suoi. Un lavoro sconfinato come le frontiere dei luoghi che lui ha scelto di cantare.

* Professore associata presso Università degli Studi di Perugia

 

 

 

 

La sorgente della Nuova poesia americana

di Andrea Galgano  8 dicembre 2020

leggi in pdf 181.NUOVA POESIA AMERICANA VOL.2

Il secondo volume della Nuova poesia americana[1], edito da Black Coffee, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, restituisce l’abbandono, il giaciglio solitario del tempo, la forza del mistero, il grido roco e lucente del contatto e del desiderio e, come afferma Alberto Fraccacreta:

«un corpo solido, un’efflorescenza timbrica così chiara e stentorea che la si può riconoscere immediatamente anche da pochi grafemi, simboli, figure retoriche […], anafore, ripetizioni tratte dal blues e dalla tradizione folk, mistura di linguaggio alto e locuzioni non soltanto pop ma persino punk, tono colloquiale, tendenza a far prevalere frasi gnomiche e a effetto per colpire il lettore, scardinamento metrico, utilizzo di slang giovanile che riflette una visione cinica e disillusa del mondo, risemantizzazione di espressioni idiomatiche e volgarismi».[2]

Efflorescenza, scardinamento e risemantizzazione, dunque, che plasmano l’io in modo minuzioso e isolato, per così dire, come afferma John Freeman nell’introduzione, ma che riesce a strappare e consegnare la creativa giacenza del desiderio, della rabbia e del dolore attraverso la rapidità dell’epifania, l’affilamento contratto della lingua, e l’orlo dei paesaggi con la loro brutalità lucente.

Partendo da Kim Addonizio, originaria di Washington D.C. ma che vive a San Francisco, la cadenza del battito sanguigno, l’estremità del corpo («Quando lo trovo, staccherò quell’indumento / dall’omino come stessi scegliendo un corpo / che mi porti in questo mondo, attraverso / le grida del parto e anche le grida dell’amore, / e lo indosserò come fosse ossa, come pelle, / e sarà lo stramaledetto vestito / in cui mi seppelliranno»), lanciato come limite, il cuore della carne è un incastro di memoria e dolore stupefatto (come la forte Generazioni, che unisce immigrazione oblio), fino alla tensione di istinto e desiderio, femminilità strappata e umbratile, durezza sofferta, blues violento, instabile e redento e, infine, amore che si squaderna, fino alla mappa stropicciata degli inferi («Per te mi spoglio fino alla guaina dei nervi. / Tolgo i gioielli e li appoggio al comodino. / Sgancio le costole, stendo i polmoni su una sedia. / Mi sciolgo come un farmaco nell’acqua, nel vino. / Sgoccio senza macchiare, me ne vado senza smuovere l’aria. / Lo faccio per amore. Per amore, io scompaio»):

«Mi piace toccare i tuoi tatuaggi nella più assoluta / oscurità, quando non posso vederli. So per / certo dove stanno, so a memoria la minuta linea del lampo che pulsa appena sopra / il capezzolo, so trovare, come d’istinto, le spire / azzurre d’acqua sulla tua pelle dove un serpente / s’attorce, affronta un drago. Quando ti tiro / a me, prendendoti fino a quando non resta niente / di noi silenziosi sui lenzuoli, adoro baciare / le figure nella tua pelle. Dureranno finché non verrai bruciato a cenere; qualsiasi cosa potrà durare / o mutarsi in dolore tra noi, loro saranno in te / ancora. Il pensiero di tale permanenza è spaventoso. / Così li tocco al buio; ma li tocco, ci provo».

Le correnti di Garrett Hongo, poeta delle Hawaii, sono un’ondulata e vibrata solitudine che ingloba il destino, il senso del tempo e dello spazio come un blues a bocca chiusa (si pensi a La leggenda), la storia e i suoi crogioli, il territorio dell’infanzia e delle figure care, le carte espatriate e l’esilio («La terra di lava fiammeggia di primule e bacche di rovo, / fuochi fragranti di rosa e azzurro / che sfrecciano nell’intrico del sottobosco. / Io sono fuori che do da mangiare ai polli, / spargendo rimasugli di semi e bucce di melone / sulle pietre sbeccate e il legno marcio del sentiero nella foresta»), il suo mosaico di cadmio e rimpianto, come splendore e rovina: «In California, a nord del Golden Gate, / il rampicante cresce quasi dappertutto, / erompe nei pascoli, / dall’ombra degli eucalipti / lungo la strada / sommergendo stamberghe fantasma e steccati in rovina / che si sbriciolano nel marciume / imbevuti dalle piogge recenti».

È un solco di paradiso perduto, l’istante cesellato dal nutrimento della terra, dove l’elegia solitaria vive di voci di soglie e di cielo, dell’immagine di Neruda, in un nome di lode e di litania, di polpe bagnate e felicità di aria tropicale.

Il grido rivelatorio di Lawrence Joseph, nato a Detroit ma ora a New York dove insegna legge alla St. John’s University School of Law, è una fusione dei dettagli e degli affreschi della temperie operaia e genesi libanese e americana. Queste luci rifratte di New York rappresenta la potenza dell’evento, la decifrazione delle cose sui taccuini e la ruvidezza delle distanze trasfigurate: «Prima dell’alba, di nuovo sulla strada, / sotto un cielo che mi inonda di ghiaccio, fumo e metallo. / Non voglio pensare / che il proiettile mi ha perforato la spalla, / che i denti marci del tossico / hanno sorriso, i capelli gialli gli si sono gelati. / […] Non sono io che urlo contro nessuno / a Cadillac Square: è Dio / che ruggisce dentro di me, con la paura / di essere solo».

La californiana Kay Ryan, cresciuta nella valle di San Joaquin e nel Mojiave, premio Pulitzer e National Humanities Medal, esplora il ritmo combinatorio delle rime interne, attraverso la morbida e scarna nudità di una infinita creaturalità, dalla teatrale bellezza dei fenicotteri, alla lieve pazienza della tartaruga, ai corvi sghembi, fino alla catarsi della rugiada e delle sue perline e alle oasi-miraggio.

È una epifania nascosta, il germoglio e lo scrutinio delle cose («Debolezza e dubbio / sono simbionti / celebri in tutti / gli ordini fungini»), gli orli del tempo e le nuove stanze: «La mente deve / riadattarsi / ovunque va / e sarebbe / comodissimo / imporre le sue / vecchie stanze – basterebbe / picchettarle / come una tenda / interiore. Oh, ma / i nuovi fori / non stanno dove / prima c’erano le finestre».

Aracelis Girmay, di Sant’Ana in California, che ora vive a New York e insegna all’Hampshire College, vincitrice del Whiting Award per la Poesia, consegna il dono vivido dell’intimità come purezza e dialogo, scheggia dolorosa di storia (si pensi a coloro che attraversarono il mare dal Nord Africa all’Europa, molti eritrei come i suoi avi), agone di vita che pulsa («Cantiamo così, per giorni & giorni, / allineate in file & file & file, rivolte al mare»), la vita e il dolore come in The Black Maria e il tocco, come conoscenza ultima e percettiva. Il suo ritmo è un soggiorno di grazia e purezza:

«Che fare con la consapevolezza / che il nostro vivere non è garantito? / Forse un giorno toccherai il giocane ramo / di qualcosa di splendido. & crescerà & crescerà / nonostante i tuoi compleanni & il certificato di morte, / & un giorno darà ombra alle teste di qualcosa di splendido / o renderà se stesso utile al nido. Esci / da casa tua, dunque, credendoci. / Niente altro importa. / Ovunque sopra di noi è il toccarsi / di estranei & parrocchetti. / alcuni tra loro umani, / alcuni tra loro non umani. / Dammi retta. Ti dico / una cosa vera. Questo è l’unico regno. / Il regno del toccare; / i tocchi del disapparire, delle cose che scompaiono».

Chiude l’antologia Kevin Young, originario di Lincoln, Nebraska, ma che vive in New Jersey, Chancellor of the Academy of American Poets, canta la danza estatica della realtà, come avviene in Lettere dalla Stella Polare: «Cara, le luci qui non chiedono / niente, il bianco cade / attorno alle mie lettere muto, / inarrestabile. Ti scrivo / dalla pancia vuota del sonno / dove niente tranne il freddo / si chiede dove vai; / nessuno qui scuoia teste aspre / e da poco come limoni, e solo / l’auto canta AM tutta / notte. In città / ho visto bimbi mezzo- / morsi dal vento. Perfino i treni / arrivano senza un’anima / che li accolga; le cose qui / non hanno bisogno di me, questo mondo / balla da solo».

Il blues racconta di volti e fantasmi, come quelli di Langston Hughes o Lucille Clifton, l’evenienza dell’evento, le serenate delle stelle lacere e del fulgore in frantumi e la cara oscurità: «Essere scomparsi, presi, / è quello che vuol dire paradiso – // È pieno di – ali – // Musica di ciò / che manca».

Aa.Vv., Nuova poesia americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020, pp. 192, Euro 13.

Aa.Vv., Nuova Poesia Americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020.

Fraccacreta A., D’avanguardia e feconda: la poesia americana oggi, in “Avvenire”, 8 dicembre 2020.

[1] Aa.Vv., Nuova Poesia Americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020.

[2] Fraccacreta A., D’avanguardia e feconda: la poesia americana oggi, in “Avvenire”, 8 dicembre 2020.

Margine di fuoco di John Smolens

di Emanuele Emma  21 novembre 2020

leggi in pdf Margine di fuoco di John Smolens

Il margine di fuoco è un punto di non ritorno cruciale e definitivo.

Voluttuoso nella sua tragica essenza anestetica e antiestetico come una cicatrice inferta da un intervento chirurgico.

Un incendio circoscritto nella piccola comunità di Whitefish Harbor.

Vite comuni e senza troppe pretese sullo sfondo del Lago Superiore, uno dei laghi più importanti del Nord America e il più grande d’acqua dolce per superfice nel mondo.

È in questa piccola arcadia dimenticata da Dio in inverno e popolata dai turisti in estate che i disgraziati destini di Hannah LeClaire, Martin Reed, Pearly Blankenship, Sean e suo padre Frank Colby si scontrano in una serie di vorticosi eventi.

Margine di fuoco racconta la storia dell’estate in cui Hannah e Martin tentano di ricostruire la loro vita. Si incontrano per caso, si innamorano, e decidono di restaurare una vecchia casa sul lago. Le cose si complicano quando Sean Colby ritorna in città dopo essere stato congedato dal servizio militare. Hannah è la sua ex fidanzata e la tensione cresce giorno dopo giorno. Scritto in una prosa ricca e piena di grazia, questo romanzo carico di suspense è allo stesso tempo un’emozionante storia d’amore, vendetta e rinascita, a cui fa da sfondo la bellezza incontaminata di uno dei grandi mari interni d’America, il lago superiore.”

La diciannovenne Hannah, imperscrutabile, solida e resiliente con alle spalle una gravidanza indesiderata aggravata in un assegno per finanziare l’intervento dell’aborto è determinata a voltare le spalle al tragico evento che ha condannato e limitato la sua esistenza in un puntino sulla mappa del Michigan.

Hannah convive con un dolore abnorme per la sua età, che le ha provocato malessere, frustrazione, allontanamento e rimorso.

Fare i conti con il proprio passato vuol dire affrontare ancora una volta la natura possessiva ed inarrendevole, connaturata in una disprezzante ed eloquente voglia di vendetta, del suo ex fidanzato Sean Colby.

“Hanna si chiese: se non fosse andata fino in fondo, se l’anno prima avesse deciso di avere il bambino, ora sarebbe riuscita a evitare tutto quel dolore? Forse, era un castigo.

Forse, dipendeva tutto da un senso di colpa che non riusciva a nascondere, a dispetto del nome che davi al colore, a dispetto del numero di mani di vernice che applicavi.

Fu allora che capì che aveva paura, che la tensione nervosa che la attanagliava – le tremavano leggermente le mani- era causata da una paura che lei non aveva mai conosciuto prima, e in quell’ istante capì anche questo: era una paura che andava nascosta.”

 

La penna meticolosa e dal ritmo superbo di Smolens ci conduce nell’incubo amorevole di una famiglia americana disfunzionale della seconda metà degli anni novanta.

Sean Colby, padre perduto e soldato disonorevole, congedato prematuramente dall’esercito dopo gli scandali avvenuti al bar “Mare Adriatico” ad Ancona.

Frank Colby, poliziotto del paese stimato e ben voluto, figura in cui si incarnano gli sbrigativi ideali di giusto e giustizia assieme ad una controversa, e allo stesso tempo profondamente radicata, idea di potere ed esercizio delle leggi.

La signora Colby è un flat character, una madre in crisi con sé stessa e col marito, perennemente ubriaca ed incallita fumatrice di sigarette al mentolo.

Il ritorno di Sean a Whitefish Harbor è un grande e doloroso fallimento, da un lato deve ancora somatizzare quanto successo in Italia, dall’altro non riesce ad accettare la nuova relazione amorosa di Hannah con Martin.

Martin Reed, più grande di Hannah di dieci anni, guida una Mercedes in un posto in cui una tale macchina è soltanto una stranezza, una cosa fuori posto dal fascino vago o addirittura anonimo.

Un ragazzo per bene che, assieme a suo cugino Pearly, sta ristrutturando la casa malridotta ricevuta in eredità da una zia alla ricerca di una vita serena e lontana dalla grande città da cui proviene.

Martin Reed, vittima di Sean e straniero.

Pearly Blankenship è una figura letteraria originale e sicuramente la più simpatica e divertente dell’intero romanzo.

Yooper, carpentiere, esistenzialista, ubriacone, punto di riferimento e coscienza centrale del luogo in cui vive, assiduo frequentatore della biblioteca pubblica e quasi amico di Frank Colby.

Questo personaggio genuino e stravagante sarà oggetto di un delizioso processo in tribunale, che di per sé potrebbe benissimo rientrare in un’antologia.

 

“Sapeva cosa pensava la gente di lui e, per essere cortesi, non gliene fregava niente.

Era un tipo solitario, ma dopotutto, essere lasciato in pace era sempre stato il privilegio di uno Yooper.

Se non avesse vissuto nella casa della sua povera madre, avrebbe incontrato qualche difficoltà a tenere un tetto sulla testa.

I suoi impieghi erano per lo più stagionali: per lunghi periodi, nel corso dei mesi invernali, a metà pomeriggio lo trovavi all’Hiawhata Diner o, più facilmente, al Portage, uno dei bar lungo Ottawa Street.

Se c’era un problema, qualcosa che implicasse l’intervento della polizia, il primo nome che ti veniva in mente era quello di Pearly.

Eppure alcuni, soprattutto i più vecchi, sapevano che frequentava la biblioteca pubblica.

E, per essere onesti, ci sapeva fare con i lavori di falegnameria edile.

Se riparava un tetto, non c’erano più infiltrazioni; se montava una porta, non si bloccava.

La sua filosofia, se ne aveva una, era che le cose in questo mondo dovrebbero essere a piombo, in pari e a squadro, ma non lo sono quasi mai.

L’universalità della provincia americana insegna che il giudizio altrui è un catalizzatore per gli eventi futuri e non può fare a meno di esistere.

Non importa quanto tu sia disposto a cambiare o quanto tu sia già cambiato, verrai sempre ricordato e marchiato a fuoco per quello che ti è successo o hai fatto in passato.

È l’abietta logica binaria del bene e del male a dominare il microcosmo della provincia. Margine di fuoco sfugge dalla categorizzazione di genere, non è soltanto un classico romanzo di suspense, è una mescolanza di elementi e situazioni che si intersecano insieme, dalla storia d’amore alla tragedia familiare, sino ad arrivare alla conclusione del romanzo che è una lezione di letteratura in piena regola. C’è sempre una seconda volta per tutti, nonostante tutto.

John Smolens insegna alla Northern Michigan University dal 1996.

Ha pubblicato nove romanzi e una raccolta di racconti, è stato nominato per il premio Pulitzer e il National Book Award e il Detroit Free Press ha selezionato Margine di fuoco come miglior libro dell’anno.

Margine di Fuoco è un libro pubblicato da Mattioli1885.

“L’idea della vernice fresca, l’idea di rendere pulita e onesta quella casa e quella vita ora sembrava assurda.

Ci sarebbe sempre stata la paura.

Ci sarebbe sempre stato il dubbio.

Ci sarebbe sempre stato il rimpianto.

Hannah si chiese: se non fosse andata fino in fondo, se l’anno prima avesse tenuto il bambino, ora sarebbe riuscita ad evitare tutto quel dolore?

 

 

 

 

 

 

 

 

Ida Vitale: l’intima estremità

di Andrea Galgano  3 novembre 2020

leggi in pdf IDA VITALE. L’INTIMA ESTREMITÀ 

La pubblicazione, presso Bompiani, di Pellegrino in ascolto[1], della poetessa uruguaiana Ida Vitale (1923),a cura di Pietro Taravacci, non solo colma una lacuna editoriale e amplia la collana CapoVersi, ma riporta la visualità essenzialista della poesia ispanoamericana attraverso uno scavo caparbio, un caleidoscopio irripetibile della visura del tempo e una forza segnica che ricolma il disegno dell’opus musivum, che risale a Juan Ramón Jiménez, attraverso un residuo di sottrazione in cui

«la sua voce si è andata tuttavia modificando, in modi a volte impercettibili, lievi movimenti ondosi che nascondono correnti sotterranee, mentre cercano di ancorarsi ad alcune parole-chiave, ricorrenti come un basso continuo nella sua scrittura. I primi testi sono contemporanei della cosiddetta «Generazione del ’45», composta di scrittori e scrittrici che esordivano in un paese considerato ancora un’isola felice, lontano dai sommovimenti populisti, dalle rivolte contadine e dalle violenze dell’America Latina della metà del Novecento: fu un gruppo fondamentale per la cultura uruguaiana, che cercò di cogliere contraddizioni e false sicurezze di quell’ambiente borghese un po’ ovattato. Al suo interno Ida Vitale cominciava a distinguersi sia dalle voci veementi e passionali di Idea Vilariño e Amanda Berenguer, tra le tante donne protagoniste della letteratura uruguayana del momento, sia dall’incipiente colloquialismo di Mario Benedetti. Le parole-chiave che marcano questa prima fase si riferiscono al pozzo e al labirinto, evocando Onetti e Borges ma mantenendo da loro sempre una certa distanza: nella poesia di Ida Vitale, infatti, non funzionano come metafore di situazioni oniriche o metafisiche, ma come spazi dello spaventoso quotidiano, spazi costruiti dalle parole e dai quali il soggetto poetico potrà uscire solo grazie a un diverso intrico delle parole stesse, come la spesso rievocata Arianna, con il suo filo e il suo tentativo di orientamento, sempre potenzialmente fallimentare».[2]

Ed ecco che La luz de esta memoria (Luce di questa memoria) (1949), riscoprendo l’esatto legame di luce e memoria, che risale a Lope de Vega, Leopardi, Machado e Bergamin, coincide, come afferma Pietro Taravacci nell’introduzione, «con gli stringenti e già definitivi interrogativi a cui sottopone la realtà. Una realtà riconoscibile nella sua quotidianità, nella sua contingenza individuale e storica, ma al tempo stesso elevata a dimensioni e a tipologie di respiro già universale, già consapevole della pluralità di senso della poesia, già bisognosa di attestarsi in una zona intima dove è possibile ascoltare il rumore del mondo e l’insufficienza della parola stessa[3]».

La dimora del tempo tocca, accarezzando, il limite, lo prefigura e lo oltrepassa, incide realtà e sogno, destino e parola. Può la parola dire la vastità? Può la parola sillabare le nebbie del destino e del cielo fatto un buco senza voce e senza sponde? Ida Vitale entra nelle cresciute ombre del mondo, nella dolenza dell’aria, nella frusta di luce e si chiede «che resterà allora, passata ormai la nebbia, / nelle mie mani?».

Il linguaggio oscilla in una fitta tessitura di sguardo e cerca il significato per farsi bellezza:

«Notte, questa dimora / dove l’uomo si trova / e sta solo, / sul punto di morire e cominciare / a andare in altre arie. / Il mondo perderà nubi, cavalli, vacilla / meraviglia, / si dissolve, / cade come sul bordo del miraggio / ma ormai senza miracolo. / Pian piano la speranza / si riveste di oblio. / E non vedo più in là / di un nome che ho chiamato / lettera un bacio una carezza / una rosa aperta un volo cieco un pianto. / E poiché tutto è privo di se stesso, tutto col piede pronto / per atterrare in terra scura, / il cielo fatto un buco senza voce / e senza sponde, / non sono più io la povera, / compresa tra mortali, malinconiche arie, / corpo accecato di luce o pura lacrima. / Quello che questo mare, questa cresciuta ombra / va perdendo, / viene a salvarsi in me, / nuvola sempre, / cavallo azzurro, / eterno cielo». (Notte, questa dimora).

In Palabra dada (Parola data) (1953), l’inafferrabile contraddizione, l’intima estremità del silenzio, pone l’attesa come radicale stimmung che canta il vago profumo della notte, il ritorno indomito dell’amore, in una «cifra / nuova, estrema e mia, / sotto un nome finora inavvertito, e unico e necessario?», i bagliori delle cose, la domanda della finitudine degli odori, il giorno già ricordo, e ricerca uno specchio di paradiso e volto di sogno, come una luna senz’ombra e una sopravita.

Ossia un richiamo che oltrepassa l’oltre, lo avverte, lo segna nel mistero straniato e in questa inesorabilità, come scrive Pietro Taravacci, «di quell’azar, così ricorrente in Ida Vitale, nasce una nuova energia, l’occasione di un gioco poetico in cui la parola è cosciente del proprio limite ma anche del proprio potere di strumento atto a sovvertire la realtà data, a farsi complice dei sogni dell’individuo, delle sue infinite preguntas[4]».

La vita è il nucleo della domanda. Ed è la materia vivente a concepire fuga e ritorno di acqua madre, di un dispendio d’amore e «una scarsa nube di parole / estranee, a pioggia sulla nostra polvere».

Cada uno en su noche (Ciascuno nella sua notte) (1960) entra nella chiarità del mondo e nella appartenenza ad esso, nella rarità del grave suolo che schiude lo stupore, per rinascere, visitata dall’enigma dell’essere e dell’Esser-ci.

L’anima si consegna come una lettera frantumata di dolore e nel frammento illusorio cerca e ricerca il senso di quel favoloso volo che vive dentro di sé. È poesia di viscere, incendio chiaro, fedeltà di sogno e veglia, salvezza invocata come promessa. La cera bruna dei passi è passeggero vuoto spazio dove tutto è vigilia e soglia intatta di ombre, affinchè tutto non muoia e sia una pura sorgiva vena d’acqua o amore splendente: «Tutto e vigilia. / Tutto sogna un rinnovo / e muove il cuore a tenersi lontani / dai precipizi. / Nella sua notte ognuno / speranzoso chiede / il risveglio, l’aria, / una luce semenza, / qualcosa in cui non muoia. / Qualcosa d’intatto, esatto, affidabile, / per affrontare l’ombra, / una pura sorgiva, / vena d’acqua, / qualcosa / come quella caraffa tua, Isabel, / dove forse /c’è chiarità umana, / amore e il suo potere risplendente, / più misterioso della stessa ombra».

La drammatizzazione della scrittura si conferma in Oidor andante (Pellegrino in ascolto) (1972), che non solo separa, come uno spartiacque, la produzione precedente ma conferma

«la lucidità e l’attenzione disincantata di chi, osservando la vita reale e la scrittura con un sovrappiù di impegno filosofico, si presenta nella sua definitiva essenza e nella sua esperienza di essere peregrino, fuori e dentro il tempo, in perenne ascolto del mondo e con un rinnovato impegno verso la parola. Ancora più importanti, dunque, sono le citazioni in epigrafe in una fase che vede il soggetto in ascolto e continuo dialogo con la realtà e i quesiti che assillano la sua voce attraversati da una singolare ironia[5]».

La rarefazione della parola e del segno verbale, l’esattezza delle parole-arianne, il fuoco della battaglia della controversia quotidiana, che nella perpetua mota «brandisce enunciati contro il tempo / consegna la salvezza alla parola», la traccia del silenzio indicibile nel fiore dell’estate sono il termine estremo di un pronunciamento di piaghe salate e amore spietato.

La poesia di Ida Vitale non teme oscurità, la attraversa persino nella desolata landa dello spavento e della dispersione, nel cosmo umbratile striato di oro ed alloro di Montevideo e nella violenza del mondo. Essere pellegrino in ascolto significa obbedire alla propria fragilità viandante: «Vedo agitare le penne del tempo / che e un fagiano vecchissimo / su facce senza enfasi, / armate contro la vista del delitto. / Vedo la cecità suicida. / Re delle pene, apici di un sogno / inabissato, quelli ancora lirici, / i sempre speranzosi, / i pescatori di altri mari magici, / a ogni passo spostiamo i vetri / e temiamo».

Dopo il suo esilio in Messico, causato dal golpe militare del 1973 e dalla dittatura fino al 1985, Jardín de sílice (Giardino di silice) (1980), ci restituisce il suo nuovo territorio, l’influenza di Octavio Paz e la sotterranea potenza del neobarocco.

La fonte enigmatica dell’invisibile e dell’indicibile, caratterizzato dall’omaggio a Magritte e alla vertigine rovesciata di Escher, la sostenuta forza della chiarità e della distanza («Morte-vita: labirinto / giù nel fondo di un pozzo / o lattee stelle?»), cerca il miracolo intessuto nel limite, raffigura il dramma del presente che arde nella rovina e il tempo di polvere e cenere segna dapprima la dispersione, poi, ancora una volta, il tempio del destino e la sua ipostasi:  «Verrà il tempo per pascere parole / come oscuro alimento, / e per bruciar piccole salamandre, / tutti gli esorcismi, / quasi dei memoriali dove era aria libera, / e non luogo comune, / che nessuno / di fronte allo sgomento dei crocicchi / sogna o legge».

Sueños de la constancia (Sogni della costanza) (1984) approfondisce il respiro del disarmo, la luna delle maree desolate, il grigio resto della memoria, laddove i termini del caos impongono la cifratura di ogni addensamento. Vi è sospensione, attesa, resto di memoria, buio di gemme.

Léxico de afinidades (Lessico di affinità) (1994) celebra libertà inedite, in cui la consapevolezza di ogni meta onirica non teme ricominciamenti e «per innamoramento dell’istante / cede la luce le ultime difese», come se la rarefatta vitalità del tempo conosca il suo stesso limitare («Parca paziente / che dà il seno alla morte / invia oscuri messaggi / da azzurrati viola, / corolle e corolle»), o come Procura de lo imposible (Ricerca dell’impossibile) (1998), in cui la parola è nuda e austera, percepisce sempre il senso dell’esilio ma contamina la sua stessa essenza precaria, la parola si riduce, diventando sospiro e balbettìo di dissolvenze e assenze ostinate: «Là nell’aria stava / tenue, imprecisa, la poesia. / Pure lei imprecisa / la farfalla notturna arrivò / né bella né profetica, / a perdersi tra fogli e paraventi. / Il debole affilato nastro di parole / si dissipò con lei. / Torneranno ambedue? / Forse, in un momento della notte, / quando non vorrò scrivere / nient’altro di profetico / che quella occulta farfalla / che evita la luce, come le Fortune». (Farfalla, poesia).

La velocità di Reducción del infinito (Riduzione dell’infinito) (2002) scoperchia l’anima dilatata dei miracoli dell’ombra, il mistero dell’esistere e il pericolo della profondità dell’essere attraverso una breve mescolanza di sguardo e di centro, come se i passaggi da opacità a scintilla, sogno e veglia siano vortice di senso tradotto e goccia trasognata.

Le ultime raccolte Trema (2005), Mella y criba (Frattura e cernita) (2010) e Mínimas de Aguanieve (Minime di nevischio) (2015), fino alle Antepenúltimos si aprono al valore lucente della meta poetica, in cui l’avido vetro dei luoghi e la parola che si lascia spaccare, l’accettazione della finitudine e della fedeltà alla natura («Come un uccello / che per cantare attende / che la luce finisca, / scrivo dentro il buio») diventano ricognizione franta di verità e di sospensione («Penetra l’incomprensibile / e amalo. Vivi il rovescio del fine: / sii cardo, se arrivasti come lana, / pietra, se, filo di seta, fluttuassi»), di visibilità sacra e di speranza, come ombrato silenzio, dove tutto è sipario: «Ritornare è / tornare a occuparsi / di rendere alla terra / la polvere degli ultimi mesi, / ricevere dal mondo / la posta assopita, / cercare di sapere / quanto dura / una memoria di colomba».

O ancora nell’intenso scintillio mai sazio di bellezza, l’inseguimento di Ida Vitale si addentra nel tempo oscuro, per immergersi nella profondità cromata del tempo e nelle sue vestigia minuziose:

«M’addentrai nella sera / per dove non dovevo e la sorprendo / nel rituale che apre all’autunno: / forse sono ancor gialli / gli aranci, non hanno raggiunto / i rossi un loro tono d’amaranto / e vengon fuori sorprendenti verdi, / distratto ritardo. / Devo scordare i piccoli errori, / tornar per donde venni alla pazienza, / corregger l’orologio, unico errore». (Nell’ora credula).

Roberto Mussapi, guardando alla forza ungarettiana e alla sorgività sapiente e innocente di Ida Vitale, commenta:

«Entra nella sera quasi come Dino Campana (quasi, Campana è irraggiungibile nei suoi ingressi e coleridgiano, preluziano, ma più immediato ancora, nelle sue visioni). Il rituale che s’apre all’autunno, il poeta vede l’aprirsi della stagione come di un palcoscenico e un capitolo della vita. Osserva il ritardo della natura misticamente compartecipe, ma non misticamente, come poesia esige, lo sa narrare, in felici immagini cromatiche nel suo epifanico svelarsi. Scordare i piccoli errori, il tempo dell’orologio: non per uscire dal tempo, senza ritorno, come un viaggio sciamanico sbagliato da un discepolo che poi si perde. No, correggere l’unico errore del tempo analiticamente cronologico, entra nel tempo metamorfico della natura».[6]

[1] Vitale I., Pellegrino in ascolto, a cura di Pietro Taravacci, Bompiani, Milano 2020.

[2] Tedeschi S., Ida Vitale, transumanza di parole in versi, in “Il Manifesto”, 27 settembre 2020.

[3] Taravacci P., Labile esattezza: L’itinerario poetico di Ida Vitale, in Vitale I., cit., p.8.

[4] Id., cit., p.10.

[5] Id., cit., pp. 12-13.

[6] Mussapi R., Nel fuoco di Ida Vitale, (www.succedeoggi.it/2020/10/nel-fuoco-di-ida-vitale/).

Vitale I., Pellegrino in ascolto, a cura di Pietro Taravacci, Bompiani, Milano 2020, pp. 432, Euro 20.

Vitale I., Pellegrino in ascolto, a cura di Pietro Taravacci, Bompiani, Milano 2020.

Mussapi R., Nel fuoco di Ida Vitale, (www.succedeoggi.it/2020/10/nel-fuoco-di-ida-vitale/).

Tedeschi S., Ida Vitale, transumanza di parole in versi, in “Il Manifesto”, 27 settembre 2020.

Julie di Don Robertson

di Emanuele Emma  14 ottobre 2020

leggi in pdf Julie di Don Robertson

È la voce di un’affidabile bugiarda a guidarci, attraverso una successione cronologica di eventi, nell’intimità di trentasei anni di storia americana, tra catastrofi e rivoluzioni culturali epocali.

Da una domenica pomeriggio di novembre 1938, fredda e leggermente bianca, passando per il paradisiaco 1949, in cui Julie si fidanzò con un ragazzino dal vocabolario frizzante e colorito chiamato Morris Bird III, sino ad arrivare al freddo letto di una clinica sanitaria nel 1974.

“Ciao. Mi chiamo Julie, e come nome, beh, non ha niente che non vada, capite?

Eppure, suona in qualche modo timido, incerto, e perciò preferirei mi avessero chiamata… uhmm…

Julia, se proprio devo essere sincera. O anche … addirittura … signorina Julia.

E il fatto che io confessi una cosa tanto imbarazzante mi rende forse alquanto arrogante o seriosa, o sostenuta? Beh, nel caso, me ne scuso.

Non credo di essere arrogante o seriosa, niente affatto.

E’ solo che sono sempre un po’ con la testa fra le nuvole, e insomma non è un difetto che ci possa morire qualcuno, giusto? Non potete condannarmi a morte per questo.

E, sapete, a pensarci bene, non mi dispiacerebbe essere, almeno un po’ arrogante e sostenuta.

Se lo fossi stata, mi sarei risparmiata parecchi imbarazzi e dispiaceri.

E non c’è niente di sbagliato nel volersi risparmiare imbarazzi e dispiaceri, dico bene?

Senza parlare poi del dolore. Oh, ma non credo che al Padre eterno freghi tanto di cosa mi piaccia o non mi piaccia, se ne infischia delle mie preferenze ed è sempre stato così.

La verità è che, credo, ho avuto la mia buona dose di caro, vecchio, maledetto dolore nella vita, e anche di più.

Il mio primissimo ricordo ha a che fare, guarda caso, col dolore, e ricordo tutto quanto fin troppo bene.”

 

Il riverbero del passato luccica nel diario di Julie, oscillando tra il senso di colpa e il sentimento nostalgico di cui la prosa è intarsiata.

Il solenne scrutinio del tempo si rivela essere la capacità appresa di comprendere ed umanizzare situazioni e personaggi che hanno costituito ed alimentato la difficile e timida vita di Julie.

«Io amo più di quanto mi ricordi davvero di aver amato»

Il tono dei ricordi è mutevole, cupo e sincero nel ricostruire i rapporti con la madre e la sua famiglia d’origine, innocuo e all’apparenza inconsistente quando gli eventi del mondo esterno si intersecano nel finto presente di Julie, dolce e nostalgico nei confronti del suo primo e vero amore.

«Guardai i giocatori di baseball, il fitto traffico di East Boulevard, un laghetto con le anatre, un campo da tennis, vecchi che giacevano su panchine verdi cadenti e scheggiate, altre persone anziane che camminavano con i loro grossi e anziani cani, e spiai e ascoltai tutte quelle cose che parevano permanenti ed eterne, e mi dissi che, d’accordo, potevo aspettare; avevo la giovinezza dalla mia parte.

Morris e io avevamo solo quattordici anni, dopotutto era solo soltanto il brillante e perfetto 1949, e il tempo, il dolore, e i pensieri ansiosi non avrebbero mai potuto danneggiare quella brava ragazza quattordicenne e il buon vecchio 1949, non finche’ fossi stata abbastanza tranquilla da vedere e assaporare quei giorni per la loro rapida dolcezza senza fiato».

Julie ripercorre la propria esistenza scavando nei recessi di quelle piccole e incontrovertibili ferite quotidiane che si trasformano man mano in bugie per sopravvivere.

Bugie e rapporti umani ostacolati, oppure basati su vicissitudini personali, costituiscono il portamento del sordo dolore della protagonista, rivelando l’umanità e la fragilità delle false promesse di vita e della sofferenza.

A braccetto col passare degli anni tutte queste menzogne si rivelano per quello che sono, ingannevoli appigli di fede che distruggono la forza di credere in sé stessi.

Julie è la perla postuma del grandioso Don Robertson, romanzo scritto negli ultimi anni della sua vita e mai pubblicato da nessuna casa editrice.

Questo libro breve e ricco di significati e bellezza, ha potuto prendere vita grazie allo straordinario e meticoloso lavoro di Nicola Manupelli, scrittore, traduttore e importatore di capolavori americani.

Nella commovente postfazione intitolata “Don, il ritrovamento di Julie e un ragazzino di diciotto anni”, possiamo rinvenire preziose informazioni sull’autore e sulla sua vita.

È una postfazione molto interessante, ci permette di capire chi è stato questo gigante della letteratura dimenticato dall’editoria occidentale e poco chiacchierato sul web, possiamo toccare con mano la sua incontrastabile determinazione nello scrivere, nonostante il diabete gli avesse fatto perdere le gambe, un cancro ai polmoni e due attacchi di cuore.

«Più mi addentravo nell’opera di Don, più mi rendevo conto dell’ampiezza, della magnificenza, dell’umanità dello scrittore e del grande progetto che stava dietro a tutto quanto: un affresco della storia americana attraverso gli uomini e le vite comuni.

Un affresco che conteneva varie gradazioni di umore, dall’ironico al tragico, dal dissacrante al sacro, dal massimale al minimale.

E’ stata usata spesso l’espressione Grande Romanzo Americano per tanti scrittori, e ormai è quasi svilente utilizzarla, e non dirò che l’opera di Don lo sia.

Ma il fatto è che adesso, ogni volta che sento parlare di Grande Romanzo Americano, beh… non posso fare a meno di pensare a Don».

 

 

 

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini