Walt Whitman e la fecondità dell’essere

di Andrea Galgano                                         20 novembre 2013

Poesia moderna Walt Whitman e la fecondità dell’essere

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H.D. Thoreau scrisse che Walt Whitman (1819-1892) «con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni», e in questa visionaria tessitura si può scorgere come Whitman, con il suo Foglie d’erba, rappresenti il crinale estremo di un canone che racchiude un popolo in un poema, lo accarezza nelle linee storiche e, infine, lo pronuncia: «Gli americani, di tutti i popoli che sono mai apparsi su questa terra, possiedono forse la natura poetica più piena. Gli Stati Uniti in sé, nella loro essenza, sono il più grande dei poemi. […] Qui finalmente troviamo nell’umano operare qualcosa che risponde all’operare maestoso del giorno e della notte».

La voce di Whitman non si nasconde nella prosopopea retorica, bensì, nelle sfumature profonde, insegue la sua freschezza vitale, come «i poeti del cosmo» che «avanzano attraverso tutte le interferenze, gli occultamenti, i turbamenti e gli stratagemmi verso i primi principi».

La celebrazione scolpita, come forza e abbandono, della materia vivente, l’aspetto numinoso della realtà e la sospensione rappresentano il suo territorio unico, laddove «qualunque possa essere stato nel passato, il vero uso della immaginazione nei tempi moderni è quello che vivifica i fatti, la scienza e la vita comune, dotandoli di quello splendore, quella gloria e quella fama che appartengono a ogni cosa reale, soltanto alle cose reali. Senza questa definitiva vivificazione – che solo il poeta o l’artista può mettere in atto – la realtà sembrerebbe incompleta,e la scienza, la democrazia, la vita stessa alla fine, cosa vana».

Se il suo canto si sofferma sull’abbandono alle forme di «cameratismo», «allegria», «soddisfazione», «speranza», la furiosa scultura del vivente e la calura del suo magma introducono, come scrive Giuseppe Conte: «la pulsante istantaneità della vita nella poesia e nel verso. Il vivo del Tempo, l’immanenza, ciò che di misterioso e palpabile lega l’io all’universo. Se esiste una poesia inafferrabile, del puro presente, quella di Whitman è la migliore del genere».

Nato in un villaggio di Long Island nel 1819, tipografo, carpentiere, giornalista, Whitman ha assaggiato le grandi masse democratiche dell’America, come un grande fiume che trascina forze commiste, nei giorni in cui stava diventando una grande Nazione, da New Orleans a Chicago, fino a New York, passando per il Mississippi, i Grandi Laghi e il fiume Hudson, in un’estatica virulenza fiduciosa, nelle forze dell’uomo, nel canto-bardo universale, come «Adamo nel primo mattino, che usciva di sotto il riparo di fronde, ristorato dal sonno» (Figli d’Adamo).

La felice brillantezza del mattino dell’umano impone la sua purezza senza peccato, racchiude il gemito e l’ardimento di una imprescindibilità valoriale, assoluta e primigenia: «Io dico che l’intera terra e le stelle universe nel cielo esistono per la religione. / Dico che nessun uomo è mai stato abbastanza devoto, neppure la metà del necessario».

È la religione che permette l’unione inclusiva e fulgida dello sforzo umano, nell’ Amore e nella Democrazia: «Noi non consideriamo divine le bibbie e le religioni – e io non dico che non siano divine, / Ma dico che sono nate da voi, e da voi altre volte possono nascere ancora».

La lettura del Vecchio e del Nuovo Testamento, come analizzato acutamente da G.W. Allen, di Shakespeare, di Omero, di Eschilo, del Canto dei Nibelunghi, hanno innalzato il pinnacolo della poesia stuporosa e ampia dell’uomo e del suo definitivo istante, come afferma David Herbert Lawrence: «Senza principio né fine, senza né base né frontone, continua a passar vicino superbamente, come un vento che trascorre senza posa né si può incatenare. Whitman in realtà guardava al prima e al dopo: ma non sospirava per ciò che non è. La chiave di tutto il suo segreto espressivo sta nella stima del momento istantaneo e nient’altro, della vita che si gonfia essa medesima in espressione alla sua reale sorgente».

La feconda prosodia partecipa alla elencazione scandita del mondo. Le novità della scrittura rinomina il mondo in un nuovo parto di energia originaria, come ritmo e pazienza di splendore.  

La poesia è l’Evento del destino, in cui la complicanza, grezza ed entusiasta del suo ritmo panteistico e democratico, apre la sua recitazione.

G.K. Chesterton, soffermandosi sulla «materia per poetare misticamente» che valorizza l’umano in Whitman, in L’umanesimo è una religione? scrive: «Ciò che apprezzavo era quella proposta di una nuova eguaglianza, che non consisteva in uno squallido livellamento, ma in un entusiastico guardare in alto; un grido di gioia sul semplice fatto che gli uomini erano uomini. […] ognuno di essi possedeva quella maestà e quella mistica propria degli dei, pur essendo nello stesso tempo franco e confortante amico», e continuando afferma che «La gloria apparteneva agli uomini in quanto tali; il culto comune andava cercato nell’amicizia e anche la persona meno importante deve poter far parte di questa fratellanza; un negro gobbo mezzo scemo, orbo da un occhio e con tendenze omicide, deve anche lui avere la sua aureola dorata e illuminata».

La poesia che abbraccia, esonda, diviene coraggiosa, che guarda alla gente comune, all’interezza di un popolo, fatta di falegnami, boscaioli, calzolai, diviene immagini di un grido barbarico fresco e spontaneo: «Io canto il sé, la semplice singola persona, / E tuttavia pronuncio la parola Democratico, la parola En masse».

Commenta Giuseppe Conte: «C’è un che di fluido, organico, tempestoso, innocente, progettante, esclamativo in lui, un’enfasi, una volontà predicatoria, un pioneristico respiro vitale, una corporeità selvatica che fonda una saldissima, idealistica fede nella democrazia, una visione attiva del mondo e del linguaggio, […] la poesia di Whitman si pone da un lato come forza eversiva, energia che libera energie, pratica che scardina il conformismo di ogni ordine, dall’altro come canto che celebra, glorifica il presente, la realtà nei suoi aspetti ora minimi, un filo d’erba che nasce, ora solenni, un eroe che cade».

È nel popolo che la Musa trova dimora, il luogo oltre tempo dove esaltare la presentificazione del reale e radicarla in esso, parlando a chiunque: «Ecco, io ti presento, qui oggi, o Musa, / Le occupazioni tutte, i doveri grandi e modesti, / Il lavoro, il sano lavoro e il sudore infiniti, incessanti».

La semplicità gioiosa si affaccia allo spirito del Paese, per «esprimersi letterariamente con la perfetta rettitudine e insouciance dei movimenti degli animali e l’incontestabilità del sentimento degli alberi nei boschi e dell’erba ai margini delle strade».

Ecco la vastità dell’io che tocca il mondo, la sua avventura, la sua dilatazione ricettiva: «Dentro me le latitudini si ampliano, le longitudini si allungano», per essere «Una snella nave che gonfia le vele, piena di ricche parole, piena di gioie» e dove inalare, aspirare con avidità «lunghi sorsi di spazio, / l’est e l’ovest sono miei e il nord e il sud sono miei, / Più grande, migliore son io di quello che pensassi, / Io non sapevo di avere in me tanta bontà. / Tutto mi sembra bello».

La fulgida corrispondenza tra corpo e io, nazione a terra, compone il suo gemito: «Fate che possa contenere tutti i suoni (io grido come un folle) / Riempitemi di tutte le voci dell’universo, / datemi i loro palpiti, anche quelli della Natura, / E le tempeste, le acque, i venti, le opere e i cori, le marce e le danze, / Cantateli, versateli in me, perché io tutto vorrei contenere».

Commenta padre Antonio Spadaro: «Le visioni whitmaniane mai si fermano ad una tensione visiva astratta o vagamente fantasiosa perché il poeta si fa subito veggente del concreto e del reale. Dunque lo appassionano non solo la natura, i suoi campi aperti, le tempeste, le montagne e il mare, ma anche «l’opera dell’uomo» che ”è egualmente grande nell’artificiale – in questa profusione di brulicante umanità – in queste prove di ingegnosità, strade, merci, case, navi – queste frettolose, febbrili, elettriche, masse d’uomini”».

L’ebrietudine della pienezza soffia sulle strade, sulle linee compiute e infinite, sui lacci che sfiorano gli spazi: «Su, anima, non scorgi tu subito lo scopo di Dio? / Che la terra è percorsa e congiunta da reti di strade e di ferro, / Le razze, i vicini sono congiunti perché si sposino e siano sposati, / Gli oceani sono attraversati per avvicinare chi è distante, / E per cucire insieme le terre». La maestà della vita e la maestà del reale in un unico vertice di vertigini esplose.

La pulsazione, la potenza, la passione congiungono la loro visione metaforica, finendo per cogliere il «filo che connette le stelle, gli uteri e il seme paterno» e, come commenta ancora Conte, «per questa visione, tutto è divino, il poeta è divino dentro e fuori di sé, e così santifica tutto ciò che tocca, ed è santificato da ciò che lo tocca».

Il respiro di Whitman cerca la inaugurale vibrazione, la vorace estasi, l’incarnazione della cosa pensata, come barbarico battito dispiegato che insegue la chiarezza materica, la fragranza che sboccia, per giungere, come commenta Spadaro, «alla natura vera delle cose, per vedere le cose con occhi vergini»: «Tutte le verità attendono in tutte le cose, / Esse né affrettano la propria liberazione, né resistono, / Non richiedono il forcipe dell’ostetrico: / L’insignificante è così grande per me, come ogni altra cosa».

Scrive Harold Bloom: «Whitman divideva se stesso (o riconosceva se stesso come diviso) in «my self», «my soul», e «real Me» non è per nulla un Es. […] Questo «Me myself» non è esattamente «bramoso, grezzo, mistico, nudo» e nemmeno «turbolento, carnale, sensuale, che mangia, che beve e procrea». Aggraziato e in disparte, assolutamente equilibrato, affascinante oltre misura, questo strano «real Me» è maschile e femminile, molto americano per quanto non rude, stimolante e in accordo con se stesso. Qualunque cosa sia l’anima di Whitman, questo «Me myself» non può evidentemente avere con essa alcuna relazione egualitaria». Quando l’ «Io» di Whitman si rivolge all’anima, sentiamo un avvertimento».

La sua catalogazione è la declamazione dell’essere, pensato, ricreato, innovato, persino guardato con sfrontatezza, come un cosmo dilatato che si presenta. La maschera del suo io ideale che fronteggia il suo io reale e vero. È in se stesso che ogni uomo è tutto: «Walt Whitman, americano, uno dei duri, un kosmos / turbolento, fatto di carne e ossa», perché ciò che costituisce la sua idealità «non costituisce il mio Io. Ciò che io sono in disparte sta da quanto mi attira e trascina, / Se ne sta divertito, compiacente, compassionevole, inattivo, in se conchiuso, / Guarda dall’alto in basso, eretto, o piega il braccio su un punto di impalpabile quiete, / Guarda col capo reclinato, curioso di ciò che accadrà, / Partecipe e fuori del gioco, osserva e stupisce».

Lo stupore conosce. Cosicchè «Deluso, respinto, piegato a terra / Oppresso da me stesso, che ho osato aprir bocca, / Conscio ora che tra tante vane parole, i cui echi ricadono su me, non ho mai avuto la minima idea di chi o che cosa io sia, / Ma che di fronte a tutte le mie arroganti poesie il mio vero Io resta intatto, inespresso, tuttora inattinto, / e, ritiratosi lontano, mi irride con beffarde congratulazioni e inchini, / Con scrosci di lontane risate ironiche per ogni parola che ho scritto, / in silenzio indicando questi canti, e poi la sabbia che m’è sotto i piedi, / m’avvedo che non ho mai nulla capito, neppure una cosa, e che nessuno vi riesce, / La natura, qui, in vista del mare, approfittando di me per scagliarsi su me e ferirmi, / Perché ho avuto l’audacia d’aprir bocca e cantare».

Il prodigioso vortice dell’essere si attesta in una radicale novità originaria che esalta l’individuo, il singolo, ma anche la massa e l’eguaglianza, per essere una istintiva e ubertosa libertà, farsi natura, concepire la vitalità come prodromo di desiderio, allegoria sognante di abbagli, larga e piena di moltitudini.

L’esperienza della guerra civile rappresenta la trama ferita di una stagione che apre il sentiero della fatalità e del mistero inesplicabili, ma che scoperchia anche una pietà intensa, visiva, sofferente, persino scolpita, come avviene nella cristica morte di un giovane.

Quasi un vagito che cambia prospettiva: «Dovrò dunque mutare i miei canti trionfali? Mi chiesi, / dovrò imparare a cantare le fredde nenie dei vinti? / e i cupi inni degli sconfitti?».

Oppure geme nella preghiera sofferta di affidamento e di bacio, come tempio di anima navigante che percepisce il nome delle onde lontane: «Prossima è la mia fine, / le nubi già si serrano su me, / il viaggio è contrastato, dubbio, smarrito il corso, / i miei vascelli ecco li affido a Te. / Le mani, le mie membra son divenute inerti, / Il mio cervello, sotto le torture si smarrisce, / si sfasci pure la vecchia mia carcassa, io non mi sfascio, / Mi stringo stretto a Te, mio Dio, mi colpiscano pure le onde, / Te, Te almeno so».

Una foglia d’erba non è meno di un giorno di lavoro di tutte le stelle.

 

whitman W., Foglie d’erba, a cura di Giuseppe Conte, Mondadori, Milano 1991.  

allen G.W., «Biblical Echoes in Whitman’sWorks», in American Literature, VI, 1934.

Id., A reader’s guide to Walt Whitman, University Press, Syracuse (Ny) 1997.

Lawrence d.h., Studies in Classic American Literature, University Press, Cambridge 2003.

Manicardi L.,Walt Whitman e la poesia, Tip. Degli Artigiani, Reggio Emilia 1895.

Mathiessen F.O., Rinascimento americano. Arte ed espressione nell’età di Emerson e Whitman,

Enaudi, Torino 1954.

Pavese c., La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1951.

Pisanti T., Poesia dell’Ottocento americano, Guida, Napoli 1984.

Spadaro A., «Le verità attendono in tutte le cose». La poesia di Walt Whitman, in «La Civiltà Cattolica», II, 526.

Id., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013.

27.3.2014: Aspetti Legali e Fiscali dell’Internazionalizzazione delle Imprese

CONVEGNO

Alba, 27 marzo 2014
Sala Convegni del Palazzo Banca d’Alba (Via Cavour n.4 – Alba)

LocandinaConvegnoInternazionalizzazione
Aspetti Legali e Fiscali dell’Internazionalizzazione delle Imprese – 27.3.2014

locandina in pdf  Convegno 27 03 2014

  • Iscrizione obbligatoria a convegni@agiconsul.org
  • Il Convegno è stato accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Alba con delibera del 13/03/2014 con l’attribuzione
  • ai partecipanti di n. 4 crediti formativi.
  • Il Convegno è stato accreditato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Cuneo.

PROGRAMMA

Registrazione: ore 14.30

Inizio lavori: ore 15.00

Saluti Introduttivi: Avv. Raffaele Battaglini (LL.M.; Segretario Generale AGICONSUL)

interventi

  • I contratti per l’internazionalizzazione delle imprese, Avv. Nemio Passalacqua (ufficio legale Ferrero S.p.A.)
  • I risvolti fiscali dell’impresa all’estero, Dottor Luca Ferrini (Ph.D.; dottore commercialista; professore a contratto Università di Torino; consiglio direttivo AGICONSUL)
  • La risoluzione delle controversie e il Third Party Funding, Avv. Giovanni Pera (associato AGICONSUL); Avv. Niccolò Landi (LL.M.; Studio Legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners)
  • Africa e Medio-Oriente, Avv. John Shehata (Studio Legale Orrick, Herrington & Sutcliffe)
  • Un’esperienza imprenditoriale d’internazionalizzazione, Dottor Franco Morando (Amministratore Delegato Morando S.p.A.; consigliere Giovani Industriali Torino)

Conclusioni: Avv. Riccardo Cappello (Presidente AGICONSUL)

Moderatore: Avv. Riccardo de Caria (Ph.D; LL.M.; consiglio direttivo AGICONSUL)

Chiusura lavori: ore 18.45

INFORMAZIONI

Posti limitati
Iscrizione obbligatoria a convegni@agiconsul.org
Il Convegno è stato accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Alba con delibera del 13/03/2014 con l’attribuzione
ai partecipanti di n. 4 crediti formativi.
Il Convegno è stato accreditato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Cuneo.

AGICONSUL – Associazione Giuristi e Consulenti Legali –
Codice Fiscale 96344570583
e-mail: info@agiconsul.org
Sito: http://www.agiconsul.org
Via Davide Bertolotti, 7 – 10121 Torino
Tel. 011/08.66.155
Fax 011/197.198.43
Cell. 380/38.88.280
Con la collaborazione di
Aspetti Legali e Fiscali
dell’Internazionalizzazione delle Imprese
Alba, 27 marzo 2014
Sala Convegni del Palazzo Banca d’Alba (Via Cavour n.4 – Alba)

 

 

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Locandina Convegno Impresa all'Estero-Profili Pratici Legali e Fiscalilocandina in pdf: Locandina Convegno Impresa all’Estero-Profili Pratici Legali e Fiscali

Torino, giovedì 12 dicembre 2013

Moderatore: Avv. Raffaele Battaglini (LL.M.; Segretario Generale AGICONSUL)

Via Davide Bertolotti n. 7 (presso Terrazza Solferino)

L’evento attribuisce crediti nell’ambito dei programmi formativi dell’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Ivrea-Pinerolo-Torino e dell’Ordine degli Avvocati di Torino.

Registrazione: ore 15.45
Inizio lavori: ore 16.00

– Redazione delle clausole inerenti la risoluzione delle controversie
Avv. Giovanni Pera (associato AGICONSUL)
– L’arbitrato online
Avv. Riccardo de Caria (Ph.D; LL.M.; consiglio direttivo AGICONSUL)
– Contenzioso finanziato: Third Party Funding
Avv. Niccolò Landi (LL.M.; Studio Legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners)

Pausa

Ripresa lavori: ore 17.15

– L’internazionalizzazione delle imprese italiane, dall’esportazione all’investimento: i principali modelli
contrattuali e loro applicazione in Cina quale mercato emergente
Dottor Pier-Domenico Peirone e Avv. Lucia Netti (China Consultant S.r.l.)
– Fare impresa all’estero: i risvolti fiscali
Dottor Luca Ferrini (commercialista; professore a contratto Università di Torino; consiglio
direttivo AGICONSUL)
– L’Italia e l’internazionalizzazione delle imprese
Avv. Riccardo Cappello (Presidente AGICONSUL)
– Un’esperienza imprenditoriale d’internazionalizzazione
Ing. Pietro Quaranta (Amministratore Delegato Tubiflex S.p.A.)

Chiusura lavori: ore 19.00 – Dottor Walter Pucci (AZIMUT Wealth Management)

Iscrizione obbligatoria scrivendo a

convegni@agiconsul.org

Numero di posti limitato. Iscrizioni aperte
fino al 9 dicembre 2013.

AGICONSUL – Associazione Giuristi e Consulenti Legali –
Codice Fiscale 96344570583
e-mail: info@agiconsul.org
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Tel. 011/08.66.155
Fax 011/197.198.43

Il FEMMINICIDIO. Il punto di vista di una donna

di Emanuele Mascolo, con la collaborazione di Maria Giovanna Bloise

II parte

18 novembre 2013

femminicidioIn questo articolo, che segue a quello precedente, vi proponiamo il commento di una donna sul tema: a parlarcene è la dott.ssa Maria Giovanna Bloise.

Parlando con alcuni uomini, ho potuto notare come il termine “femminicidio” sia ritenuto immotivato e come riguardo all’introduzione del termine ci siano delle resistenze, nel senso che viene intesa una forzatura voler distinguere tra il delitto ed il delitto in base al sesso della vittima. Non si tratta solo di una parola in più ma di una sostanziale evoluzione culturale e giuridica. La violenza nega alle donne i più fondamentali diritti: la vita, la libertà, l’integrità corporea, la libertà di movimento e la dignità della persona. Essa è un fenomeno radicato, strutturale in una società che pone uomini e donne in una relazione di disparità, di subalternità, di dominio.

Quando il femminicidio (che comprende una molteplicità di forme di violenza che vanno dalla violenza fisica, sessuale, psicologica, economica, sociale, destinata ad annientare la soggettività della donna) precede il femmicidio o femicidio (termine derivante dall’inglese femmicide, che sta ad indicare la morte di una donna con movente di genere ed è la forma più estrema di violenza contro le donne) siamo in presenza di una vera e propria forma di violenza di genere e su un genere. Negli anni novanta si specifica che “l’uccisore è un uomo e il motivo per cui la donna viene uccisa è il fatto di essere donna”.

Nel duemila si specifica, poi, che questa forma di violenza viene perpetrata anche da adolescenti nei confronti di ragazze e bambine, per cui, nella formulazione appena citata, si sostituiscono a uomo e donna i termini femmina e maschio. Ogni tre giorni viene uccisa una donna. Ma il massacro può essere fermato. Tale fenomeno affonda le sue radici in un’impostazione culturale del nostro Paese: è la cultura patriarcale improntata sul possesso che porta alla morte le donne per il solo fatto di essere donne. Spesso stalking e violenze portano ad un reato più grave. Sovente le vittime non sporgono denuncia-querela a seguito delle violenze subite per una serie di motivi che vanno dalla vergogna, al senso di colpa, al timore di un’escalation della violenza e di ripercussioni. E’ necessario prestare estrema attenzione a questo fenomeno sociale e la donna va maggiormente assistita.

Anche l’uomo va aiutato, perché se è stato violento una volta, lo sarà ancora. La donna va educata sin da piccola a non sopportare e a ribellarsi e deve essere tutelata maggiormente. C’è bisogno di un generale sforzo educativo e culturale che coinvolga la famiglia, la scuola e tutta la società, eliminando così la paura vissuta da molte vittime di parlare e chiedere aiuto nel timore di sentirsi giudicare e sole.

E’ fondamentale anche programmare risposte ed interventi mirati alla prevenzione, così da bloccare la violenza sin dal suo nascere, muovendo a livello di percezione sui ragazzi, sui bambini, insegnando loro il rispetto, la capacità di riconoscere le emozioni, anche negative, ed imparando a gestirle anziché agirle sugli altri. Occorre diffondere tra i giovani il messaggio che la donna non è un oggetto da modellare o da possedere e che il rapporto sentimentale si basa sul rispetto reciproco, sull’autonomia e libera scelta dell’altro. Dunque, oltre a strumenti di tipo pratico, occorrono sempre più interventi culturali che possano abbattere stereotipi di questa forma. Quando la violenza sulle donne ha le chiavi di casa, non bastano modifiche al codice penale o di carattere processuale: la donna va anche aiutata economicamente. Adesso c’è la crisi economica, la mancanza di lavoro che determina una profonda crisi e la donna per amore dei propri figli cederebbe a qualsiasi sopruso.

vai alla prima parte

Morte, buone morti, cattive morti nel Medioevo di Siena

di Vinicio Serino                                       11 novembre 2013

Antropologia

pdf Morte, buone morti, cattive morti nel Medioevo di Siena

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Normalità della morte e vita brevis

“La prima scoperta dell’uomo è la morte. Non la morte astratta del Medioevo, passaggio verso l’al di là. Ma la morte incarnata: il Medioevo volgendo al suo termine inciampa nel cadavere” (Le Goff, 1981). Ciò avviene proprio quando, nel così detto “Autunno del Medioevo”, si è ormai formata una società proto-borghese e proto-capitalista, molto incline alle cose del mondo e quindi intrinsecamente umanista. Una società nella quale, pur nella consapevolezza di una dimensione spirituale post mortem, cresce comunque il rimpianto per la vita. Che si manifesta appunto quando si è consapevoli di lasciare in questa (già) valle di lacrime, molte cose/persone, che hanno dato piacere e godimento, come sembra suggerire, con la forza espressiva della propria potente pittura, Ambrogio Lorenzetti. Quando, nel suo “Effetti del Buon Governo in città” descrive uno spazio pieno di uomini e di donne impegnati nelle attività più disparate – ci sono calzolai, muratori, filatrici, persino un magister con la sua classe – al cospetto dei quali nove fanciulle (allusione alle Muse) danzano leggiadramente al tempo battuto, con un tamburello, dalla decima (madonna Armonia?).

E ciò nonostante che “la durata della vita sia comunque bassa – specie se limitata alle aspettative del nostro tempo – tanto che di rado supera i trenta anni per le donne, mentre a malapena tocca i quarantacinque per gli uomini. Pochi i vecchi i quali, superati i quarantacinque anni di età, durante i quali si è già verificata una rigorosissima selezione naturale, hanno una qualche speranza di vita più lunga ….Un quarantenne, dunque, nel Medio-evo è già ben oltre la maturità, un cinquantenne è un vecchio” (Gatto, 2003). Anche a Siena questa è la norma per la concomitanza di una serie di eventi capaci di produrre rilevanti selezioni quali morti infantili, guerre, pestilenze, dissenterie, carestie e cambi climatici (Turrini,  2003).

La morte è (anche)immagine

Un nuovo modo di intendere la morte si percepisce, a partire dal secondo decennio del XIV secolo, attraverso il forte intensificarsi della sua iconografia (Gianni, 2003). Il che è sociologicamente spiegabile con la nostalgia per una vita che, almeno per le classi più elevate, le stesse che “commettono” le immagini, merita comunque di essere vissuta. Lo sapeva bene Cecco Angiolieri quando scriveva: “tre cose solamente mi so’in grado, /le quali posso non ben ben fornire: ciò è la donna, la taverna e ‘l dado; /queste mi fanno ‘l cuor lieto sentire.”

D’altra parte, già a partire del XIII, questa gaudente filosofia della vita anima gran parte dei Carmina burana, una serie di composizioni, verosimilmente tutte cantate contenute nel c.d. Codex Latinus Monacensis proveniente dal convento di Benediktbeuern (l’antica Bura Sancti Benedicti, nei pressi di Bad Tölz in Baviera), dove molto presenti sono le tematiche amorose, bacchiche, conviviali e satiriche. Erano opera dei “Clerici vagantes” o goliardi, dal nome del loro mitico capostipite, Golia, che si spostavano da una città all’altra. Forse il più noto tra questi carmina è quello dedicato alla Fortuna, “imperatrix mundi”, cangiante come la luna che cresce o cala …

L’idea della morte ed i suoi tanti volti

Quello espresso da Cecco e, almeno in parte, dai Clerici vagantes, era un ideale “di “basso godere”, che certo mal si conciliava col misticismo di Bernardo di Chiaravalle o la profondità di sapere di Bonaventura di Bagnoregio, il Doctor Seraphicus. Eppure l’idea dissacrante di vivere nel mondo e per il modo era sempre più diffusa nella Res publica Christiana, dopo il transito del temibilissimo anno Mille: Mille e non più Mille. Ma l’idea della morte – molto spesso l’ossessione della morte – era pur sempre presente e, con l’ annus horribilis 1348, l’anno della terribile pandemia di peste, le rappresentazioni iconografiche di quell’inevitabile evento si intensificheranno, mentre al senso del rimpianto per i piaceri perduti si aggiungerà l’orrore per la tremenda, collettiva moria.

Questo “rimpianto” per i piaceri perduti con la fine della vita spiega, probabilmente, non solo il senso di “horror” che emana dalle raffigurazioni della morte ma anche la quantità di “declinazioni” di questo horror. La morte è uno scheletro, il che ci illumina su come sarà il nostro corpo “dopo”, secondo il modello allegorico del “Contrasto tra tre vivi e tre morti” forse rappresentato, per la prima volta, nel  Cattedrale di Santa Maria Assunta, ad Atri, in Abruzzo, a metà del XIII secolo. I tre gentiluomini, che si apprestano alla caccia col falcone, incontrano tre scheletri che li rimproverano per la loro spensieratezza e li ammoniscono sulla ineluttabilità della morte.

Nei “Documenti d’Amore” di Francesco da Barberino (a. 1314), la morte è un mostro villoso, con tre facce e quattro braccia che, con due archi, lancia le sue micidiali frecce, tre per ciascun arco. In mezzo,  una donna colpita da due saette  sta per cadere: dietro a essa è Amore alato, diviso in lungo per metà e mentre la metà sinistra è intera, la destra è spezzata in più parti. E’ evidente – ma difficilmente interpretabile – il significato allegorico della rappresentazione che, per alcuni, sarebbe un’allusione alla celebre Setta iniziatica dei Fedeli d’ Amore di cui avrebbe fatto parte anche Dante (Valli, 1994). Per altro il messaggio potrebbe anche essere inteso che mors non amor omnia vincit

La morte è anche una danzatrice che guida un singolare ballo nel quale si uniscono scheletri con i diversi rappresentanti della articolata società basso medievale, contadini, artigiani, prelati e cavalieri: è questa la danza macabra, denominazione che, forse, serve a rievocare il sacrificio dei sette fratelli Maccabei, giustiziati insieme alla loro madre sotto il regno di Antioco Epifane per aver osservato la propria fede nel Signore. Ma che potrebbe anche rimandare alla parola siriaca maqabreu, seppellitore, a sua volta da connettere con maqbar, cimitero. La più antica rappresentazione iconografica della penisola, risalente al 1485, si trova nell’Oratorio dei Disciplinati di Clusone, nel bergamasco.

Nel territorio della Repubblica di Siena la  morte è “cattiva morte”, come nell’opera di Biagio di Goro Ghezzi nella Chiesa di san Michele Arcangelo in Paganico. E’ effigiata come una donna terribile (una strega ?), a cavallo di un destriero nero, montato a pelo; porta, legata alla cintura, la terribile falce, mentre dal suo arco micidiale lancia una acuminata freccia. Sopra di lei Cristo che ammonisce: “ O tu che leggi pon chura ai colpi di chostei/c hocise me che so signior di lei”.  Persino il Figlio di Dio ha dovuto soggiacere alla tremenda legge di quella orribile creatura …

Nella stessa Chiesa, Goro ha rappresentato San Michele nella sua funzione di pesatore delle anime secondo una impostazione simbolica che rammenta la psicostasia egizia. Alla destra dell’Arcangelo (la sinistra per chi guarda) la Vergine intercede per le anime del Purgatorio, essendo ormai stata fissata la tripartizione dei mondi dell’al di là (ved. Infra). Alla sinistra dell’Arcangelo un demone (o una diavolessa) emaciato e con le ali di pipistrello, accoglie, nel suo regno tenebroso, l’anima (nuda) di una  giovane donna.

Morte, ritualità della morte e mondi del post mortem

A partire dal XIII secolo, quando il processo di formazione della nuova società medievale comincia a completarsi, socialmente ed antropologicamente, con il ruolo crescente della borghesia cittadina, in molte città italiane si vanno stabilmente delineando nuove modalità rituali che, tra l’altro, comportano la fine delle “vecchie lamentazioni funebri dell’antichità” e l’avvento di “un complesso cerimoniale religioso, con la conseguenza di messe di suffragio, richieste di indulgenza, accensioni di ceri e anche lasciti di beneficenza per la salvezza dell’anima ” (Turrini, 2003). L’esempio di Siena è, al riguardo, molto illuminante.

Si tratta dunque di un vero e proprio processo di razionalizzazione delle pratiche rituali, accompagnato da precise disposizioni del de cuius sulla destinazione del proprio patrimonio, in perfetta coerenza con le tendenze di una società borghese nella quale, grazie alla crescente formazione di ricchezza mobile – il denaro, sostituto della ricchezza immobile terriera tipica degli antichi feudatari – ci si può anche salvare in articulo mortis, praticando quella che J. Chifffoleau definisce “contabilità dell’anima”.

Ovviamente per il buon Cristiano la morte non è affatto la fine. Ed un aspetto innovativo relativo al “dopo” è dato dalla introduzione di una nuova dimensione, intermedia tra Inferno e Paradiso, il Purgatorio. Già nell’Antico Testamento se ne adombrava l’idea. Lo si ricava dall’episodio, contenuto in Maccabei II, dei soldati di Giuda uccisi in battaglia e trovati in possesso di “cose consacrate agli idoli”. Allora, continua il testo sacro, “ricorsero alla preghiera, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato …. Perché se (Giuda) non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato …” (Maccabei II, XII, 40-46).

Molti secoli dopo Agostino d’Ippona, nel suo “De Civitate Dei”, parlerà di un focus purgatorius, tema  che ritornerà poi con Beda il Venerabile, Bernardo di Chiaravalle, Piero Lombardo, e molti altri. Ma è nel secolo  XIII secolo che, per opera di grandi teologi come Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, si forma compiutamente l’idea di un “luogo” dove è temporaneamente possibile la purificazione dei peccati per accedere quindi alla definitiva e beatifica visione di Dio.

Il II° Concilio di Lione del 1274 sanzionerà definitivamente questa importante innovazione della Chiesa affermando solennemente che “le anime sono purificate dopo la morte con pene che lavano”. Il Giubileo del 1300, indetto da papa Bonifacio VIII, poi, svilupperà ulteriormente l’idea del suffragio con la bolla Antiquorum habet fida relatio: ogni cento anni, chiunque visiterà le tombe degli Apostoli, per quindici giorni, godrà della remissione totale di tutte le pene che avrebbe dovuto scontare in terra o in Purgatorio. L’indulgenza vale anche per quelli morti durante il viaggio.   Alla costruzione di questo luogo – non luogo molto avevano contribuito le tante storie di anime che chiedevano preghiere per la propria salute riferite dai viaggiatori nell’al di là, di cui Dante è il più noto …

Per J. Le Goff l’idea di Purgatorio (Le Goff,1982) si afferma in parallelo con l’ascesa della borghesia produttiva, grande manipolatrice e dispensatrice di denaro. Una vera e propria classe intermedia che si pone tra  i chierici ed i nobili cavalieri da una parte e la massa damnationis – in terra – dei contadini e delle miserabili plebi urbane dall’altra. Si viene così formando una nuova visione del mondo secondo la quale, nonostante il peccato, è comunque possibile il riscatto e quindi, la redenzione attraverso la purificazione espiatrice, agevolata dall’azione dei viventi. La Chiesa visibile era l’unica istituzione che, con la forza delle preghiere e della messa, ma anche attraverso le indulgenze – a pagamento … – poteva spingere l’anima verso la beatifica visione dell’Eterno. I ricchi borghesi della Siena del ‘300 – come d’altra parte quelli di molti altri liberi comuni – faranno ampio ricorso a questa (pia) possibilità.

Per l’onore di Giovanni d’Azzo

Per altro la morte era anche occasione di esibizione di ricchezza e di potenza di ceto. Illuminante quanto avviene a Siena nell’anno del Signore 1390, quando Giovanni d’Azzo, nobile e cavaliere, ebbe la sua fastosa cerimonia funebre “… fecelisi grandissimo onore; in prima el suo corpo ebbe duecentodieci doppieri legati nel castello di legname … e arsero mentre che fece tutto l’ufficio. Vestì il Comune quattro cavalli con la balzana e con le bandiere e l’arme del popolo,e anco vi si vestie sessanta uomini a bruno. Fue portato in una bara ad alto coperta d’un bellissimo drappo d’oro; e sopra al corpo uno padiglione di drappo d’oro foderato d’armellino …”I doppieri erano torce di cera, molto utilizzati nelle case dei più abbienti:  E nelle case entrato, fatto pianamente aprir la camera nella qual sapeva che dormiva la giovane, in quella con un gran doppiere acceso innanzi se n’entrò” racconta G. Boccaccio nella novella VI°  della V° giornata. La pelle di armellino, ossia ermellino, diventa di un bianco candido di inverno, simbolicamente rimandando alla idea di purezza … Una delle opere d’arte più famose, opera di Leonardo, “La dama con l’ermellino”, rappresenta appunto una splendida donna, poi identificata con Cecilia Gallerani – la cui famiglia, emigrata a Milano, era di origine senese – dama della corte degli Sforza, amante di Ludovico il Moro. La splendida donna reca in braccio un candido ermellino, forse per alludere all’Ordine dell’Ermellino che il re di Napoli aveva conferito al Duca di Milano.

“ … el detto padiglione” continua la cronaca di quel fastoso funerale,  “portava in quattro stagiuoli cavalieri e grandi cittadini di Siena , e fur vestiti vinti cavagli a bruno con le bandiere di sua arme … e uno uomo armato a cavallo di tutte le sue armi e barbuta , spada nuda e speroni, e altre armadure le quali tutte rimasero al Duomo … Anco a detta sepoltura furono tutti e’ Priori di palazzo e furonvi tutti frati e preti delle regule di Siena e di chiesa parrocchiali; e furo avvisati tra preti e frati e monaci intorno a seicento…” Un corteo funebre degno di un monarca, per il quale le note – e teoricamente severe – disposizioni suntuarie del Comune di Siena non trovarono applicazione: rileva la solennità della cerimonia con l’uomo a cavallo che, coperto di barbuta, cioè dell’elmo, ricorda agli astanti le virtù cavalleresche del defunto.

Honor mortis (e non solo)

Eppure la morte, ossia il trattamento del morto, è sottoposto ad una disciplina molto precisa, a Siena, come in molte altre città comunali. Si tratta di disposizioni oltre che circostanziate anche particolarmente severe,  sostanzialmente motivate da diverse esigenze:

a)     il divieto dell’uso di certi colori come il rosso, il verde e l’azzurro, per le vesti dei partecipanti, con l’imposizione del nero per uniformare, per quanto possibile, la cerimonia di commiato, evitando ostentazioni di ceto che, in ogni città medievale piena di divisioni, di fazioni, di “Monti”, sarebbero potenziali fonti di dissenso verso il (precario) potere costituito;

b)    il divieto di assembramenti, col “contingentamento” del numero dei partecipanti alle esequie, chiara misura di prevenzione di ordine pubblico, altro nervo scoperto nell’ambito delle rissose comunità cittadine del tempo;

c)     il divieto di partecipazione delle donne al corteo funebre in coerenza con una società (almeno relativamente ai tempi) sessuofobica, salvo che non si tratti delle esequie di una defunta, nel qual caso scatta sempre il meccanismo del (rigido) “contingentamento” (Turrini, 2003);

d)    il divieto del “bociarerium”, ossia delle manifestazioni di dolore esteriorizzate, accompagnate da pratiche come la lacerazione delle vesti o lo strappo dei capelli, dal momento che tali forme di disperazione sono incompatibili con la credenza in una vita eterna post mortem.

Il senso di tutte queste prescrizioni va ricercato nell’impegno delle autorità ad assicurare comunque, specie in caso di manifestazioni coinvolgenti più persone, una rassicurante condizione di normalità …

Morte ad omicidi e spie

Una delle espressioni pubbliche della morte è quella relativa alla sua somministrazione come pena per crimini gravissimi. Nelle città medievali – e Siena non costituisce affatto un’eccezione – attiene a reati molto gravi, come l’omicidio considerato ”Horrido e grande peccato”, perché priva dalla dimensione terrena una creatura fatta ad immagine dell’Eterno. Questo tremendo delitto non ha altra pena che quella della decapitazione: “… punisscase in ella pena del capo.” La ratio di questa disposizione sta nella c.d. “legge del contrappasso”: ogni delitto va colpito con una sanzione comminata secondo il principio dell’ analogia, deve cioè essere “coerente” con la colpa commessa. E la pena deve contenere un messaggio, un insegnamento facilmente comprensibile e, al tempo stesso, di forte valenza pedagogica di cui va immediatamente apprezzata la funzione dissuasiva.

La “spiccatura” della testa, dunque, oltre a valere come punizione per il reo esprime anche una propria valenza simbolica in quanto si ritiene che all’interno del cranio  si trovi il principio attivo dell’essere, in coerenza con le credenze proprie delle popolazioni del nord – i Galli, i Celti – che consideravano uccisi i propri nemici solo se ne avevano spiccato la testa. Inoltre, presso quelle popolazioni, si pensava che la  (macabra) acquisizione delle teste mozzate conferisse al vincitore la forza ed il coraggio del guerriero vinto (Chevalier e Gheerbrant, 1989). Notizie in tal senso provengono da Tito Livio quando racconta della cocente sconfitta subita dalle legioni romane guidate da Postumio Albino contro le tribù celtiche dell’Appennino durante la II° Guerra Punica. Qui, nella foresta di Litana, i barbari con uno stratagemma ebbero ragione dei Romani. Lo stesso Postumio cadde e la sua testa tagliata venne portata dai Boi nel loro tempio, considerato lo spazio più sacro. “Ripulita la testa”, racconta Tito Livio, “come è loro costume ornarono il teschio con un cerchio d’oro, e questo era per loro un vaso sacro con cui libare alle solennità e allo stesso tempo una coppa per i pontefici e per i sacerdoti del tempio …” (Tito Livio, Historiae).

La stessa pena della decapitazione viene riservata, nell’anno del Signore 1375, a Nicolò di Tuldo, un giovane gentiluomo perugino accusato di congiura e spionaggio a danno della Repubblica di Siena. Sembra sia stato condannato ingiustamente e che solo grazie a S. Caterina abbia deciso di richiedere il conforto religioso.  In una sua lettera a Frate Raimondo da Capua Caterina descrive le ultime ore di Nicolò che invita la Santa a non abbandonarlo. ” Io sentivo uno giubilo” dice Caterina ”uno odore del sangue suo, e non era senza l’odore del mio, sentendo el timor suo, dissi: ‘Confòrtati, fratello mio dolce, chè tosto giognaremo alle nozze. Tu n’anderai bagnato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio, col dolce nome di Gesù, el quale non voglio che t’esca dalla memoria, e io t’aspetterò al luogo della giustizia …’ Poi egli giunse come uno agnello mansueto … Posesi giù con grande mansuetudine; e io gli distesi il collo  … e rammentalli il sangue dell’agnello. La bocca sua non diceva se no Gesù, e, Catarina. E così dicendo ricevetti il capo nella mani mie … Riposto che fu l’anima mia si riposò in pace e in quiete, in tanto odore di sangue, che io non potevo sostenere di levarmi il sangue, che mi era venuto addosso, di lui” (Epistolario, 1940). L’odore del sangue è l’odore della vita che sta finendo e che impregna, indelebile, il corpo della santa.

Dunque nel mondo medievale la testa mozza possiede una vis evocativa straordinaria non solo rappresentativa della supremazia esercitata su qualcuno, ma anche come immagine simbolica ricollegabile all’idea stessa di giustizia. Lo sapeva bene Ambrogio Lorenzetti quando, nel Buon Governo, raffigurava la sua Giustizia , posta accanto alla Temperanza, con una spada nella mano destra, una corona nella sinistra e, appunto,una testa mozza in grembo. A rafforzare ulteriormente il senso del rapporto con la giustizia, ai piedi della virtus un gruppo di cavalieri e di armigeri appiedati recano, al cospetto del Bene Comune, dei malfattori saldamente legati.

Morte ai raptores

Un altro reato particolarmente grave  contemplato – e pesantemente sanzionato – dagli Statuti delle città medievali è la rapina. La figura del raptor è assai spesso presente e talora manifesta aspetti inquietanti. Gregorio VII, l’autore del Dictatus papae, chiama i cavalieri del suo tempo, noti per la loro brutalità, raptores  ossia predoni. E li invita alla conversio: “Nunc fiant Christi milites, qui dudum extiternat raptores”. Mettano dunque le proprie armi e la propria abilità guerriera al servizio di una buona causa – che sarà la liberazione del Sepolcro di Cristo – abbandonando quella malefica, violenta pratica che ha solo una ricompensa, la morte. Da queste parti della Toscana il raptor più noto fu sicuramente Ghino di Tacco, immortalato in una celebre novella di Boccaccio per aver sequestrato l’Abate di Clugny.

Anche per questo delitto la pena prevista è la morte: ma con una variante rispetto all’omicidio. Viene comminata per impiccagione: “…empicchase cum laccio per la gola in elle forche si et in tal forma che moga e l’annima se sepera dal corpo”, è scritto nello Statuto di Radicofani, il nido di Ghino. Molti anni fa, occupandosi della valenza simbolica della impiccagione, uno studioso della grandezza di Furio Jesi evidenziava come e quanto, dal punto di vista della mitologia dell’area mediterranea questa tipologia di pena – talora utilizzata anche in cerimonie iniziatiche in qualche modo connesse col culto degli alberi – andasse ” considerata per la sua capacità di significare il passaggio dalla condizione terrestre all’alterità espressa dall’aria …” (Jesi, 1989)

Per altro, questa di Jesi appare come una interpretazione, dotta, sottile. Mentre, dal punto di vista simbolico, doveva essere più facilmente colta la legge del contrappasso che, appunto, trovava una puntuale applicazione anche nel supplizio riservato al rapinatore. La valenza simbolica del laccio, da questo punto, è esplicita. Chi tiene legato a sé un altro, appunto attraverso un laccio, esercita su di lui un potere. Un potere che ne condiziona lo status. E’ arcinoto il potere che Cristo ha conferito a Pietro, il principe degli Apostoli:”E io dico a te, che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. E a te darò le chiavi del regno dè cieli: e qualunque cosa avrai legata sopra la terra, sarà legata anche nei cieli: e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra, sarà sciolta anche ne’ cieli ” (Matteo, XVI,19).

La corda utilizzata per l’impiccagione aveva un grande valore simbolico, specie per le Compagnie di Giustizia ed in particolare per la loro opera di “conforto”, ossia di assistenza e soccorso spirituale prestato ai condannati a morte, svolta sostanzialmente a partire dal XIV secolo in poi.  Molte di queste confraternite avevano l’usanza di custodire la corda usata per l’impiccagione che veniva bruciata – forse ritualmente – in occasione della ricorrenza del santo patrono. Santi patroni con un background culturale coerente alla funzione dei confortatori, come San Giovanni decollato a Siena; o Santa Maria della Morte a Bologna  (Prosperi, 1982).

E per restare sempre nell’ambito dell’immaginario simbolico come non sottolineare la forma della forca che doveva evocare, negli spettatori, l’idea di un orribile mostro pronto ad ingoiare nelle proprie fauci il condannato? Ancora nel Buon Governo di Lorenzetti c’è l’immagine di un impiccato, che per altro pende da una forca semplicissima, composta da due pali verticali uniti da uno ritto sul quale, appunto è effigiato, con le mani legate e le vesti svolazzanti, il suppliziato. Un angelo, l’angelo della Securitas, dalle belle forme muliebri la sorregge con la mano sinistra, mentre con la destra esibisce un cartiglio dalla scritta quanto mai eloquente. “Senza paura ognuomo franco Camini. E lavorando semini ciascuno. Mentre che tal Comuno. Manterra questa dona i Signoria. Chel alevata arei ogni balia.” Un manifesto esemplare, di facilissima comprensione.

Morte a maliardi, facitrici, streghe

Infine il più grave peccato, quello legato al mondo, oscuro, della magia. Bernardino  degli Albizzeschi nelle sue prediche sul Campo di Siena del 1417 ammonisce: “… el sicondo peccato che discende da la superbia, si è il peccato de li incanti e di indivinamenti, e per questo peccato Iddio manda spesso fragelli a le città” (B. degli Albizzeschi, 1989).  Opera “di quelle indiavolate maledette”: quelle “indiavolate maledette”, prima maliarde o facitrici, dalla fine del XIV secolo saranno sempre più spesso appellate streghe. Strega rimanda al latino striga, al greco striks, e indica il rapace notturno che affonda i propri tremendi artigli nelle carni degli sventurati per dilaniarle senza pietà e succhiarne avidamente il sangue. “E però dico”, continua indomabile Bernardino, “che là dove se ne può trovare niuna che sia incantatrice o maliarda, o incantatori o streghe, fate che tutte siene messe in esterminio per tale modo che se ne perdi il seme; ch’io vi prometto che se non se ne fa un poco di sacrificio a Dio, voi ne vedrete vendetta ancora grandissima sopra a le vostre case, e sopra a la vostra città … Sapete perché io temo più di voi che di niuno altro luogo? Perché mai non fu in luogo né in paese, che tanti e tante ne fussero, quanti ne so’ in questo vescovado.” (XXXV, 88)

La pena per chi si macchia di crimini tanto gravi, allora non può essere che la morte, come attestato dalla vicenda di Marta, moglie di Ranuccio muratore, strega e maliarda, messa al rogo nel 1446  – due anni dopo la morte di  Bernardino –  per ordine dell’inquisitore senese. La tragica vicenda di Marta è ricordata anche da Sigismondo Tizio nelle Historiae, dove racconta che la donna, riconosciuta colpevole di maleficio “veluti ex mulieribus una que se credunt cum Diana et Herodiade noctu equitare, que strige nuncupantur, cum falsa sit omnia in visione, ut comperuimus et legimus, illusiones huiusmodi patiantur, incendio consumpta est”. Diana è la regina delle streghe, che si riunivano, appunto, nella compagnia di Diana; Erodiade o Aradia sua figlia. Il lapidario “incendio consumpta est” costituisce un sigillo ammonitore di quella orribile storia (Ceppari, 1999).

L’episodio più raccapricciante ritrovato tra le carte della Inquisizione senese riguarda un frate aretino, fra Sisto da Verze, al secolo Serafino di Filippo Bazini, eremita agostiniano di ascendenza lombarda, accusato di necromanzia, avendo evocato il demonio. Si tratta per altro di una vicenda che già attiene all’età moderna – essendosi svolta nel 1541 – ma secondo canoni e modalità propri di quello che, convenzionalmente, viene chiamato Medio Evo. L’operazione di magia, magia nera, era stata possibile perché il frate aveva rapito ed ucciso una piccola mendicante che poi aveva smembrato in più parti, conservandone il cuore ed il grasso che, insieme al sangue di due malfattori giustiziati ed all’olio consacrato per la cresima, erano stati utilizzati “per costregnere il diavolo” (Ceppari, 2003).

Il processo fu condotto da un Tribunale laico, i c.d. Otto di Guardia, dopo aver richiesto ed ottenuto “per l’honor di Dio e benessere di questa nostra città” la grazia di godere della autorità necessaria “per mezo delle quale possiamo liberamente dar quel castigo a questo vitioso frate”. Il procedimento, conclusosi nel marzo del 1541, comminò la morte per Frate Sisto, stabilendo che l’esecuzione avvenisse nel Campo di Siena, il centro della città: l’uomo era moribondo, sfinito dagli interrogatori, da almeno due tentativi di suicidio e dal lungo digiuno. Nel centro della Piazza, era pronta la catasta di legna per il rogo. Ma Sisto non morì per il rogo perché fu strozzato dal boia che, dopo il primo, inutile tentativo, riuscì ad appenderlo, fino alla morte, ad una colonna. Assolto il suo compito, il boia appiccò il fuoco alla legna e le fiamme avvolsero quel corpo ormai esanime.Nel rogo furono gettati i libri di magia e la saccuccia che conteneva tutto il complesso armamentario del necromante.  Fin dal 1197 il re Pietro II d’Aragona aveva disposto che, nel suo regno, agli eretici fosse comminata la pena del rogo. Il IV concilio Lateranense (1215, can. 3) avrebbe confermato le precedenti disposizioni  stabilendo che “… gli eretici condannati siano abbandonati alle potestà secolari o ai loro balivi per essere puniti con pene adeguate …” E che “i chierici siano prima degradati della loro dignità …”Perché il rogo e non la decapitazione o l’impiccagione? In omaggio, ancora una volta, alla legge del contrappasso. Colui che, con le sue azioni ed il suo pensiero, aveva infettato l’ecumene doveva essere disperso, affinchè scomparisse ogni traccia della sue “eretica pravità” e fossero così purificati i luoghi dove aveva operato. Consumptus sit …

Preti e liturgie

E’ nota la tripartizione funzionale della società medievale, secondo l’organizzazione della società romana a suo tempo individuata da G. Dumezil  (Dumezil, 1955). Tre sono le componenti di questa società, gli oratores, i bellatores, i laboratores, ossia quelli che pregano, quelli che combattono, quelli che producono. Si tratta di ordini fra loro distinti nell’ambito dei quali il clero esercita la propria supremazia gerarchica. Inizialmente questo dominio compete ai monaci ma, con l’avvento delle città e la decadenza del feudalesimo, passa saldamente nelle mani del clero secolare e, più ancora, quando compaiono, ossia agli inizi del XIII secolo, degli Ordini Mendicanti. L’”organizzazione” dei funerali a Siena – come in qualunque altra città medievale – rispecchia fedelmente questa “egemonia” clericale.

Questa preminenza del clero si sostanzia in almeno tre diversi momenti:

A)    La liturgia, dove è sempre presente – come minimo – un sacerdote che officia la messa, “con intenzioni particolari a seconda che si trattasse di un uomo o di una donna, di un frate o di un canonico” (Corsi, 2003);

B)    Le celebrazioni post mortem, secunda, septima, nona et annualis, che segnava il definitivo distacco del morto e la fine della vedovanza (Turrini, 2003): si trattava cioè di una scansione di tempi sia “magici”, in quanto relativi al definitivo distacco dell’anima dal corpo; sia civili, in quanto la donna riacquisiva la capacità generatrice;

C)    L’ incameramento di (lucrosi) lasciti che servivano ad impinguare i già cospicui patrimoni del clero, tanto più frequenti dopo l’invenzione del Purgatorio.

Mors atra

Si è detto che la durata della vita dell’Uomo medievale è breve, falcidiata, come è da patologie di ogni genere, in larga parte dovute alla assenza di adeguate tutele igieniche e dall’altissima mortalità infantile. La situazione è ulteriormente aggravata dalla diffusione di epidemie che, proprio con la rinascita delle città, con lo sviluppo di  economie mercantili – e quindi scambistiche –  e con rapporti sempre più frequenti col Medio Oriente, espongono l’intero ecumene cristiano al rischio di contagi. Il più terribile di questi, una devastante pandemia di pestilenza colpì Siena – e molte altre città mercantili del bacino occidentale del Mediterraneo – nel 1348. Una malattia terribile, che viaggiava con gli opportunisti alimentari, i topi, sempre a contatto con l’uomo, le cui pulci, attraverso il bacillo Yersinia pestis trasmettevano l’agente patogeno. La pandemia si era scatenata  dopo che, sul finire del secolo XIII, un cambiamento climatico, noto come “piccola glaciazione”, aveva ulteriormente contribuito a spingere i roditori nelle città, alla ricerca di cibo. Era quello il tempo della morte nera, ossia della mors atra (letter. morte atroce) con la quale i cronisti danesi e svedesi del XIV secolo, colpiti dalla straordinaria virulenza del morbo, designavano la peste bubbonica.

Giovanni Villani raccontò nella sua Cronica quanto avvenne in quei tempi spaventosi. “E la detta mortalità fu predetta dinanzi per maestri di strologia, dicendo che quando fu il solstizio vernale, cioè quando il sole entrò nel principio dell’Ariete del mese di marzo passato, l’ascendente che ffu nel detto sostizio fu il segno della Vergine, e ‘l suo signore, cioè il pianeto di Mercurio, si trovò nel segno dell’Ariete nella ottava casa, ch’è casa che significa morte; e se non che il pianeto di Giove, ch’è fortunato e di vita, si ritrovò col detto Mercurio nella detta casa e segno, la mortalità sarebbe stata infinita, se fosse piaciuto a Dio. Ma noi dovemo credere … che Idio promette le dette pestilenze e ll’altre a’ popoli, cittadi e paesi per punizione de’ peccati, e non solamente per corsi di stelle, ma … quando vuole, fa accordare il corso delle stelle al suo giudicio … “(Villani, 1991)

La peste è punizione divina: il suo implacabile arrivo è “annunciato” dagli astri.

E non sonavano Campane, e non si piangeva persona, fusse di che danno si volesse, che quasi ogni persona aspettava la morte; e per sì fatto modo andava la cosa, che la gente non credeva, che nissuno ne rimanesse, e molti huomini credevano, e dicevano: questo è fine Mondo …” “Non si trovava chi seppellisse né per denari né per amicitia et quelli della casa propri li portava meglio che potea a la fossa senza prete, né offitio alcuno, né si sonava la campana. E in molti luoghi in Siena si fè grandi fosse et cupe per la moltitudine su morti … et ognuno gittava in quelle fosse e si cuprivono a suolo a suolo … e anco furo’ di quelli che furo’ sì mal cuperti di terra che li cani ne trainavano et mangiavano di molto corpo per la città, et non era alcuno che piangiesse alcuno morto”. Così Agnolo di Tura detto il Grasso, calzolaio, che nell’orrenda carneficina avrebbe perso cinque figli da lui stesso seppelliti, racconta ai posteri , nella “Cronaca senese”, come la città visse il tragico evento.

Il contagio era giunto a Siena da un’altra repubblica, marinara questa volta, Pisa: colpì la città per sette lunghissimi mesi, dall’aprile all’ottobre del 1348. Quella “grande mortalità, la maggiore e la più oscura, la più horribile” che la città abbia mai visto, avrebbe causato, a detta di Agnolo, il decesso di circa 80.000 buoni cristiani … Il numero è probabilmente esagerato, dal momento che gli storici propendono per circa 50.000 vittime a fronte di una popolazione di circa 80.000 “anime”. Morirono moltissimi artisti – tra i quali i fratelli Ambrogio e Pietro Lorenzetti – e le attività economiche, le relazioni sociali, le pratiche culturali subirono un lungo stop che provocò di fatto, per almeno una generazione, un grave stato di involuzione e di regresso causa prima del ritardo con cui fiorì compiutamente quella che sarebbe stata la straordinaria stagione dell’Umanesimo e del Rinascimento

 Corpi santi

C’è, infine, almeno un altro aspetto di grande rilevanza connesso alla dimensione della morte, ossia il “trattamento” delle reliquie dei santi. “Poiché dal fatto che alcuni espongono le  reliquie dei  santi per venderle, si è spesso presa occasione per detrarre la religione cristiana, perché ciò non  avvenga in futuro, col presente decreto stabiliamo che le reliquie antiche da ora in poi non siano messe in mostra fuori del reliquiario, né siano poste in vendita. Quelle nuove nessuno si azzardi a venerarle, prima che siano state  approvate dall’autorità del  Romano Pontefice. Per l’avvenire i prelati non permettano che chi va nelle loro chiese per venerare le reliquie  sia ingannato con discorsi fantastici o falsi documenti, come si usa fare in moltissimi luoghi per lucro”. Così stabiliva il LXII capitolo del IV Concilio Lateranense tenutosi dall’11 al 30 novembre 1215 per volontà di Innocenzo III, grande teologo e grandissimo giurista, approvatore della Regola di San Francesco e tutore di Federico II. La disposizione impartita faceva intendere bene le preoccupazioni della Chiesa – o almeno della sua parte più consapevole – non solo per il commercio delle reliquie, ma anche per l’uso che se ne faceva: sì che il richiamo a “discorsi fantastici” ovvero a “falsi documenti” fa chiaramente pensare ad un tipo di venerazione che tratta le reliquie stesse come potenti talismani, in grado di proteggere quei devoti cristiani che avevano la possibilità di vederle o, ancora meglio, di toccarle.

“La reliquia è, nella storia del patronato, materia e al tempo stesso segno della protezione elargita dal santo. La continuità del patrocinio ha il suo sigillo materiale nella presenza delle reliquie del santo che la comunità custodisce come un prezioso presidio, garanzia della presenza protettiva e della potenza taumaturgica del suo campione celeste”. Una vera e propria forma di “sacralizzazione del territorio” che, basti pensare al culto barese di San Nicola o a quello veneziano di San Marco, contribuisce alla formazione della identità di un popolo (Niola, 2007). A Siena questo tipo di culto è praticato verso Sant’Ansano, il battista della città, un romano di agiata famiglia (gli Anicii?), che sarebbe approdato sulle sponde dell’Arbia a metà del III° secolo.

Per altro a Siena la devozione cittadina si manifesta non verso uno, ma verso quattro santi diversi. Si tratta dei protettori, Ansano, Crescenzio, Savino e Vittore – tutti santi molto antichi, tutti martiri – il culto dei quali ammonta almeno all’XI secolo, come testimonia la loro collocazione nel presbiterio della cattedrale. Eppure, la “sanzione ufficiale della loro funzione civica sarà, almeno per l’iconografia, solo con la Maestà di Simone Martini del 1315 nel Palazzo pubblico”(Argenziano, 2003). Una operazione non solo devozionale, dal momento che coincide col definitivo impianto di una salda società borghese con forti esigenze identitarie, così sanzionate.

Credenze private e tracce di fede

Nonostante questo “tardivo” riconoscimento civico esistono testimonianze dell’attaccamento dei senesi verso “cadaveri eccellenti” con (presunti) poteri taumaturgici e in qualche modo collegati alla loro città. Così si spiegano  i contrasti con gli aretini per il possesso del corpo di Ansano, il (mitico) battista di Siena fino al 1107 interamente conservato ad Arezzo, e quindi, dopo lunghe trattative, “opportunamente” smembrato: il corpo a Siena e la testa ad Arezzo (Scorza Barcellona, 1991). La “popolarità” del santo era da attribuirsi, verosimilmente, alla sua capacità taumaturgica, che si estrinsecava attraverso l’acqua salutare – per la cute, l’intestino ed i polmoni – sgorgante nel luogo del suo martirio, dal nome evocativo di “Dofana” forse ricalcato sul latino duo fana, o forse riferimento al dio Faunus, spesso connesso a luoghi e sorgenti da cui emanano vapori di zolfo …

La testimonianza più rilevante di culto riservato alle reliquie di santi a Siena è comunque quella della testa e del dito di Caterina Benincasa, la santa dell’Oca. Appena tre anni dopo la sua morte, avvenuta a Roma nel 1380, il fedele Raimondo da Capua aprì il suo sepolcro in Santa Maria sopra Minerva e ne staccò i due resti oggi conservati a Siena, nella basilica di san Domenico. Fece bene perché “del suo corpo” rimasto a Roma “non resta molto”, in quanto “il sepolcro è stato saccheggiato nei secoli per ricavarne reliquie disseminate tra Roma, Firenze, Siena, Salerno” (Cattabiani, 1993). E’ evidente il motivo di questa pratica: si ritiene che, attraverso quelle reliquie, sia possibile ottenere l’intercessione della grazia da parte della Santa. Una vera e propria operazione border line tra fede e magia … 

Domenicani contro

E’ curiosa la circostanza che Caterina, santa legata al Terz’Ordine Domenicano, si sia in qualche modo “formata” nello stesso ambiente di un illustre maestro come l’inglese Riccardo di Knapwell. Magister ad Oxford, autore, nel 1285, della “Quaestio disputata de unitate formae” nella quale si sosteneva una discutibile (per i tempi) tesi antropologica: ossia “il ruolo decisivo dell’anima nella costituzione dell’identità personale.” Giacchè l’anima agisce “come forma” e poiché non è “concepibile un’attività formale senza un supporto materiale … l’anima, oltre ad avere attività intellettuali, identificava il corpo della persona …” (Santi, 2003).

Le conseguenze di queste affermazioni così dissonanti rispetto al comune sentire dell’epoca erano molto pesanti: solo con la forma data dall’anima il corpo era tale e quindi il corpo privo dell’anima non era altro che materia destinata alla putrefazione ed alla dissoluzione. “Ridiculum videtur quod propter solam materiam quae remanet post mortem debeat corpus mortuum tradi sepolturi in loco sacro”. Ossia è ridicolo che per la sola materia che rimane dopo la morte il corpo inanimato sia sepolto in un luogo sacro. E questo valeva anche per i corpi dei santi, giacchè i corpi autentici, quelli animati non sono sulla terra … Erano posizioni riprese da San Tommaso, ma non bastarono a risparmiare Riccardo dalla scomunica …

In fine, la filosofia di Cecco, ovvero inno gioioso alla vita

S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil en profondo;
s’i’ fosse papa, serei allor giocondo,
ché tutti ‘ cristiani embrigarei;
s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei?
a tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente faria da mi’ madre
.
S’i’ fosse Cecco com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui.
 (Cecco Angiolieri, S’i’ fosse foco)

BIBLIOGRAFIA

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Il FEMMINICIDIO. Excursus storico, giuridico e dottrinale.

FEMMINICIDIOdi Emanuele Mascolo

2 novembre 2013

 I PARTE

Da più parte si sente parlare in quest’ultimo periodo, della legge recentemente varata in Italia, riguardo il femminicidio.

La nuova legge, come si evince dal testo pubblicato in G.U. n. 191/2013, è stato emanato in quanto si è “ritenuto che il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato rendono necessari interventi urgenti volti a inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di tali fatti, introducendo, in determinati casi, misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica; considerato, altresì, necessario affiancare con urgenza ai predetti interventi misure di carattere preventivo da realizzare mediante la predisposizione di un piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, che contenga azioni strutturate e condivise, in ambito sociale, educativo, formativo e informativo per garantire una maggiore e piena tutela alle vittime; ravvisata la necessità di intervenire con ulteriori misure urgenti per alimentare il circuito virtuoso tra sicurezza, legalità e sviluppo a sostegno del tessuto economico-produttivo, nonchè per sostenere adeguati livelli di efficienza del comparto sicurezza e difesa; ravvisata, altresì, la necessià di introdurre disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica a tutela di attivita’ di particolare rilievo strategico, nonchè per garantire soggetti deboli, quali anziani e minori, e in particolare questi ultimi per quanto attiene all’accesso agli strumenti informatici e telematici, in modo che ne possano usufruire in condizione di maggiore sicurezza e senza pregiudizio della loro integrità psico-fisica“.

Ma prima di analizzare il testo, cerchiamo di fare un excursus Giurisprudenziale e Dottrinale sul femminicidio in Italia.

Il termine femminicidio, innanzitutto indica tutti quei casi di omicidio, in cui un uomo, per vari motivi, uccide una donna. Di solito i soggetti sono in relazione affettiva tra loro (moglie/marito o rapporto extra coniugale) e val la pena rimarcare come il femminicidio sia un fenomeno sociale. In quanto  fenomeno di rilevanza globale, infatti, il termine indica, in generale, una violenza fatta ad una donna in quanto tale, ma è altresì vero che non in tutti i casi di donne uccise, si può parlare di femminicidio.

Non è facile risalire alle sue origini in Italia, poichè  a livello istituzionale i dati non vengono raccolti con sistematicità e se è possibile rinvenire qualche dato positivo, il merito è dei centri antiviolenza, costituiti solo dal 2005.

Se consideriamo la Giurisprudenza internazionale, nel 2009 è stato riconosciuto come crimine di Stato dalla Corte Interamericana.

In quello stesso anno, in Italia si muovono alcune riforme al codice penale circa le violenze in genere, ma sulle stesse è intervenuta la Corte Costituzionale con Sentenza n. 265/2010 dichiarandone l’illegittimità costituzionale ex artt. 3, 13, co.1, 27, co.2, della Costituzione, poichè, secondo la Corte,”la disposizione oggetto di scrutinio trova collocazione nell’ambito della disciplina codicistica delle misure cautelari personali, in particolare di quelle coercitive (artt. 272-286-bis), tutte consistenti nella privazione – in varie qualità, modalità e tempi – della libertà personale dell’indagato o dell’imputato durante il procedimento e prima comunque del giudizio definitivo sulla sua responsabilità. In ragione di questi caratteri, i limiti di legittimità costituzionale di dette misure, a fronte del principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.), sono espressi – oltre che dalla riserva di legge, che esige la tipizzazione dei casi e dei modi, nonché dei tempi di limitazione di tale libertà, e dalla riserva di giurisdizione, che esige sempre un atto motivato del giudice (art. 13, secondo e quinto comma, Cost.) – anche e soprattutto, per quanto qui rileva, dalla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), in forza della quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. L’antinomia tra tale presunzione e l’espressa previsione, da parte della stessa Carta costituzionale, di una detenzione ante iudicium (art. 13, quinto comma) è, in effetti, solo apparente: giacché è proprio la prima a segnare, in negativo, i confini di ammissibilità della seconda. Affinché le restrizioni della libertà personale dell’indagato o imputato nel corso del procedimento siano compatibili con la presunzione di non colpevolezza è necessario che esse assumano connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l’accertamento definitivo della responsabilità: e ciò, ancorché si tratti di misure – nella loro specie più gravi – ad essa corrispondenti sul piano del contenuto afflittivo. Il principio enunciato dall’art. 27, secondo comma, Cost. rappresenta, in altre parole, uno sbarramento insuperabile ad ogni ipotesi di assimilazione della coercizione processuale penale alla coercizione propria del diritto penale sostanziale, malgrado gli elementi che le accomunano.

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Il dettato amoroso di Edmund Spenser

di Andrea Galgano                                         20 ottobre 2013

Poesia moderna

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Edmund Spenser (1552-1599) rappresenta una traccia ambiziosa nell’epoca elisabettiana. Di lui si è detto che fosse “il nuovo poeta” o “il poeta dei poeti”, secondo le definizioni di epoca romantica, ma, sicuramente, fu colui che meglio incarnò lo spirito della sua epoca e che riuscì a fondere le diverse anime della letteratura a lui coeva, nell’alto esempio di scrittura, nel fitto fondo petrarchesco e nel suo discorso d’amore che si attesta sulle prossimità ultime.

Nonostante la controversa, per molti aspetti, carriera politica, segnata dalla fedeltà al trono d’Inghilterra e dalla vicinanza a lord Arthur Gray, responsabile dell’eccidio di seimila cattolici, la sua vocazione fu preminentemente poetica, al servizio della forma e dell’espressione. Essere “poeta dei poeti” significa percorrere non solo la tradizione (Chaucer e le sue possibilità dialogiche, oltre che Petrarca), ma anche definire la soglia di visione di autori che a lui e alle sue famose stanze (un’ottava ariostesca con un alessandrino finale) hanno guardato, come Keats, Shelley, Byron, fino a Tennyson.

La sua Faerie Queene rappresenta la prima visione epica che l’Inghilterra abbia avuto, come programmatica, visionaria e irriducibile celebrazione della Vergine che veglia sull’Impero britannico, e un omaggio eroico alla Corona sulla scorta dell’Eneide. «è un poema cavalleresco», scrive Luca Manini, perché i suoi protagonisti sono cavalieri erranti che si muovono in un territorio indefinito, a tratti coincidente con l’antica Bretagna, e in cui il tempo e lo spazio rispondono a istanze fantastiche».

Doveva includere dodici libri, ma ne riuscì a scrivere solo sei e un settimo incompiuto. Dodici come le virtù aristoteliche (Santità, Temperanza, Castità, Amicizia, Giustizia, Cortesia), canonizzate cristianamente da San Tommaso d’Aquino. Ogni libro è suddiviso in dodici canti e, recuperando l’impianto virgiliano attraverso l’exemplum e l’iniziazione di un gentiluomo alla gentile disciplina, testimonia l’ascensione al trono della regina. Protagoniste, pertanto sono, una principessa cristiana che si chiama Una e la sua avversaria, Duessa. Attorno a loro una schiera di più di duecento personaggi, sotto il comando, da una parte del negromante Arcimago e dall’altra, del Cavaliere della Rossa Croce che affronta e sconfigge Errore, dalle cui viscere oltre a «rane ributtanti e rospi senza occhi», contiene anche libri e documenti. In alto, la regina Gloriana, sovrana di virtù e specchio morale, che abita nella Terra Fatata e che si aggira nel poema come una sorta di sfondo menzionato in dissolvenza.

E, infatti, lo scopo del poema, come scrive Spenser, è quello di «formare un gentiluomo o una persona nobile nella disciplina della virtù», come forma in divenire, come erranza di un mondo caduto inafferrabile e ininterpretabile, come, ad esempio, avviene nell’immagine di Arthegall: «E subito le fu porto allo sguardo un bel cavaliere, armato di tutto punto, con la scintillante visiera sollevata, sotto la quale appariva un volto virile, che faceva tremare i nemici e invitava gli amici a stringere con lui tranquille tregue; era pari al volto di Febo quando questi, ad oriente, si leva tra due ombrose montagne; era pieno di dignità nella persona, e ancor di più lo pareva per la grazia eroica e il portamento fiero. Sul cimiero aveva un segugio accucciato, e l’armatura sembrava di foggia antica, straordinariamente solida e massiccia, tutta tempestata d’oro; v’era scritto, in lettere antiche: Le armi di Achille che Arthegall a sé vinse. Sullo scudo dai sette strati portava un piccolo ermellino incoronato, che, con la candida pelliccia, risaltava sul campo azzurro».

La descrizione delle scene, filtrate attraverso la finzione storica e il riflesso, come in questo caso, porta al dettato poetico una struttura armonica e musicale di realtà e di ombra, che fa di quest’opera un grande orizzonte epico, in un flusso senza fine e in una prospettiva di meraviglia e varietà. Basti pensare alle storie meravigliose di Belfebe e di Amoretta, all’amore di Florimell per Marinell o ancora al matrimonio del Tamigi e del Medway.

Afferma Thomas P. Roche, jr: «è mia congettura che Spenser vide nelle oscillazioni della storia tra Elisabetta e Leicester la possibilità di un poema epico inglese che ancora non era stato scritto, con Elisabetta come Gloriana e Leicester come Artù. Sarebbe stata un’ottima mossa politica ed economica, e sarebbe stato completato prima che Elisabetta e Leicester fossero regina e re. Ma, naturalmente, le cose non andarono così».

Il passato mitico e il presente tendono ad unirsi in una unità fiabesca che mira a una funzione storica, per accreditare la piena veridicità della vicenda arturiana. Gli autori che lo hanno preceduto condensano, nella loro arte, la storia e la via di Spenser, attraverso le deviazioni, e il complesso impianto strutturale, il gesto sovraccarico di emblemi e arazzi, si spinge alla creazione di un poema cavalleresco, in cui i cavalieri, britannici e fatati, abitano il tempo irreale e immaginifico dello spazio, come epica trasmutata, percussione eroica e cristiana e lotta.

Scrive Luca Manini: «Spenser è l’osservatore consapevole della varietà infinita delle vicende umane, della natura come inesausta generatrice, del passaggio inevitabile, e irrefrenabile, dalla generazione al decadimento e alla sparizione; è il poeta della transitorietà delle umane cose, delle virgiliane lacrimae rerum, dell’incerto confine tra essere e apparire, della maschera e della metamorfosi; è l’artista sorretto da un mai esaurito anelito alla stabilità delle cose, stabilità impossibile qui, sulla terra,e possibile solo in una dimensione ultraterrena; e se passiamo a chiederci cosa affascinò Spenser nei poemi di Ariosto e Tasso, dobbiamo dare risposte diverse […]».

Il finto disordine ariostesco, se da un lato non permette una unidirezionalità di visione, dall’altro impone una netta partecipazione alla creaturalità, al suo limite indicibile, all’inseguimento del suo compimento e allo spostamento della piena realizzazione della sua sfuggente e inafferrabile felicità.

La precarietà umana abita il mondo ariostesco come tematica di rapporto e acuto stridore di stabilità, dai comportamenti, ai gesti, ai codici, fino alla frattura e al contrasto dell’ideale e perfetto mondo cavalleresco e la realtà mutevole del presente.

Il pieno ordine tassiano richiamava, invece, alla «storia della nascita dell’unità» (specie nel rapporto conflittuale tra l’Uno, Sommo Bene, e la mutevolezza del creato, in Spenser quasi una ferita), alla discreta ed evidente linea narrativa, con le strutture logiche, teleologiche e, non ultime, teologiche, la coincidentia oppositorum, e la fede come riconoscimento di una presenza che svela e “fa” il mondo: il Cavaliere della Rossa Croce (san Giorgio d’Inghilterra) che, come Goffredo combatte per liberare Gerusalemme, si muove per liberare la terra di Una da un drago demoniaco, finendo, dopo incidenti erranze, per liberare i genitori di Una o Sir Guyon che tenta di distruggere il Giardino del Piacere, quasi alciniano archetipo di Circe, dove vive Acrasia, la maga lussuriosa contenuta nel fato potente della sua bellezza e simbolo dell’intemperanza o Arthegall che libera il regno di Irena dal gigante Grantorto, compongono il sentiero di una redenta e finale meta, approdo che disegna ed è funzionale al disegno simbolico, narrativo ed allegorico del poema.

L’allegoria continua che permane, come accostamento di temi e di stile, e la volontà di rendere esemplare ogni episodio, invita il lettore a prender coscienza di un atto poetico che possa formare, educare e infine scuotere nell’intimo: «Io sono l’uomo la cui Musa, un tempo, indossò, come il momento le dettava, le umili vesti di un pastore, e al quale ora è imposto un compito che non sento mio: mutare le zampogne in trombe severe e cantare le nobili gesta di cavalieri e dame; troppo a lungo, nel silenzio, ha dormito la loro fama, e ora la sacra Musa invita me, che non ne sono degno, a diffonderla tra i suoi seguaci; guerre feroci e fedeli amori saranno materia e esempio del mio canto».

Commenta Manini: «Come in Ariosto, Spenser unisce le lezioni marziali del ciclo carolingio con l’amore del ciclo arturiano, ma egli qualifica gli amori di cui canterà con l’aggettivo “fedeli”,e, nel nono verso che aggiunge all’ottava italiana, usa il verbo moralize, ovvero rendere morale ed esemplare le storie che narrerà, introducendo un piano assente in Ariosto, e sottolineando la propria volontà di trasmettere, mediante la composizione del poema, un messaggio chiaramente diretto all’educazione del lettore».

L’erranza dei cavalieri, i quali deviano la loro rotta in spazi angusti e labirintici (foreste, imi, caverne, spelonche) e vittime di peccati ed errori, tende sempre a una finale ricostituzione unitaria e singola di redenzione ed elezione, in una lotta strenua ed estrema che unisce integrità fisica e integrità morale.

Nel canto III del libro VI, il protagonista Calidore, modello di cortesia, finisce per trovarsi in un luogo pastorale, deviando dal suo compito che è quello di distruggere la Bestia Berciante (Blatant Beast), vera allegoria della calunnia, che un giorno si libererà, pervertendo di nuovo la verità, creando, nuovamente, disordine, disomogeneità e degenerazione. Nella contrapposizione e caratterizzazione positive e negative di vita attiva e contemplativa, egli si arrampica sul monte Acidale, sacro a Venere, dove assiste, non visto, alla danza delle ninfe accompagnate dal pifferaio Colin Clout, (controfigura e alter ego di Spenser). Appena uscito dal nascondiglio, Calidore interrompe l’incantesimo, mettendo in fuga le damigelle.

Colina dice all’eroe che le tre donne che compongono il cerchio, circondate dalle fanciulle, sono le tre Grazie, le quali porgono doni per il corpo e la mente (offrire, accettare e infine restituire i benefici), mentre la donna al centro del cerchio simboleggia l’Amore, in una sorta di quadratura armonica e cosmica, richiamata dalla poesia. Ecco la trama di Spenser che riluce nei contrasti: il dicibile e l’indicibile, l’informe o il difforme che alla forma piena, lo smisurato alla contorsione malvagia.

L’uomo ha il compito, pertanto, di leggere il mondo, osservarlo, guardarlo, indagarlo e rivelando la propria lettura, può giudicarlo. Ogni evento, stratificato e complesso, ama svelarsi in una fantasia data, impastata con il reale, fucinata in forme sempre nuove.

In Spenser, sembra non affermarsi l’ironia ariostesca, anzi, la precisa linearità della sua espressione conferisce una serietà continuata e dottrinaria e una moralizzazione estesa.

La sequela ad Ariosto e Tasso permette di affermare, con maggiore vigoria, l’impeto dell’ambiguità immaginifica. L’immagine è lo specchio della sua anima, apparentemente artificiosa, ma intimo richiamo e sentiero di una tensione che non si risolve nel concetto, ma lo amplia e lo fa vivere, mettendosi al suo servizio, come colore della parola e delizia di stanza, evocatrici di emblemi e simboli. L’inganno di Duessa ai danni del Cavaliere della Rossa Croce si incastona in un groviglio di dubbi, spiriti e false immagini, come quando egli si imbatte in un albero nel quale vive lo spirito di Fradubbio, il quale narra del suo abbaglio dinanzi all’apparenza splendente della maga e di come lei lo abbia poi tramutato in albero, dopo essersi reso conto della verità. Il cavaliere segue il racconto di Fradubbio e Duessa, come signum della sua erranza cieca, del suo asservimento sensuale e della mancata distinzione, mescolata e non cosciente, tra falso e reale, dal momento in cui egli ha abbandonato Una, la Verità, e si è abbandonato ai piaceri di una donna duplice.

Ma la salvezza non appartiene alla singola volontà dei personaggi, bensì a qualcosa di superiore che è in grado di ridare vita e fortezza di spirito, come purificazione redentrice e nuovo battesimo.

In aggiunta alla formidabile proliferazione di vicende e intrico di personaggi fanno la loro comparsa i Mutability Cantos (1609), i canti della fuggevole e negativa Mutevolezza «che esige d’esser sovrana degli dei e degli uomini», ma alla quale non appartiene la consistenza ontologica, costretta ad appoggiarsi al suo contrario come presupposto.

Luca Manini, facendo riferimento al passaggio della Mutevolezza e all’episodio di Una che cavalca assieme al cavaliere della Rossa Croce (Asinus portans mysteria), scorge una stretta vicinanza alla Cabala del cavallo pegaseo di Giordano Bruno e afferma che però: «Al di là di queste suggestioni, però, ampio resta il divario tra la visione cosmologica e teleologica di Bruno e di Spenser, né Spenser avrebbe potuto fare propria l’idea di una natura e di un universo che fossero uno e infinito; per lui, la visione del mondo naturale della caducità e della peribilità si accompagna alla credenza di un perfetto e immobile (e distinto) mondo divino, meta finale dell’uomo».

Nel transito e nelle soste dei canti, Spenser compone la sua umanità in cerca di verità. Mai arresa impara a convivere con il limite, la caduta, il peccato e l’errore, ridisegnando, nella prospettiva del mondo incaduto, la sua coltre immobile che sosta, in una eterna attesa e promessa, fino alla visione dell’eterno bene.

Gli Amoretti, una raccolta di 89 sonetti dedicati a Elizabeth Boyle sua seconda moglie, rappresentano un canzoniere cristallino e netto allo stesso tempo, che vive di giustapposizioni ed echi precisi, non solo nella dicitura del nome Elizabeth, facilmente sovrapponibile, ma anche nella ipostasi amorosa, vista nella parabola non finita e cadenzata del ritmo delle stagioni.

Il dettato amoroso di Spenser, tende ad allontanarsi dalla secreta ironia di Astrophil and Stella di Sidney, giungendo, attraverso i suoi cupidi verbali, a una liquidità armonica e corposa, attraverso un personale intreccio di sostanza vissuta e trama del mondo («the lesson that the Lord us taught») e fusione di agape ed eros.

La caducità delle cose non tocca l’amore e la fama, perché esse sembrano proporre una meta immortale ed infinita. L’amore che guarda l’intensità del suo teatro, che nella sua innata fragilità sospesa, come l’arte, si fa terreno quando aspira al cielo, come unione acuta e imperitura.

Elizabeth rappresenta l’esito di una fusione ideale e carnale, come Stella polare di una firmamento acceso, in cui egli «parla di lei non a lei» (Giorgio Melchiori) e molto vicina all’eco del Cantico dei Cantici, si appropria del passaggio sensuale della verità, come fulgore e risveglio del tempo: «Venendo a baciare le sue labbra (tale grazia ho trovato) / mi sembrava di sentire l’odore di un giardino di dolci fiori».

Il suo io vive attraverso la voce dell’amata, in un dialogo di anime che si impregnano del verso fluido e armonioso dell’esistenza, come incanto e la delizia, marriage poem che abbraccia la realtà e che passa nella cruna del frammento e della riconciliazione. L’io si salva perché ama e anticipa l’eternità, con il suo movimento di archi sottesi: «Io scrissi, un giorno, il suo nome sulla spiaggia / ma vennero le onde a cancellarlo; / lo scrissi di nuovo, con l’altra mano; / ma vanne la marea a depredare le mie fatiche. “Uomo sciocco – mi disse Lei – che tenti invano / d’immortalare una cosa mortale: / poiché io stessa perirò allo stesso modo, / e persino il mio nome sarà cancellato”. “No – risposi – lascia che siano le cose meschine / a morire e farsi polvere; tu che invece vivrai nella gloria: / i miei versi terneranno le tue rare virtù / e scriveranno nei cieli il tuo nome glorioso. / E nei cieli, mentre la morte abbatterà il mondo intero, / vivrà il nostro amore, rinnovano un’altra vita».

Il canzoniere ha calma torrenziale e intimo prodigio. Conosce la bellezza sovrana e la rapsodia delle figure, la pace e la pena di un unico sospiro, di un unico bisbiglio donato alle porte del tempo.

 

spenser e., La regina delle fate, a cura di Luca Mainini, Bompiani, Milano 2012.

id., Amoretti, La Vita Felice, Milano 2003.

bertinetti p., Storia della Letteratura inglese. Dalle origini al Settecento, vol.I, Einaudi, Torino 2000.

manini l., Dal caos al cosmos: il canzoniere di Edmund Spenser, Bulzoni, Roma 2006.

© articolo stampato da Polo Psicodinamiche S.r.l. P. IVA 05226740487 Tutti i diritti sono riservati. Editing MusaMuta®

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Andrea Galgano 20-10-2013 Il dettato amoroso di Edmund Spenser

Nozione e tipologie di stalking: da una recente sentenza della Corte di Cassazione

stalking_162532di Emanuele Mascolo   18 ottobre 2013

Lo stalking, ovvero gli atti persecutori di un soggetto verso altri, che causano la compromissione della vita quotidiana, sono penalmente rilevanti nel nostro ordinamento ai sensi dell’art. 612bis, c.p.

Questo reato è stato con D.L. 23/02/2009, n.11, convertito in L. 23 aprile 23/04/2009, n. 38.

La littera legis dell’art. 612bis, c.p., è la seguente: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a quattro anni”.

Ma quante tipologie di stalking ci sono?

In base ad una statistica comportamentale dello stolker possiamo distinguere:

1)                 il “risentito“: si tratta di solito di un ex-partner che desidera vendicarsi per la rottura della relazione sentimentale causata, a suo avviso, da motivi ingiusti;

2)                 il “bisognoso d’affetto”: agisce soprattutto nell’ambito di rapporti professionali particolarmente stretti come quello tra il paziente e lo psicoterapeuta. In questi casi i molestatori fraintendono l’empatia e l’offerta di aiuto come segno di un interesse sentimentale. Spesso il rifiuto dell’altro viene negato e reinterpretato sviluppando la convinzione che egli abbia bisogno di superare qualche difficoltà psicologica o concreta e che prima o poi riconoscerà l’inevitabilità del rapporto amoroso proposto;

3)                 è il “corteggiatore incompetente” che manifesta una condotta basata su una scarsa abilità relazionale e si traduce in comportamenti opprimenti ed esplicitamente invadenti.;

4)                 il “respinto” che manifesta comportamenti persecutori in reazione ad un rifiuto. Questo tipo di stalker è ambivalente perché oscilla tra due desideri contrapposti: da una parte desidera ristabilire la relazione mentre dall’altra vuole solo vendicarsi per l’abbandono subito.

5)                 il “predatore” è uno stalker  che ambisce ad avere rapporti sessuali con una vittima che può essere pedinata, inseguita e spaventata. La paura, infatti, eccita questo tipo di molestatore che prova un senso di potere nel pianificare la caccia alla “preda”. Questo genere di stalking può colpire anche bambini e può essere agito anche da persone con disturbi psicopatologici di tipo sessuale come pedofili o feticisti.

Il reato previsto dall’art. 612bis del codice penale viene punito a querela della persona offesa, con termine per la proposizione della querela di 6 mesi. Può, tuttavia, procedersi d’ufficio, quando il fatto viene commesso nei confronti di un minore di età oppure di una persona con disabilità (L. n. 104/1992) nonché quando il fatto viene connesso con altro delitto per cui debba procedersi d’ufficio.

È, altresì, procedibile d’ufficio quando il soggetto sia stato ammonito ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 8 del D.L. n. 11/2009, convertito in L. n. 38/2009, secondo cui fino a quando non viene proposta querela per il reato di stalking la persona offesa ha facoltà di esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza, avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta.

Affinchè sussista lo stolking, il soggetto che mette in atto tali condotte (detto stalker) deve farlo in modo ripetuto, – chiunque reiteratamente – sostiene la norma, ciò però secondo la Giurisprudenza ormai consolidata, non coincide necessariamente con l’abitudine a compiere determinati atti e quindi l’abitualità non sempre configura la reiterazione del reato.

Infatti, una recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V penale, n. 20993/2013 sostiene che si deve “ intendere per alterazione delle proprie abitudini di vita, ogni mutamento significativo e protratto per un apprezzabile lasso di tempo dell’ordinaria gestione della vita quotidiana, indotto nella vittima, come nel caso in esame, dalla condotta persecutoria altrui (quali la utilizzazione di percorsi diversi rispetto a quelli usuali per i propri spostamenti; la modificazione degli orari per lo svolgimento di certe attività o la cessazione di attività abitualmente svolte; il distacco degli apparecchi telefonici negli orari notturni et similia), finalizzato ad evitare l’ingerenza nella propria vita privata del molestatore. Trattandosi di reato abituale di evento, è sufficiente ad integrare l’elemento soggettivo il dolo generico, quindi la volontà di porre in essere le condotte di minaccia o di molestia, con la consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente necessari per l’integrazione della fattispecie legale e delle conseguenze che ne sono derivate sullo stile di vita della persona offesa.

Invece, come affermato da una dottrina condivisibile non occorre una rappresentazione anticipata del risultato finale, ma, piuttosto, la costante consapevolezza, nello sviluppo progressivo della situazione, dei precedenti attacchi e dell’apporto che ciascuno di essi arreca all’interesse protetto, insita nella perdurante aggressione da parte del ricorrente della sfera privata della persona offesa.

Lo stalking è punito anche se commesso tramite i mezzi di comunicazione all’avanguardia come sms,email, facebook: sono i così detti cyberstalking. Se tali attività comportano una molestia rientrano nella fattispecie dell’art. 612bis c.p.

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Lo stalking si configura anche in caso di reciproche moleste tra vittima e reo.

7 gennaio 2013

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 45648 del 14 novembre 2013, rifacendosi ad un precedente giurisprudenziale, ha chiarito come “ la reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tale ipotesi, sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita.”

Inoltre ha chiarito che,  alla base di tale decisione milita la considerazione che il reato di cui si discute prevede eventi alternativi la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo: deve trattarsi di un comportamento reiteratamente minaccioso o, comunque, molesto dell’agente dal quale derivi per il destinatario della molestia o minaccia (reiterata), quale ulteriore evento dannoso, un perdurante stato d’ansia o di paura, oppure un fondato timore dello stesso per l’incolumità propria o di soggetti vicini, oppure, ancora, il mutamento necessitato delle proprie abitudini di vita. Ciò comporta la necessità di una indagine approfondita volta ad accertare in quali termini tali condotte “persecutorie” vengano poste in essere ed in quale contesto esse originino e si sviluppino: di guisa che se tali condotte maturino in un ambito di litigiosità tra due soggetti che evoca una posizione di sostanziale parità, non può parlarsi di condotta persecutoria nei termini richiesti dalla fattispecie astratta la quale si riferisce invece ad una posizione sbilanciata della vittima rispetto all’autore dei comportamenti intimidatori o vessatori.

Il termine reciprocità – secondo la Corte di Cassazione -, non vale, dunque, ad escludere in radice la possibilità della rilevanza penale delle condotte come persecutorie ex art. 612 bis c.p., occorrendo che venga valutato con maggiore attenzione ed oculatezza, quale conseguenza del comportamento di ciascuno, lo stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, o il suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone a lei vicine o la necessità del mutamento delle abitudini di vita. Deve, in ultima analisi, verificarsi se, nel caso della reciprocità degli atti minacciosi, vi sia una posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due contendenti, tale da consentire di qualificarne le iniziative minacciose e moleste come atti di natura persecutoria e le reazioni della vittima come esplicazione di un meccanismo di difesa volto a sopraffare la paura. Né può dirsi che la reazione della vittima comporti, comunque, l’assenza dell’evento richiesto dalla norma incriminatrice, non potendosi accettare l’idea di una vittima inerme alla merce del suo molestatore ed incapace di reagire. Anzi non è neanche da escludere che una situazione di stress o ansia possa generare reazioni incontrollate della vittima anche nei riguardi del proprio aggressore. Il reato in parola si configura come reato di evento in contrapposizione al reato di minaccia di cui all’art. 612 cod. pen. qualificato come reato di pericolo, pur costituendo la minaccia elemento costitutivo comune ad entrambe le fattispecie.”

 

Ausonio,Claudiano,Rutilio Namaziano: La vela obliqua della latinità

di Andrea Galgano                                         12 ottobre 2013

Poesia Latina

pdf Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano: La vela obliqua della latinità

Ausonius

Le corti imperiali della seconda metà del IV secolo portano il nido di una interessante produzione poetica. La presenza di un pubblico importante e colto, la possibilità di una intensa carriera poetica dopo un carme ben composto, l’interesse suscitato dall’imperatore e dalla sua famiglia che nella pagina degli autori potevano diffondere la loro ideologia soprattutto ai ceti dominanti, rappresentavano, per i poeti e gli scrittori del tempo, una decisiva visibilità espressiva.

Uomini di ogni estrazione, dall’otium dei ricchi signori, fino a rispettabili maestri di scuola o uomini viandanti, componevano in modo variegato, intrisi di tradizione e vicinanza ai classici e fermi nell’immagine di Augusto, imperatore illuminato e uomo di pace.

Decimo Magno Ausonio (Burdigala, odierna Bordeaux, ca. 310- dopo il 393), insegnante di retorica prima a Tolosa e poi nella città di origine per trent’anni, amico e corrispondente di Simmaco, fu il più celebre tra i grammatici di Gallia, percorse una splendida carriera di onori.

Fu chiamato nel 365 dall’imperatore Valentiniano I alla corte di Treviri come precettore di Graziano che, quando fu imperatore, lo volle questore del palazzo imperiale, prefetto per Gallia, Italia e Africa, e console per l’anno 379. Morto Graziano nel 383, si ritirò nella sua città. L’imperatore Teodosio (379-395) lo considerava al pari dei grandi letterati dell’età augustea, chiamandolo parens (padre).

Scrive Luca Canali: «Intanto il Cristianesimo pervadeva la società, entrava nelle corti, conquistava gli imperatori, ma con ciò stesso si snaturava, diveniva lassista, a volte si corrompeva, perdeva lo slancio evangelico, si faceva opzione opportunistica per la carriera, o peggio, come scrisse impietosamente Salviano, il retore gallico fattosi poi monaco rigorista, si abbrutiva in «ricettacolo di tutti i vizi», «contro i quali ci si scaglia in pubblico per poi praticarli in privato». All’interno del cristianesimo la crisi morale – prima ancora di quella teologica e intellettuale delle eresie – spinge al monachesimo ascetico “grandi intellettuali” come Paolino da Nola, che ripudierà l’intera sua formazione culturale classica, mentre san Girolamo continuerà a coltivare la tradizione letteraria latina ma sentendosi dolorosamente “diviso” fra Cristo e Cicerone»

L’anima cristiana di Ausonio era imbevuta di ispirazione profana. La sua abbondantissima produzione, dai Versus Paschales, chiusa degli Epigrammi, fino all’Ephemeris, ai Parentalia, all’artificio del Technopaegnion, alle sofferenze d’amore del Cupido cruciatus o alla Bissula e alla Mosella, e la tensione poetica verso la tradizione, a lui precedente, rappresentano lo sfondo di una intensa ispirazione, concentrata sul lavorio verbale e sulla polimetria, che danno vita a un accentuato e un virtuosistico sperimentalismo di carte affastellate.

La transizione tra il mondo antico e quello tardo medioevale, già percorso dai barbari, segna in lui un vortice prezioso e debole, il limite del vissuto che, però, ha sempre bisogno di riflettersi in sfoggio retorico, misura, spregiudicatezza.

L’originalità del suo gesto, ricolmo di interessanti forme grafiche, assume su di sé il domino della lingua, l’originalità dell’espediente che scoperchia la tradizione, per assumere freschezza di ombre e ambiguità di apparenze.

Bissula è il nome privato e intimo dell’amore, «forse la prima figura germanica vista da vicino, senza deformazioni prospettiche», come scrive Francesco Arnaldi, che si unisce all’amore «per i suoi e per la sua terra fanno di Ausonio un romantico provinciale, in cui, se è vano cercare una grande arte, il lettore attento può sempre trovare una vena di sentimento poetico. Di fronte a questo, merita appena d’essere rilevato il fatto che dalle svariatissime produzioni poetiche di Ausonio, noi possiamo farci una chiara idea delle opere dei neoterici, poeti latini del sec. II che amavano dire di ogni argomento in versi rari. E se c’è nell’ammirazione per Ausonio dei suoi protettori e nel suo cattedratico orgoglio molta ingenuità da Medioevo, noi oggi possiamo, pur sorridendo, comprendere quell’entusiasmo».

Uno schizzo, un bozzetto e un invito a decretarne la bellezza, l’incarnazione racchiusa di un volto che si apre e si svela: «Né cera né colore possono rappresentare il volto di Bissula / la sua nativa bellezza non si presta agli artifici della pittura. / Vermiglio e bianco possono riprodurre altre fanciulle: / la mano del pittore non conosce la proporzione giusta dei toni per rendere il volto. E dunque, pittore, / mescola alla porpora della rosa una vena di giglio, / e quel chiaro color d’ari che ne verrà, quello sia il colore del suo viso».

Ma è nel poemetto Mosella (satura odeporica, epibaterion, encomio, epillio o idillio, ecfrasis?) che Ausonio offre la sua visione narrativa e descrittiva: «egli sa giocare come pochi con le ombre capovolte, con i riflessi trascoloranti degli alberi nelle acque dei fiumi, con le brevi e rapide composizioni sui sessi incerti o doppi e incompleti nella loro castrante duplicità, gli innamoramenti impossibili e mortali, le disperazioni inconsolabili risolte in autodistruzioni liberatorie». Il grande fiume che nasce sui Vosgi, si getta nel Reno e sulle cui rive si sporgeva la capitale Treviri (Trier) è un transito di freschezza, in cui il paesaggio arioso e libero, dove Satiri e Ninfe abbandonano il loro corpo alla danza tattile nella canicola solitaria.

Pur nella abbondante misura retorica, l’ispirazione è levità che si poggia sulla limpidità, sulla pienezza dei vigneti e dei declivi e sull’ariosità del cielo.

Aveva trascorso molti anni a Treviri, lì aveva svolto la funzione di precettore al figlio dell’imperatore Valentiniano e alla Mosella porge il suo canto mai sfiorito, come passo di danza inattesa e dipinto di suono: «Salve, o fiume elogiato per i campi che ti costeggiano / lodato per i tuoi coloni; / a te i Belgi sono debitori delle mura degne della sede imperiale, / i cui colli sono coltivati a vigneti dal succo fragrante, / o fiume verdissimo che scorri fra le rive erbose! (vv.23-26).

I riflessi sono ombre ricolme e piene: «quando il glauco fiume riflette l’ombra dei colli e sembra / che le sue acque frondeggino e nella corrente siano piantati tralci di vite. / Quale colore nei flutti quando Vespero sospinge le sue tarde / ombre e soffonde la Mosella del verde dei monti! / Gli interi gioghi nuotano negli increspati movimenti dell’acqua / trema l’immagine dei pampini e i grappoli sembrano più turgidi / nelle vitree onde. / l’illuso battelliere conta le verdi viti, / quel battelliere che sulla barca scavata in un tronco d’albero oscilla / sulle acque in mezzo alla corrente là dove il profilo d’un colle / si confonde col fiume, e il fiume intreccia fra lori i confini delle ombre (vv.189-199)».

È una freschezza flessibile ed evocatrice che cadenza il ritmo vitale, come il pescatore che si curva e i cui ami spazzano frotte di pesci impigliati nei nodi delle maglie e sentono la ferita mortale delle esche.

L’angolatura prospettica condensa tutte le possibili intensità visuali, che riuniscono mondo umano e mondo vegetale e animale, come vivente trama e sbocco poetico, come navigazione fanciulla e stuporosa verso i rapimenti dei transiti, l’affetto dei paesaggi, l’incontro.

L’abbandono, che pur ama frequentare la catalogazione erudita, deve abbracciare l’evasione crepuscolare, la metafora maestosa e serena del fischio del tempo, dell’ironia, del battito lieve e non ancora rassegnato. Qui la sua forza e la sua perdita, come il limite di un ristoro momentaneo.

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La poesia di Claudio Claudiano (370-404 d.C.) è erranza itinerante. Nato ad Alessandria d’Egitto, attivo alla corte d’Occidente dopo Ausonio, celebra il suo imperatore, all’interno dell’amministrazione imperiale (fu tribunus et notarius). Egli, giunto dall’Egitto, bilingue scaltrito di cultura greca, come una voce lontana che disegna la romanità, si trova nel quadro della celebrazione di Roma e di Stilicone (De bello Gildonico, De consulatu Stilichonis, De bello Gothico, così come le lodi alla benefattrice Serena, moglie di Stilicone), in uno di quei scrinia, tempio di decisioni segrete e di fedeltà incrollabili. Si trasferì poi a Milano, entrando nelle grazie di Onorio, imperatore di Occidente.

L’esametro dei panegirici, delle invettive, contro Rufino ed Eutropio, dei poemi storici e mitologici, degli epitalami, dei carmi in greco (la Gigantomachia tanto cercata da Poliziano nelle sue missive a Bembo) è la sua coltre prigioniera che inquadra il tempo, tenta di sforarlo, scompaginarlo, viverlo.

«Il genio di Claudiano», scrive Laura Micozzi, «è allusivo, assimilativo e consapevole; la sua poesia non è certo “ingenua”, ma fondata piuttosto sul lucido governo della tradizione precedente. Il suo stile è un raffinato prodotto di riflesso, saturo di esperienze culturali, fedele all’egemonia dei modelli della grande poesia latina. Tutta la cultura pagana del tardo impero tende del resto a coltivare una letteratura colta, nata nel laboratorio di poeti professionisti (che all’occorrenza si guadagnano da vivere, anche come maestri ed insegnanti), e lo studio dei classici dà in quel periodo frutti rilevanti anche nella lettura e nell’interpretazione dei testi».

«Il primo e più inquietante dei poeti moderni» che suona l’ultima fanfara incompiuta all’Impero, come scrisse Coleridge, getta le sue carte sul tavolo e sono i segni virgiliani e ovidiani di un a Christi nomine alienus (Agostino).

Oltre alla Gigantomachia, anche il De raptu Proserpinae, che narra il mito di Prosèrpina, rapita, nel caldo lussureggiante della Sicilia, da Ade, dio degli inferi, che la sposa nell’Erebo e Demetra, la madre della fanciulla, si mette sulle sue tracce.

I dibattiti sulla datazione dell’opera hanno aperto scenari di composizione che prediligono ora la storia a danno del mito o viceversa, ma di sicuro la sua stesura ha aperto una posizione privilegiata di una elisione e di un enigma. Un fatto di letteratura che racchiude l’inclusione di motivi antichi, varia i modelli, colloca suggestioni nuove.

Dall’invocazione solenne della prima scena, ai sogni e presagi premonitori, la fedeltà alla memoria poetica è un tratto saliente e un gradiente di espressività, che riflette la precarietà del presente con le angosce, le riflessioni, gli sguardi opachi: «I destrieri del rapitore, signore dell’abisso, e le stelle, incalzate dall’ansare del occhio tenario, e il talamo cinto di tenebra di Giunone infernale: questo mi spinge a svelare con l’audacia del canto la mente che trabocca. Fatevi indietro profani! Già il furore divino mi ha sgombrato dal petto ogni senso umano e il cuore è colmo dell’ispirazione di Febo» (vv.1-6).

La scomposizione di elementi diversi, la coerenza, la decadenza che scompagina il testo si afferma in Claudiano, come accensione molteplice di figura.

La scena isolata che profuma splendente, che afferma i dettagli e contorsioni verbali, porta dentro il sentore della perdita, dell’ossessione frequente e infine della lacerazione che indugia, come una irruzione di tempo sparpagliato e cialtrone.

La narrazione dilatata del rapimento si appende al mondo e ne esplora le rifrazioni, i segni sparsi e «come l’Achille staziano, il suo Plutone sperimenta infatti l’amore (non la guerra), e l’eros introduce una dinamica nuova nella caratterizzazione del personaggio, che nei modelli aveva una fisionomia piuttosto stereotipata» (Laura Micozzi).

L’etica mitologica rimane incompiuta, pur cercando di colmare i vuoti del distacco e del tempo lontano della tradizione, per finire nell’ultimo scrigno di una civiltà in declino.

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Nella stessa atmosfera culturale è immerso il poeta gallico Claudio Rutilio Namaziano, altissimo dignitario dell’Impero d’Occidente e praefectus urbi nel 414, di famiglia illustre e pagano convinto.

Quando nel 410, c’era stato il sacco di Roma, compiuto per tre dai Goti di Alarico, queste popolazioni erano risalite in Provenza e in Aquitania, saccheggiando e devastando, il poeta si vide costretto a ritornare in Gallia per sovrintendere alle necessarie riparazioni delle sue terre.

Lo storico Camille Jullian scrive: «[…] Che cos’erano diventati quei templi, quelle terme, quei teatri rurali, dove nei luoghi di fiera o di pellegrinaggio della Gallia romana, da tre secoli si erano distribuiti tanti piaceri e accumulate tante ricchezze? Senza dubbio non erano più che resti di muri a metà calcinati, e non serviranno più che a rifornire di pietre o di marmi i villaggi vicini, il giorno in cui questi si potranno ricostruire. […] Sui colli vicini alle sorgenti, al riparo di boschi profondi, molte ricche villae erano crollate, e nessuno pensava di utilizzarne i resti. A poco a poco la foresta si avvicinava ad essi: essa finirà, poiché nessuno le oppone resistenza, con il ricoprire queste vestigia miserevoli e far sparire e dimenticare sotto le sue fronde rinnovate i ricordi della ricchezza e delle calamità romane».

Il viaggio autunnale di Rutilio Namaziano per mare verso la Gallia, dal porto di Augusto ad Ostia, costeggiando le rive del Tirreno fino a Luni, alla foce del Magra, si avvale di brevi tappe e brevi scali in località in cui egli ne approfitta per descrivere luoghi e ricordare amici celebrandoli, lanciare invettive contro gli avversari e i nemici.

Le sfiorenti rovine occupano gli occhi, come commenta Alessandro Fo: «Il mondo che Rutilio ritrae è quello di un’Italia ferita dalle scorribande barbariche, in cui singole località destano memorie storiche o mitologiche, e più spesso offrono l’occasione di segnalare il passaggio o la presenza di amici e nemici. Gli amici sono nobili esponenti di quella aristocrazia senatoria in cui Rutilio ravvisa ancora il baluardo dell’antico valore romano. I nemici sono avversari politici o ideologici: famoso è il suo attacco allo stile di vita monastico, praticato nelle isole di Capraia e Gorgona, davanti alle quali si trova a passare. Rutilio appare fermamente arroccato nel paganesimo della tradizione: vede in Roma personificata una dea, accenna con sguardo partecipe ai culti di Osiride, mentre per il suo poemetto, se si esclude l’aggressione ai monaci, il cristianesimo – di recente assurto a religione ufficiale dell’impero – non sembra neppure figurare nei registri dell’esistenza».

Lo spopolamento, la rovina morale e la distruzione (Ambrogio dirà che gli edifici in rovina «semirutarum urbium cadavera», sono cadaveri di città semidistrutte) di luoghi come Castro Nuovo o Alsio e Pirgi, in passato fiorite d’oro, o Populonia distrutta dal tempo, non portano la resa di un’affezione a Roma, alla quale innalza il fervore di un inno di fede e resurrezione assorta, come proclamazione di un’antica gloria che vale anche per il presente: «fecisti patriam diversis genti bus unam» o ancora «Urbem fecisti quod prius orbis erat».

I monaci che fuggono la luce, rintanati nell’angustia degli occhi e degli spazi, rappresentano, per lui, la coltre di una umanità rinnegata, responsabili del declino dell’Impero.

Un mondo chiuso sottratto al presente rattrappito in una nostalgia che frequenta le ferite e le devastazioni e persino sulla fuga in una illusione antica prigioniera di una sottrazione civile evidente, aleggia l’ombra del multiforme Stilicone, colui che ha aperto le porte dell’Italia ad Alarico e Ataulfo.

il viaggio di un viaggio, condensato nelle divagazioni, nelle chiose, nella trama non sempre fertile dei giorni, apre il suo exitus finale a un tempo che si appropria di esistente e inesistente, come fragile membrana di una promessa irrisolta.

Alessandro Fo, analizzando la complessità dello sguardo rutiliano, commenta ancora: «Oscilla fra dolente constatazione degli insulti del tempo e un ottimismo propositivo fondato sulla fiducia nell’eternità di Roma e nella capacità ricostruttiva dei Romani – da quella dei cittadini che, sotto gli auspici di Costanzo hanno ricostruito Albingaunum a quella di chi, come lui stesso, si accinge a provvedere di persona al restauro dei propri beni.»

La necessità di ritornare alle proprie terre, distrutte dai barbari, rapporta il testo al gemito di una franta umanità, che nel diletto, strappa il mantello della Fortuna e si attesta al tradizionalismo celebrativo: «è tempo di costruire, dopo feroci incendi, su fondi laceri / anche soltanto casette di pastori. / Che se le stesse fonti, anzi, dare voce, / se i nostri arbusti potessero parlare, / con giusti pianti mi stringerebbero mentre tardo / mettendo al mio desiderio le vele».

Il desiderio di vele ama sostare sulla morbida delicatezza del ritratto velato e viandante, come il porto di Centocelle, la rugiada dell’alba sulla porpora, il riflesso della costa sull’orlo dei flutti, l’aurora secca di saline, il nembo tagliato: «La prima luce brillò rugiadosa nel cielo purpureo: / tendiamo le vele inclinate in una piega obliqua. / Per un tratto evitiamo il fondale basso lungo le foci del Mignone: / anguste imboccature vi agitano onde infide. / quindi avvistiamo i tetti sparpagliati di Gravisca, / oppressa spesso in estate, da odore di palude, / ma i dintorni boscosi verdeggiano di fitte foreste / e sull’orlo del mare tremola l’ombra dei pini. / Scorgiamo le antiche rovine, senza alcuna custodia, / e le squallide mura di Cosa abbandonata. / Quasi ci si vergogna a rivelare, in mezzo a cose serie, la ragione / ridicola della disfatta, però mi spiace mascherare il riso (vv.277-288)».

ausonio, La Mosella e altre poesie, Mondadori, Milano 2011.

arnaldi f., Dopo Costantino, Mariotti Pacini, Pisa 1927.

claudiano, Il rapimento di Proserpina, Mondadori, Milano 2013.

id., De bello Gothico, Pàtron, Bologna 1979.

conte g.b.- pianezzola e., Il libro della letteratura latina. La storia e i testi, Milano, Le Monnier 2000.

jullian c., Histoire de la Gaulle, vol. VII, Hachette, Bruxelles 1964.

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paratore e., La letteratura latina dell’età imperiale, Firenze, Sansoni 1959.

prenner a., Quattro studi su Claudiano, Loffredo, Napoli 2003.

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Tribunale UE: bandi di concorso in tutte le lingue

SSSS-bandiera-Europa

di Emanuele Mascolo    6 ottobre 2013

Con ricorso al Tribunale UE, L’Italia ha denunciato una discriminazione nella pubblicazione di alcuni bandi nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (GUUE), scritti solamente in lingua inglese, francese e tedesca.

Il riscorso è stato accolto dal Tribunale UE, sezione V, che ha riconosciuto tale discriminazione, dando ragione all’Italia e pronunciandosi sulla questione con la sentenza n. T- 126/09 del 12/0972013.

In particolare, la questione ha riguardato i bandi pubblicati il 14 gennaio 2009 riguardanti i concorsi generali EPSO/AD/144/09, nel settore della pubblica sanità, EPSO/AD/145/09, nel settore della sicurezza alimentare (politica e legislazione), EPSO/AD/146/09, nel settore della sicurezza alimentare (audit, ispezione e valutazione), per la costituzione di un elenco di riserva per l’assunzione di amministratori (AD 5) aventi cittadinanza bulgara, cipriota, estone, ungherese, lettone, lituana, maltese, polacca, rumena, slovacca, slovena e ceca, pubblicati nelle versioni tedesca, inglese e francese della Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea.

Nel ricorso, l’Italia, deduceva la violazione degli articoli 1, 4, 5 e 6 del regolamento n. 1, del Consiglio, del 15 aprile 1958, che stabilisce il regime linguistico della Comunità economica europea, degli articoli 12 CE, 39 CE e 290 CE, dell’articolo 1, paragrafi 2 e 3, dell’allegato III dello Statuto dei funzionari delle Comunità europee, dell’articolo 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata il 7 dicembre 2000 a Nizza, dei principi di non discriminazione, di motivazione, del multilinguismo, di tutela del legittimo affidamento e di proporzionalità, nonché uno sviamento di potere.

Pertanto, a sostegno del suo ricorso, argomentava due motivi: il primo attinente alla pubblicazione dei bandi di concorso controversi in sole tre lingue ed il secondo attinente alla limitazione a tre lingue per le comunicazioni con l’Ufficio europeo di selezione del personale (EPSO) e per le prove dei concorsi.

Quanto al primo motivo, sosteneva che i bandi di concorso avrebbero dovuto essere pubblicati in tutte le lingue ufficiali, facendo valere che la Commissione non avrebbe potuto limitare la scelta dei candidati a sole tre lingue per le loro comunicazioni, con l’EPSO e per le prove dei concorsi, infine durante l’udienza, ha sollevato il problema degli effetti di tale annullamento sugli elenchi di riserva risultanti dai concorsi. Successivamente, rispondendo ad un quesito del Tribunale, la Commissione ha precisato che tali elenchi erano stati prorogati fino al 31 dicembre 2013.

Per ciascun motivo il Tribunale Europeo ha motivato la sua decisione come segue:  “ ai sensi dell’articolo 1 dell’allegato III dello Statuto, il bando di concorso viene emanato dall’autorità avente il potere di nomina dell’istituzione che organizza il concorso stesso, previa consultazione della commissione paritetica, e deve specificare un certo numero di informazioni riguardanti la procedura di selezione. A seguito della decisione 2002/620/CE del Parlamento europeo, del Consiglio, della Commissione, della Corte di giustizia, della Corte dei conti, del Comitato economico e sociale, del Comitato delle regioni e del Mediatore, del 25 luglio 2002, che istituisce l’Ufficio di selezione del personale delle Comunità europee, i poteri di selezione conferiti segnatamente da tale allegato alle autorità che hanno il potere di nomina delle istituzioni firmatarie della decisione stessa sono esercitati dall’EPSO.

 Orbene, conformemente all’articolo 1, paragrafo 2, dell’allegato III dello Statuto, il quale stabilisce specificamente che, per i concorsi generali, deve essere pubblicato un bando di concorso nella Gazzetta ufficiale, in combinato disposto con l’articolo 5 del regolamento n. 1, il quale dispone che la Gazzetta ufficiale è pubblicata in tutte le lingue ufficiali, i bandi di concorso devono essere pubblicati integralmente in tutte le lingue ufficiali.

Poiché tali disposizioni non prevedono alcuna eccezione, non si può considerare, nel caso di specie, che l’avviso sintetico, pubblicato nella Gazzetta ufficiale in tutte le lingue lo stesso giorno, ha posto rimedio all’omessa pubblicazione integrale nella suddetta Gazzetta ufficiale dei bandi di concorso controversi in tutte le lingue ufficiali.

Ad ogni modo, anche se l’avviso sintetico conteneva un certo numero di informazioni relative ai concorsi, partendo dalla premessa che i cittadini dell’Unione leggano la Gazzetta ufficiale, in mancanza di pubblicazione nella loro lingua materna, nella loro seconda lingua e che tale lingua sia una delle lingue ufficiali dell’Unione, un potenziale candidato la cui seconda lingua non fosse una delle lingue in cui erano stati pubblicati integralmente i bandi di concorso controversi avrebbe dovuto procurarsi la Gazzetta ufficiale in una di tali lingue e leggere i bandi in tale lingua prima di decidere se presentare la propria candidatura a uno dei concorsi.

Un candidato siffatto era svantaggiato rispetto ad un candidato la cui seconda lingua fosse una delle tre lingue nelle quali i bandi di concorso controversi erano stati pubblicati integralmente, sia sotto il profilo della corretta comprensione di tali bandi sia relativamente al termine per preparare ed inviare una candidatura a tali concorsi.

Tale svantaggio è la conseguenza della diversità di trattamento a motivo della lingua, – vietata dall’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali e dall’articolo 1 quinquies, paragrafo 1, dello Statuto, – generata dalla pubblicazione di cui trattasi. Tale articolo 1 quinquies dello Statuto prescrive, al paragrafo 6, che, nel rispetto del principio di non discriminazione e del principio di proporzionalità, ogni limitazione di tali principi deve essere oggettivamente giustificata e deve rispondere a obiettivi legittimi di interesse generale nel quadro della politica del personale..

Ne consegue che la prassi di pubblicazione limitata non rispetta il principio di proporzionalità e configura pertanto una discriminazione fondata sulla lingua, vietata dall’articolo 1 quinquies dello Statuto.

Di conseguenza, nel caso di specie, la pubblicazione completa dei bandi di concorso controversi nelle sole lingue tedesca, inglese e francese non rispetta il suddetto principio di proporzionalità e configura una discriminazione siffatta, cui la pubblicazione dell’avviso sintetico non ha potuto porre rimedio.

 In terzo luogo, deriva da quanto precede che non può, comunque, essere accolto l’argomento della Commissione, secondo cui incombe alla Repubblica italiana dimostrare che la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dei bandi di concorso controversi in sole tre lingue ha impedito a tutti i cittadini dell’Unione di prendere conoscenza della loro esistenza in condizioni di parità e non discriminatorie.

 Il Tribunale considera che, al fine di preservare il legittimo affidamento dei candidati prescelti, occorre non mettere in discussione i suddetti elenchi di riserva.”

 

 

L’inconscio della scrittura. Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013

L’inconscio della scrittura. Andrea Galgano ­– Irene Battaglini, Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013 

recensione di Giuseppe Panella

Frontiera di Pagine5 ottobre 2013

Fin dalle sue origini, la psicoanalisi si è cimentata con la letteratura e con l’arte, provandosi a dare una serie di risposte agli stessi interrogativi che la critica letteraria si pone da sempre.

Una lunga serie di analisi freudiane al riguardo costituiscono un corpus impressionante di tentativi di spiegare, attraverso l’interrogazione dell’inconscio, del perché un’opera d’arte sia nata così e abbia assunto proprio l’assetto formale che ad essa risulta necessario e consapevolmente più adeguato ad esprimere le esigenze dell’artista che l’ha realizzata.

Il caso rappresentato dal saggio di Freud sul Mosè di Michelangelo del 1914 (ma anonimo e poi riconosciuto solo nel 1924) è al riguardo esemplare: l’atteggiamento e la postura del profeta biblico sono la spia, la traccia manifesta della volontà di Michelangelo di spiegarne il comportamento successivo e l’atteggiamento umano di collera che lo contraddistinguono.

La raccolta degli scritti di Irene Battaglini e di Andrea Galgano, simbolicamente intitolata Frontiera di pagine, vuole disporsi teoricamente sul discrimine esistente tra critica d’arte ed esercizio psicoanalitico e cercare di utilizzare entrambe per raggiungere il risultato voluto: la ricostruzione del percorso di un’artista importante e significativo e lo svelamento del segreto contenuto nelle sue opere in modo tale da far esplodere tutta la potenza dell’inconscio che in esse si dispiega.

Nell’Introduzione, firmata da entrambi gli autori, si può conoscere esaurientemente lo scopo che essi si sono prefissi con questa loro raccolta:

<<La scrittura impone l’esperienza di un viaggio e di un possibile approdo che richiedono la speranza come messa alla prova, scuotimento, tocco, abbandono e dono delle responsabilità. E’ il gesto della beatitudine e della ferita che ogni volta si annunciano e si impongono a cogliere il nome che plasma la realtà, e che sconvolge misure strette, destando il suono di un’attenzione. La parola che “squadri da ogni lato l’animo nostro informe”, direbbe Montale, ha un limite sfarzoso e doloroso: toccare il sigillo rinnovato delle cose e non riuscire a sagomare tutta la realtà. E’ il limite passionale e fragile della condizione umana, la luce che si incide in solchi di tela e strappi di fogli, nei chiaroscuri dove non si esiliano le ombre[1]>>.

 L’esperienza della letteratura rappresenta <<abitare l’inizio delle cose>> – affermano i due autori citando uno splendido saggio della scrittrice statunitense Flannery O’ Connor (Natura e scopo della narrativa, contenuto in Nel territorio del diavolo. Sul mistero dello scrivere) -, scrivere significa agire sui sensi del lettore, motivarli e permettergli di andare al fondo del reale, nella sua concreta reviviscenza effettuale, nel suo esplicito definire il mondo e dargli un nuovo perimetro, una nuova sagomatura. Scrivere significa rifare la realtà attraverso una ri-forma dell’apparato percettivo sia di chi scrive sia di chi legge, sia dell’autore che del “suo” lettore (esplicito ma anche “implicito” – se si deve prestar fede alle analisi semiologiche di Umberto Eco).

L’interesse principale di Irene Battaglini è rivolto alla pittura, in primo luogo a quegli scienziati come Eric R. Kandel, Premio Nobel per la medicina nel 2000 per i suoi studi sulla conservazione della memoria, che ha dedicato a pittori della Grande Vienna di inizio Novecento (Gustave Klimt, Oscar Kokoschka, Egon Schiele) ed anche a pensatori e scrittori come Freud, Arthur Schnitzler o Friedrich Nietzsche, un saggio di grande rilevanza teorica in cui cerca di ritrovare nei meandri ancora oscuri della mente il senso profondo della loro luminosità.

Ma, dopo il neurologo Kandel, fanno la loro apparizione il grande pittore pugliese De Nittis e le sue rappresentazioni della Roma postunitaria, Giorgio Morandi e il senso inesprimibile delle sue “bottiglie” e dei suoi cortili, le notti ebraico-orientali di Marc Chagall, il velo impalpabile dei quadri di Gaetano Previati, il movimento “panico”di Henri Matisse con la danza primigenia dei suoi semidei “impaludati nella natura” (p. 57), i colli eleganti e invalicabili delle donne di Amedeo Modigliani, il mondo notturno e falsamente realistico bensì stilizzato ed erratico di Edward Hopper (si pensi al suo quadro più noto, Nighthawk oppure a Morning Sun che la Battaglini analizza con grande finezza), il “mare di nebbia” di David Caspar Friedrich e il suo Viandante, icona vivente del Sublime, per finire con Il Calvario di Pieter Bruegel il Vecchio, la materia tormentata della spiritualità religiosa di William Congdon, i colori aspri e sanguigni di Renato Guttuso e i disegni dechirichiani ed inquietanti dello scrittore Dino Buzzati.

Lo spazio che Andrea Galgano si ritaglia è molto ampio ed è, quindi, impossibile ripercorrerlo tutto nello spazio di una nota di recensione: il critico letterario parte di “profumi della trasparenza” di Saffo per passare attraverso Catullo e l’amore impossibile per Lesbia, l’elegia tormentata di Tibullo e Properzio, i Tristia di Ovidio, la vertiginosa archeologia del poema dedicato a Beowulf, la saga sanguinosa e poetica dei Nibelunghi, Perceval le Gaulois di Chretien de Troyes e la sua innocente ricerca dell’innocenza perduta tramite la cerca del Santo Graal, Maria di Francia e i suoi Lais, Geoffrey Chaucer e i suoi Canterbury Tales di ispirazione boccacciana, la sequenza di vita e morte del Ragno Amore di John Donne, il Dolce Stil Novo di Guido Cavalcanti, Luis de Camões e i viaggi di scoperta di Vasco da Gama, il teatro sacro (e profano) di Jean Racine, la Notte oscura Juan de la Cruz e il suo tormento spirituale, la squillante ritmicità dei poemi di Fjodor Tjutčev (che furono straordinariamente tradotti un tempo da Tommaso Landolfi), la narrativa inquietante e “inesauribile” di Charles Dickens…

E ancora, scivolando sempre più verso il Novecento, la “camera chiusa” di Emily Dickinson, la poesia “barbara” e l’amore passionale (e segreto) di Giosuè Carducci, il mondo del “sottosuolo” dell’anima di Renè de Chateaubriand, la di speranza ricerca di certezze di Heinrich von Kleist e la sua crisi kantiana culminata nell’amore di Penthesilea per Achille, la teratomorfa poetica angoscia di Isidore Ducasse (falso) conte di Lautrèamont e le sue creazioni allucinate e perverse, e poi ancora The tempest di William Shakespeare (chiunque egli sia stato) e il mondo provvidenzialistico di Alessandro Manzoni fino alla lirica narratività di Thomas Hardy, al “canto fioco” di Marceline Desbordes-Valmore per culminare nella poesia (e nella vita) errante di Arthur Rimbaud.

Il percorso di Galgano attraversa tutta la grande cultura letteraria del Novecento, quella che egli definisce giustamente Il fuoco della contemporaneità dall’appena scomparso Àlvaro Mutis a Thonas Stearns Eliot, da Joseph Conrad a Flannery O’ Connor, da Harold Pinter a Guillaume Apollinaire, dal Premio Nobel Tomas Tranströmer, da John Cheever a Sherwood Anderson per dedicare poi un nutrito paragrafo all’amata Flannery O’ Connor.

Le analisi di Galgano sono brevi ma preziose nella loro minuta ed esauriente concisività: poche frasi, qualche citazione e una manciata di giudizi critici che bastano a definire l’essenza profonda della poesia o della narrativa di autori studiati a profusione e sui quali sono stati spesi tempo e versati fiumi d’inchiostro in maniera straordinaria (e talvolta fin troppo dispersiva).

Galgano riassume il loro mondo con brevi tratti di penna e ne mette in progressione “ritratti in piedi” suggestivi e calzanti, puntando su particolari significativi piuttosto che cercare una compiutezza che sarebbe impossibile, se non nociva per la comprensione del personaggio studiato.

Nel testo dedicato a Flannery O’ Connor, Galgano ha accenti di forte pathos (ma criticamente motivato e fondato sulla natura delle opere realizzate dalla scrittrice americana):

<<E’ sempre un mondo in continua creazione, ricolmo di promesse, un abisso di ombra – basti pensare a La schiena di Parker -, in cui spesso la visio Dei è piena, soggiace non già ad un’intuizione spirituale ma a un dato di realtà, raccolto in modo anagogico. Lo spirituale anzi diventa materia, il tragico cristiano si evidenzia appieno, come strumento conoscitivo e lente della realtà. Solo nella Grazia si scopre il destino. In essa si ritrova quella salvezza, che dall’esterno interviene con dirompente misericordia a rendere più uomo l’uomo (Un brav’uomo è difficile da trovare) e rende la fede un atto ragionevole di apertura libera. Il campo di Flannery O’ Connor è la pagina umana, vista nel suo effimero e nella sua debolezza, ma è anticamera concreta e terribile appoggiata al cielo>>.[2]

 Con accenti certamente diversi ma con la stessa passione di ricerca Irene Battaglini aveva scritto di Edward Hopper e della sua ricerca pittorica:

<<Il realismo di Hopper è di fatto “o-sceno”: il grande artista americano intendeva far parlare quella fenomenologia della parola che si rappresenta nel suo silenzio, e che si dà a volte all’uomo anche contro la sua volontà. Un sogno, una chiamata, un insight. Ogni esperienza di certezza è preclusa a coloro che indagano la realtà in rapporto alla sua rappresentazione. Occorre abbandonare i manuali, le scale quantitative, le misure di falsificazione e quell’orgoglioso ricorso al regno delle cose probabili, quando si tenta di dirimere la controversia tra possibile e impossibile, tra vero e falso. Nel divario tra le due ali di una farfalla non si registra alcuna probabilità, piuttosto si osserva il movimento preciso: la serena accettazione dell’ala di avere una compagna gemella e irraggiungibile, speculare e vitale. Edward Hopper ha fatto esperienza di sé e viaggio iniziatici nella dimensione conoscitiva della luce che invade lo spazio, indagando con coerenza sperimentalista il piano dei piccoli infiniti che si affastellano sulla tela>>.[3]

 Per entrambi, dunque, l’analisi critica non è disgiunta dalla ricerca letteraria e la volontà di usare la parola non soltanto per spiegare o analizzare ma soprattutto per dire una verità che solo arte e letteratura sono in grado di far comprendere appieno e di utilizzare in tutta la sua interezza ermeneutica.



[1] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Introduzione a Frontiera di pagine, Roma, Aracne, 2013, p. 17.

[2] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine cit., p. 264.

[3] Andrea Galgano – Irene Battaglini, Frontiera di pagine cit., p. 71.

 

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini