Psicodinamica del Sé nelle relazioni interpersonali Ricerca, patologia, intervento, a cura di Irene Battaglini

Recensione di Maria Assunta Parsani

9788854851979

In questo volume sono raccolti i contributi, tratti dalle relazioni degli italiani che hanno partecipato al 16° Congresso Internazionale della World Association for Dynamic Psychiatry, congiuntamente al 19° Simposio Internazionale della Deutschen Akademie fur Psychoanalyse presso l’Ospedale psichiatrico della Ludwig-Maximilians-Universitat a Monaco dal 21 al 25 marzo 2011. 

Ne è scaturita una linea di pensiero frutto di orientamenti terapeutici e teorici diversi quali quello psicoanalitico e cognitivo, psicofisiologico e neuropsicologico, fino alla psicologia analitica attraverso l’espressione di un linguaggio immaginale della Firenze del ‘300, che è andata a comporre un’immagine del Sé variegata e poliedrica, ma soprattutto una espressione della formazione dell’identità individuale data dall’ ”Essere” in movimento nell’universo della psiche.

Si delinea ad apertura della raccolta, nell’intervento di ALFREDO ANANIA, la ricerca dell’identità culturale legata al Sé storico, all’inconscio collettivo contemporaneo, al senso della Polis e allo spirito loci, che rintraccia le origini del Sé individuale non solo nell’origine psico-ontogenetica, dalle sue matrici relazionali, ma anche psico-filogenetica derivante dalle matrici culturali che sono inconsciamente presenti in tutte le persone. La trasmissioni culturale delle proprie produzioni simboliche consente, attraverso l’impulso alla libera interpretazione, di trascendere la realtà materiale ed essere investita dal senso oscuro, ma universalmente significativo, che ci conduce alla ideazione di modelli di ricerca originali e all’incontro e allo studio reciproco tra diverse appartenenze culturali. L’inconscio si configura come una macchina del tempo che, ogni volta dà luogo a un qualcosa di nuovo, mai ripetitivo.

Proprio attraverso l’utilizzo della macchina del tempo IRENE BATTAGLINI ed EZIO BENELLI, tracciano le linee guida dell’esperienza del Sé attraverso il pensiero immaginale, focalizzando il tema centrale dell’ermeneutica delle immagini sulla soggettività che richiama alla centralità autonoma del Sé nel linguaggio dell’arte, in un moto dialettico con il Sé di chi fruisce. La soggettività all’interno dell’intersoggettività diviene un luogo non concluso tra due soggettività e a esse solo appartiene, come la fiamma blu – nera, descritta da Hillman, attira le cose e le consuma, mentre il biancore continua a fiammeggiare al di sopra. Da ciò scaturiscono la relazione profonda e il contatto ctonio con il mondo e il legame con il numinoso, l’opus alchemico che mira all’integrazione, per giungere alla realizzazione del Sé che si manifesta nella meta ideale del percorso ideativo. Il processo circolare di relazione che va dal tutto alle parti e viceversa, conduce a un continuo scambio tra le cose che modificano il complesso del sapere. Si traccia attraverso il pensiero di Jung, la declinazione numinosa del Sé e diviene guida sulle interrogazioni rivolte alle prime immagini che hanno ispirato Giotto di Bondone e Dante Alighieri con la codifica di linguaggi generativi di storia e di civiltà. Gli autori individuano nella ricerca, un viaggio verso gli inferi che deve prevedere sia una mappa, sia un’ipotesi di ritorno e di salvezza. La mente immaginale determina un confronto ed anche una sovrapposizione tra l’immagine originale e la risultante del lavoro immaginale, per cui ne deriva non solo la formazione di un nuovo mosaico, ma molto più probabilmente la ricostruzione di un mosaico danneggiato, che attraverso uno sguardo affinato reca alla luce frammenti dispersi e nascosti. Scaturisce da queste riflessioni il perché della Psicologia e dell’arte insieme. L’arte come strumento per una più diretta connessione con ciò che non conosciamo a livello razionale, in cui si fa spazio la domanda di come l’ermeneutica del mondo immaginale possa essere d’aiuto alla comprensione dell’opera d’arte. Gli autori, seguendo Hillman nella sua apertura al mondo immaginale, tracciano il legame con Firenze e l’Italia, la nascita della prima conferenza di Eranos, il primo commento della favola di Amore e Psiche, in cui la tensione genera una psicologia dell’arte che diventa parola dell’anima. Lo studio psicologico è l’umile tramite tra il mondo interno dell’analizzando e il mondo interno del mondo. E all’anima è assegnata la funzione di “intermedio” di tutte le cose, senza essere né corporea né visibile, essa è dominatrice dei corpi.

Ricorrendo ancora all’arte e alle sue possibilità esplicative, VITTORIO BIOTTI individua nella Trilogia di Bion un progetto teatrale che richiede un confronto sui grandi temi dell’individualità, la sua formazione, le sue dinamiche, cercando risposte nei grandi lavori del periodo classico e nel contrappunto del periodo americano. In Bion, citando F. Di Paola, si ritrova la necessità e l’anticipazione della necessità di porsi di fronte ad una nuova nascita.             

Attraverso l’analisi delle varie teorie ad approccio biologico, evoluzionistico, psicosociale, cognitivo DAVIDE DETTORE evidenzia come alla costituzione dell’identità di genere contribuiscano sia i fattori biologici, ma anche le componenti sociali, culturali e cognitive. Questi fattori insieme concorrono a strutturare un complesso di elementi schematici che sono alla base del concetto di identità di genere, non necessariamente  limitato alle categorie dicotomiche di maschio e femmina. Emerge ancora una volta prepotente il Sistema del Sé, nel modello evolutivo concettualizzato nell’ottica cognitivista di Doorn e coll. in cui i concetti di identità di genere sarebbero compresi e più validamente comprensibili. Secondo tale impostazione, il Sé può essere considerato come un sistema cognitivo di controllo composto da un sistema dominante  (“master self”) che si mantiene in relazione e in comunicazione con una serie di sottosistemi subordinati, operanti ciascuno in parallelo rispetto agli altri e quindi autonomi, indipendenti e influenzati dal sistema del Sé che a sua volta li influenza. L’espressione dell’identità di genere di un individuo sarebbe in stretta connessione con la predominanza dell’uno o dell’altro sistema, ma anche con l’intensità, con la frequenza e con le occasioni in cui l’uno o l’altro si esprime. Si costituisce una visione del Sé relazionale, multiplo e discontinuo, organizzato differentemente dalla versione del Sé dominate. Il complesso modello è paragonato dall’autore alla teoria di Liben e Bigler, evidenziando le differenze individuali strettamente connesse al “modello di vita personale” e alla storia dell’individuo, nella costituzione dello specifico dell’identità di genere che amplia lo stereotipo culturale.

Partendo dalla considerazione che la psicoterapia rappresenta un trattamento di prima scelta per i disturbi mentali gravi, inclusi i disturbi di personalità, ROBERTO DI RUBBO, ELENA SOGARO e SEFANO PALLANTI presentano un case report relativo alla Psicoterapia psicodinamica Comunicativa Evolutiva di Gruppo (PPCE-G) in cui viene illustrato il Modello Comunicativo Evolutivo, basato sulla teoria della complessità per la terapia di pazienti con disturbo mentale grave in un setting ambulatoriale. La Psicoterapia illustrata mantiene al centro dell’impostazione le libere associazioni e le dinamiche mentali inconsce, mentre i terapeuti focalizzano l’attenzione su tutti i processi connessi con l’esperienza delle difficoltà nelle relazioni e nelle patologie di personalità del paziente. Nell’analisi dell’iter terapeutico si evidenzia come il cambiamento dei sintomi sia strettamente legato ai cambiamenti del senso dell’identità personale e delle dinamiche interpersonali dell’identità, ponendo l’accento sulla funzione della struttura inconscia della “Frontiera Personale” che deriva dall’acquisizione dei principi relazionali di organizzazione più adattivi. Quest’ultima essendo inconscia cattura l’attenzione del terapeuta, il quale a sua volta si esprime attraverso un comportamento inconscio e l’approccio comunicativo evolutivo stimola il terapeuta a prestare attenzione alla narrazione dei pazienti e a rimanere nella posizione di Condizione Necessaria e non usurpare la posizione dei protagonisti. Ciò stimola la creazione di compliance. Il PPCE-G sembra fornire nel feed back interpersonale benefici sia per l’alleanza terapeutica sia per il senso d’identità personale.

MARIA FEDI sceglie, invece, di seguire il percorso degli eroi Edipo e Ulisse, nei quali s’intravede la ricerca del Sé che ci appartiene perché, afferma Freud: ” Deve esistere nel nostro intimo una voce pronta a riconoscere la forza coattiva del destino di Edipo ”e attraverso un parallelismo che conduce tramite il mito all’archetipo e alla forza dell’anima disvela, come nelle parole di Hillman la nostra psicologia del profondo in vesti antiche. Nel viaggio psicoanalitico, attraverso il metodo l’uomo si rivela, racconta la propria storia e attraverso l’incontro con l’anima e nel fare anima consente al molteplice di divenire materia psichica, di entrare nell’universo personale dove è possibile la formazione del simbolo. L’incontro con l’anima, afferma l’autrice, come avvenne per gli antichi eroi, ci guida alla scoperta di una dimensione interiore, riconoscendo la storia dei molti e dei molti nella nostra storia.

Come in un’oasi poetica che tanto si addice al fare anima, ANDREA GALGANO, traccia alcune linee del divenire nella poesia di Eugenio Montale: la morte della sorella Marianna, l’incontro con Anna degli Uberti e successivamente a Firenze Drusilla Tanzi che diverrà sua moglie. In queste figure femminili descritte nei versi del poeta, l’autore ravvisa la luminosità della memoria, il suo riflesso nel tempo. E ancora, dopo l’incontro con Irma Brandeis il divenire prigioniero del complesso di Edipo, rende il poeta “vile e contraddittorio”, mentre nei versi a lei dedicati trasluce la miracolosità dell’istante e sulle tracce del mito Ovidiano si intravede la figura di Clizia, la quale persa la speranza di poter riconquistare l’amore si trasformò in girasole. Fino a giungere all’incontro con Maria Luisa Spaziani, anch’essa sua ispiratrice che conduce Montale a vivere nel limbo di ciò che è a-sessuato, nella paura del vissuto. L’amore platonico che contraddistingue il rapporto del poeta con Laura Papi connota la stagione di buio di un individuo, che afferma l’autore, non si innesta nel vivere. Si dipingono così la ricerca dell’eros nell’eterno femminino e l’impossibilità di sublimarlo.             

Di eros si occupa anche LINA ISARDI, partendo dalle origini della sessuologia, con i suoi autori, fino alla storia più recente in cui la salute sessuale è vista come un’integrazione di aspetti somatici, intellettivi, motivazionali e sociali. Il formarsi dell’”identità sessuale”, costrutto multidimensionale composto dal sesso biologico, dall’identità di genere, dal ruolo di genere e dall’orientamento sessuale è un processo nel quale il sesso biologico, i valori culturali e quelli personali annessi alla sessualità influenzano la percezione di sé e i comportamenti del bambino, che come individuo prende coscienza della propria identità sessuale tra i diciotto mesi e i tre anni. L’autrice evidenzia la sessualità come elemento fondamentale della vita i cui disturbi coinvolgono tre aspetti: l’atto sessuale, l’identità che ci riconosciamo, le nostre fantasie sessuali e il viverla in modo soddisfacente è essenziale per mantenere una buona salute mentale. I disturbi sessuali sono fonte di sofferenza, ma esiste la possibilità di curarli. L’autrice presenta un caso clinico che partendo da un presunto conflitto d’identità risulta essere, dopo il trattamento, ansia da prestazione e si risolve positivamente.

La tesi centrale di ANNA MARIA LOIACONO tende a sottrarre il concetto di personalità “come se” alla psicopatologia, nell’ambito della quale H. Deutsch lo sviluppa, portandolo nell’ambito della normalità e sulla scia concettualmente di Paul Roazen, arriva nel cuore del lavoro analitico. Ivi scorge analisti esperti spesso portatori di valori conformisti e si domanda: “In che misura il conformismo psicoanalitico è “il come sé” collettivo del nostro mestiere?” Non possedendo una risposta, sulle orme di Fromm, dichiara che pur non sapendo cosa fare ha molte certezze su quello che la nostra storia ci ha insegnato a non fare, per non riprodurre storie senza memoria.

VOLFANGO LUSETTI esamina l’uomo e l’utilizzo di tre forze fondamentali: la nutrizione-predazione, la socialità- comunicazione e infine la riproduzione di tipo sessuato. La predazione è neutralizzata dapprima dalla sessualità e poi dalla socialità e sembra svolgere un ruolo di motore sociale. Tre aspetti sono individuati circa le radici biologiche della violenza umana: il primo tema riguarda il conflitto morale e insanabile, che sembra intercorrere tra le generazioni e in particolare tra padri e figli. Un secondo tema sulla radice della violenza è quello inerente alla natura degli strumenti antipredatori (la sessualità perenne e i codici simbolici di base). Il terzo tema ha per oggetto il fallimento degli strumenti antipredatori che come un campanello d’allarme, afferma l’autore, richiama l’attenzione all’albero della vita da cui proveniamo, cioè alle radici del male cannibalico-predatorio che ci tormenta perché proprio esso è ciò che ha formato la nostra vita.

L’analisi della costruzione della realtà, a partire da William James, per proseguire con C.H. Cooley, G.H. Mead, fino a Fromm è analizzata da CATERINA MARTELLI E LORENZA TOSARELLI, sottolineando in quest’ultimo la convergenza tra il sociale e lo psicologico, descrivendone le interazioni che sono alla base della costruzione della personalità. Passando da Matte Blanco e il suo inconscio strutturale, fino all’inconscio implicito, agente attivo nella formazione dell’Identità, si delinea la presenza di strutture inconsce nella nostra mente non conciliabili, ma responsabili della vita emotiva. La psicoterapia, affermano le autrici, è in grado di modificare il substrato neurobiologico e attraverso interrogativi, quale la modalità di contattare l’inconscio implicito e il ruolo del Corpo nel processo di cura, cercano nella modalità terapeutica l’essenza della conoscenza implicita, dirigendo la loro attenzione sull’Expression Primitive, che propone una semplicità espressiva in relazione con l’altro. Si apre in tal modo uno spazio vitale dell’Identità, non bloccato dall’angoscia e dai sentimenti di disregolazione, che consente una maggiore espressione di Sé.

GIOVANNA NICASO, esamina la problematica concernente, i pazienti affetti da DP e in particolare evidenzia la prevalenza di DBP nelle persone giovani e la dis-regolazione emotiva che produrrebbe le difficoltà manifestate nel funzionamento interpersonale e nello sviluppo di uno stabile senso di sé. In quest’ambito di osservazione clinica riporta l’esperienza di ricerca-azione nell’ambito dell’ASL di Grosseto, che ha proposto la realizzazione di un gruppo di supervisione sistematica dei casi clinici in trattamento esaminando venticinque casi di DBP, di cui tre casi sono stati dei drop-out, tre casi hanno avuto un esito negativo, non ci sono stati casi di suicidio. In conclusione i 4/5 dei risultati del campione non sono ritenuti disprezzabile  e ciò apre le porte alla speranza di poter realizzare l’estensione del modello ad altri  soggetti in trattamento.

Con un taglio decisamente spirituale IRENE NOTARBARTOLO, richiama l’esigenza di approfondire una nuova dimensione nelle relazioni interpersonali vissute dall’uomo nel formarsi dell’identità. Considera la dimensione spirituale altrettanto sostanziale rispetto ad altre quali quelle corporee, fisiche e mentali, rilevando come la psiconeuroendocrinologia (PNEI), abbia recentemente rivolto a tale dimensione la sua attenzione e nel parallelismo con il network evidenzi nel sistema uomo la possibilità di azione terapeutica tramite tecniche spirituali.  L’autrice integra il pensiero di Fromm indicando come più proficuo un modello di uomo in quattro dimensioni (corporea, psichica, intellettiva e infine spirituale), attraverso di esso sarebbe infatti possibile una migliore comprensione delle relazioni, che spesso frenata da interpretazioni riduttive attua una vera e propria “fuga dalla libertà” del pensiero contemporaneo.

GIUSEPPE ROMBOLA’ CORSINI e ALESSIO BARABUFFI pongono l’accento sula necessità che lo psicologo dello sport non debba necessariamente essere uno psicoanalista, bensì un esperto in psicologia dinamica. Attraverso l’analisi della domanda, gli autori evidenziano la richiesta iniziale di un intervento focale dettato dall’esigenza dello sportivo di ottenere una produttività immediata, che talvolta muta in richiesta d’intervento analitico, tramite cui emerge il formarsi della pratica dello sport come forma privilegiata del manifestarsi del mondo interno. Queste osservazioni sono utilizzate al fine di ricostruire la storia e l’elaborazione dell’agire sportivo collettivo, rintracciando in esso l’elaborazione del conflitto psichico a partire dalle origini mitico-rituali e sacro-sacrificali. L’evoluzione di questo passaggio è tracciata dall’esperienza traumatica originaria sublimata nello sport, in cui gli oggetti-meta delle pulsioni aggressive, sono sostituiti con oggetti-meta socialmente accettati e di conseguenza conducendo all’elaborazione del trauma. Mentre l’aggressivo cerca la vendetta rispetto al proprio passato insoddisfacente, il combattente lotta per il futuro e il vero sportivo allontana l’aggressività volendo essere un combattente. Percorrendo un lungo tragitto, l’atleta neutralizza, tramite le regole, gli impulsi aggressivi e giunge attraverso un processo dinamico a una sublimazione che si plasma nell’interazione con l’ambiente. Si esalta l’importanza dello sport per l’elaborazione del conflitto psichico mettendo in luce il valore delle conoscenze di psicologia dinamica per chi opera all’interno di questo contesto.    

Il caso clinico presentato da DANIELA ROSSETTI esamina il percorso compiuto da una donna, che dopo aver perso, la madre attraversa una fase di congelamento e di coartazione affettiva. Lo scongelamento che nel processo terapeutico avviene, consente la ripresa di un cammino alla ricerca della propria identità personale. Partendo dalla premessa che non è possibile in  alcun  modo cambiare il nostro passato, l’autrice ci indica la strada compiuta per un cambiamento di noi stessi, per “riparare i guasti” e riacquisire la nostra integrità perduta. Con lo sguardo che conduce alla conoscenza ravvicinata del nostro passato memorizzato nel nostro corpo, avviene l’accostamento alla coscienza. Al fine di avviare la trasformazione che muta le vittime inconsapevoli in individui responsabili e la conoscenza della propria storia guida alla convivenza con essa.

L’importanza del nesso tra emozione e memoria è evidenziata da MARIA PIA VIGGIANO, TESSA MARZI e STEFANIA RIGHI. Attraverso una migliore comprensione dei fenomeni che legano le emozioni ai processi di codifica della memoria, le autrici evidenziano la possibilità di una miglior comprensione di disturbi quali l’ansia, la depressione, e il disturbo post traumatico da stress, in cui un’eccessiva sensibilità dell’amigdala crea uno squilibrio nella regolazione  delle emozioni. Il lavoro approfondisce la definizione a livello temporale dei processi sottostanti al riconoscimento di un volto che durate la fase di codifica della memoria, manifesta una determinata emozione. L’interazione tra emozione, percezione e memoria è sottolineata al fine di porre in risalto quando le emozioni rese manifeste dalle espressioni hanno un ruolo chiave nei processi cognitivi, per giungere alla comprensione dell’esatto decorso del processo temporale utilizzato dai processi di codifica delle emozioni e alle implicazioni nell’ambito della sfera emozionale affettiva. L’utilizzo della tecnica degli ERP pone in risalto in che misura il processo di memoria possa essere influenzato dall’emotività espressa dal volto ed esamina come la particolare espressione emotiva influenza i processi di recupero, a partire dagli stati più precoci dell’elaborazione, nella ricerca che alcuni stimoli hanno nell’adattamento all’ambiente. I volti che esprimono paura elicitano risposte elettrofisiologiche più ampie e più rapide. Il significato funzionale di questa differenza potrebbe essere rintracciato, secondo le autrici, nel fatto che una situazione di pericolo richiede una risposta più immediata.

Come afferma Irene Battaglini: ”La posizione centrale del Sé in tutta la psicologia trova in questo volume lo spazio per un respiro ampio che intende sfiorare il tempo di un Umanesimo mai estinto”.

Maria Assunta Parsani

AA.VV. Psicodinamica   del  Sé nelle  relazioni  interpersonali

Ricerca, patologia, intervento

Atti del XVI Congresso mondiale di Psichiatria Dinamica (Monaco di Baviera, 21-25 marzo 2011)

A cura di Irene Battaglini, Aracne, Roma 2012.

La Scuola secondo Franco Bruschi, psicologo

Recensione di Gabriele Anastasio

La psicologia della scuola, di Franco BruschiLa Psicologia a Scuola, di Franco Bruschi

Il mondo della scuola è stato oggetto, negli ultimi anni, di profonde trasformazioni. Più di altri ambienti ha risentito dei cambiamenti sociali, di politiche inadeguate, di tagli di risorse che ne hanno stravolto il senso e l’organizzazione. La scuola, oggi, non è più solo un luogo di insegnamento e di educazione, ma è divenuta luogo di accoglienza, di integrazione, di sostegno sociale e, nello stesso tempo, è stata oggetto di attacchi principalmente politici ed economici che ne hanno minato la validità e l’efficacia.

In questo contesto, prima ancora che luogo di insegnamento, la scuola è il punto di incontro tra bambini sempre più relegati in mondi virtuali, genitori che, in molti casi, non sanno o non hanno la possibilità di svolgere adeguatamente il loro ruolo, e insegnanti e personale ausiliario gravati di mille compiti che ne limitano il compito di educatori. È facile capire come, in un contesto del genere, la figura dello psicologo possa rivestire un ruolo importante di aiuto e, infatti, molte scuole hanno previsto la presenza di tale professionalità al loro interno, ma con modi e risorse molto diverse da contesto a contesto. Anche per gli psicologi non è semplice entrare in questo mondo, per vari motivi.

Esce, finalmente, nella collana L’Immaginale della casa editrice Aracne, il libro La psicologia a scuola, scritto dal dott. Franco Bruschi con il contributo di Paola Carboncini e Eloisa Tonci. Si tratta di un libro importante, nato dall’esperienza trentennale dell’autore nelle scuole.

I pregi del volume sono, a nostro avviso, molteplici.

Innanzitutto viene fatto chiarezza sui compiti e le funzioni dello psicologo all’interno della scuola. Non è una cosa da poco, perché, sebbene da molti anni, come detto, lo psicologo scolastico esista nei fatti, ufficialmente non esiste una figura specialistica riconosciuta. Questo comporta che spesso il professionista che si trova ad operare in questo ambito non ha riferimenti precisi su come muoversi; da qui deriva una grande disparità di interventi nei vari istituti scolastici che, a loro volta, si preoccupano di organizzare un servizio di cui non sempre conoscono le effettive potenzialità, e finiscono per sfruttarlo male o, addirittura, rischiano di creare le condizioni che ne impediscono il funzionamento. Anche i ragazzi e le famiglie, inoltre, non sempre sono adeguatamente informati e tendono così a non rivolgersi ad uno specialista che potrebbe fornire loro un aiuto importante.

Con un linguaggio chiaro, il volume del dott. Bruschi precisa le competenze, le funzioni e anche i limiti che lo psicologo deve osservare nel suo lavoro all’interno di una scuola. Allo stesso modo, con uno sguardo a tutto tondo, indica quali sono le condizioni necessarie perché l’intervento dello psicologo abbia efficacia, non solo relativamente alle capacità di chi svolge questo ruolo, ma anche relativamente agli spazi, alle risorse e ai contributi della scuola stessa e delle famiglie.

L’altro grande pregio del libro è quello di partire dalla pratica. L’autore accompagna il lettore a scoprire l’opera dello psicologo scolastico attraverso la presentazione di situazioni reali, analizzando, di volta in volta, il problema, il contesto e il piano di intervento. Anche le indicazioni teoriche, con importanti riferimenti alla teoria psicoanalitica, nascono come conseguenza dei casi trattati, facendo capire come la pratica sia il punto di partenza che pone le domande a cui la teoria deve trovare le risposte e non il contrario, come purtroppo spesso accade.

Consigliamo vivamente la lettura di questo libro, non solo agli psicologi che intendono lavorare (o che già lavorano) nella scuola; ma anche agli insegnanti, agli educatori, ai dirigenti, ai genitori e a tutti coloro che, a vario titolo, frequentano questo mondo caotico e meraviglioso. Fornirà loro una guida preziosa per comprendere fino in fondo quali possano essere gli effettivi vantaggi di un servizio che operi in piena sinergia con il contesto che lo ospita.

Gabriele Anastasio

Clemente Rebora. il grido e la tensione

Clemente Rebora. Il grido e la tensione

di Andrea Galgano                                         11 settembre 2013

Clemente Rebora. Il grido e la tensione

Poesia Contemporanea

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«Qualunque cosa tu dica o faccia / c’è un grido dentro: / non è per questo, non è per questo!».

In Clemente Rebora (1885–1957), non esiste evento o circostanza o scheggia di dettaglio, ricolmo di gioia o doloroso, che non sia assedio della realtà, che non sia soggetto a provocazione o destinazione ultima, dove la natura non prenda coscienza di sé. È, quindi, nell’uomo che si innerva la caducità, la contingenza delle cose, tra il tentativo di aggrapparsi al possesso precario, agli idoli, e l’esigenza di compimento che porta in grembo il suo grido, con una segreta domanda.

Tutta la scrittura nasce da questo avvertimento e da questa urgenza, come annota Emilio Cecchi: «far l’elogio di questa posizione spirituale autenticarlo col raffronto di tanta viltà e scioccheria nella nostra letteratura odierna, equivarrebbe a offendere lo scrittore».

«Rebora», aggiunge Elio Gioanola, «è colui che più di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e moralità, disperazione e speranza, rifiuto dell’esistente e ansia di assoluto, fino a costruire il più autentico monumento di poetica espressionistica della nostra letteratura primonovecentesca».

La totale esattezza spericolata, unita a una dissonante, quasi sfrangiata, musicalità si impongono in una «fonte viva; qui c’è un’anima e un uomo», come scrisse Giovanni Boine.

Sergio Pautasso, analizzando il rapporto di Rebora con i contemporanei, afferma: «La presenza di Rebora nel Novecento risulta sconvolgente perché spariglia le carte degli ormai consolidati schemi della storiografia letteraria; non solo, ma con la sua poesia egli ha rimesso nematicamente e linguisticamente in discussione il rapporto con le poetiche novecentesche, dimostrando che con esse aveva poco a che fare perché, in effetti, mirava ad un diverso risultato. Di qui deriva, e si spiega, l’inadattabilità dei versi reboriani alle regole della lettura critica della poesia novecentesca. Il che non significa che la critica non si sia occupata di lui, anzi. Ma si vuole dire che la lettura reboriana è stata, diciamo, più difficoltosa, per reali ragioni oggettive».

Egli stesso, il 13 ottobre 1956, sostando, per così dire, sull’essenza del classico, annotò: « Ogni vero poeta (e pochissimi sono) […] ha in proprio il suo non comunicabile genio personale innestato nell’elemento unanime e perenne della cultura e della civiltà del suo tempo; per cui, questo elemento universale – e quanto più è purificato d’ogni ingombro contingente – lo fa diventare un classico».

Il racconto e la sorpresa della lievità degli istanti, quando corrono «per l’aria immagini di bene / con riso di speranza», si accompagna allo sgomento «del sogno disperso / dell’orgia senza piacere / dell’ebbra fantasia», all’incanto del pieno respiro, alle stelle-ragazze che danno «bàttiti di ciglia / divini».

Rebora canta lo spazio della «realtà segreta», la tensione sulla positività ultima della realtà, quando una illogica allegria investe un indizio di ringraziamento: «e quasi sento un caldo àlito umano / sul viso e dietro il collo un far di baci / e tra’capelli morbida la mano / d’amante donna in carezze fugaci» o inseguimento con balzo fulgido dietro all’ «amor che nel nostro cammino accende / l’inconsapevol brama triste o lieta», per godere delle cose così come sono: «quando si nutre il cuore / un nulla è riso pieno, / quando si accende il cuore / un nulla è ciel sereno: / quando s’eleva il cuore / all’amoroso dono, / non più s’inventan gli uomini, ma sono».

Annota Gianni Mussini: «In Rebora, anche nel primo Rebora, non esiste una vera “autonomia del significante”. Per lui la poesia è invece sempre eteronoma: non vale in sé, ma in quanto espressione di un altro e di un oltre. Cioè, di una verità che sempre la supera: una verità prima angosciosamente cercata e, quindi, forse altrettanto angosciosamente trovata. In fondo, la poesia reboriana non è che la trascrizione fedele di questa ricerca: essa rappresenta tutta un’esperienza, tutta una vita».

La poesia che non sovrascrive la vita, ma è più necessaria della vita stessa ha il gemito di un’urgenza, in cui il battito dell’ora e del tempo crescono, innestandosi nell’eterno: «Vorrei palesasse il mio cuore / Nel suo ritmo l’umano destino».

I Frammenti lirici del 1913, pubblicati dalla Libreria della Voce, sono «la grande avventura di un giovane che vuole misurarsi con il mondo delle idee, delle parole, dei suoni e tutto fondere a tentare una verità percepibile ma non sempre rivelabile» (Gianni Mussini).

Umberto Muratore annota che nella dedica del testo, egli «esprimeva il desiderio, definito poi meglio nei Canti anonimi, di non trovarsi a cantare il proprio io, bensì l’io comune, di farsi interprete delle ansie e delle aspirazioni comuni del tempo», nell’ «accettazione spontanea, mistica, del proprio dolore e della propria nullità, purchè da tale stato di svuotamento individuale nascano semi di vita per gli altri».

La frammentazione di un’epoca, la vicinanza (nel titolo), petrarchesca, propongono un bivio: distruggersi nello strazio della guerra (definita «tremendo festino di Moloc, stanza dell’ammazzatoio di Barbableu» dove tutto è «mari di fango e bora freddissima» ed egli si sente «fatto aguzzino carnefice»), nella sconfitta frustrata di un «forsennato voler che a libertà / si lancia e ricade […] e fatica e rimorso e vano intendere: / e rigirio sul luogo come cane» e nell’annientamento totale, oppure invocare una segreta domanda, rischiando l’immagine salvifica intravista e sfuggente: «il mio volto s’alza a chiedere / la verità alla vita, / che l’attimo contrasta / e il dolor solo accoglie», ma «il dolore non basta / e l’amore non viene».

«La poesia di Rebora», sostiene Elio Gioanola, «appare lacerata da un’inquietudine profonda, dal senso di un’inadeguatezza radicale rispetto al mondo com’è agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere».

La sproporzione evolve la martellatura dell’istante in domanda di totalità, come egli stesso ricorderà nel Curriculum vitae: «Un lutto orlava ogni mio gioire: / l’infinito anelando, udivo intorno / nel traffico e nel chiasso, un dire furbo: / quando c’è la salute c’è tutto, / e intendevan le guance paffute, / nel girotondo di questo mondo».

Al cuore non basta l’effervescenza dello spirito, il lievito del buon senso. Tutto deve richiamare a una Salvezza ricercata e presente, a un Senso ultimo che passi dalla datità concreta e rechi in grembo una domanda elementare: «Tutto ascendeva, / congiunto, discosto, / i monti e la sera, / presenza del cuore nascosto, / lontananza del fior sullo stelo. / Al varco dell’ombra e del cielo / Scoprivo lo spazio alle cime, / che hanno confine/ ov’è l’inizio più vero» (Ca’ delle sorgenti).

Mancava questo al giovane Rebora, «ammiccando l’enigma del finito sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno scugnizzo, dentro gemevo, senza Cristo».

Commenta Pautasso: «In lui agiva una tendenza alla religiosità, ma che non coincideva ancora con una scelta, benché inconsciamente la sua scelta egli l’avesse già fatta, almeno con la poesia».

L’oscillazione tra eterno e transitorio ama la piena dell’indicibile, nata dal dissidio interiore di una contraddizione non risolta che possa germinare di vividezza: «vorrei, maturar da radice / La mia linfa nel vivido tutto».

Scrive Gianfranco Lauretano: «La poesia di Rebora imita invece non tanto la vita materiale, ma il movimento interiore, l’anima che, comprendendo se stessa e il mondo, avanza sbattendo in contraddizioni, complessità, mistero».

L’infinita densità del tutto è l’incisione di una affinità che non conosce esclusione di dettaglio o innesti una grande aspirazione «mar che ti volgi è riva e chiami, / cuor che ti muovi ovunque è pena e l’ami».

La commistione dell’umana tensione con la percezione del limite, come se germogliasse dalla sconfitta un’attesa, forte più di ogni calcolo, impone una vigile veglia «solida e coerente» (Gianfranco Contini), come testimoniano i passaggi del Frammento V, che Luigi Giussani commenta così: «Quanto più mi sento nella morsa delle cose che mi impediscono di identificarmi coi sogni, coi desideri, tanto più vorrei che questa morsa che stringe mi facesse ardente nella dedizione della mia energia. Bellissimo paragone della barca a vela, del fermaglio e della scotta; quanto più si stringe tanto più il vento che vi soffia dentro fa volare la barca […] è talmente forte il senso della positività ultima del mistero che l’alienazione e il limite non diventano, o non restano, obiezione, ma diventano addirittura l’opposto, un urto che più spinge a dare. Si tratta di una lotta, di una partecipazione nella lotta dentro la storia, per il mondo concreto».

Questa drammatica dinamica agonistica trova la sua espressività in un componimento Il pioppo, scritta dal suo letto di dolore, dove visse la sua malattia e dove davanti alla finestra vide «il pioppo severo»: «Vibra nel vento con tutte le sue foglie / il pioppo severo; spasima l’aria in tutte le sue doglie / nell’ansia del pensiero: dal tronco in rami per fronde si esprime / tutte al ciel tese con raccolte cime: fermo rimane il tronco del mistero, e il tronco s’inabissa ov’è più vero».

Tutta la realtà proclama un oltre, lo afferma, e chiede all’uomo di tendere verso questa nuova incommensurabile scena, o meglio di attenderla nella sua domanda elementare. Egli fatto per il cielo, ma concatenato alla terra, come tanti suoi simili legati alla sua condizione, come scrive Roberto Filippetti: «Questa «domanda di vita» attraversa da un capo all’altro l’opera prima: frammenti gremiti di una domanda di totalità».

Nei Canti anonimi, secondo libro di Rebora, «si accentua la sua tendenza a scomparire come io per farsi voce, anonima appunto, di una situazione comune, quella della pena nella città moderna sempre più priva di umanità, e dell’ansia amorosa per qualcosa di diverso e più alto» (E.Gioanola). L’acme poetico di Rebora si respira nella vibrante Dall’immagine tesa, definita come una delle più alte espressioni poetiche e, allo stesso tempo, religiose del nostro tempo, di «un fatto che venga a dare un senso all’attesa e alla tensione», come commenta Romano Luperini.

L’angoscia della prima guerra mondiale è il senso del vuoto, di non scorgere e affermare nulla sotto di sé. Eugenio Borgna, all’incontro «Clemente Rebora: l’ardore il limite, l’eterno. La vita come tensione», organizzato dal Centro Culturale di Milano, ha analizzato e descritto questo sentimento in Rebora: «Il filo rosso di questa mia prima sequenza è dunque l’angoscia come esperienza umana  (sebbene possa essere anche un’esperienza psicotica, ma io ne parlo  come esperienza umana) che però è anche una esperienza creatrice […]. L’angoscia della morte diventa sul piano lirico angoscia creatrice. I Canti anonimi, pubblicati nel 1922 ma incominciati nel 1900, hanno come leit motiv il Mistero o l’attesa. In queste poesie si spegne la fiamma divorante dell’angoscia: la guerra è finita e Rebora entra in una vita normale, almeno apparentemente».

L’angoscia come portatrice di significati per creare, scrivere, raccontare la crudeltà e la durezza di quel «corpo in poltiglia / Con crespe di faccia, affiorante / Sul lezzo dell’aria sbranata».

Il senso del nulla non fa implodere la ricerca di un infinito che si presenta: redimere non è risarcire. La redenzione è il bacio che non lascia sole le labbra: «Eppure la cosa capita / non redime la cosa sofferta; / e la parola senza bacio / lascia più sole le labbra». Le parole senza presenza subiscono al condanna al vuoto, tremano come dallo sperpero di un bisogno, come da una culla. In quel bacio c’è tutta la dimensione del nostro essere.

La trepidazione dell’immagine è l’attesa di qualcosa che nell’«ombra accesa» ha imminenza di passaggio. Egli spia i suoni impercettibili di quel (sin estetico) «polline di suono» fra quattro mura dilatate di spasimo infinito, pur non aspettando immobile nessuno, ne avverte l’orlo della presenza. L’immagine tesa di Rebora è «la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae». Ma quest’Ospite arriverà improvvisamente e imprevisto (immagine già presente in Peguy), sbocciando, portando il dono della  vittoria sulla morte. Sarà un bisbiglio come la certezza di una nuova positività (il poeta si convertirà nove anni dopo) e come egli stesso scrisse a Montale: «La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto».

Il silenzio di oltre trent’anni dai Canti anonimi (1922) ai Canti dell’infermità (1955), raccoglie il seme della conversione, ma non è silenzio assoluto (se non di pubblicazione), bensì tremore e affermazione di Dio: «Se il sole splende fuor senza Te dentro, / tutto finisce, in cupa nebbia spento. / orrore disperato, Gesù mio, / trovarsi in fin d’aver cantato l’io!».

Afferma ancora Eugenio Borgna, soffermandosi sul silenzio di Rebora, molto simile all’angoscia paolina, o a quella di Teresa d’Avila, o del grido sulla croce che fa scoprire l’eterno: «L’angoscia creativa, l’angoscia umana che ritroviamo nelle poesie composte in quegli anni fatali quando non sarà più l’angoscia del campo di battaglia ma l’angoscia che la malattia fa riemergere, angoscia riscattata dalla speranza, diventa una nuova, rinnovata, misteriosa sorgente di creatività, e allora i Canti dell’infermità non si capirebbero fino in fondo se non le ricollegassimo anche al fatto che dopo venticinque anni di silenzio rinasce una esperienza creativa che sia per la concomitanza molto stretta con questa malattia devastante sia per i contenuti, seppur trasfigurati,rimanda ai componimenti nati nel periodo della guerra. Questo lungo silenzio […] permette di meglio comprendere le ultime poesie, insieme alla rinascita dell’angoscia, che pure è ormai segnata, incrinata dalla speranza».

La febbrile e micidiale fertilità degli ultimi anni, accompagnati dal cuore del pensiero rossiniano, destinano l’infermità al percorso del suo dettato esistenziale e del giovanile gemito ramingo senza Cristo, degli amori giovanili, della guerra, dell’abisso «preso dall’artiglio dell’io», del cielo dell’alba raccontato dal fievole belato della Grazia.

Bacerà la tenerezza di Dio, accadrà l’Avvenimento che consente di sfiorare e poi di toccare la dimora tenera del suo compimento di uomo, che attraverso la sofferenza partecipa alla redenzione di Cristo, centro del cosmo e della storia.

In un’umanità vissuta interamente, la realtà rivela il suo essere segno, «il grido diventa azione di fede-sveglia nel mondo, e da lì sorge la speranza», per sorprendere la possibilità, ultima e positiva, di una risposta, di un’azione di fede nel mondo e in cui le cose rappresentano il vertice di un rapporto in cui vivere e costruire:  «Nella sommersa pace il guardar mio / tenue senso di un crepolìo / D’aria che a galla su per l’acqua levi; / Cammino in nimbo, e rarefatto inclino / Sinuoso al fosforico sentiero: / Ciò che men dissi, tutto m’è vicino; / E per l’amante cuor nulla è mistero».

Clemente Rebora archivio Giovannetti/effigie 

rebora c., Le poesie (1913-1957), Garzanti, Milano 1999.

id., Diario intimo. Inedito, Interlinea, Novara 2006.

Aa. Vv., A verità condusse la poesia. Per una rilettura di Clemente Rebora. Atti del convegno(Milano, 30-31 ottobre 2007), Interlinea, Novara 2008.

boine g., in “Riviera ligure”, settembre 1914.

borgna e., in Clemente Rebora: l’ardore, il limite, l’eterno. La vita come tensione, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Clemente Rebora, Centro Culturale di Milano, 2007.

cecchi e., in “La Tribuna”, 12 novembre 1913.

contini g., Esercizi di lettura, Einaudi, Torino 1974.

filippetti r., Il per-corso e i percorsi, vol.III, Itaca, Castel Bolognese 2002.

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giussani l., Le mie letture, BUR Rizzoli, Milano 1996.

lauretano g., Incontri con Clemente Rebora. La poesia scoperta nei luoghi che le hanno dato vita, BUR Rizzoli, Milano 2013.

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musini g., Le pietre e il suono. Moderno e anti-moderno nella poesia di Clemente Rebora, «Microprovincia», n.38, a cura di Franco Esposito, 2000.

pautasso s., Rebora e la poesia del Novecento, «Microprovincia», n.38, a cura di Franco Esposito, 2000.

Il Segno e la Veggenza di René Magritte

di Irene Battaglini                              15 luglio 2013

L’Immaginale

pdf    Il Segno e la Veggenza  di René Magritte

«Quanto ai nomi, diciamo che nessuno di essi ha alcunché di stabile, e che nulla impedisce che le cose che ora sono dette rotonde vengano chiamate rette e che le rette vengano chiamate rotonde, e [diciamo dunque] che le cose non sarebbero meno stabili per coloro che ne mutassero i nomi e le chiamassero in modo contrario».

Platone, VII Lettera, 343a 9-b 4

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René Magritte, La clairvoyance, 1936La Clairvoyance è un autoritratto ad olio su tela del 1936 di Magritte. René Magritte (belga, 1898-1967) è il pittore contemporaneo più discusso, studiato e interpretato al mondo. La sua adesione al surrealismo è il movente per fare della sua arte un ampio scenario simbolico, linguistico, onirico e metaforico, prestandosi ad ogni forma di interpretazione psicoanalitica, di diagnosi per lo più ispirate alla dinamica, peraltro assai congrua, del trauma della morte della madre, avvenuta in circostanze mai del tutto chiarite.

René Magritte dipinse talmente tanto, soggetti ed elementi così diversi, utilizzando oggetti e “lemmi figurativi” così privi di un legame sintattico elementare, eliminando ogni logica “conscia” o “inconscia”, da far pensare ad almeno tre questioni di fondo: la prima, che non si tratti di oggetti e di soggetti scelti da Magritte, ma più verosimilmente di universi esperienziali, in cui immagine e parola sono connessi da un’intima storia di amore e di ontologia semantica; in secondo luogo, che si esime dalla triangolazione interpretativa per andare in una dimensione narrativa autonoma, dotata di coerenza interna, il cui unico condizionamento è determinato dalla scelta di utilizzare un mezzo (la figurazione, perché la pittura è probabilmente l’arte che gli è congeniale) connaturato ad esser visto, dotato di centralità espositiva – e pagandone il prezzo; in terza istanza, emerge una caratteristica portante di Magritte: il bisogno di far emergere con chiarezza e determinazione, con principi di trasparenza e bellezza, il proprio mondo interiore, – anche del trauma, ma non solo – diventando testimone fedele e docile di una condizione creazionista, di una cosmogonia geneticamente governata dal cromosoma dell’eleganza, dell’armonia, dell’ironia. Non una archeologia simbolica e insondabile, mistificante. Non è solo il mistero a far da contrappunto glorioso alla vividezza dei colori e al nitore delle forme; non è solo la diade vita/morte a far da trama liturgica alle simbolizzazioni; forse è l’espressività di un popolo – quello che abita l’isola di Magritte – di un’era antisimbolica, linguisticamente smembrato dai sostegni metaforici, alla ricerca di un nuovo punto euclideo, di un dio che ne definisca l’alfa e l’omega. L’impressione è che un universo extramondano abbia deciso di materializzarsi e di usare le nostre competenze linguistiche per avvicinarsi a noi, per farsi intravvedere, scorgere solamente, seppure manifestandosi con fervida abbondanza. Come se il dio avesse deciso di uscire dal tempio, ma non di rivelarsi nella sua piena identità. Venuto nel mondo, si lascia cullare dalla fantasia degli uomini, e desidera aprire una sfida scoprendo le carte con l’ambiguità – dosando con saggezza e astuzia impeto e quiete, favola e stigma, legge e verità – di chi vuole a lungo impiegare la scena che gli viene concessa, sapendo di dover prima o poi entrare nell’archivio museale delle cose dell’arte. Sostiene Collina, psicologa dell’arte:

«La realtà e la surrealtà delle immagini magrittiane, il senso e il nonsenso in cui si dibattono attraversando continuamente quel confine tra razionale e irrazionale che i surrealisti volevano abolire, nascono all’interno della struttura stessa della visione; egli non descriveva, come Dalì, i sogni, a lui bastavano le sue visioni e il mistero si genera dal cuore stesso della realtà, come la morte di sua madre; e una vasta letteratura internazionale dalla quale attingeva ispirazione, come le opere di Stevenson, Hegel, Kant, Baudelaire, Verlaine, Poe e Lautréamont. E proprio in quest’ultimo, di cui Magritte illustrò  i Canti di Maldoror, è da ritrovare la fonte della figura dello “stregone” come colui che, analogamente all’artista, è partecipe attore dei misteri del mondo».[1]

Ed è il mercuriale – che si maschera da stregone, briccone, sciamano, artista – a farci da guida nel grande gioco delle rappresentazioni di Magritte, che se è vero che rimandano sempre agli scacchi, al metafisico, all’arcano disegno, è vero anche che rimandano ad un ulteriore che ci appartiene sotto le scarpe, che abbiamo ad un centimetro dal naso, che possiamo scorgere con la coda dell’occhio: qualche cosa che non possiamo centrare del tutto, che non possiamo definire, ma che appartiene al quotidiano – perché adopera le strutture del nostro immaginario – e non al mitografico o al mistico.

Clairvoyance è segno e destino, è intelligenza metacognitiva, è intuizione e obbedienza. Eppure i protagonisti sono oggetti e soggetti “semplici”, dotati di autonomia scenica. Proviamo ad elencare i mattoncini della composizione, partiamo dai fondamentali, adottando il criterio del “rasoio di Ockham” e prendendo tutto l’insegnamento di Wittgenstein «non pensare, ma osserva!» (1967, 46): a volte l’indagine è investigazione, ma si deve basare sulla descrizione fenomenologica, sull’osservazione della realtà: un tavolino coperto da un drappo rosso, un uovo, un cavalletto, una tela; il pittore, in autoritratto e vestito con rigida eleganza, seduto compostamente su una sedia, con una tavolozza sulla mano sinistra, che “dipinge” una piccola aquila grigio-azzurra sulla tela. Qual è l’elemento che genera dissonanza? Che cosa è apparentemente incongruo, o – sempre con Claudia Collina:

«in prospettiva antropologica, [invece], l’immagine dell’artista che dona la vita, che anima con la sua materia, riporta alla spiritualità fideistica nella potenza creativa della divinità che alita il soffio vitale in forme di argilla, ma porta con se anche il suo ambivalente contrario, come ogni situazione: l’artista è mirabile, ma pericoloso.  È creatore possente, ma mago cattivo, che come alita la vita la pu  anche togliere. E da questo sincretismo d’origine antropologica alla lettura psicanalitica della psicogenesi del creare, indissolubilmente legata al suo opposto del dialettico distruggere, il passo è breve.  Magritte, come si vede dalla fotografia e dal dipinto Doppio autoritratto – Magritte mentre dipinge la chiaroveggenza e La chiaroveggenza, si autocelebra in veste di mago chiaroveggente portatore di messaggi simbolici sinonimi di presagio e messaggi celesti, come l’uccello che è anche latore di stati spirituali e superiori dell’essere; deux artifex in piena onnipotenza confermato anche dal ritratto da Terapeuta in veste magica di viandante e custode dello spirito».

Sappiamo anche che Magritte non amava l’interpretazione psicoanalitica. Negli Scritti:  «L’arte come la concepisco io, è refrattaria alla psicanalisi: essa evoca il mistero senza il quale il mondo non esisterebbe, ossia il mistero che non si deve confondere con una sorta di problema per quanto difficile sia. Io mi sforzo di dipingere se non immagini che evochino il mistero del mondo. Perché ciò sia possibile devo essere ben vigile, ossia devo cessare di identificarmi interamente con idee, sentimenti, sensazioni».[2]

Come facciamo a liberare Magritte dal destino indesiderato della psicoanalisi – seppure legittimo, utile, essenziale ad agevolare la lettura delle opere? Leggere le opere come un test proiettivo è ingiusto. Abilitare i quadri a insegnanti di linguistica è un’operazione altrettanto impropria. Danno suggerimenti, elicitano fantasmi, emozioni e forme, aprono un discorso. Ma noi dobbiamo capire che cosa stia facendo Magritte. Escludiamo la celebrazione narcisistica del self-portrait: sarebbe una condizione ovvia e a priori di ogni qualsivoglia autoritratto, e l’artista belga aveva il talento per ritrarsi in ogni guisa, in ogni condizione desiderata, con ogni mezzo espressivo disponibile. Dobbiamo chiederci perché lo faccia in quel modo, con la meditata tecnica dello storyboard, in cui non si lascia nulla a al caso. Escludiamo la volontà oniromantica: è ovvio che dentro un uovo si celi l’embrione di un oviparo, che sia un rapace o un gabbiano, è un fatto meramente incidentale. Quello che non è ovvio è perché un pittore debba interrogarsi su cosa dica un uovo. Infatti egli non lo fa. Egli non si interroga, ma si pone nel gesto del “sentire”, in una dimensione come di ascolto attivo dei movimenti all’interno dell’involucro gestazionale. Osserva con grande umanità il piccolo uovo, tende l’orecchio, è “professionale” e al tempo stesso “familiare”. Fa da tramite, da diaframma, da cassa di risonanza? Neppure, o comunque non si esaurisce in questo la funzione mantica, e non è neppure utile al processo di differenziazione senza l’apporto del soggetto che trova la propria strada di individuazione. L’aquila azzurrognola deve avere la sua parte nella storia.

… Il protagonista solo apparentemente dipinge. Di fatto sta osservando e ascoltando l’uovo, e non solo dipingendo. È l’aquila a farsi dipingere perché sembra averlo deciso: è tutt’altro che appena nata. Esce fuori, vuol volare. Egli guarda l’uovo perché è là dentro che stanno il genoma, il disegno, la mappa del viaggio. Ma non è un chiaroveggente, perché come abbiamo detto non occorre esserlo per sapere che dall’embrione si manifesterà l’individuo: vuole dirci che il chiaroveggente si lascia vedere dentro e mette in forma scritta, figurativa o verbalizzata i suggerimenti non già dell’uovo, ma di quell’individuo che là dentro è costretto ad albergare. Egli libera. Non è dunque solo stregone, ma ostetrico: disegna il parto autoctono di un individuo ben differenziato, in grado di dire delle cose precise, dotato di esperienza e dignità. Eppure manca ancora qualche cosa, non è necessario l’ostetrico se non alla presenza incombente di una puerpera. Ebbene, il pittore-veggente è cavità endometriale, è luogo di attaccamento e prima base sicura, è nido e valva di perla. Ma è sopra ogni cosa la scena primaria del delitto dell’essere-nel-mondo: una colpa priva di fondamento che è fondamento del codice morale.

Quindi è il processo di re-metaforizzazione e non l’immagine a far da quaderno per il nostro apprendimento. È un materno indiscutibile, che non si offre nella struttura standardizzata – rotonda, concava, toroidale, neppure nell’identità orientale vuoto = forma. Salta la metafora e salta il dominio target della metafora. Chi vuole comprendere, si accosti con silenzio e con attenzione, si liberi dalle preordinate e – seppur pertinenti ed eleganti – restituzioni lacaniane sulla natura che imparenta linguaggio ed inconscio. Il problema è l’archetipo, la sua qualità non frammentaria ma densamente unitaria, che deve essere scissa per essere analizzata, interrogata, segmentata e resa utile allo psicologo.

Il mercuriale – la qualità visionaria e trasformativa – è mescolato (e non invischiato) allo ctonio, al materno, al generativo, in una unità compositiva di magistrale forza espressiva, anche per le felici proprietà degli elementi: tre supporti quadrati (tavolino, tela, tavolozza), tre esseri viventi (uovo, pittore, aquila), tre supporti “bucati” (cavalletto, sedia, tavolozza), con un unico piccolo pennello a far da strumento chirurgico, da estensione della mano-levatrice: non è forse la Chiaroveggenza di Magritte, una retorica intorno all’arte della maieutica? Il valore dell’opera, se diamo credito a questa nostra ipotesi, diventa il cuore di una questione conoscitiva che intende andare nella direzione filosofica e morale, restituendo alla pittura una funzione non solo decorativa e sentimentale ma intellettiva, non solo linguistica e comunicativa ma morale in senso alto, di costruzione di tematiche proprie di ogni universo. In altre parole, il processo è protagonista, la relazione è decisiva, la mappa è centrale, mentre oggetto, soggetto e segno sono periferici, strumentali. Non si tratta quindi di una abolizione della metafora, ma della istruzione di processi di metaforizzazione complessi, riordinati, ristrutturanti del pensare, del nominare, e in definitiva del “vedere”. Quindi non è solo una riparazione della ferita portata dalla madre-morte del piccole René, ma della grande occasione di cogliere nei segni dei fatti della nostra vita quello che è il cuore della ricerca dell’oggetto perduto e dell’oggetto ritrovato. Una poetica dello sperdimento e un colore acceso a celebrare la nascita come apertura al mondo della logica e della semiotica: perché se l’aquila viene al mondo pronta per volare, tesa verso un “alto”, l’omo nasce animato dal desiderio dell’ “oltre”, dell’autentico Sé che è «bisogno di libertà di vivere», per dirla con David Foster Wallace.

Sostiene Arturo Martone, filosofo del linguaggio:

«Di là dalle questioni interne al testo wittgensteiniano (Voltolini: 2003), la pratica del vedere come, almeno in questa lunga notazione di LW, concerne sempre e soltanto il vedere A come B, ovvero A nei termini di B, concerne cioè tutti quei casi – percettivi, immaginativi e fantastici, interpretativi o infine propriamente conoscitivi -, nei quali accade come uno spostamento o trasferimento di senso, da A a B e viceversa (nel senso dell’interazionismo di Black: 1983), nel senso cioè che, proprio come s’era richiamato per il processo di metaforizzazione, anche qui un topic viene ridefinito nei termini di un vehicle, ovvero un dominio fonte viene ri-categorizzato nei termini di un dominio target. Dicendolo appena diversamente, certe proprietà vengono sia mutuate, o per riprendere quella già vista terminologia jakobsoniana, selezionate a partire da un dominio target o vehicle, e sia riferite ovvero combinate ad altre proprietà, quelle del dominio fonte o topic. E però, e sarà proprio questo uno dei punti conclusivi di questo contributo, è ammissibile che oltre al vedere A come B, si dia anche un vedere A come A (o anche, certo, un vedere B come B)? Che vuol dire questa domanda? Con essa ci si interroga sul senso, ammesso pure che se ne dia uno, di quelle cosiddette proposizioni identiche ovvero tautologie che, com’è noto, sempre Wittgenstein riteneva, se non propriamente insensate, come appartenenti tuttavia al simbolismo della logica (1964: 4.46, 4.461, 4.4611, 4.462, 4.463, 4.464).» [3]

Alla luce della logica, tutto appare nominabile: archetipi, figure, simboli. Ad esempio: l’uovo è simbolo della vita, della nascita. Il viaggio invece nel simbolismo della logica e nel processo di evoluzione metaforica che è interno a tutti i linguaggi, è un viaggio a ritroso, a dover nascere e camminare su un sentiero magmatico, nella luce crepuscolare dello sguardo del maestro-veggente. È un viaggio ai margini della poetica di Magritte, che ci apre alla vastità e al precipizio come fa l’uomo di Friedrich affacciato al mare di nebbia. Si affida alla natura, sorella simbolica, ma non troppo. Sorella di fatto, capace di attendere che il poeta e il pittore si annidino dentro i suoi millenni alla ricerca del vero Sé.



[1] Claudia Collina, Università degli Studi di Bologna, “Didattica & Ricerca  a.a. 2006-2007”, Gli autoritratti di René Magritte alla luce della psicoanalisi,

http://www.psicoart.unibo.it/Interventi/Interventi%20Collina%20Magritte.pdf

[2] René Magritte, Scritti, traduzione a cura di L. Sosio, Milano, Abscondita, 2001

[3] Arturo Martone, Università degli Studi L’Orientale di Napoli, Tra metaforizzazione e nominazione. Una ipotesi di ricerca.   http://www.unior.it/userfiles/workarea_477/Martone%20LZ%202%2029-12-2010.pdf  [Grassetti miei].

Rafael Alberti e l’immagine che freme

di Andrea Galgano                                         10 luglio 2013

Poesia Contemporanea

pdf: Rafael Alberti e l’immagine che freme

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Rafael Alberti

La poesia di Rafael Alberti (1902-1999) è una grazia colorata. Come l’Andalusia che ha dato origine al denso filtro onirico del suo spasmo, in linea con la tragica contadinità di Lorca, ma che ha sviluppato i prodromi di una allegria briosa, dinamica, in un clima che è «un disegno che iscrive le cose in una luce mattutina, una luce senza ombre né tramonti» (Vittorio Bodini).

Nel sacro fuoco della pittura Rafael Alberti ha albergato, ne ha penetrato l’essenziale e l’indefinibile, con la luce, ricolma di ardore, di quadro fervido, di nostalgia per la sua baia di Cadice, che nei suoi spostamenti, come accadde nel 1917 a Madrid, rimane fremente spazialità di infanzia originaria, e che si assesta in un decoroso spazio visivo, «per dipingere la poesia col pennello della pittura» (Alla pittura, 1945-1952).

In una intervista Marìa Asunciòn Mateo ricorderà che «a Rafael bastavano un pennarello, un quaderno e una camicia sgargiante per essere felice, seduto nel giardino a disegnare e scrivere poesie. Non chiedeva niente di più. Era questa la sua grandezza».

È nella traccia visiva, esiliata e primigenia, che riemerge il suo approdo, essenziale e parco di colori. Il suo cromatismo conosce il tempio della fedeltà, mai recisa, con l’assetto antico e acceso del mare meridionale, grembo di azzurri e bianchi, come le spume, le vele, le saline.

È il suo luogo che diventa sostanza di osservazione e abbandono, dalle «dune di sabbia calda», al «rubino che arde tra le mani» «nell’abbandono di un sogno».

È il volto di Alberti che rappresenta la sosta e i passaggi di stazioni invisibili. È l’invisibile, stregato nelle visioni, come scrive ancora Vittorio Bodini:

«Vi è fra il mondo interno e il mondo esterno di Alberti, fra la sua emozione soggettiva e la porzione di realtà oggettiva che investe, un grandissimo equilibrio affatto insolito nella poesia spagnola, che approda non al realismo ma a una realtà artistica, o a una immaginazione formale (come dice L.F. Vivanco) lievemente idealizzante, quanto basta per far parlare la critica di un Alberti italianizzante, di un italianismo che ha profonde radici in due avi, il nonno materno e il nonno paterno, entrambi toscani. Questo italianismo di Alberti è un filone non trascurabile, concordemente ammesso dalla sua critica, ma contrastato e sopraffatto da altri caratteri, come l’indole andalusa – allegria di vivere, scherzosità, grazia – e un’educazione letteraria esclusivamente ispanica».

Se il suo “ulissismo” da marinaio dell’Atlantico, fornisce il segno di una ricerca di spasmo, il forte miracolo della sua architettura visiva, fornisce l’impronta di una rara freschezza invasiva.

Marinaio a terra (Marinero en tierra 1924), che ottiene il Premio nazionale di letteratura, scolpisce il suo giovane autoritratto, impregnato della nostalgia del simbolo.

La realtà è simbolica perché unisce i vessilli e i rimpianti marini alla sua condizione di abitante della Sierra di Guadarrama, in un concerto di presenza-assenza che finisce per inventare le linee intermedie di sogno o di scalmana, per gridare il cielo della stanza della sua geografia ansiosa e rigogliosa, come la neve che pattina sulla luna: «è caduta la neve sulla luna. / Pattinano gli abeti sopra il gelo; / la tua sciarpa arricciata ascende il cielo / come un addio che il chiaro cielo stria. […] Un brinato silenzio ti corteggia, / si stesse nella luce dei fanali, / mentre tu incrini il candido cristallo. / Addio, pattinatrice! / Il sole albeggia / le gelate terrazze siderali, / dietro a te, Malva-luna, pattinando».

La danza astrale della donna «ardente-e fredda» che conduce nell’universo o l’inconducibile isola, segnano il cammino del mare, con «l’onda sempre si spegne sulla spiaggia», come lotta della vita nell’arena del tempo, come l’appartenenza alla sua origine marina o sottomarina, o l’immagine di un immaginario venditore subacqueo che grida e offre la sua mercanzia: «ah, come starei bene / in un orto del mare, / con te, ortolana mia! Su un carretto, tirato / da un salmone, che allegria / vendere sotto il mare salato, / amore, la tua mercanzia! / – Alghe, fresche di mare, / alghe, alghe».

Scrive Josè Bergamín su Marinero en tierra: «Quando diceva le sue canzonette, mettendosi la mano a bucina davanti alla bocca, come per bandirle, tutto s’empiva di allegria, dell’allegria del banditore mattutino: un’allegria fruttale, verde e fresca; allegria di mercati, di fiere, di vessilli; l’allegria di un cielo radioso in cui esplode un clarinetto stonato; l’allegria del suo volto giovanile e umano, che traboccava da tutto e tutto colmava nella sua follia…».

Ernesto Gimenez Caballero ha insistito sulla natura giullaresca di Alberti, in una prospettiva vigorosa e surreale che spodesta il vuoto, per insediarsi in un mare alto e naufrago, flessibile ed elegante:

«Il futurismo ti ha rifornito. Alberti, maglione bianco, pantaloni larghi, macchina da scrivere per i suoi versi, innamorato di Charlot; poesie assonanti e poliritmiche, entusiasmo per il non convenzionale: vagabondi, mascalzoni, toreri, sportivi, ricchi tenutari che ti portano in giro in macchina di tanto in tanto come facevano i cavalli dei magnati medievali con i giullari e i divi eletti. Di corte in corte, di dama in dama Alberti, sei un poeta cortese, cortigiano. Picaro. Dall’Andalusia hai tirato fuori lo scandinavismo, quello romantico di Bécquer e il lunatismo di Juan Ramón (non dimenticare che ti doleva il petto e che sul cuore ti sono cresciute violette). Ma hai anche ereditato uno splendido suddismo, non sempre valutato come merita. E la sensibilità per la norma, per la disciplina, per la raffinatezza dell’essenza poetica, sensibilità della migliore Andalusia» (p. 170).

In un articolo su «Vuelta», Octavio Paz evidenzia la potenza seduttiva e fascinosa del repertorio poetico di Rafael:

«Una delle mie prime letture è stato Alberti. Leggendo le sue poesie sono penetrato in un mondo in cui le cose vecchie e le realtà consumate, pur essendo le stesse, erano diverse. Avevano cambiato pelle e sembrava che fossero appena nate, animate da un entusiasmo contagioso. Lessi quelle poesie – anche le più tristi e misteriose – con gioia, come se stessi cavalcando un’onda verde e rosa sulla pianura del mare, popolata di tori, delfini, sirenette, tritoni e ragazze cadute dal cielo, intrepide nuotatrici di tutti i maridell’amore- per non parlare delle naiadi delle stratosfera, come Miss X, sotterrata dal vento dell’est. È stato un esercizio vitale: imparare a bere la luce di ogni giorno, pensare con la pelle, vedere con la punta delle dita».

L’inquadratura poetica e visiva di Alberti si insedia nell’eclettismo fecondo che lucida la tensione creativa in un tracciato di radice e verità che si fa inquieta quando ricorda e rammenda le linee del suo vertice emotivo. Il passato acquista la dinamica del recupero della materia vivente, in cui la luna, le pianure, le donne amate, i viaggi magici e i paesi di sabbia e deserto, sollecitano il remoto anelito di un infinito presente, come ricorda Ernesto Sábado:

«quante volte hai decantato la bellezza della tua terra gaditana, il tuo mare, il tuo cielo, i tuoi imponenti tori destinati a quel sacro sacrificio che viene dal profondo della storia mediterranea. E quanto abbiamo apprezzato quelle tue visioni, perché l’arte è a volte, la cosa più individuale e più universale che esista, perché il cuore dell’uomo, in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi epoca, è fatto delle stesse cose. E tu, così profondamente andaluso, hai destato ammirazione nei luoghi più remoti della terra ed hai incitato i popoli alla fratellanza così come solo l’arte può fare».

La ricerca della patria paradisiaca e infantile si accompagna, sin dall’inizio, alla discreta e fremente presenza femminile (La amante, 1956) che conferisce freschezza profonda alla minuta e umanissima realtà albertiana, popolare e dotta, come afferma José Hierro:

«quello che fa Alberti non è, alla maniera di Manuel Machado, imitare una voce popolare viva ma, interpretare una voce popolare che è stata e che non è più; condivide, probabilmente, il punto di vista di Juan Ramón Jiménez e viaggia verso il passato per impregnarsi dell’incanto della raffinatezza perdute. Le brevi poesie dei primi libri, Marinero en tierra e El alba del alhelí, sono strettamente collegate con le raccolte rinascimentali: espressioni, accenti, libertà metrica e a volte quella rottura finale che si fa beffa della rima perché riappare un verso quando non ce lo aspettavamo, un verso di cui avevamo dimenticato il suono finale che chiude la canzone a mo’ di ritornello. Come in questo passo del Cancionero de Barbieri che potrebbe benissimo appartenere a La amante del nostro Rafael Alberti: “No pueden dormir mis ojos, / no pueden dormir. / Y soñaba yo, mi madre, / dos horas antes del día / que me florecía la rosa: / el vino so el agua fría: / no pueden dormir”».

In L’alba della violacciocca (Alba del Alhelí, 1925-1926) e in Cal y canto (1926-1927), il romance fornisce ampiezza alla descrizione di una società rurale che è come se fratturasse la festosa ricchezza marina, per assegnare alla pagina il dramma e il mistero.

L’esperimento del futurismo, dell’ultraismo e del creazionismo, si impasta del recupero di Gòngora, per celebrare l’ambizione di un linguaggio ironico e complesso, che celebra, irrora, solleva il mondo a nuovi cieli e gioca con le penombre rapide:

«Biondi, lucidi seni di amaranta, / limati dalla lingua d’un levriero. / Portici di limoni, fuorviati / dal canale che monta alla tua gola. / Rosso un ponte di riccioli che avanza / fa ardere gli avorii tuoi ondulati. / curvo, morde e ferisce i denti esangui, / librandoti nel vento che ti innalza. / dorme la solitudine nel folto, / calza il piede di zeffiro e poi scende / dall’alto olmo al mar della pianura. / Ecco il suo buio corpo che s’accende / e, gladiatrice, come brace impura, 7 fra Amaranta e il suo amante si distende».

Annota José Bergamín:

«C’è castità nella poesia di Rafael Alberti – limpidezza, purezza – sicura, decisa, dura, duratura, severa: di calce e canto. I suoi angeli – o il suo angelo Andaluso (arcangelo tutelare) – gli costruirono quel muro così profondamente andaluso. Di Cal y canto, la poesia di Alberti si innalza e si afferma, verticale, tocca terra, guarda il mare tra due cieli. Rompe e definisce la luce stessa come il muro imbiancato di un compasso o di un cortile di una casa andalusa di tradizione romana. La Siviglia del Rinascimento, Santa Clara, San Lorenzo, non del quartiere ebreo o musulmano. Siviglia becqueriana».

Nel 1927 una crisi violentissima, poetica, amorosa, politica ed esistenziale invade i suoi angoli fioriti e luminosi, producendo un cambiamento repentino di tenebra folta, che diventa un crampo febbrile e rivoltato. Da questo sconvolgimento nasce, nel notturno delle stesure, Sobre los ángeles.

Commenta Vittorio Bodini:

«Gli angeli di Alberti non hanno nulla a che vedere coi begli angeli cristiani, corporei e decorativi: sono enigmatiche sostanze, per lo più periferiche, dell’anima, che trovano nel poeta una perfetta oggettivazione: staccate dalla matrice, esse vivono la loro sintetica esistenza nel modo più autonomo e indipendente. I gesti che compiono sono di una straordinaria nitidezza, senza una sbavatura, sicchè non ultimo fra i pregi di questo libro è il contrasto fra la natura larvale dei suoi soggetti e la pulitissima precisione delle azioni che compiono, e in cui danno a conoscere la loro acuta diversità».

L’allegoria delle figure sintetizza lo strato più oscuro della coscienza che si impone nella fantasmatica crisi interiore. Angeli sconosciuti, angeli dei numeri e senza fortuna, angeli dei colori muti e disillusi, del dolore rappreso e della rabbia, «stelle erranti come bambini che ignorano la matematica», accompagnano i segreti e i sogni più umani e affondano nel loro prato incollocabile ed acre: «Tu non sei sola, dice l’angelo d’amore e morte a Maddalena nell’Andrea Chenier, io raccolgo le tue lacrime, sto sul tuo cammino e ti sorreggo. Che importa se tutto intorno è fango e sangue? Io sono la vita, sono quello che fa della terra un cielo. Sono l’amore…».

Il successivo Sermones y moradas (1929-1930) si appropria dello strepito delle ombre esangui, per confluire nell’umanità in lotta contro il fascismo franchista, in una poesia rivoluzionaria e marxista (Con los zapatos puestos tengo que morir).

L’appartenenza politica e il matrimonio con María Teresa León (con i viaggi successivi, dopo aver ricevuto dalla Junta para la Ampliación de Estudios, una borsa di studio per l’analisi del movimento teatrale europeo) segnano un’ansia di cambiamento che dirompe sulla scena.

La sua poesia si pone al servizio della rivoluzione sociale, della resistenza e dell’esilio, lanciando la sfida non solo da un verso civile, ma dalla grande aspirazione umana che invoca la strada (El poeta en la calle 1931-1935), in una precisione esatta e lucente: «Non è più profondo il poeta rinchiuso nel suo buio sottosuolo. Il suo canto raggiunge il profondo allorché, aperto al vento, è ormai di tutti gli uomini».

La semplicità della voce popolare ed eroica scopre la dignità davanti al mistero della morte, alla dignità lucente che cavalca l’aria, all’irrompere dell’avvenimento umano come soglia e legame.

Durante la guerra civile, Rafael Alberti milita nelle file repubblicane e poi fugge in esilio, prima a Parigi, poi in Argentina e infine a Roma. Al dolore per i morti della guerra civile si unisce la lontananza dalla Spagna, dai luoghi della sua anima che «nessuno può risarcire»:

«Fra realtà e fantasia, fra realtà e sogno, fra verità storica e una poesia che chiamano impegnata o non impegnata, io ho cercato di spiegarlo in un libro che si intitola Fra il garofano e la spada. Io credo che un poeta non nasca per parlare della guerra o di politica o di tanti fatti orribili che ci circondano quando apriamo gli occhi al mattino. Allora il dramma è questo, mio e di tanti altri, noi viviamo fra il garofano e la spada, fra la spada e il muro… Viviamo incalzati da una orrida realtà che ogni mattino distrugge i pensieri belli e giocosi, ci spazza via dagli occhi le cose grandi che possiamo vedere, facendo di tutti noi tanti schiavi di situazioni così drammatiche e spaventose che bisogna essere fatti davvero di pietra per non parlarne, perché non si riflettano in quello che si fa… Perché a me piacerebbe parlare del mare che mi ha sempre dato tanta gioia, del mare limpido e puro, incontaminato, libero da navi da guerra, del cielo terso, con le stelle, senza voler sapere che viene attraversato da aerei che lanciano bombe e riempiono la terra di morti, l’aria di grida strazianti… Ci si sveglia al mattino pensando che il mondo è bello, un mondo in cui la gente è buona, i rapporti umani perfetti, e subito ti accorgi che tutto è diverso. Ma davanti alla guerra, un essere umano con un minimo di sensibilità, quale poeta soprattutto, può avere lo spirito, la coscienza di mettersi a parlare d’un uccellino che sta cantando su una rosa. Ecco l’origine di questa durezza che di quando in quando si fa sentire, di questa amarezza, di questi accenti talvolta pieni di coltelli. Sono un poeta che al mattino vorrebbe guardare il vecchio mare di Cadice, dipingere le barche che dipingevo quando ero bambino, i gabbiani, seppellire nella sabbia i testi di geometria, di storia, di latino e pescare: invece… non posso farlo… devo scrivere una poesia tremenda».

L’albero divelto, le cui foglie scoperte e nude gli impediscono di ricevere dalla terra il nutrimento vitale, dal suo golfo di ombre («Cerco di non trovare l’uscita, / di restare sprofondato / nel tuo definitivo, arenato, naufragato/ per sempre,/ Golfo d’ombre») promana il suo grido spezzato: «Certo il mio canto / può essere di qualsiasi luogo. / Ma queste radici spezzate, / ahimè, queste radici spezzate / a volte non me lo lasciano / esser del mondo, e neanche / di quella terra, soltanto di quella / piccolissima parte della Terra». Che è il suo tempio strenuo e felice che affluisce alla luce delle immagini e dei miti perduti, nell’approdo esiliato di una lontananza energica e dura, ma sfrondato di gracile grazia, come le sponde del Paranà (Ballate e canzoni del Paranà, 1953-1954), fresche e allegre nella loro dimensione fruttale, che riportano il baluginio delle terre agli occhi, in una luce irreale che sfronda l’infanzia: «Resta pur sempre la fortuna, il dono / infinito di poter tornare sui remoti / passi che demmo un dì in quei luoghi / che il nostro amore andò creando / come in un sogno» o ancora: «Il fiume appende alla cintura / una scimitarra blu di navi / E sopra, il cielo: un turbante / azzurro con uccelli bianchi».

I luoghi di esilio e esilianti, come Roma, ad esempio, (tornerà in patria solo nel 1977 e sarà anche eletto deputato), in cui diventerà parte del quartiere trasteverino, lamentandosi dei pericoli del traffico in Roma, pericolo per i viandanti (1968) («Lo si chieda al gatto / lo si chieda al cane / e alla scarpa rotta. / Al fanale perduto […]. / E all’ acqua corrente / che scrive il mio nome / sotto il ponte») e sperimenterà l’espressione “lirico grafica”, divengono tappe di un incendio esistenziale e vocalico che tenta di catturare la spazialità dell’essere, per divenire respiro, comporsi di respiro, farsi elegia di atlante perduto (come era già accaduto in Fra spada e garofano (1939-1940), Alta marea 1942-1944, Poesie da punta dell’Est (1945-1946), Ritorni della vita lontana (1948-1956)) e attesa consunta: «Non aveva la rosa compleanni o l’arcangelo. / Tutto, anteriormente al pianto e al belato. / Quando ancora la luce non sapeva/ se il mare nascerebbe maschio o femmina. / Quando il vento sognava chiome da pettinare / e garofani il fuoco e gote da infiammare / e l’acqua, delle labbra ferme a cui abbeverarsi. / tutto, anteriore al corpo, al nome e al tempo, / Allora, io ricordo che una volta nel cielo…».

Dopo ave ricevuto nel 1983 il premio Cervantes, e successivamente esser entrato nella Real Academia de Bellas Artes di San Fernando e in quella di Bellas Artes di Santa Cecilia perde la sua María Teresa León, nel 1988, vittima di una grave malattia.

Nelle liriche amorose Canzoni per Altair, la donna-stella illumina la vita e la via dell’uomo-poeta, «sei scesa, / stella rivelata dei miei occhi perduti, / e sei caduta su di me, fuoco d’amore / e nel mio sangue hai preso dimora fin da allora», come il confine e la visione che superano il tempo, coltre incantata e «energia astrale».

È interessante notare, come questa ultima finale produzione albertiana, si imponga in modo epifanico e frenetico, nell’attesa del giorno improvviso e nuovo e nel raggio sulla vita nuova poiché «sai bene che in me non muore la speranza, / che gli anni in me non sono foglie ma fiori, / che non sono mai passato, ma sempre futuro». Fino all’abbandono ultimo: «Entra tutta nel mio respiro e portami in volo nei tuoi cieli. Per sempre».

 

 

alberti r., Poesie, a cura di Vittorio Bodini, Mondadori, Milano 1997.

id., Roma, pericolo per i viandanti, Passigli, Firenze 2000.

id., L’albereto perduto, 4 voll., Editori Riuniti University Press, Roma 2010-2012.

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caballero gimenez e., Retratos españoles (Bastante parecidos), prólogo de Pere Gimferrer, Planeta, Barcelona 1985.

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paz o., Saludo a Rafael Alberti, in «Vuelta», 166, settembre 1990.

prampolini g., Noi lo chiameremo compagno, in «Il Politecnico», 21 agosto 1947.

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vivanco l.f., «Rafael Alberti en su palabra acelerada y vestida de luces», in Introducción a la poesía española contemporánea, Guadarrama, Madrid 1961, pp. 600-633.

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zardoya c., «El mar en la poesía de Rafael Alberti», in Introducción a la poesía española contemporánea, Guadarrama, Madrid 1961.

 

L’apertura di René Char

di Andrea Galgano                                                                                               26 giugno 2013

Poesia Contemporanea

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Non c’è poema di René Char, scrive Jean Starobinski:

«che non ci dia il senso dell’apertura. Uno spazio accresciuto appare dinanzi a noi, si illumina in noi, si offre ai nostri occhi aperti. Questo spazio non ha gli agi del sogno: è il volume brulicante e rude del nostro soggiorno terrestre, è l’istante del nostro respiro presente, rivelati nella loro piena estensione. Un luogo abitato imperiosamente s’annuncia; e la sua ampiezza ci è resa sensibile dall’empito di un’emozione che non sopporta di sentirsi disgiunta dalle grandi energie naturali: riconosciamo l’avvento della «materia-emozione istantaneamente regina».

L’ora presente che promuove il suo accrescimento di prospettiva, di luogo e di sguardo, si sviluppa nell’originaria spazialità inaccessibile e pronunciata, si sofferma sulla nominazione designata e integra, che si ammanta di lontananze e assenze.

La parola che afferma il suo annuncio, appartiene all’indicibile del linguaggio, all’assoluto intervallo della contemplazione estatica e della sottrazione: «La poesia è, di volta in volta, parola e provocazione silenziosa, disperata, del nostro desiderare una realtà che non teme eguali. Immarcescibile. Imperitura, no; perché corre i rischi di tutti. Ma la sola che visibilmente trionfa della morte materiale. Tale la Bellezza: apparsa fin dai primi tempi del nostro cuore, ora risibilmente cosciente, ora luminosamente attento».

Char continua, nel suo empito e nella funzione della poesia, a «fronteggiarsi dei contrari» e «raccoglierne la sofferenza e il frutto», come sostiene Starobinski, permanendo nella conciliazione e nella ferita, come squarcio silente e amoroso, che vive di guerra e di pace e in cui la poesia diviene «essenza del poema, […] messa di fronte a se stessa e resa visibile nella sua essenza, attraverso le parole che la ricercano» (M. Blanchot).

Quando essa si serra nella custodia di un precetto e di una definizione, l’assenza e la lontananza celebrano l’indefinibile, si affrancano in una liberazione che soggiace all’humanisme e all’allargamento di senso e di foglio: «Quando la nostra missione è quella di svegliare, si comincia col lavare se stessi nel fiume».

Giorgio Caproni, analizzando il vortice poetico di Char, scrive: «fra tutte le “poesie” da me lette ed amate in questi ultimi anni, è la più lontana dall’ “idea di poesia” che ciascuno di noi (per tradizione, per educazione, per abitudine) possiede, e la più stretta al cuore della poesia stessa, dove la letteratura o la poesia-che-si-sapeva-già non porgono più alcun soccorso al lettore, e questi, coinvolto da capo a piedi in quei bouts d’existence incorruptibles che sono i poèmes, rimane perfettamente solo a sentirsi investito d’un potere – d’interiore libertà: d’uno slancio vitale e d’un coraggio morale – che per un istante egli crede di ricevere femminilmente dall’esterno, mentre poi s’accorge che tale ricchezza era già in lui, sonnecchiante ma presente, come se il poeta altro non avesse fatto che risvegliarla, non inventando ma scoprendo; e quindi suscitando un moto, più che d’ammirazione, di gratitudine. Ho sottolineato i tre vocaboli non per ammiccare, ma perché possono essere, penso, tre piccoli sesamo, offerti dallo stesso Char».

Il suscitatore di vita celebra la forma contratta del mondo («Il poeta, / custode degli infiniti volti di tutto ciò che vive»), il cielo illuminato che riserva l’intensità del moto vivente («Bandita dai nostri occhi, la luce si è nascosta / da qualche parte nelle nostre ossa. La cacciamo / a nostra volta, per restituirle la corona»), la folgorazione dell’istante che ama lacerare i lacerti del silenzio («Non apparteniamo a nessuno, se non al lampo / di quella lampada ignota, inaccessibile, / che tiene svegli il coraggio e il silenzio») e della attesa, per ricomporsi, rigenerarsi, sostare nell’asserzione del presente, che, come scrive ancora Caproni: «è forse l’unica voce costruttiva, e vorrei dire, in senso proprio, edificante, nel cuore del generale sfacelo. È la voce viva e quasi magica, nourriture semblable à l’anche d’un haut-bois [nutrimento simile all’ancia di un oboe], d’un datore di speranza: d’un fautore acerrimo di libertà, nel più vasto e limpido senso laico. E nel più umano. D’un umanesimo che pianta le radici nello stesso suolo d’origine del poeta (L’Isle-sur-la-Sorgue, Valchiusa, circondario d’Avignone, dove Char è nato nel 1907) e che trae la sua maggior forza di vivo alimento proprio dalla catastrofe della guerra e dall’oppressione nazista, duramente sofferta e ormai sfondo morale del poeta, più d’ogni altro fratello dei suoi fratelli nel cristallo del proprio amore infinito. Sfondo, insieme con quello della lucente bellezza della terra (Char ha saputo ben fare sa toilette dans la rivière: e ogni sua parola è un essere vivente, uomo o albero o fiume o trota o allodola che sia), che nemmeno nelle poesie più schiettamente amorose verrà meno, sempre espresse con un tal sentimento etico della parola da trovare pochi termini di confronto».

La designazione di una meta per la parola richiede il superamento dell’ostacolo notturno, la falla dura e fulgida di un humus di fondo, oscuro e doloroso, che serpeggia nei recessi dell’indistinto e nella tenebra delle frasi.

Ma non si rinviene una nostalgia decorosa e fragile, non c’è fascino di origine o retrospettiva di slargo («Somigliamo a quei rospi che nell’austera / notte delle paludi si chiamano e non si vedono, / piegando al loro grido d’amore / tutta la fatalità dell’universo»), bensì tenta di strapparsi all’origine, alle regioni dell’inconscio, e, come sostiene Starobinski: «si manifesta come un sollevamento che, lasciandosi alle spalle una regione notturna, punta, attraverso la pura chiarità del giorno, verso un rischio ulteriore».

È nella chiarità densa dell’istante che la durata delle sue transizioni scorrono, nella temporalità disgiunta e rotta che sale la sua immagine interiore, come origine di arcipelago, urto, balzo, ascensionalità: «Oggi ho vissuto l’istante della potenza / e dell’invulnerabilità assolute. / Ero un alveare che migrava / verso le sorgenti del cielo / con tutto il suo miele e tutte le sue api».

Il movimento della poesia e della parola si accompagnano al moto del poeta, fusi e discinti nella accettazione di un pericolo smosso, nella massima intensità di un’altitudine franta che non ha terrore di lasciare lo spazio alla bellezza e al suo «cono d’ombra»: «Non c’è spazio, nelle nostre tenebre, per la Bellezza. / Tutto lo spazio è per la Bellezza», o ancora «Ognuna delle lettere che compongono il tuo nome, Bellezza, / nel posto d’onore dei supplizi, sposa la distesa semplicità / del sole, s’iscrive nella frase immensa che copre il cielo, / e si accompagna all’uomo impegnato a ingannare il destino / col suo opposto indomabile: la speranza».

In questi passaggi, la memoria prenatale di Char insegue le sue regioni segrete, come la notte, appunto, la terra, l’angoscia e la roccia.

Nell’antagonismo dell’ uomo «incerto dei suoi fini», si espone la gemma della diversità che frequenta il fondo sotteso delle tenebre, l’astro che si impone nelle braci, lo splendore numinoso della fecondazione antagonista, che percuote lo strappo e la ferita del respiro: «Proprio l’istante in cui la bellezza, / dopo essersi fatta lungamente attendere, / sorge dalle cose consuete, / attraversa il nostro campo rigoglioso, / lega tutto ciò che può essere legato, / illumina tutto ciò che deve essere illuminato / del nostro retaggio di tenebre».

La rigenerazione rievocativa dell’infanzia, come densità nata realmente per la nostra stoffa umana, slanciano la noncuranza e lambiscono il dolore della veglia, del ritardo dinamico dell’essere: «Porteranno fronde gli ostinati a limare la notte nodosa che precede e segue il baleno».

La «macchia di purezza / al di là della scrittura insozzata» è salvarsi dal naufragio di «un passante intento a passare» che spia l’alba cremisi e non annulla, per nessun motivo, la densità dei contrari, l’opposizione del limite tragico e slanciato di un istante imprevisto e di un palpito guardingo.

Commenta Starobinski: «Al limite estremo del sollevamento poetico, ritroviamo una nuova soglia, ma una soglia proibita che non può essere valicata. La cima non è una mèta conquistata e posseduta. Se il poema si slancia verso la sua più grande altezza – e accade che vi giunga con stupefacente celerità – vi si ritroverà meno ricco del suo acquisto che anelante a ciò che gli manca e ancora gli sfugge. La sommità è cosa di un istante, in cui l’ignoto, il futuro, il silenzio si manifestano col loro stesso sottrarsi».

Come ha aggiunto Adriano Marchetti, nella introduzione di Mulin premier e Au-dessus du vent, per cui «René Char, come Mandel’štam, che lui stesso ha tradotto, e Paul Celan da cui è stato tradotto, appartiene a quella generazione di poeti che è rimasta segnata dagli orrori del totalitarismo europeo e che tuttavia non ha abbandonato il cammino della resistenza dimorando nella tensione della poesia, compiendo un gesto che Simon Weil avrebbe chiamato action non agissante», la poesia di Char afferma il culmine di una costrizione: dapprima alla verità, poi alla cartografia dell’accumulo di una dimora possibile e il poeta, come egli scrive, «traducendo l’intenzione in atto ispirato, convertendo un ciclo di travagli in carico di resurrezione, costringe l’oasi del freddo a trapassare per ogni poro i vetri dello scoramento e crea il prisma, idra dello sforzo, del meraviglioso, del rigore e del diluvio, con le tue labbra per saggezza e il sangue per predella».

Come sostiene Stefano Raimondi, per cui

«Le immagini chariane sono una vera e propria mappatura dello spirito iconico nel corpo dell’espressione. Egli le costruisce per comprensione del mondo, per decifrazione delle cose e del circostante che lo invadono e lo coinvolgono negli istanti rivelatori che si forgiano nel farsi del poema stesso. La forza delle sue immagini scaturisce dalla certezza di un rapporto con una parte reale che lo orienta, che lo inizia, come un substrato oggettuale che lo perimetra e lo affranca. Nel procedere per apparizioni, Char è perfettamente conscio del rischio che corre, della possibilità di non poter più riprendere il suo carnet tra le mani, per raccontare il proseguire del giorno, delle ore drammatiche.

Nella stratificazione del dolore naufrago, nella polvere di una situazione, il frammento chariano non geme nell’inerzia di una vertigine, ma si pone come atto fiero, in cui il poeta fa fronte all’ignoto e resiste («Resistenza è solo speranza. Così la luna d’Ipnos, con tutti i suoi quarti stanotte, domani visione sul passaggio dei poemi.»), si pronuncia nell’attualità drammatica sospesa nella scansione dell’istante violento e dell’ascesa meridiana: «Mi faccio violenza per conservare, malgrado l’umore, questa mia voce d’inchiostro. Sicché, è con penna a testa d’ariete, senza posa spenta, senza posa riaccesa, concentrata, tesa e d’un sol fiato che scrivo questo, tralascio questo. Automa delle vanità? No, sinceramente. Necessità di controllare l’evidenza, di farla creatura».

Scrive Vittorio Sereni: «Nel suo insieme antielegiaca, antinarrativa, antidiscorsiva la poesia di Char è poesia d’illuminazione, ellittica, oracolare. Ha le radici nell’istante e nel fenomenico e dunque – contro ogni apparenza – nel quotidiano. Ma non è, in alcun modo, poesia del quotidiano nella misura in cui rifiuta di essere gestione poetica della quotidianità»

La violenza e la tenerezza della sua immagine colgono la sospensione miracolosa e vivente verso un orizzonte mai neutro che si protende al tempo rinviabile e leggibile, poiché «il poema è sempre sposato a qualcuno».

Annota Starobinski: «L’unità dell’amore non si compie nella fusione dei simili, ma nel rapporto asimmetrico in cui il desiderio fa fronte alla parte d’ignoto e d’assenza che, nella fortuna offerta, non smette mai di sfuggirci».

È la densità dell’istante che avviene a cogliere il tempo della vita e della scrittura, come i rosai selvatici, che da scomparsi, appaiono fulgidi e perseveranti, o la Francia delle Caverne, rischio essenziale di una sproporzione libera e generosa: «M’incanta il popolo dei prati. La sua bellezza esile e priva di veleno, non mi stanco di narrarmela. Il topo campagnolo, la talpa, oscuri bimbi perduti nella chimera dell’erba, l’orbettino, figlio del vetro, il grillo, pedissequo quant’altri mai, la cavalletta che schiocca e conta i suoi panni, la farfalla che simula ebbrezza e stuzzica i fiori coi silenziosi singulti, le formiche fatte sagge dalla verde distesa, e , immediatamente sopra, le rondini meteore … Prateria, sei lo scrigno del giorno».

Commenta ancora Starobinski: «La terra incrociata dai voli degli uccelli, la marcia sull’immutabile cammino, o ancora: il corso del fiume. Sono tutte immagini esemplari, precetti sensibili che insegnano l’alleanza tra la fissità e il movimento, tra l’essere radicati e il fluire. Il poeta trova nel mondo le grandi figure che rispecchiano il suo destino d’uomo dilacerato e di conciliatore, delle quali il poema dovrà ripetere il tracciato».

Decifrare il mondo nel tessuto del poema è «ritrovare, / in egual numero, gallerie nascoste, stanze armoniche, / e, nello stesso tempo, lembi di futuro, portici al sole, / sentieri insidiosi ed esistenze che si riconoscono alla voce. / il poeta è il traghettatore di tutto ciò che plasma un ordine. / Un ordine insorto».

La laconica espressività di Char diviene l’emblema di un passaggio di dimore, forgiate dall’alone esile e forte, in cui l’azione si fa natura, parola-veggente che si deposita nel fondo dell’esperienza e nel suo fascio di tenebre, come immagine tolta al nulla e restituita al campo radioso dell’essere: «Temo la scalmana non meno della clorosi degli anni che terranno dietro alla guerra. Presento che l’unanimità salutare, la bulimia di giustizia avranno solo una durata effimera, una volta sottratto il laccio che annodava la nostra lotta. Qua uno si prepara a rivendicare l’astrattezza, là un altro reprime ciecamente quanto è suscettibile da alleviare la crudeltà della condizione umana di questo secolo e di permettergli d’accostarsi con passo fiducioso al futuro. Già il male è dovunque in lotta con il suo rimedio. I fantasmi moltiplicano i consigli, le visite, fantasmi la cui anima empirica è un cumulo di muco e nevrosi. Questa pioggia che penetra l’uomo fino all’osso, è la speranza d’aggressione, la scolta del disprezzo. Ci si precipiterà nell’oblio. Si rinunzierà a scartare, a tagliare e guarire. Si supporrà che i morti sepolti abbiano noci nelle tasche e che un giorno, per caso, l’albero sorgerà […]».

 

 

char r., Ritorno Sopramonte e altre poesie, a cura di Vittorio Sereni, con un saggio di Jean Starobinski, Mondadori, Milano 2002.

id., Poesia e prosa, prefazione e traduzione di Giorgio Caproni, Feltrinelli, Milano 1962.

blanchot m., La follia del giorno. con due poesie di Georges Bataille e René Char, L’obliquo, Brescia 2005.

raimondi S., Il male del reticolato. Lo sguardo estremo nella poesia di Vittorio Sereni e René Char, CUEM, Milano 2007.

 

Anton Raphael Mengs e l’Arcadia del Mito

L’Immaginale                                                Prato, 16 giugno 2013

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 di Irene Battaglini

«Ut pictura poësis»

Quinto Orazio Flacco

 

«La bellezza consiste nella perfezione della materia secondo le nostre idee. Siccome Iddio solo è perfetto, la bellezza è perciò una cosa divina. Quanto più la bellezza si trova in una cosa, tanto più è la medesima animata. La bellezza è l’anima della materia. Siccome l’anima dell’uomo è la causa del suo essere, così anche la bellezza è come l’anima delle figure; e tutto quello che non è bello è come morto per l’uomo.

Questa bellezza ha un potere, che rapisce ed incanta; ed essendo spirito, muove l’anima dell’uomo, accresce, per così dire, le sue forze, e fa sì che si scordi per qualche momento di essere racchiusa nel ristretto centro del corpo. Da ciò nasce la forza attrattiva della bellezza: subito che l’occhio vede un oggetto assai bello, l’anima ne risente, e desidera unirvisi; onde cerca l’uomo di avvicinarvisi, ed accostarvisi.

La bellezza trasporta i sensi dell’uomo fuori dall’umano: tutto si altera, e si commuove in lui talmente che, se questo entusiasmo è di qualche durata, egli degenera facilmente in una specie di tristezza, allorchè l’anima si avvede non esservi che la mera apparenza della perfezione».

Anton Raphael Mengs

 

Avvicinarsi a Anton Raphael Mengs (Aussig 1728 – Roma 1779) significa due cose: farsi sorprendere dal Neoclassicismo ed esplorare con occhi nuovi il crinale del mito. «Il termine Neoclassico contiene un duplice rimando, il primo al classico e il secondo al rinnovamento, due parole che sono oggi di uso facile e quindi in un certo senso degradate», sostiene Steffi Roettgen nell’Introduzione a Mengs, la scoperta del Neoclassico, (Marsilio Editori, Venezia 2001).  Non è un deja-vu, ma un appropriarsi di stilemi che appartengono ad un tempo passato, del quale non vi è stata ancora piena elaborazione.

La sfrangiatura dei critici contemporanei a discredito del Neoclassicismo ha gettato un’ombra lunga sull’apporto di autori di grande spessore, tra i quali un ruolo significativo è giocato dallo il pittore Anton, lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann (che fu con Mengs il teorico del Neoclassicismo), gli scultori Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen, il pittore francese Jacques-Louis David, i pittori italiani Andrea Appiani e Vincenzo Camuccini, e il grande incisore Giovan Battista Piranesi che, con le sue incisioni a stampa, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. A Roma si stabilirono scuole ed accademie di tutta Europa, divenne la città dove avveniva l’educazione artistica di intere generazioni di pittori e scultori.

Fu un movimento di “risposta”, caratterizzato dall’adesione ai principi di armonia, equilibrio, compostezza, proporzione e serenità che l’Uomo Moderno intravvide nell’arte degli antichi greci e romani, e dal “rifiuto” dell’arte barocca, segnata da un destino di gestione dell’eccesso e della ridondanza.

Stefano Susinno (in Steffi Roettgen, cit.):

 «[…] Tale gruppo di intellettuali – da Giovanni Cristofano Amaduzzi ad Aurelio de’ Giorgi Bertola, da Ippolito Pindemonte ad Antonio Di Gennaro, duca di Belforte, per non dire dei due più noti esegeti e biografi mengsiani, Gian Ludovico Bianconi e José Nicolas de Azar – si colloca significativamente all’interno di quella istituzione accademico-letteraria, allora quasi centenaria che, nata per promuovere una riforma del gusto in opposizione agli “eccessi” del Barocco, dalla sua fondazione nel 1690, con il programmatico nome di Arcadia, incoraggiava uno stile poetico basato sulla conoscenza dei grandi classici dell’antichità e della tradizione italiana fino al Cinquecento. Questi erano riproposti a modello per trattare con verità e naturalezza non solo i vari generi della poesia ma anche argomenti di religione, di scienza, di filosofia».

 Un movimento artistico di “necessità” è sempre dinamico e porta con sé gli elementi di una psicologia difensiva,  dovuta alla modalità con cui i suoi protagonisti affrontarono quel particolare bisogno sociopolitico, estetico, linguistico. La necessità di liquidare gli effetti estetici di “troppo” dell’arte barocca generò un’equazione spuria: l’eliminazione di ciò che è “oltre” attraverso il ritorno a ciò che è “puro”. Questa operazione coincise con l’immagine del potere imperiale di Napoleone, che ai segni della romanità affidava la consacrazione dei suoi successi politico-militari. «Considerando il Neoclassico come corrente di moda si riesce almeno ad intuire in una certa misura per quale motivo esso potesse venir infine spodestato da un atteggiamento antagonista preannuciantesi già con il Romanticismo» (S. Roettgen, cit.).

 La caratterizzazione dinamica del Neoclassicismo trova conferma nella l’opera di divulgazione data dallo stesso Piranesi alle campagne di scavo archeologico, che permisero lo studio del rapporto tra arte greca e arte romana. Una “terapia” del bello, che va a risanare le ferite di una decadenza stilistica e sociale qual è quella dell’età barocca: il frutto di una degenerazione spettacolare e illusoria, ubriaca di sé, virtuosistica, qualche cosa che oggi definiremmo irregolare, kitch, trash, superstizioso, ingannevole. Un effetto d’Ombra che l’Illuminismo tenterà di chiarificare con il ricorso apollineo alla ragione, alla scienza.

La riabilitazione neoclassica vede uscire l’arte romana più debole dal confronto con quella greca: la plastica statuaria di Fidia, Policleto, Mirone, Prassitele, Lisippo, sono esempi senza tempo cui fare riferimento per ottenere la bellezza «ideale» contraddistinta da «nobile semplicità e calma grandezza», ovvero un’arte come espressione di «un’idea concepita senza il soccorso dei sensi» (Winckelmann, 1755 Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura; Storia dell’arte nell’antichità, 1763).  La qualità elegante della forma, la bellezza dei volti, la dolcezza lontana degli sguardi: un’arte ispirata alle virtù, quasi a coniugare temperanza, giustizia, pace, abbondanza,  l’effetto di un buon governo estetico governato da Armonia. Tuttavia i valori rinascimentali erano di matrice umanistica e non illuministica, e diedero all’uomo una centralità storicopolitica, religiosa ed economica che mal si coniuga con la razionalità neoclassica che tendeva a liberare l’uomo dalla retorica, dalla licenza e dalla sregolatezza barocca.

La pittura del tedesco Rafael Mengs (ammesso all’Arcadia romana con il nome di Dinia Sipilio), – l’artista di corte di Spagna pagato con cifre oggi miliardarie, critico d’arte e principe dell’Accademia di San Luca a Roma, solo per citare un paio degli alti riconoscimenti a suo favore – è uno dei più luminosi esempi di arte neoclassica. «Il monumento all’amicizia tra Mengs e Winckelmann è il Parnaso della villa Albani, al quale Winckelmann ha dedicato un elogio esorbitante e smisurato e non privo di zelo patriottico» (S. Roettgen, cit.), pubblicato nel 1764 in Storia delle arti del disegno.

Il Parnaso è di una bellezza indiscutibile. Tuttavia vi è un’altra opera di un incanto straordinario, che è il dipinto Perseo e Andromeda (olio su tela 227 x 153,5 cm, Ermitage di San Pietroburgo) con il cui acquisto segreto Caterina ii di Russia ebbe ad appagare il suo desiderio: «Verrà alla fine quel giorno, in cui io potrò dire di aver visto un’opera di Mengs?», avrebbe scritto l’imperatrice nel 1778 in una lettera a Melchior Grimm, figura centrale del xviii secolo come mediatore tra pubblico e privato nel processo di riforma illuminata delle corti, agente e mercante d’arte.

Il grande quadro segue di alcuni anno la pittura monocroma che porta lo stesso titolo, di piccole dimensioni, e che è accolto presso la Pinacoteca Manfrediana del Seminario Patriarcale di Venezia. È un bozzetto creato per la preparazione, che durò almeno sette anni, del pezzo principale. L’opera è di una eleganza non ascrivibile ad un movimento artistico: è senza tempo, e documenta una fase della composizione in cui non è ancora avvenuto il totale e auspicato distacco percettivo che caratterizza l’opus magnum finale con il suo stampo inequivocabilmente neoclassico.  Gli sguardi di Perseo e Andromeda e del fiero Imeneo sono testimoni di un attimo, di una storia vissuta. La composizione è intima e narrativa, intrisa di una tenerezza che Mengs più volte riuscirà a codificare segretamente nel gioco di luci che gli occhi dei suoi ritratti tradiranno. Si pensi alla Sibilla, che è potentemente allusiva, all’allure contemporanea di una spavalda Maria Luisa di Parma principessa delle Asturie – che il Goya ritrasse in modo ripugnante con un pennello impietoso, ai molteplici autoritratti che sfuggivano alla tendenza a eliminare ogni forma di personalizzazione.

Il grandioso Perseo e Andromeda fu oggetto di numerosi studi critici. Steffi Roettgen (cit.):

 «Mengs ha scelto per la sua composizione diversi modelli antichi, che possono essere individuati senza fatica ad un osservatore con una certa esperienza. Appare evidente il legame con il rilievo, proveniente dalla collezione di Alessandro Albani, del Museo Capitolino di Roma, che raffigura la stessa scena. Gli atteggiamenti delle figure richiamano il modello rappresentato dal mosaico antico con la Liberazione di Esione, che il Cardinale Albani aveva acquistato nel 1761 per la sua collezione privata di villa Albani. Oltre a questo modello, riconosciuto da Mario Praz, si nota infine l’influenza che l’Apollo del Belvedere (Roma, Musei Vaticani) ha esercitato direttamente sull’atteggiamento di Perseo. Con questi riferimenti diretti all’antichità, Mengs andò ben oltre l’iconografia rinascimentale relativa al tema tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (iv, 670 ss.), che prediligeva per lo più la lotta di Perseo contro il drago, rispetto alla liberazione di Andromeda dalla rupe. I motivi del destriero Pegaso guidato da Perseo e dal fanciullo dell’imeneo che lo precede correndo con una fiaccola, possono stati essere presi da un dipinto di Peter Paul Rubens, raffigurante lo stesso soggetto, che raffigurava lo stesso tema, e che Mengs conosceva probabilmente per averlo osservato nella collezione del conte Brühl (oggi San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage)».

Nel saggio “Pensieri sulla bellezza e sul gusto nella pittura” (Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei) pubblicato nel 1762 a Zurigo, Raphael Mengs, il “Mozart della pittura”, teorizzò il concetto del bello ideale che trascende la natura, perfezionandola. Tre erano gli assiomi del pensiero neoclassico di Mengs:  il primato dell’antico e la sua imitazione non servile; la scelta e il concetto della «bellezza ideale»; il primato dell’intellettualismo del disegno contro il sensualismo del colorito.

Il concetto di bellezza ideale postulato da Mengs poggia le basi sull’impianto filosofico di Platone. Scrive lo stesso Anton Raphael[1]:

«La natura ha perciò prodotte molte bellezze graduate, affine di tener lo spirito umano colla varietà in una commozione eguale, e continuata. La bellezza attrae tutti, perchè la sua potenza è uniforme, e simpatica all’anima dell’uomo; chi la cerca, la trova su tutto, e da per tutto, poichè ella è la luce di tutte le materie, e la similitudine della stessa divinità.  […] Nella bellezza l’arte può superare la natura L’arte della pittura vien detta una imitazione della natura: laonde sembra che nella perfezione debba ella esserle inferiore; ma ciò non sussiste se non che condizionatamente. Vi son delle cose della natura, che l’arte non può affatto imitare, ed ove questa comparisce assai fiacca, e debole in confronto di quella, come, per esempio, nella luce e nell’oscurità. Al contrario ha l’arte una cosa molto importante, in cui supera di gran lunga la natura, e questa è la bellezza. La natura nelle sue produzioni è soggetta ad una quantità di accidenti: l’arte però opera liberamente, poichè si serve di materie del tutto flessibili, e che niente resistono. L’arte pittorica può scegliere da tutto lo spettacolo della natura il più bello, raccogliendo e mettendo insieme le materie di diversi luoghi, e la bellezza di più persone: all’incontro la natura è costretta a prendere, verbigrazia, per l’uomo la materia soltanto alla madre, ed a contentarsi di tutti gli accidenti; onde è facile che gli uomini dipinti possano essere più belli di quello che sieno i veri. […]».

Gli “sfondi” di Roma, Parigi, Dresda, Londra, San Pietroburgo fanno da scenario al confronto del mondo naturale con il modello ideale dell’antichità.

L’arte contemporanea a volte “prende” da quell’immane serbatoio, fregiandosi di stile e chiarezza, di pulizia compositiva. Bellissimo poter contare su questa certezza, su queste basi.  Marc Augé ha affrontato il problema dell’atteggiamento dell’uomo nei confronti di queste “memorie e macerie”, facendo riferimento al concetto di sûrmodernité, ampiamente caratterizzata dalla spettacolarizzazione delle immagini. Il rapporto tra spazio e tempo, tra realtà e rappresentazione, sono temi propri della filosofia e dell’antropologia contemporanea.

I Neoclassici nell’Europa dei Lumi diedero spazio ad un tentativo rigoroso e disciplinato di una rifondazione dell’arte e della cultura tutta partendo dalle strutture e dalle immagini classiche, consapevoli che la grandezza di un Mengs e di un Canova non era da meno di quella di un greco antico. Erano orgogliosi del proprio atteggiamento, e lo difesero con molti argomenti e studi. Non vollero saccheggiare né distruggere, ma solo fronteggiare la vertigine della libertà con la misura semplice e sicura del bello e del buono, come ci insegnano i grandi filosofi classici.

 «Questi è il Monti, poeta e cavaliero, gran traduttor de’ traduttor d’Omero».

Ugo Foscolo

«Come il creatore della natura ha posta una perfezione in ogni cosa, e ci fa apparir tutta la natura bella, ammirabile e degna di lui; così deve anche il pittore mettere e lasciare in ciascuna espressione, in ciascuna pennellata un contrassegno del suo spirito e del suo sapere, acciò l’opera sua sia sempre e da tutti stimata degna di un’anima ragionevole».

Anton Raphael Mengs

William Carlos Williams e le vene dell’America

di Andrea Galgano                                                                  Prato, 6 giugno 2013

Poesia Contemporanea

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lo scrittore statunitense William Carlos Williams (1883-1963) nacque a Rutheford, New Jersey, il 17 settembre 1883, da padre americano di origini inglesi e madre portoricane di origini basche e ebraico-olandesi.

Dopo aver frequentato la scuola secondaria a New York, a Ginevra e Parigi e nel 1902 si iscrisse a Medicina presso l’Università della Pennsylvania, dove conobbe Pound e Marianne Moore. In Europa per la specializzazione, si spostò a Lipsia, Londra, Spagna e Italia.

Nel 1912 sposò la sua compagna del liceo Florence Herman (detta «Flossie») e svolse l’attività pediatrica dedicandosi alla classe operaia di Paterson, nel New Jersey, città importante, poiché darà il titolo alla sua opera principale.

Nel 1949 gli fu assegnata la prestigiosa cattedra di Poesia presso la Biblioteca del Congresso, subito revocata per via del maccartismo nascosto nei suoi scritti considerati sovversivi.

In un suo testo, dal titolo «Di nuovo pane e caviale. Un consiglio al nuovo scrittore», scrive: «Ne abbiamo fin sopra i capelli della cantilena secondo cui l’artista è un debosciato nato, le sue opere sono provocate dalla nevrosi, dalla sublimazione, dalle fughe dal brutale contatto con la vita che egli, povero cristo, paventa terribilmente».

La ribellione nei confronti dell’immagine dell’artista che trova la fonte di ogni ispirazione soltanto nell’evasione, nel rifugio assolato di un pensiero distante, trova la possibile strategia di una risposta: «tanto dipende / da / una carriola / rossa / smaltata di / pioggia / presso bianche / galline» (The Red Wheelharrow).

Il celeberrimo assioma no ideas but in things, niente idee se non nelle cose, trova nella poesia una proporzione netta, in cui le cose, qui rappresentate dalla carriola e dalle galline, vengono raccolte nello sguardo che unisce la vivezza del rosso, smaltato di pioggia, all’indistinta presenza del bianco. Essi uniti dalla pioggia, rinascono nella chiarezza e nelle affermazione degli oggetti.

La semplicità nasce dalla combinazione e la poesia non vive se non nella stoffa del mondo: «La provincia della poesia è il mondo / Quando il sole sorge, sorge nella poesia / e quando il buio scende al tramonto / la poesia è buia».

Il valore dell’immagine assume consistenza solo nella espressione concreta e la sua operazione poetica, persino nelle suggestioni della poesia cinese e giapponese, come scrive Cristina Campo «ha origine nello sguardo: fisso, con meravigliosa costanza, più che all’oggetto alla sua metamorfosi».

La dedizione di Williams all’Immagismo rappresentò il contorno preciso di una traduzione di oggetti e nel rigore della bellezza, molto simile all’inscape di G.M. Hopkins, come fine ultimo della ricerca.

Le incursioni vitali dell’essere si muovono in una geografia di arcipelaghi, per usare una immagine cara alla Campo, che tenta di raggiungere le cose fuori dell’io, fino a immergersi nella datità che egli vede: «Al di fuori / al di fuori di me / c’è un mondo, / mormorò egli, soggetto alle mie incursioni / – un mondo / (per me) in riposo, / cui mi accosto / concretamente».

L’immaginazione permea il concreto contatto con le cose, con una forza che distrugge la rigidità della materia e che il poeta paragona alla fusione: «è la fusione, il divenire fluido dell’immaginazione che segnala come la mente stia entrando in una dimensione creativa. Dev’esserci fusione perché ci sia creazione, fluida, priva di qualsiasi impedimento».

La parola si fa materia fluida, come traboccante. Essa stessa si fa visione, fino ad assumere una potente valenza simbolica. Il valore della poesia sta in questa energia tremenda e spaziale che fissa il mondo in una mimesi grafica luminosa e chiara: «Una rosa è una rosa / e una poesia la eguaglia / se è ben fatta».

Lo stupore si afferma nella intuizione di un germoglio, di un vasto aprirsi di pupille e pazzie tattili: «uno scoppio d’iris così / scesi per la / colazione / esplorammo tutte le / stanze in cerca / di / quel profumo dolcissimo e da / prima non riuscimmo a / scoprirne la / sorgente poi un azzurro / come / di mare ci / colse / in sussulto improvviso di / tra gli squillanti petali» (Iris).  

È nel frammento, nella scaglia d’orizzonti che si scopre la meraviglia, la miscela del sangue che lascia il campo allo stupore che conosce: «Ciò che era vasto ma / pareva depredato del / potere di versare sul mondo / la sua onda di splendore / nuovamente trabocca in ogni / angolo».

La forza delle parole ama sostare nell’abbandono, nella sognata allegria dolorosa di una voce che deborda ma non riesce ad abbracciare tutto.

Solo un sigillo infinito che reca quel «sapore massimo di ogni parola», come scrive in una lettera, Cristina Campo: «Prima di cominciare avevo un profondo disgusto delle parole. Ero rimasta per mesi lontana da ogni cosa scritta. Lei mi ha restituito le parole al momento in cui ho riaperto il suo libro».

Lo stupore della visione può assumere un valore laudativo e salvifico di liberazione e rinascita, resistenza e fioritura: «Non ho trovato altra cura / per i malati / che questo fiore storto / che solo a guardarlo / ogni uomo / guarisce. Questo / è quel fiore / al quale ogni uomo / canta in segreto / il suo inno di lode», o ancora «è come se Michelangelo / ne avesse tratto / l’idea dei suoi Prigioni – / o lo avrebbe potuto. / non fece forse / fiorire il marmo?».

Si tratta in sostanza, scrive W.C.Williams, «di prendere i materiali della vita di ogni giorno (o anche altri) e usarli per elevare la consapevolezza della nostra esistenza a un più alto livello estetico e morale per mezzo dell’arte».

Egli, spingendosi oltre la dinamica immagista, tenta la via di una tensione, nella inquietudine dinamica e corposa della città americana e nella «grazia dell’abbandono dell’azzardo […] vive della propria perenne tramutazione, del proprio instancabile ritorno, di salmone controcorrente, alle sorgenti della parola, di quel sapore massimo d’ogni parola che dicevo in principio».

L’attitudine «a sviluppare interiormente verso la pienezza del significato il dato grezzo e bruciante di una sensazione o di un sentimento iniziale», come afferma Vittorio Sereni, è il grido di un biografia poetica, che congedandosi dall’astratto rimane fedele alla cosa osservata, ai suoi contorni, alle sue dilatazioni.

La poesia che fa nascere idee dalle cose costruisce il suo edificio in una complessa densità di immagini e di relazioni tra le idee, potenziate fino alle estremità luminarie, fino a raggiungere significato e figura pieni.

In Paterson, egli descrive la “biografia” della città omonima, percorrendo un processo concreto e simbolico che unisce l’antropomorfismo alla concatenazione di immagini, come quella dell’uomo-città, della donna-collina, del fiume-flusso della vita.

Scrive Antonio Spadaro: «Le città americane, a differenza di quelle europee, non si presentano come elementi di una tradizione: esse sono come schegge di un presente esploso in direzione del futuro. Così, se in Europa le cattedrali sono il deposito della tradizione cristiana e gli antichi templi sono le opere della civiltà greca e romana, le grandi città americane e le loro periferie sono vestigia viventi del loro peculiare presente proiettato verso il futuro, nonostante tutta la sofferenza e la delusione possibili».

Il dinamismo di Williams è il colore dell’epica, in cui rifluisce la tradizione del mito, del passato, del modello che si fa incipiente e caratterizza il tempo, come egli scrive in White Mule, a proposito di Flossie, figlia di operai, non senza un tocco di ironia: «Entrò, grondante come Venere, dal mare. L’aria l’avviluppò, la sentiva tutt’intorno a sé, che la palpava, la destava. Se Venere, una volta sottrattasi alla pressione del grembo marino, non aveva pianto rumorosamente entrando in contatto con il nuovo e più leggero flusso che le dirompeva in petto – questa invece sì. Torcendo il suo faccino imbrattato, cacciò tre grida convulse – e giacque immobile. Basta piangere, disse la signora D., dovresti essere contenta di uscire da quel buco».

Il contatto con la provincia rappresenta un valore aggiunto e decisivo per la sua inner poetica, nei fatti, negli oggetti, nella quotidianità che diventa epica e nei margini sociali depressi.

Anche la sua professione medica, se da un lato contribuisce a una prospettiva umana più attenta, dall’altro fornisce materiale per le storie che egli racconta: «La bambina mi divorava con quei suoi occhi freddi e fissi, il viso privo di espressione. Non si muoveva e sembrava che dentro di sé fosse tranquilla; una bimba insolitamente graziosa e, all’aspetto, robusta come un vitello. Ma aveva la faccia arrossata, il respiro affannoso, e mi resi conto che aveva la febbre alta. Aveva magnifici capelli biondi, foltissimi. Una di quelle bambine da fotografie pubblicitarie che appaiono spesso sui manifesti e nelle pagine illustrate dei giornali della domenica» (L’uso della forza).

Commenta ancora Spadaro: «I racconti registrano dunque sia il clima e le tensioni legate al mondo del lavoro, sia le vicende di un’esperienza umana ordinaria, tesa sempre tra la percezione della propria vulnerabilità, il bisogno di guarigione e la speranza di riscatto. La figura del medico è attentamente esaminata in tutte le sue reazioni: dal fastidio all’attenzione, dal cinismo all’empatia, dalla furia all’ostinazione. Tutta l’emotività che questi racconti necessariamente contengono per la loro materia (affetti, dolore, rabbia, speranza, fallimenti…) assume una forma chiara, netta, senza ombra di patetismo o sentimentalismo».

La terra di Williams è più vicina a Steinbeck che a T.S.Eliot, in essa oltre a scoprire la depressione economica si evince una sorta di innocenza ignota e perduta (alcuni critici hanno parlato di uno sfondo di catholic vision): «Siamo semplicemente mortali / ma essendo mortali / possiamo sfidare il nostro destino. / Possiamo / per caso a noi esterno / perfino vincere!».

l’assedio della scrittura. W.C. Williams insegue la scrittura vivificante, l’evento che popola il tempo, il linguaggio e il simbolo che devono essere racchiusi nelle «venature dell’ambra».

È nella radici storiche e sociali, nelle «vene d’America» che si realizza la prospettiva del suo sguardo che cerca le primizie dell’origine, la traccia degli uomini che toccano terra: «Avevo cominciato a pensare di scrivere Nelle vene dell’America, uno studio in cui avrei tentato di scoprire per me stesso che cosa potesse significare la terra dove, più o meno accidentalmente, ero nato … Il progetto era di entrare nella testa di alcuni fondatori o, se volete, “eroi” americani, attraverso l’esame delle loro testimonianze. Volevo che non ci fosse niente fra me e i documenti della loro vita: la traduzione di una saga norvegese, The Long Island Book, il caso di Eric il Rosso, sarebbero stati l’inizio; poi il diario di Colombo; le lettere di Hernán Cortés a Filippo di Spagna; l’autobiografia di Daniel Boone, e così via, fino a una lettera scritta da John Paul Jones a bordo del Bon homme Richard dopo la sua battaglia con la Serapis».

Commenta acutamente Spadaro: «il bisogno di raccogliere la biografia del Nuovo mondo e di toccarne il nucleo originario certamente affonda nel desiderio di ritrovare il respiro delle proprie origini, legate più a una geografia reale e ideale che a una genealogia corrente».

Nel respiro delle origini affonda la sua zolla di terra, nel crogiolo incandescente di un senso di appartenenza che salva peculiarità e singolarità, in un retroterra di lingua e identità messo a fuoco in una espressione poetica netta e piana. Cogliere la realtà del mondo è la sillabazione rafferma della visione dell’esistenza in un unico flusso verbale, in un unico principio sensibile e misurato che coglie i movimenti e le deviazioni della vita, per generare «parole, lente e veloci, affilate / nel colpire, quiete nell’attendere, / insonni. / – a conciliare con metafore / le persone e le pietre».

L’atto d’amore per l’essere umano si risolve in un’attesa profonda, nella tensione verso il destino che invoca compimento e promessa di eterno nei miti, nei linguaggi, nelle dinamiche del presente, come il fiore che aspetta di sbocciare, anche se deve spaccare la pietra.

Williams c.w., Poesie, Einaudi, Torino 1967.

ID., La tecnica dell’immaginario. Saggi sull’artista e l’arte dello scrivere, SugarCo, Milano 1981.

ID., Paterson, Accademia, Milano 1972.

ID.- CAMPO C.- scheiwiller v., Il fiore è il nostro segno. Carteggio e poesie, Scheiwiller, Milano 2011. 

ID, Nelle vene d’America, Adelphi, Milano 2002.

Cambon G., Verso “Paterson”: William Carlos Williams: dalla lirica all’epos, Marra, Rovito 1987.

CRAWFORD H.T.,  Modernism, medicine & William Carlos Williams, University of Oklahoma Press, Norman 1993.

GAREGNANI UNALI L., Mente e misura. La poesia di William Carlos Williams, Storia e letteratura, Roma 1970.

LINATI C., Scrittori anglo-americani d’oggi, Corticelli, Milano 1932.

QUIAN Z., Orientalism and modernism: the legacy of China in Pound and Williams, Duke University Press, Durham 1995.

SPADARO A., «”Nelle vene dell’America”. William Carlos Williams (1883-1963)», in «La Civiltà Cattolica», III, 2003.

STEFANELLI M. A., Figure ambigue. Disgiunzione e congiunzione nella poesia di William Carlos Williams, Bulzoni, Roma 1993.WELLS H.W., The American Way of Poetry, Columbia University Press,  New York 1943.  

I pastelli di Giovanni Boldini. Di Anima e di Ombra

di Irene Battaglini                                                                       Prato, 1° giugno 2013

L’IMMAGINALE

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pdf I pastelli di Giovanni Boldini, di Anima e di Ombra

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Pittore complesso che lascia aperta la domanda sulla fine dell’eros nell’arte contemporanea, italiano di Ferrara che si impose a Parigi dalla metà dell’Ottocento fino a tutta la Belle Epoque. Una storia ottuagenaria, quella di Giovanni Boldini, alimentata dalla immane bibliografia epistolare in cui sono raccontate le vite e le opere, le passioni e i piccoli fatti quotidiani, di molti protagonisti di quel periodo: Edgar Degas, Telemaco Signorini, il mercante Goupil, il pittore Paul César Helleu, il caricaturista Georges Goursat Sem. Storie mediate dalle scritture di Cristiano Banti (amico intimo e mancato suocero di Giovanni), del fratello Gaetano Boldini, dell’ultima compagna e biografa Emilia Cardona, che divenne sua moglie ed erede universale di tutte le opere del ferrarese.

Fine psicologo della mente femminile, che conosce in ogni inclinazione di seta e in ogni misura dell’iride, ritrattista senza pari della voluttà, della sfida e dell’ironia, magnifico pittore dei fasti della Vecchia Europa che sembrano difendere, come sentinelle di broccato e di luce, le “divine” e i ricchi signori, dei fiori policromi che invadono i giardini come stelle che si aprono al sole, dei cieli splendenti di azzurri di cui la natura stessa ancora gli chiede ragione, egli fu maestro silenzioso, non ebbe allievi significativi, ma estimatori e molti acquirenti, e molti amici nella Parigi sfolgorante di quel tempo. Un tempo che Giovanni Boldini seppe dipingere facendo di ogni quadro un incantesimo, uno stratagemma percettivo in grado di sospendere ogni giudizio nello spettatore. Irascibile, sardonico, geniale, fecondo oltre misura con la sua monumentale produzione, trasformò il privilegio di ritrarre nel suo studio a Plaine-Monceau ereditato da Sargent le più facoltose donne europee e americane, nella sfida a spogliare l’arte da ogni tradizione “ottocentesca”. Il suo rapporto con le avanguardie ricalca il conflitto interiore e il carico di giudizio e di sentimento che agitò gli attori di quel clima di grande trasformazione che andava degradando nella grande guerra. Di lui disse con sagacia Ardengo Soffici, – «testimone spietato del suo tempo, un superbo cronista al quale sono preclusi però i sacri e profondi recinti dell’arte», secondo Fernando Mazzocca, (Il genio inafferrabile di Boldini e la sua discussa fortuna, in Boldini, cit.) – su «La Voce»:

«Il Boldini, non è infatti né un creatore né un poeta, e si può persino dubitare che sia un pittore; […] non si cura di cullare con l’armonia l’anima del riguardante né di elevarla verso una nuova concezione del mondo: egli si contenta di denunziarne il carattere dei suoi modelli. Più che un pittore-poeta egli è un dunque un verificatore, tutt’al più un commentatore. Anzi un commentatore malevolo, […] che deve considerare la gente del bel mondo – questi nemici tradizionali della sua razza – con occhi ostili, freddissimi; cercarne e scoprirne, soprattutto, le tare fisiche e morali. […] Grande? Chi dice che sia grande? Io no di certo. Io dico che è vivo, che esprime spiritosamente ciò che cade sott’occhio in quella spregevole società in cui vive – e che tutti i Sargent, tutti i la Gandara e tutti gli Helleu di questo mondo, non sono che dei miserabili pappagalli a petto a questo italiano, che fu un ragazzaccio a Montemurlo cinquant’anni fa, e che è ora un arbitro delle eleganze parigine» (marzo 1909).

Famoso, acclamato, coinvolto in tutte le manifestazioni mondane e artistiche parigine, ma non solo, non amava esporre in mostre personali la sua ricca produzione.

Francesca Dini: «Quanto a Carlo Placci, rinomato “maestro di cosmopoli”, egli non ebbe nessuna difficoltà a definire Boldini, nei primi anni del Novecento, “il nostro miglior artista italiano” per i suoi “quadri a fuochi d’artificio”, per le sue “tele spruzzate, piene di talento”, per il “diabolismo delle sue strambe linee”; sebbene umanamente gli apparisse poco interessante in quanto “poco intelligente nel parlare, così invidioso, acre, dispettoso, gnomico” (M.-J. Cambieri Tosi, Carlo Placci, maestro di Cosmopoli nella Firenze tra Otto e Novecento, Firenze 1984). La deformità fisica di Boldini, la sua condizione di straniero in terra di Francia avrebbero potuto farne un sopravvissuto della cinica società francese di fine secolo, ed invece proprio tali limiti resero più efficace quella maschera di terribilità attraverso la quale il ferrarese riuscì vincente sulla società a lui contemporanea, sedotta dalla forte personalità, prima ancora che vinta dagli innegabili meriti della sua pittura.

Si è forse mancato di riflettere su come, a fronte della dettagliata biografia del Nostro, non si abbia notizia di una mostra personale, se si esclude naturalmente quella allestita in occasione del suo viaggio a New York, nel 1987, presso la filiale americana di Boussod, Valadon and Co. È come se l’artista, in virtù del suo essere peintre mondain, deliberatamente si sottraesse al giudizio di quella società francese che lo venerava e lo temeva, “cattivo e indiscreto fino alla villania” (J.-P. Crespelle, Les Maîtres de la Bella Epoque, Parigi 1966); difetti questi che secondo taluni furono all’origine dello strepitoso successo dell’italiano, in un’epoca in cui la perfidia era conveniente. Vero e proprio domatore, il ferrarese cavalca le cronache mondane del tempo». (Francesca Dini, Dalla “macchia” alla Belle Epoque: il geniale virtuosismo di Boldini, in Boldini, a cura di Francesca Dini, Fernando Mazzocca, Carlo Sisi, Ed. Marsilio, Venezia 2005)

Rubò a Degas – come fecero De Nittis e Zandomeneghi – l’uso del pastello di cui divenne padrone, anticipò gli informali con le “sciabolate” di colore e per il critico Ragghianti seppe sintetizzare le influenze del Seicento e del Settecento (studiò Tiepolo, – e con lui Guardi, Piazzetta e Magnasco – Rembrandt, Bernini, ma soprattutto Frans Hals, Menzel e Anders Zorn) in una

«stenografia convulsiva, in cui ogni referenza cade per mettere a nudo l’esplosione di un movimento che ha una violenza turbinosa e un’irresistibile forza d’impulso [che porta a farne] il precursore di Boccioni, e qual precursore;  [innestando la questione, ripresa non sempre con misura dalla critica successiva, se era legittimo potergli assegnare] la tessera retrodatata di futurista: sta poi a vedere se l’avrebbe accettata, come non vorrebbe oggi esser considerato un “gestuale” avanti lettera, separando la coscienza lucida del suo io da ogni automatismo nervoso-muscolare» (C.L. Ragghianti, Le acrobazie di Boldini, «L’espresso», 1963).

Jean Boldini, come lo chiamavano fuori dall’Italia, seppe calcare le scene del ritratto internazionale con brillante savoir faire, con la sicurezza tecnica di un grande tra i più grandi. La figura, il volto, gli spazi, non ebbero segreti per la mano e l’occhio di Giovanni Boldini. Si può sottolineare a Boldini una certa disinvoltura da pagina lucida, una scivolata troppo svelta nella seduzione che il corpo femminile esercita con il suo incedere sempre doppio, ma non la «pittura futile e piacevolastra» che critici come Tinti gli assegnarono con disprezzato sussiego, come avrebbero fatto anche con De Nittis. Soltanto Jean-Louis Vaudoyer e la moglie Cardona ne elaborarono fino alla fine la visione a tutto tondo che gli sarà tributata nel Novecento, anche dalla picassiana Gertrude Stein: «Tutta la nuova scuola è nata da lui perché egli per primo ha semplificato la linea e i piani. Quando i tempi avranno situato i valori al giusto posto, Boldini sarà considerato il più grande pittore del secolo scorso», consacrandolo così all’alba della più transeunte contemporaneità.

Il grande ritratto “borghese”, dunque, fu tutt’altro che un trampolino per essere à la mode. Egli sperimentò con abilità straordinaria il ritratto macchiaiolo, sovrapponendo la pittura di impressione alla componente classica, ma la cifra che viene delineandosi si fa interprete di una sensibilità estroversa e visionaria, innamorata del colore, corrispondente al concetto di Montesquiou[1] – definito da Proust «Principe della Decadenza»:

«Pariginismo, Modernità, sono le due parole scritte dal maestro ferrarese su ogni foglia del suo albero di scienza e di grazia. […] Modernità, secolare antico richiamo, che fu il filo di perle di un Coello, la gorgiera di un Pourbus, la piega di un Watteau; che poi sarà quel tal bolero di un Boldini, quel tal drappo di Bernard, un abito da sera di Whistler».

Dipinse la sensualità e l’eros rilevando dagli occhi, dalle labbra, dalle spalle della modella tutte le istanze che la fortunata neppure sapeva di portare nel proprio destino, protagonista assoluta del suo amore fatto di pastelli, canti italiani, luci sferzate dall’uso di un nero le cui “lamate” ricordano la più violenta pittura del Novecento. Nella scena dell’atelier, Boldini si dedica completamente alla sua missione interpretativa, chiedendo alla creatura, timida ma in qualche modo ansiosa di essere ri-velata attraverso lo sguardo vorace e sensibile dello “gnomo”.

È uno psicoanalista della pittura, sapiente conoscitore del transfert erotico: Boldini saggia la seduzione della dama-modella, l’arma principale di una creatività che si esprime per sublimazione. Egli ama le sue modelle, le mette al centro di una relazione esclusiva, di delicata confidenza affettiva, in cui intervengono variabili latenti a dimostrazione del fatto che la componente panica è sempre presente nei lavori, anche quelli mirabilmente velati di  un bianco trasparente degno di una sposa.

Pensiamo alla Donna in nero che guarda «Il pastello bianco» (1889), e al Pastello bianco, dell’anno precedente, che ritrae Emiliana Concha de Ossa, una «giovinetta di 18 anni bella come un amore» (G. Boldini, lettera a Cristiano Banti, 1888), la minore delle tre sorelle nipoti del diplomatico – e amante dell’arte – il cileno Ramon Subercaseaux. Entrambi i lavori costituiscono in realtà un unico capolavoro di “architettura d’interni”, in cui Boldini introduce elementi rivoluzionari, come a inserire nella scena un osservatore silenzioso seduto in poltrona – un voyeur rispettabile; un rispecchiamento in ombra con una sconosciuta madame noir, una creatura sublime ed eterea appoggiata ad un punto sospeso nello spazio di un angolo di un salotto autorevole, significato dalla presenza di una poltroncina dal velluto turchese, dotando il personaggio principale – la diciottenne Emiliana – di una straordinaria compresenza teatrale nel vuoto scenario di una vita ancora da scrivere. Egli la sa descrivere con una perizia psicologica straordinaria, chiamando in causa gli archetipi junghiani a testimoni di una grazia che può essere solo trascendente. La luce pervade ogni spigolo, sebbene sia totalmente artificiale, con una freschezza sognante, nuziale.

I lavori hanno grandezza naturale, e sono di una bellezza che stordisce. Il primo, Il pastello bianco, è Anima allo stadio più perfetto. Le cronache e le lettere provano che sarà lo stesso Boldini il primo a restarne ammutolito e turbato (tanto da conservare per sé il lavoro, non volendosene privare, ma preparando un secondo originale per il committente), non solo per la innegabile meraviglia che in lui destava quella ragazza che inaugurò il ciclo delle «divine», quanto per la forza inaudita che dal pannello – completamente ricoperto di pastello usato con la superbia stilistica di Liotard, Mengs, Rosalba Carriera – sembrava emanare. Quella dolcezza era sprigionata dalla declinazione dei bianchi che descrive benissimo la scrittrice Colette nel 1932, ricordano una visita all’atelier del ferrarese: «Era da quel bianco generico che stavan nascendo, sulla tela, una pennellata dietro l’altra, i bianchi di crema, di neve, di carta lucida, di metallo nuovo, i bianchi degli abissi e dei confetti, i bianchi esasperati».

Questa “variabilità”, questa sensualità sacralizzata, sono il frutto di un’operazione che non può essere fatta senza l’aiuto del divino, una sorta di sublimazione all’interno di un processo in cui Boldini sembra padroneggiare perfettamente gli stadi del femminile. Tuttavia il costellarsi così “rapido” e incontrollato di Anima dovette invaderne la consueta sicurezza, al punto da destare il bisogno di tornare ad Ombra, a uno stadio precedente, una condizione meno pericolosa, in cui fosse ancora il “domatore”, com’era appellato, di quelle dame intelligenti e capricciose che frequentano il suo studio per anticipare, sulle tele magnifiche (che Whistler definì «sinfonie»), l’ardita bellezza dallo sguardo fiero e diretto della donna del Novecento. Alcuni critici hanno fatto riferimento al tema del Doppio, nella visitazione di questo lavoro di una complessità frattalica, influenzati anche dalla necessità di collocare in un rimando letterario (si pensi al ritratto di Dorian Gray) l’escamotage del pittore. Più lo si osserva, più aumentano i particolari che fanno pensare ad un Giovanni Boldini non solo geniale ritrattista ma anche intrigante, intelligente, riflessivo, avveduto pensatore dei processi di transfert che governano la dinamica, mai sufficientemente indagata, tra pittore e modella, tra artista e modello, tra soggetto e oggetto relazionale. Il campo è di una vastità tale che merita di essere studiato a fronte di una domanda via sull’eros e il narcisismo nell’arte contemporanea.


[1] conte Robert de Montesquiou-Fézensac, più comunemente noto come Robert de Montesquiou (Parigi, 7 marzo 1855 – Mentone, 11 dicembre 1921) è stato un poeta, scrittore e celebre dandy francese.

 

220px-Giovanni_Boldini01Giovanni Boldini

I destini di Edgar Lee Masters

di Andrea Galgano                                                                                          Prato, 25 maggio 2013

POESIA CONTEMPORANEA

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pdf: 87 25 05 2013 I DESTINI DI EDGAR LEE MASTERS

imastee001p1L’Antologia di Spoon River del poeta statunitense Edgar Lee Masters (1868-1950), con le sue oltre sessanta edizioni in italiano, è il libro che ha avuto più lettori di qualsiasi altro libro della poesia contemporanea. Ne sono stati tratti dischi, come, ad esempio, Non al denaro non all’amore né al cielo (1971) di Fabrizio De Andrè, che ha liberamente tradotto e trasformato nove poesie della raccolta.

Fernanda Pivano, in una serie di articoli del «Corriere d’informazione», ha rievocato la genesi della prima edizione del 9 marzo 1943:

«Ero una ragazzina quando vidi per la prima volta l’Antologia di Spoon River: me l’aveva portata Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la letteratura americana e quella inglese. Si era tanto divertito alla mia domanda; si era passato la pipa dall’altra parte della bocca per nascondere un sorriso e non mi aveva risposto. Naturalmente c’ero rimasta malissimo; e quando mi diede i primi libri “americani” li guardai con grande sospetto. Ma l’Antologia di Spoon River la aprii proprio alla metà, e trovai una poesia che finiva così: «mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, l’anima d’improvviso mi fuggì». Chissà perché questi versi mi mozzarono il fiato: è così difficile spiegare le reazioni degli adolescenti. Forse mi ricordavano un epigramma di Platone che avevo trovato nell’Antologia Palatina […]; o forse mi piaceva che un poeta ricominciasse a preoccuparsi di quello che succede quando un uomo bacia una ragazza; chi lo sa»

All’uscita della raccolta, Edgar Lee Masters venne paragonato a Dante, Eschilo, Zola o lo stesso Omero, che viene evocato in Blind Jack, ossia Jack il cieco. Oltre agli apprezzamenti per la musica dei versi e la vitalità accesa, arrivarono anche le accuse di realismo sordido e uno strano gusto per la rozzezza e la corruzione.

In Italia, Pavese convinse l’editore Einaudi a pubblicarlo, perché si trattò di «un bellissimo libro che non è poi di liriche, ma di personaggi; un libro che, a detta degli Americani stessi, contiene tutta l’America attuale», avendolo conosciuto grazie ad Antonio Chiuminatto, un amico italo-americano che gli spediva libri introvabili.

Annota Oreste Macrì: «Masters resta un maestro nell’aver scoperto la sorgente poetica del suo popolo, il singolare accento terrestre e familiare dell’essere comune, il piedistallo degli ultimi simboli celati nei duri e allucinati pezzi del reale».

Quando uscì il testo, Masters, pur nascendo con la passione letteraria, era un avvocato di successo che svolgeva il suo lavoro senza entusiasmo. Fu il padre a costringerlo a seguire la sua professione e, durante l’infanzia trascorsa a Petersburg e poi a Lewistown, ricordò di aver provato gli «spasimi per qualcosa che sembrava lontano nella vita, per quando sarei divenuto maturo; ma quel qualcosa era sempre più distante – è distante adesso, e lo sarà sempre».

L’inquietudine febbrile che lo spinse alla lettura di Goethe e a lavorare come strillone, tipografo e portatore di carbone per comprarsi da leggere, più tardi dirà, lo renderà affamato di poesia: «Scrivevo poesie a casa, all’ufficio, dappertutto, sulle liste della trattoria, sulle buste delle lettere».

Jorge Louis Borges, nella sua biografia sintetica di Masters riporta alla luce quel periodo: «trascorse… un’infanzia di acqua e di alberi e di passeggiate a cavallo o in carrozza. E anche di libri, perché nella casa dei Masters vi era uno Shakespeare dolorosamente illustrato, un esemplare delle avventure di Tom Sawyer e uno dei racconti di Grimm».

Dopo aver studiato allo Knox Village, si trasferì a Chicago per ribellione, finendo per lavorare in un ufficio legale.L’idea buona, da tempo coltivata, di scrivere la storia del suo villaggio, gli venne su un suggerimento del direttore di un giornale di St. Louis, il Reedy’s Mirror, che gli consigliò di leggere dei testi dell’Antologia Palatina, una raccolta di epigrammi e epitaffi di più di trecento poeti, a partire dal IV sec. a. C. fino alla tarda età bizantina.

Sotto lo pseudonimo di Webster Ford, iniziò a inviare i primi testi a William M. Reedy che glieli pubblicò, fino a raggiungere i 244, nell’edizione definitiva nel 1916. Nove anni dopo, nel 1924, pubblicò la raccolta The New Spoon River, nel contesto dello sviluppo della vita industriale, ma il successo non fu identico.

Masters visse della rendita dei diritti d’autore, abbandonando l’avvocatura, e continuando, finchè potè, a scrivere numerosi sonetti, lavori teatrali e poemetti storici, ma tutti sfortunati e di scarso successo. Nonostante le interessanti biografie, prime fra tutte quelle di Twain e Whitman e un’autobiografia, morì in disgrazia, per una polmonite, all’età di ottantun anni in Pennsylvania e sepolto a Petersburg.

Il suo epitaffio, To-morrow is My Birthday, tratto da Toward the Gulf, recita: «Buoni amici, andiamo ai campi… / Dopo una piccola passeggiata e vicino al tuo perdono, / Penso dormirò, non c’è cosa più dolce. / Nessun destino è più dolce di quello di dormire. Sono un sogno di un riposo benedetto, / Camminiamo, e ascoltiamo l’allodola».

L’ «autore di un solo libro», come scrisse Mario Praz, racconta la vita ordinaria degli abitanti di Petersburg, cittadina dell’Illinois, bagnata dal Sangamon, dove fisse fino agli 11 anni e di Lewistown, sempre nell’Illinois, bagnata dal fiume Spoon, dove egli rimase fino all’età di 22 anni.

Le vite degli abitanti del Midwest vengono condensate in pochi versi, come epitaffi sulle loro tombe. Annota Antonio Spadaro:

«Di fronte alla morte non c’è schermo che resista, e così gli epitaffi si rivelano come brucianti confessioni che ora manifestano storie segrete, ora stati di coscienza, ora verità innominabili. Non c’è più velo o barriera: le infedeltà coniugali sono svelate, gli interessi segreti sono dichiarati, le astuzie smontate e le falsità annullate. Ogni esistenza è un microcosmo individuale, che però si innalza a descrivere quel macrocosmo che è la vita umana. Spesso i singoli personaggi ne citano altri, e così è possibile leggere ogni storia da punti di vista differenti: i fili che partono da questi epitaffi si intrecciano tra loro, anche in uno scontro di destini».

La pagina-lapide che inscena dettagli, gesti, frammenti, destina figure nel significato morale delle azioni come exempli, in un linguaggio moderno e quasi monologante, rappresenta l’avvolgimento di una vita immortale.

La poesia unisce le linee misteriose della vita e della morte, identifica, ad esempio, i personaggi nel mestiere che svolgono e nel loro volo di istanti, come accade a Dippold l’ottico: «Che cosa vedete adesso? / Globi di rosso, giallo, porpora. / Un momento! E adesso? / Mio padre e mia madre e le mie sorelle. / Sì! E adesso? / Cavalieri in armi, belle donne, visi gentili. / Provate questa. / Un campo di grano – una città. / Molto bene! E ora? / Una giovane donna e angeli chini su di lei […] Provate questa lente. / abissi d’aria. / magnifico! E ora? Luce, soltanto luce, che fa di ogni cosa sottostante un mondo giocattolo. / Benissimo, faremo gli occhiali così».

Pavese scrive: «[…] vivendo noi tutti nel mondo delle cose dei fatti dei gesti, che è il mondo del tempo, il nostro sforzo inconsapevole e incessante è un tendere, fuori del tempo, all’attimo estatico che ci farà realizzare la nostra libertà. Accade perciò che le cose i fatti i gesti – il passare del tempo – ci promettano di questi attimi, li rivestano, li incarnino, ed essi divengano simboli della nostra liberata coscienza».

Il frammento dell’esistenza diviene il simbolo di un collegamento che la morte ha reso solenne e «inchiodato all’anima». La bruciante confessione, narrata nello stile confacente al personaggio, rende ragione a una commedia umana di tasselli diseguali, che non riescono a nascondere all’infinito il magma del nostro essere, lo specchio impietoso di una emersione personalissima, il gemito di una conoscenza, libera da ogni convenzione, dovere o insano bigottismo, come accade in questo ritratto dell’Editore Whedon:

«Per denaro insabbiare uno scandalo / o divulgarlo ai quattro venti per vendetta, / o per vendere il giornale / distruggendo reputazioni, o vite, se necessario / per vincere a ogni costo, salvo la pelle propria. / gloriarsi in un potere demoniaco, minare la civiltà, / come un ragazzo paranoico butta un tronco sulle rotaie / e l’espresso deraglia. / essere direttore, com’ero io. / poi, giacer mene qui – vicino al fiume / dove sbocca la fogna, / e scatole vuote e immondizie finiscono, / e si nascondono gli aborti».

Considerare la poesia di Spoon River, solo ed esclusivamente per gli aspetti libertari, anti-puritani, per rendere Edgar Lee Masters «un ben misero e trascurabile libellista», è un errore di valutazione in cui si gioca il vigore del testo, che rimane inquadrabile nel «problema del senso dell’esistenza» e «nel problema delle proprie azioni: ardore e problemi essenzialmente morali e di non lontano sapore biblico» (Cesare Pavese).

La domanda d’infinito sull’aldilà è impregnata dal senso del limite e della morte, della fine come premessa autentica di chi ha attraversato, oltrepassandola, la caduta del compimento, in un mondo avviato alla scomparsa, ma non del tutto finito.

Il passaggio di questa persona viva nella fine e anche nella mortificata esistenza quotidiana, tracciata con realismo vivido e con messaggio solenne e universale, rende una perfetta fusione di soggettivismo e oggettività, per «dare una consistenza monumentale a ciò che v’è di più labile e irripetibile nell’animo umano» (Eugenio Montale), in un «verseggiare – conclude Pavese – così sobrio e pacato, che ha semplicemente l’ufficio di segnare il pensiero».

La condizione altra dell’aldilà non conclude «il chimico flusso circolare della vita» e personaggi come Conrad Siever, si aggirano «nel suolo e nella carne dell’albero» o di Marie Bateson:

«Vedete la mano scolpita / con l’indice puntato al cielo. / è questa la direzione, non c’è dubbio. / Ma come si può seguirla? / il bene è astenersi dall’assassinio e dalla lussuria, / perdonare, beneficare gli altri, adorare Dio / senza immagini. / Ma in fondo queste non sono che cose esterne / con cui più che altro si fa del bene a se stessi. / Il nocciolo interno è liberta, / è luce, purezza… ».

L’America degli sconfitti, che promana il suo trapasso come «l’alba della vita / che è pienezza di vita» (Jeremy Carlisle), permane nell’acuta tensione vitale della tomba che è un transito di ombre e non un approdo, come avviene in George Gray:

«Molte volte ho studiato / la lapide che mi hanno scolpito: / una barca con vele ammainate, in un porto. / In realtà non rappresenta la mia destinazione / ma la mia vita. / Perché l’amore mi fu offerto e io mi ritrassi dalla sua delusione; / il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura; / l’ambizione mi chiamò, ma io temetti i rischi. / eppure avevo fame di un significato nella vita. / ora so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre a follia / ma una vita senza senso è la tortura / dell’inquietudine e del vago desiderio – / è una barca che anela al mare eppure lo teme».

La coscienza dell’esistenza socchiusa nel coro tragico cerca il compimento ultimo con «tanta sete d’amore e tanta fame di vita» (Minerva Jones) e ogni volta rinnova il suo andamento, verso l’inseguimento di una visione e di una tensione che smonta le vanità e che espone la sua vita ammaccata, eppure racchiude ironia, scacco, profondità.

L’inquietudine non rifluisce nel disincanto, ma anzi, nel vortice di un’eterna attesa promana il suo dramma sacro e di «saggezza evangelica» (Cesare Pavese).

La visione, pertanto, riesce a cogliere il segreto indecifrabile della vita, il mistero di una mistica popolare e semplice, che allorquando tocca frustrazione e durezza, non termina nella protesta, ma rinviene un’apertura ampia oltre il grigiore mortale, oltre l’ansia di una felicità perduta e distrutta:

«La terra ti suscita / vibrazioni nel cuore / e quello sei tu. / E se la gente scopre che sai suonare il violino / ecco, sei costretto a suonare, per tutta la vita. / […] Mai una volta diedi mano all’aratro, / che qualcuno non si fermasse per la strada / e mi portasse via a una danza o a un picnic. / finii con quaranta acri; / finii col violino scassato – / e una risata rotta, e mille ricordi / e nemmeno un rimpianto».

I morti dormono sulla collina, non solo legati alla terra, ma perché ciò che hanno vissuto con il loro vestito di errori, passioni, generosità, meschinità, rappresenta una continuità umana anche dall’altra parte, mentre è in gioco il senso del loro essere e del loro situarsi.

L’attesa di un’esperienza cerca e desidera il destino, nel marmo che compone l’anelito di una visione che accoglie il segreto dell’esistere, per una intima e richiamata promessa.

MASTERS LEE E., Antologia di Spoon River, Einaudi, Torino 2009.

Macrì O., «Antologia americana», in “La Gazzetta di Parma”, 27 maggio 1957.

MONTALE E., «Celebre e sconosciuto l’autore di Spoon River», in “Corriere della Sera”, 8 marzo 1950.

PAVESE C., Lettere 1924-1944, Einaudi, Torino 1966.

ID., La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1990.

PRAZ M., «Tragica arguzia di Spoon River», in “Il Tempo”, 10 marzo 1950.

SPADARO A., «”Il poeta dei destini”: E. L. Masters. “Antologia di Spoon River”», in «La Civiltà Cattolica», II, 2004, pp. 230-241.

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Andrea Galgano 25-05-2013   I destini di Edgar Lee Masters

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini